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lunedì 9 giugno 2025

Michela Del Savio, Richard Trachsler (a cura di). Sources on Colours - A Selection of Medieval and Premodern Texts on Colours and How to Make Them

 

Michela Del Savio, Richard Trachsler (a cura di)

Sources on Colours
A Selection of Medieval and Premodern Texts on Colours and How to Make Them

Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2024

Recensione di Giovanni Mazzaferro




Presentazione

“Nel mese di settembre del 2020 il Romanische Seminar dell’Università di Zurigo […] organizzava per i propri allievi una giornata di approfondimento e laboratorio sul tema dei ricettari per le arti nel Medioevo. Per l’occasione provavo a fornire un quadro complessivo della materia, che toccasse i punti classici di una presentazione di natura introduttiva; cronologia, aree di diffusione, caratteristiche peculiari dei testi e della tradizione manoscritta, lingue coinvolte, bibliografia di base, repertori e strumenti lessicografici principali, indirizzi contemporanei della ricerca […] Nel settembre del 2021 il gruppo di lavoro si riuniva nuovamente a Zurigo, dopo che il Seminar aveva fornito ai suoi studenti anche la possibilità di seguire alcuni approfondimenti di stampo pratico, volti a prendere coscienza della materialità dei procedimenti tecnici. Le studiose e gli studiosi coinvolti nel progetto avevano scelto o richiesto l’assegnazione di un breve testo contenente ricette o inerente le tecniche o la riflessione sui colori di cui intraprendere l’edizione e lo studio. I lavori sui testi sono stati portati a termine nella primavera del 2024, quando è iniziato l’allestimento d’insieme del presente volume […] La parzialità del lavoro è evidente: non tutte le lingue romanze sono rappresentate, non tutte le questioni sollevate dai testi sono state affrontate, e non tutti i problemi incontrati sono stati risolti. Non era tuttavia possibile né desiderabile trasformare un laboratorio di edizione dei testi in un’impresa onnicomprensiva su ricettari e colori nel Medioevo” (pp. 35-36). Credo sia importante tenere sempre a mente queste parole, scritte da Michela Del Savio, co-curatrice, nell’esaminare il presente volume: al netto di una presentazione di natura introduttiva, che presumo sia quella che l’autrice inserisce qui da p. 15 a p. 35, e di un contributo introduttivo di Mark Clarke, famosissimo studioso delle tecniche artistiche [1], siamo di fronte agli esiti ultimi di un lavoro di laboratorio linguistico di manoscritti grosso modo risalenti al XIV o XV secolo, che vengono presentati qui per la prima volta nelle loro parti che riguardano le istruzioni per fare i colori. Sicché le cose da fare sono due: per prima cosa elencare i manoscritti e per seconda vedere se l’impostazione di natura introduttiva è convincente. Sul secondo aspetto ho forti dubbi. Se li volete leggere, saltate i resoconti dei codici e passate direttamente al paragrafo Un quadro complessivo della materia?. Dimenticavo: il libro è consultabile gratis online a quest'indirizzo: https://zenodo.org/records/14697754.

 

I manoscritti oggetto di studio

Fanny Maillet, Lauren Mulholland,
Bartholomew the Englishman on colours (pp. 41-113).

Quello di Maillet e Mulholland è, di gran lunga, il contributo più corposo. Prende spunto dagli scritti enciclopedici di Bartolomeo Anglico (1203-1272), monaco francescano che insegnò teologia a Parigi e poi si trasferì, negli anni Trenta del Duecento, a Magdeburgo, dove rimase sino alla morte. Bartolomeo è autore del De proprietatibus rerum, scritto proprio nel periodo dello spostamento in Germania, opera enciclopedica che ebbe circolazione manoscritta vastissima e fu tradotta nel tempo in varie lingue (inglese, olandese, tedesco, francese, occitano, italiano e spagnolo). Nel XIX libro del testo è contenuta la sezione dei colori, che è divisa fra una parte iniziale, con considerazioni di ordine teorico sui colori, e una finale di ordine descrittivo; in entrambi i casi le citazioni da fonti precedenti, come Avicenna, Isidoro e Aristotele, sono ampie (ma sono chiari anche temi di derivazione pliniana). Di questo testo le curatrici forniscono (sempre per quanto riguarda i soli colori) la versione occitana, presente nel manoscritto 1029 della Bibliothèque Sainte Geneviève di Parigi: l’esemplare prende il nome di Elucidari de las proprietatz de totas res naturals e risale, grosso modo, a metà XIV secolo. Sempre di questa versione è fornita la traduzione in inglese. È, inoltre, trascritta la traduzione francese del testo, attribuita a Jean Corbechon, monaco agostiniano e di poco successiva. La comunità degli studiosi ritiene che la copia occitana sia stata realizzata a uso e consumo di Gaston Phoebus (1331-1291), conte di Foix e visconte di Béarn a partire dal 1343; la traduzione francese sarebbe invece stata commissionata da Carlo V, re di Francia (1338-1380) e completata entro il 1372. 

