Michela Del Savio, Richard
Trachsler (a cura di)
Sources on Colours
A Selection of Medieval and Premodern Texts on Colours and How to Make Them
Alessandria, Edizioni dell’Orso,
2024
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Presentazione
“Nel mese di settembre del 2020 il Romanische Seminar dell’Università di Zurigo […] organizzava per i propri allievi una giornata di approfondimento e laboratorio sul tema dei ricettari per le arti nel Medioevo. Per l’occasione provavo a fornire un quadro complessivo della materia, che toccasse i punti classici di una presentazione di natura introduttiva; cronologia, aree di diffusione, caratteristiche peculiari dei testi e della tradizione manoscritta, lingue coinvolte, bibliografia di base, repertori e strumenti lessicografici principali, indirizzi contemporanei della ricerca […] Nel settembre del 2021 il gruppo di lavoro si riuniva nuovamente a Zurigo, dopo che il Seminar aveva fornito ai suoi studenti anche la possibilità di seguire alcuni approfondimenti di stampo pratico, volti a prendere coscienza della materialità dei procedimenti tecnici. Le studiose e gli studiosi coinvolti nel progetto avevano scelto o richiesto l’assegnazione di un breve testo contenente ricette o inerente le tecniche o la riflessione sui colori di cui intraprendere l’edizione e lo studio. I lavori sui testi sono stati portati a termine nella primavera del 2024, quando è iniziato l’allestimento d’insieme del presente volume […] La parzialità del lavoro è evidente: non tutte le lingue romanze sono rappresentate, non tutte le questioni sollevate dai testi sono state affrontate, e non tutti i problemi incontrati sono stati risolti. Non era tuttavia possibile né desiderabile trasformare un laboratorio di edizione dei testi in un’impresa onnicomprensiva su ricettari e colori nel Medioevo” (pp. 35-36). Credo sia importante tenere sempre a mente queste parole, scritte da Michela Del Savio, co-curatrice, nell’esaminare il presente volume: al netto di una presentazione di natura introduttiva, che presumo sia quella che l’autrice inserisce qui da p. 15 a p. 35, e di un contributo introduttivo di Mark Clarke, famosissimo studioso delle tecniche artistiche [1], siamo di fronte agli esiti ultimi di un lavoro di laboratorio linguistico di manoscritti grosso modo risalenti al XIV o XV secolo, che vengono presentati qui per la prima volta nelle loro parti che riguardano le istruzioni per fare i colori. Sicché le cose da fare sono due: per prima cosa elencare i manoscritti e per seconda vedere se l’impostazione di natura introduttiva è convincente. Sul secondo aspetto ho forti dubbi. Se li volete leggere, saltate i resoconti dei codici e passate direttamente al paragrafo Un quadro complessivo della materia?. Dimenticavo: il libro è consultabile gratis online a quest'indirizzo: https://zenodo.org/records/14697754.
I manoscritti oggetto di studio
Quello di Maillet e Mulholland è, di gran lunga, il contributo più corposo. Prende spunto dagli scritti enciclopedici di Bartolomeo Anglico (1203-1272), monaco francescano che insegnò teologia a Parigi e poi si trasferì, negli anni Trenta del Duecento, a Magdeburgo, dove rimase sino alla morte. Bartolomeo è autore del De proprietatibus rerum, scritto proprio nel periodo dello spostamento in Germania, opera enciclopedica che ebbe circolazione manoscritta vastissima e fu tradotta nel tempo in varie lingue (inglese, olandese, tedesco, francese, occitano, italiano e spagnolo). Nel XIX libro del testo è contenuta la sezione dei colori, che è divisa fra una parte iniziale, con considerazioni di ordine teorico sui colori, e una finale di ordine descrittivo; in entrambi i casi le citazioni da fonti precedenti, come Avicenna, Isidoro e Aristotele, sono ampie (ma sono chiari anche temi di derivazione pliniana). Di questo testo le curatrici forniscono (sempre per quanto riguarda i soli colori) la versione occitana, presente nel manoscritto 1029 della Bibliothèque Sainte Geneviève di Parigi: l’esemplare prende il nome di Elucidari de las proprietatz de totas res naturals e risale, grosso modo, a metà XIV secolo. Sempre di questa versione è fornita la traduzione in inglese. È, inoltre, trascritta la traduzione francese del testo, attribuita a Jean Corbechon, monaco agostiniano e di poco successiva. La comunità degli studiosi ritiene che la copia occitana sia stata realizzata a uso e consumo di Gaston Phoebus (1331-1291), conte di Foix e visconte di Béarn a partire dal 1343; la traduzione francese sarebbe invece stata commissionata da Carlo V, re di Francia (1338-1380) e completata entro il 1372.