Fin qui tutto bene. I problemi si pongono quando si tratta di far riferimento all’originale manoscritto latino. Quell'originale non esiste, o comunque non è stato individuato, mentre, invece, sono disponibili decine di trascrizioni più o meno complete da cui sarebbe necessario stabilire un testo secondo criteri filologici. La cosa non è ancora avvenuta. Le curatrici ammettono la circostanza: «In our edition, we have thus not attempted to trace all the sources involved, as this would have required a great amount of preliminary work on the Latin tradition and a double-checking of all the sources mentioned» (p. 45). Per questo motivo, operano una scelta drastica, che peraltro è dichiarata quasi di soppiatto, a p. 44 nota 12: per la versione latina fanno affidamento alla seconda edizione a stampa dell’enciclopedia di Bartolomeo Anglico, pubblicata a Francoforte nel 1609. Ora, pur non essendo io filologo, mi sia consentito di far presente il mio dissenso. Col massimo rispetto per le autrici, mi chiedo se sia metodologicamente corretto operare confronti fra testi del Trecento e un’edizione a stampa del 1609 di un’opera che, in realtà sarebbe la fonte degli stessi manoscritti trecenteschi. Il problema si pone, ad esempio, quando si tratta di giudicare delle interpolazioni, aggiunte o tagli nelle traduzioni occitana o francese, o a situazioni come questa: la traduzione francese (p. 44) cita fra le fonti le indicazioni di un Albumasar, che si suppone possa essere un Abu Machar, vissuto nel IX secolo; l’edizione latina del 1609 parla, invece, in quel punto di un Albertus. Forse sarebbe stato il caso di consultare i manoscritti latini cronologicamente antecedeti alla traduzione francese per capire chi modifica cosa.

 

Mark Clarke
‘The order of colours to limn with’: A newly identified sixteenth-century interpolation into Bartholomaeus Anglicus (pp. 213-223)

Sovverto l’ordine dei saggi per dare conto del contributo di Mark Clarke (fisicamente l’ultimo nel volume). Clarke studia un’edizione tarda e finita a stampa del De proprietatis rerum di Bartolomeo Anglico. Risale al 1582 ed è opera di Stephen Batman (Batman uppon Bartolome his books De proprietatis rerum…). L’opera, come dichiarato da Batman, è allargata e corretta e, in particolare, contiene una sezione dedicata alla miniatura e al suo uso per la produzione di blasoni araldici. Il ruolo del colore, infatti, nell’ambito della cosiddetta ‘blasonatura’ è fondamentale, facendo assumere al medesimo significati simbolici che si abbinano allo studio soprattutto (ma non solo) dell’astrologia. Non tutti questi significati sono a noi pienamente comprensibili, per via degli scarti linguistici che possono essersi verificati nel tempo e aver fatto assumere a una stessa parola un significato (e quindi un colore) diverso, ma anche in seguito a differenze a seconda delle aree geografiche, anche molto vicine fra loro.


Amy De Gottardi, Richard Trachsler
Les coleurs et l’heraldique (pp. 115-123)

Il tema prosegue nel contributo di De Gottardi e Trachsler (il secondo curatore dell’opera), dove si sottolinea la complessità del sistema di corrispondenze fra colori e pianeti, metalli, gemme che si instaura nell’araldica europea. Sono presentati stralci da due trattati sui blasoni redatti in francese. Il primo è il Traité du Blason d’armes en douze chapitres dit de Clément Prinsault, databile al 1444; il secondo ne è una variante e prende il nome di Traité de blason en forme de questionnaire.

 

Laura Endress, Stephanie Wittwer
Comment l’en peult faire toutes couleurs: un receptaire anonyme dans le manuscrit Alençon, Bibliotheque municipale, 31 (pp. 125-160).

Il saggio presenta la trascrizione di un trattato in francese per fare colori contenuto all’interno del ms. 31 della biblioteca municipale di Alençon, in Normandia ed è databile fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Oggetto della trattazione, come si può leggere quasi subito, è comment l’en peult faire toutes couleurs qui se font ou peust estre faicte par science, ossia come si fanno i colori ottenibili grazie alla scienza. In sostanza stiamo parlando di colori artificiali, ottenibili tramite una trasformazione chimica (si sarebbe detto a quei tempi, grazie a procedimenti alchemici), mentre i naturali non sono presi in considerazione se non sono coinvolti nell’ambito di tali procedure di trasformazione. Gli autori mettono in evidenza possibili fonti latine per le informazioni che sono presentate, segnalando che una dozzina di ricette si ritrovano in tre testi latini risalenti ai secoli dal XIII al XIV. Vi è, peraltro, un chiaro tentativo di procedere con un ordine, a volte non coerentissimo, ma comunque volto a mettere fra loro vicine ricette relative allo stesso colore, o all’utilizzo di uno stesso materiale, o alla funzione del prodotto della trasformazione. Endress e Wittwer ricordano, infine, che il trattato testimonia anche ricette che sono impraticabili, come nel caso dell’azzurro ottenuto sinteticamente a partire dall’argento.

 

Michela Del Savio
Ricette tecniche in un manoscritto di Arnaldo da Bruxelles (pp. 161-180).

Di Arnaldo da Bruxelles sappiamo poco; certamente la maggior parte della sua vita fu spesa a Napoli. Vi viveva già nel 1455 ed era ancora in città nel 1492. La sua è un’esistenza spesa al servizio della corte aragonese. Sappiamo con certezza, ad esempio, che ricoprì il ruolo di scrivano per la corona. Del Savio ce ne ricorda gli interessi vastissimi di compilatore, riscontrabili in corposi codici miscellanei di natura prevalentemente scientifica. Fra questi codici, l’autrice ne prende in considerazione uno che oggi si trova in Pennsylvania, presso la Lehigh University, Special Collection 10, che risulta compilato fra 1473 e 1490 e che si occupa, fondamentalmente di alchimia. I testi che vi sono contenuti sono plurilingui e sono in catalano, latino e italiano. Fra un testo e l’altro, si possono leggere ricette artistiche, anch’esse in catalano, latino e italiano. Del Savio ha, chiaramente, una preparazione soprattutto linguistica e si sofferma in particolar modo sul fenomeno del plurilinguisimo, abbastanza comune nell’ambito delle composizioni tecniche. In particolare, segnala che tale caratteristica è più evidente nell’ambito delle ricette, ossia dei testi collocati fra un trattato e l’altro, che all’interno di questi ultimi.

 

Piero Andrea Martina, Vito Santoliquido, Sthepanie Wittwer
Alcune ricette per le arti: Philadelphia, University of Pennsylvania, Kislak Center for Special Collections, Rare Books and Manuscripts, LJS 500 (pp. 181-198)

Nello specifico siamo di fronte a un codice di cento carte, in cui, a partire da 84v e fino a 96r (mi pare di capire) sono contenuti testi dedicati alle arti. Il manoscritto è in latino e dovrebbe essere frutto del lavoro di Girolamo de Sandei, originario della città di Pirano, oggi in Slovenia, ma all’epoca sotto controllo veneziano. Anche qui mi pare di poter segnalare un’organizzazione prevalentemente per colore, con gruppi di ricette accostate se riferite ai procedimenti per ottenerne uno identico.

 

Larissa Arnosti-Birrer, Claudia Tassone
Fabrication d’encre et de pigments: recettes cachées entre maux de tête et pronostics de Noël (BnF, fr. 2039) (pp. 199-204)

È ora la volta di un manoscritto conservato a Parigi, ove le ricette per colori sono ‘nascoste’ fra testi di natura religiosa e ricette mediche, fra cui anche alcune per eliminare il mal di testa. Non ne ho parlato sino a ora, ma la convivenza di ricette artistiche e mediche è un dato talmente acquisito – la si coglie già in Plinio – che la circostanza non dovrebbe suscitare alcuno stupore. Il manoscritto dovrebbe essere del XIV secolo e provenire dalla Piccardia (se ne propone anche una traduzione in francese moderno).