Fin qui tutto bene. I problemi si pongono quando si tratta di
far riferimento all’originale manoscritto latino. Quell'originale non esiste,
o comunque non è stato individuato, mentre, invece, sono disponibili decine di
trascrizioni più o meno complete da cui sarebbe necessario stabilire un testo
secondo criteri filologici. La cosa non è ancora avvenuta. Le curatrici
ammettono la circostanza: «In our edition, we have thus not attempted to trace
all the sources involved, as this would have required a great amount of
preliminary work on the Latin tradition and a double-checking of all the
sources mentioned» (p. 45). Per questo motivo, operano una scelta drastica, che
peraltro è dichiarata quasi di soppiatto, a p. 44 nota 12: per la versione
latina fanno affidamento alla seconda edizione a stampa dell’enciclopedia di
Bartolomeo Anglico, pubblicata a Francoforte nel 1609. Ora, pur non essendo io
filologo, mi sia consentito di far presente il mio dissenso. Col massimo
rispetto per le autrici, mi chiedo se sia metodologicamente corretto operare
confronti fra testi del Trecento e un’edizione a stampa del 1609 di un’opera
che, in realtà sarebbe la fonte degli stessi manoscritti trecenteschi. Il problema si
pone, ad esempio, quando si tratta di giudicare delle interpolazioni, aggiunte o tagli nelle traduzioni occitana o francese, o a situazioni come questa: la
traduzione francese (p. 44) cita fra le fonti le indicazioni di un Albumasar,
che si suppone possa essere un Abu Machar, vissuto nel IX secolo; l’edizione
latina del 1609 parla, invece, in quel punto di un Albertus. Forse sarebbe
stato il caso di consultare i manoscritti latini cronologicamente antecedeti alla
traduzione francese per capire chi modifica cosa.
Sovverto l’ordine dei saggi per dare
conto del contributo di Mark Clarke (fisicamente l’ultimo nel volume). Clarke
studia un’edizione tarda e finita a stampa del De proprietatis rerum di
Bartolomeo Anglico. Risale al 1582 ed è opera di Stephen Batman (Batman
uppon Bartolome his books De proprietatis rerum…). L’opera, come dichiarato
da Batman, è allargata e corretta e, in particolare, contiene una sezione
dedicata alla miniatura e al suo uso per la produzione di blasoni araldici. Il
ruolo del colore, infatti, nell’ambito della cosiddetta ‘blasonatura’ è
fondamentale, facendo assumere al medesimo significati simbolici che si
abbinano allo studio soprattutto (ma non solo) dell’astrologia. Non tutti
questi significati sono a noi pienamente comprensibili, per via degli scarti
linguistici che possono essersi verificati nel tempo e aver fatto assumere a
una stessa parola un significato (e quindi un colore) diverso, ma anche in
seguito a differenze a seconda delle aree geografiche, anche molto vicine fra
loro.
Il tema prosegue nel contributo di
De Gottardi e Trachsler (il secondo curatore dell’opera), dove si sottolinea la
complessità del sistema di corrispondenze fra colori e pianeti, metalli, gemme
che si instaura nell’araldica europea. Sono presentati stralci da due trattati
sui blasoni redatti in francese. Il primo è il Traité du Blason d’armes en
douze chapitres dit de Clément Prinsault, databile al 1444; il secondo ne è
una variante e prende il nome di Traité de blason en forme de questionnaire.