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Un quadro complessivo della materia?

Per quanto si cerchi di salvarlo è indubbio che il testo prefatorio di Michela Del Savio, intitolato I ricettari per le arti in Europa, tra enciclopedismo e sperimentazione sia confuso e incompleto. La tesi dell’autrice è che la letteratura tecnico-artistica soprattutto quattrocentesca, a cavallo fra testi espressi in lingua latina e nelle varie lingue romanze, sia, soprattutto, l’espressione di interessi enciclopedici e scientifici che si incontrano e producono i ricettari. C’è da capire cosa si intenda per ‘sperimentazione’, circostanza che mi pare non spiegata, ma non importa. Il dato di fatto è che il ‘punto della situazione’, il quadro aggiornato dello stato dell’arte manca, clamorosamente, di un’opera fondamentale che io ho già recensito ed è impossibile che l’autrice non conosca, se non altro perché la cita di sfuggita a p. 19 nota 25 (a proposito di un lavoro di Paola Travaglio). Si tratta degli atti del seminario Trattati e ricettari per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche, pubblicati sul numero 16/2016 di Studi di Memofonte (disponibili online) Quest’opera, sul piano del metodo è fondamentale. Io non mi limiterò a mettere un link alla recensione. Ne copierò qui di seguito la prima parte. Mi scuso per la lunghezza. Per distinguere le recensioni, la copia di quella del 2016 è tutta in corsivo.


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Recensione a Studi di Memofonte 16/2016. [Atti del seminario “Trattati e ricettari per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche].



I perché di un titolo

Mi scuso immediatamente coi redattori dell’ultimo numero di Studi di Memofonte (uscito nel luglio 2016 e consultabile gratuitamente cliccando qui) e con gli autori dei saggi presentati nei medesimi, ma ho avvertito l’esigenza di attribuire all’intero fascicolo (quasi 400 pagine) un titolo che in qualche modo unificasse tutti i contributi, e mi sono quindi rifatto a quanto scritto da Simona Rinaldi nella sua introduzione: “i contributi qui pubblicati sono stati presentati al seminario «Trattati e ricettari per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche», organizzato nell’ambito delle attività promosse dalla SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte) […] e tenutosi […] presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano” (p. 1). Rinaldi prosegue dicendo che lo scopo principale del seminario era costituito dalla presentazione di una serie di edizioni commentate di ricettari inediti o, se editi, privi fino ad oggi di un apparato critico degno di questo nome. Le edizioni critiche derivano dalle tesi di laurea di un gruppo di giovani studiosi, e sono accomunate dall’utilizzo di un medesimo approccio metodologico.

E qui si deve subito chiarire: questo numero, letteralmente straordinario, di Studi di Memofonte si caratterizza per essere di fatto suddiviso in due parti: la prima (che comprende le prime 130 pagine) è dedicata all’illustrazione del metodo con cui, a detta dei curatori, si deve affrontare lo studio dei ricettari; la seconda riguarda invece l’illustrazione critica dei singoli testi, con loro trascrizione, eventuale traduzione in italiano e commento. L’analisi è riferita a un gruppo di scritti riguardanti le tecniche di decorazione libraria, dalla miniatura alla rubricatura, ai ricettari riguardanti un solo colore e a quelli misti. 

Questioni di metodo

Perché insistere così tanto sulle questioni di metodo? Innanzi tutto per rivendicare l’appartenenza dello studio dei ricettari a una vera e propria letteratura, che contempla generi, strutture, strutture retoriche, fruitori diversi. Lo sviluppo degli strumenti di laboratorio – pare di capire fra le righe – sta pericolosamente causando (specie oltralpe), la creazione di enormi database che contengono le singole prescrizioni delle ricette, in cui queste ultime sono considerate alla stregua di tante tessere di un mosaico, senza tener conto di quando, come e perché quel mosaico è stato prodotto. L’idea che i ricettari costituiscano la più diretta testimonianza di quanto si faceva nelle botteghe medievali e che semplicemente replicandole sperimentalmente si possa arrivare a risultati sostanzialmente analoghi (specialmente a fini di restauro) è di, per sé, un approccio che nasce nell’Ottocento, col revival del Medioevo e che accomuna i grandi conoscitori, così come i grandi “cacciatori” di manoscritti (a partire da Mary Philadelphia Merrifield). Riproporre oggi la stessa visione del mondo, semplicemente fruendo di una massa di dati molto più corposa e di strumenti di analisi assai più efficienti, può essere un errore. C’è una fase precedente che non può essere trascurata, ed è quella di approccio filologico al testo; quella che permette di svelare come si è arrivati alla materialità di un determinato manoscritto, qual è la tradizione da cui attinge, cosa facesse il probabile autore o redattore, quale fosse il pubblico finale. Senza questo tipo di analisi – scrivono Baroni e Travaglio – si corre il rischio di incorrere in clamorosi errori, tipo quello di sostenere “che le Compositiones lucenses siano il ‘monumento della trattatistica d’arte del Medioevo, «il più antico tra i manuali che l’Alto Medioevo dedica all’arte di fare arte», mentre invece sono solo la preziosa ma – per danni di trasmissione – scombinata testimonianza dell’antica traduzione latina di un’opera ellenistica in origine perfettamente organizzata e coerente. […] Anche Mappae clavicula tutto è tranne che un testo medievale: sotto questo titolo, infatti, frutto di una cattiva traduzione dal greco, si cela un commentario a opere dell’alchimia alessandrina, anch’esso tradotto in latino sul finire del mondo antico” (p. 18). Basti qui ricordare che Baroni e Travaglio sono i curatori della recente edizione di Mappae clavicula, che è stata ampiamente recensita su questo blog.

Nella sostanza, ciò che i linguisti hanno dato ovviamente per assodato da secoli, ovvero che, nonostante fratture e sconvolgimenti della storia, la nostra lingua è di derivazione antica, greca o romana, e che una serie di innumerevoli trasformazioni nel corso dei millenni l’ha delineata così come si presenta oggi, fatica ad essere ricordato di fronte ai ricettari di storia delle tecniche d’arte. Il “ricettario” in quanto tale viene considerato un’invenzione medievale, mentre in realtà si tratta il più delle volte di rielaborazioni di testi assai più antichi, da cui bisogna saper distinguere ovviamente gli apporti originali e più moderni. Non è certo qui il caso di passare in rassegna tutta le pagine dedicate alla metodologia (che però vanno lette con grande attenzione), ma aver presenti alcuni punti fermi non è male.

Innanzi tutto bisogna operare una prima distinzione fra trattati e ricettari. Con il termine ‘trattato’ si intendono gli scritti di contenuto autorale che si presumono conferire apporti personali alla materia; i ‘ricettari’, invece, sono “raccolte di carattere compilativo e redazionale, realizzati per compilazione e assemblaggio di ricette tratte principalmente da altre fonti” (p. 25). Ne deriva che i “trattati” sono in genere sottoinsieme dei “ricettari”, che raccolgono compilazioni di vario tipo. In teoria possono esistere trattati compiuti composti da un’unica ricetta (e nel concreto, in qualche saggio ne vengono esaminati alcuni formati da solo due ricette). Queste compilazioni, in seguito a una pluralità infinita di situazioni, che vanno dall’errore umano nella trascrizione alla scompaginazione dei fascicoli, o alla intenzionale rielaborazione di materiali pregressi, possono, a un primo esame, comparire come totalmente incoerenti, tanto da essere chiamati “ricettari informi”. Ma l’informità non è altro che sinonimo di disordine. Compito di un esame filologico non è altro che “rimettere ordine” alle ricette, delineandone la struttura originaria e (se possibile) l’eventuale derivazione.

In questo senso può aiutare operare una distinzione dei ricettari fra cronologici (in cui cioè materiali provenienti da due o più manoscritti sono scritti uno dopo l’altro, in genere ad uso privato), tematici (con l’originaria preparazione di un numero di fascicoli pari al numero degli argomenti trattati e l’inserimento in ogni fascicolo di ricette uniformi per argomento provenienti da testimoni diversi), o, infine, interpolati (con la sistematica – e ragionata – fusione fra materiali di manoscritti differenti).

Naturalmente vi sono poi mille altri fenomeni di cui rendere conto: ad esempio la formazione di “teste” o di “code” nell’ambito di ogni fascicolo, ovvero l’aggiunta posteriore di materiale che viene scritto negli spazi bianchi del manoscritto. Molto spesso i fascicoli avevano in origine la pagina iniziale e finale bianca per non correre il rischio che il testo potesse rovinarsi per cause accidentali. In momenti successivi può essere successo che tali spazi siano stati utilizzati a fronte di carenza di carta. Immaginatevi cosa può succedere quando un ricettario tematico, composto da tanti fascicoli, presenta tante teste e tante code quanti sono i suoi fascicoli; e come si complichino ulteriormente le cose se poi i fascicoli siano stati scompaginati, o alcuni siano stati distrutti etc. [...]