Il saggio presenta la trascrizione
di un trattato in francese per fare colori contenuto all’interno del ms. 31
della biblioteca municipale di Alençon, in Normandia ed è databile fra la fine
del XV e l’inizio del XVI secolo. Oggetto della trattazione, come si può
leggere quasi subito, è comment l’en peult faire toutes couleurs qui se font
ou peust estre faicte par science, ossia come si fanno i colori ottenibili
grazie alla scienza. In sostanza stiamo parlando di colori artificiali,
ottenibili tramite una trasformazione chimica (si sarebbe detto a
quei tempi, grazie a procedimenti alchemici), mentre i naturali non sono presi
in considerazione se non sono coinvolti nell’ambito di tali procedure di
trasformazione. Gli autori mettono in evidenza possibili fonti latine per le
informazioni che sono presentate, segnalando che una dozzina di ricette si
ritrovano in tre testi latini risalenti ai secoli dal XIII al XIV. Vi è,
peraltro, un chiaro tentativo di procedere con un ordine, a volte non
coerentissimo, ma comunque volto a mettere fra loro vicine ricette relative
allo stesso colore, o all’utilizzo di uno stesso materiale, o alla funzione del
prodotto della trasformazione. Endress e Wittwer ricordano, infine, che il
trattato testimonia anche ricette che sono impraticabili, come nel caso
dell’azzurro ottenuto sinteticamente a partire dall’argento.
Di Arnaldo da Bruxelles sappiamo poco;
certamente la maggior parte della sua vita fu spesa a Napoli. Vi viveva già nel
1455 ed era ancora in città nel 1492. La sua è un’esistenza spesa al servizio
della corte aragonese. Sappiamo con certezza, ad esempio, che ricoprì il ruolo
di scrivano per la corona. Del Savio ce ne ricorda gli interessi vastissimi di
compilatore, riscontrabili in corposi codici miscellanei di natura
prevalentemente scientifica. Fra questi codici, l’autrice ne prende in
considerazione uno che oggi si trova in Pennsylvania, presso la Lehigh
University, Special Collection 10, che risulta compilato fra 1473 e 1490 e che
si occupa, fondamentalmente di alchimia. I testi che vi sono contenuti sono
plurilingui e sono in catalano, latino e italiano. Fra un testo e l’altro, si
possono leggere ricette artistiche, anch’esse in catalano, latino e italiano.
Del Savio ha, chiaramente, una preparazione soprattutto linguistica e si
sofferma in particolar modo sul fenomeno del plurilinguisimo, abbastanza comune
nell’ambito delle composizioni tecniche. In particolare, segnala che tale
caratteristica è più evidente nell’ambito delle ricette, ossia dei testi
collocati fra un trattato e l’altro, che all’interno di questi ultimi.
Nello specifico siamo di fronte a un
codice di cento carte, in cui, a partire da 84v e fino a 96r (mi pare di
capire) sono contenuti testi dedicati alle arti. Il manoscritto è in latino e
dovrebbe essere frutto del lavoro di Girolamo de Sandei, originario della città
di Pirano, oggi in Slovenia, ma all’epoca sotto controllo veneziano. Anche qui
mi pare di poter segnalare un’organizzazione prevalentemente per colore, con
gruppi di ricette accostate se riferite ai procedimenti per ottenerne uno
identico.
È ora la volta di un manoscritto
conservato a Parigi, ove le ricette per colori sono ‘nascoste’ fra testi di
natura religiosa e ricette mediche, fra cui anche alcune per eliminare il mal
di testa. Non ne ho parlato sino a ora, ma la convivenza di ricette artistiche
e mediche è un dato talmente acquisito – la si coglie già in Plinio – che la
circostanza non dovrebbe suscitare alcuno stupore. Il manoscritto dovrebbe
essere del XIV secolo e provenire dalla Piccardia (se ne propone anche una
traduzione in francese moderno).