***

I perché di un silenzio

Nulla di tutto ciò compare nello scritto di Del Savio. Un peccato, perché sarebbe stato facile riconoscere in Comment l’en peult faire toutes couleurs un ricettario tematico interpolato e magari provare a capire da dove proviene ragionando non basandosi sulle singole ricette, ma su sequenze di esse. Il silenzio, peraltro, si estende, colpevolmente, ai commenti sui principali testi di riferimento nell’ambito della letteratura tecnico-artistica. Di Cennino Cennini, ad esempio, troviamo citate le edizioni Milanesi (del 1859!), Brunello, e Ricotta, quest’ultima ottima per il commento linguistico (trovate la recensione qui) ma priva di tutta la parte tecnica (è la stessa autrice a far presente di essere una linguista e a rimandare all’edizione del compianto Fabio Frezzato, di gran lunga la più comune e la migliore sotto questo profilo).

Intendiamoci: compilare bibliografie raffazzonate, citando un po’ a caso, è, nelle edizioni accademiche frettolose, miranti a inanellare l’ennesima pubblicazione a fini concorsuali, una consuetudine (chissà perché, tuttavia, non ci si dimentica mai di nessuna delle proprie pubblicazioni, anche la più insignificante). Tuttavia, si vorrebbe un minimo di precisione: quanto meno nel controllare i titoli. Così, ad esempio, si scoprirebbe che il titolo originale della famosissima antologia di Mary Philadelphia Merrifield pubblicata nel 1849 (nota 5) non è Medieval and Renaissance Treatises on the Arts of Painting. Original Text with English Translation, titolo redazionale attribuito da Dover Publications in occasione della ristampa anastatica novecentesca, ma Original Treatises, Dating from the XIIth to the XVIIIth Centuries, [o]n the Arts of Painting,: In Oil, Miniature, Mosaic, and on Glass; of Gilding, Dyeing, and the Preparation of Colours and Artificial Gems; Preceded by a General Introduction; with Translations, Prefaces, and Notes. By Mrs. Merrifield. Mi si dirà: l’autrice ha voluto ricordare il titolo dell’ultima edizione moderna. Non è così: analoga situazione, ma a parti invertite, vale per i Materials for a history of oil painting di Charles Eastlake, il cui primo volume uscì nel 1847 con quel titolo, poi cambiato da Dover in Method and Materials of Painting of the Great Schools. Questa volta (n. 51) viene usato il titolo giusto, quello ottocentesco. 

Si cita a caso, insomma, in fretta, senza controllare, per ingrossare la bibliografia oltre agli unici titoli che realmente contano: i propri.  Già che ci sono mi si lasci dire un’altra cosa che mi ha fatto trasalire. Liquidare Eastlake come “pittore ed erudito” (p. 32) è imbarazzante, tenuto conto che stiamo parlando dell’allora segretario della londinese Commission on The Fine Arts, del Presidente della Royal Academy dal 1850 e del Direttore della National Gallery dal 1855; definire Mary P. Merrifield (una donna straordinaria) “artista ed erudita” è proprio sbagliato, perché Merrifield non fu mai artista (espose, forse, alcuni acquerelli a una mostra in gioventù) ma una straordinaria ricercatrice di età vittoriana, che nel suo viaggio italiano cercò con ugual passione e sistematicità trattati artistici per la pittura a olio e la ricetta per la polenta (forse più la polenta che altro) e abbandonò del tutto il campo delle tecniche artistiche per poi dedicarsi a quello delle alghe, imparando il danese a 60 anni per capirci qualcosa e ottenendo, infine, quella che ritenne la più grande gioia della sua vita: vedersi dedicato il nome di un’alga. 

Potrei fare decine di esempi come questi. Mi asterrò e passerò invece al tema più scabroso: perché, invece, le non citazioni? Perché non dire che di Mappae Clavicula esiste un’edizione critica uscita nel 2015 (trovate qui la recensione), perché non parlare del volume di Thea Burns sulle Compositiones variae (senza tener conto di tutto lo spazio che a esse è dedicato nel numero di Studi di Memofonte)? (ma situazioni di questo tipo sono molte di più). 




Davvero, io non lo so. Si badi bene; non sto parlando di  contributi secondari pubblicati su riviste specialistiche, ma di edizioni fondamentali. I casi sono due: o l’autrice li ignora, e in tal caso la sua preparazione ne risulterebbe fortemente minata, oppure li consegna al silenzio perché non è d’accordo con quanto ha letto. Nel caso, questo comportamento, semplicemente, non è scientifico. Già in molte occasioni (ad esempio, in fondo alla recensione che potete leggere qui) mi è capitato di dire che i comportamenti omissivi, una sorta di cancel-culture accademica, non sono eleganti, né tollerabili. Se non si è d'accordo, lo si dice e si motiva la propria opinione, ma si deve sempre dar conto dello stato completo della bibliografia fondamentale,

Mi avvio alla conclusione: l’assenza di un qualsiasi criterio di inquadramento critico coerente di trattati e/o ricettari espone a frasi che suonano vuote. Che significato ha, ad esempio, con riferimento a Cennino Cennini (p. 33) che siamo di fronte a «un ricettario vestito da trattato»? Si usa qui la distinzione metodologica proposta in Studi di Memofonte? Immagino di no. Ma sinceramente non mi viene in mente alcuna spiegazione alternativa. O, ancora, che senso ha disquisire dell’intrecciarsi di trasmissione orale e scritta delle ricette dicendo che le testimonianze della prima sono rarissime? E’ ovvio che se, in senso stretto, si vogliono cercare dichiarazioni di compilatori che dicono di aver ricevuto una ricetta per via orale, l’unico esempio a noi noto è quello dei manoscritti Le Bègue (qui la recensione). Ma qui per oralità si intende un’altra cosa, ossia la ragionevole sicurezza che la struttura di una ricetta, con caratteri marcatamente mnemotecnici, sia fatta per essere imparata a memoria e trasmessa oralmente, in un’epoca in cui ben pochi sanno leggere. Di esempi di questo tipo ce ne sono moltissimi: il principale è, probabilmente, il De coloribus et mixtionibus (qui la recensione).

Potrei dire molto altro; ad esempio potrei far presente che quasi sempre le incongruenze nelle ricette, ossia il fatto che esse non funzionino, non sono espressione di un Medioevo 'fantastico', ma di un mondo in cui gli scribi commettono errori: molto probabilmente quell’azzurro che non si riesce a ottenere dall’argento non è risultato di una sperimentazione mal intesa, ma semplicemente l’incomprensione di un simbolo scambiato per un altro dai copisti e poi tramandatosi per pigrizia o incompetenza degli scribi. Mi spiegherò con un esempio contemporaneo. A p. 45 nota 16 di questo libro posso leggere un “See infra, pp. XX-XX”. Fra cinquecento anni, gli interpreti si chiederanno il perché di questa citazione bizzarra, tenuto conto che nel libro manca la numerazione romana. Gli interrogativi aumenteranno se la citazione verrà acriticamente ripetuta. La spiegazione è molto semplice: le autrici hanno temporaneamente indicato con due coppie di X un rimando a pagine che ancora non conoscevano, ma poi si sono dimenticate di aggiornare il riferimento una volta ricevuto l’impaginato. Sperimentazione? Io non credo.


P.S. Come al solito questo blog è aperto al contributo di tutti. Mi rendo conto di non aver scritto cose simpatiche. Chi la pensa diversamente può scrivere nei 'Commenti' o contattarmi direttamente, con la mia parola che qualsiasi testo sarà pubblicato integralmente (salvo la presenza di insulti). 

 

NOTE

[1] Mark Clarke è un ricercatore di tecniche artistiche di livello assoluto. Ha scritto un fondamentale repertorio in merito ai ricettari “The Art of All Colours (a catalogue of mediaeval recipe books for painters and illuminators), London, Archetype, 2007; è autore di Mediaeval Painters' Materials and Techniques The Montpellier Liber diversarum arcium, London, Archetype, 2011 e, non da ultimo, è anche una persona gentilissima, che ai suoi tempi mi diede il permesso di tradurre in italiano una sua intervista con Daniel V- Thompson. La trovate cliccando qui. Spiace che si sia fatto coinvolgere in questo guazzabuglio.

 

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