***
Un quadro complessivo della
materia?
Per quanto si cerchi di salvarlo è
indubbio che il testo prefatorio di Michela Del Savio, intitolato I
ricettari per le arti in Europa, tra enciclopedismo e sperimentazione sia confuso
e incompleto. La tesi dell’autrice è che la letteratura tecnico-artistica
soprattutto quattrocentesca, a cavallo fra testi espressi in lingua latina e nelle
varie lingue romanze, sia, soprattutto, l’espressione di interessi enciclopedici
e scientifici che si incontrano e producono i ricettari. C’è da capire cosa si
intenda per ‘sperimentazione’, circostanza che mi pare non spiegata, ma non
importa. Il dato di fatto è che il ‘punto della situazione’, il quadro
aggiornato dello stato dell’arte manca, clamorosamente, di un’opera
fondamentale che io ho già recensito ed è impossibile che l’autrice non conosca,
se non altro perché la cita di sfuggita a p. 19 nota 25 (a proposito di un
lavoro di Paola Travaglio). Si tratta degli atti del seminario Trattati e
ricettari per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze
umanistiche, pubblicati sul numero 16/2016 di Studi di Memofonte
(disponibili online) Quest’opera, sul piano del metodo è fondamentale. Io non
mi limiterò a mettere un link alla recensione. Ne copierò qui di seguito la
prima parte. Mi scuso per la lunghezza. Per distinguere le recensioni, la copia
di quella del 2016 è tutta in corsivo.
***
Recensione a Studi di
Memofonte 16/2016. [Atti del seminario “Trattati e ricettari per colori. Una
metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche].
I perché di un titolo
Mi scuso immediatamente coi
redattori dell’ultimo numero di Studi di Memofonte (uscito nel luglio
2016 e
consultabile gratuitamente cliccando qui) e con gli autori dei saggi
presentati nei medesimi, ma ho avvertito l’esigenza di attribuire all’intero
fascicolo (quasi 400 pagine) un titolo che in qualche modo unificasse tutti i
contributi, e mi sono quindi rifatto a quanto scritto da Simona Rinaldi nella
sua introduzione: “i contributi qui pubblicati sono stati presentati al
seminario «Trattati e ricettari per colori. Una metodologia di studio
nell’ambito delle scienze umanistiche», organizzato nell’ambito delle attività
promosse dalla SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte) […] e
tenutosi […] presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del
Politecnico di Milano” (p. 1). Rinaldi prosegue dicendo che lo scopo principale
del seminario era costituito dalla presentazione di una serie di edizioni
commentate di ricettari inediti o, se editi, privi fino ad oggi di un apparato
critico degno di questo nome. Le edizioni critiche derivano dalle tesi di
laurea di un gruppo di giovani studiosi, e sono accomunate dall’utilizzo di un
medesimo approccio metodologico.
E qui si deve subito
chiarire: questo numero, letteralmente straordinario, di Studi
di Memofonte si caratterizza per essere di fatto suddiviso in due parti:
la prima (che comprende le prime 130 pagine) è dedicata all’illustrazione
del metodo con cui, a detta dei curatori, si deve affrontare lo studio
dei ricettari; la seconda riguarda invece l’illustrazione critica dei
singoli testi, con loro trascrizione, eventuale traduzione in italiano e
commento. L’analisi è riferita a un gruppo di scritti riguardanti le tecniche
di decorazione libraria, dalla miniatura alla rubricatura, ai ricettari
riguardanti un solo colore e a quelli misti.
Questioni di metodo
Perché insistere così tanto sulle
questioni di metodo? Innanzi tutto per rivendicare l’appartenenza dello
studio dei ricettari a una vera e propria letteratura, che contempla
generi, strutture, strutture retoriche, fruitori diversi. Lo sviluppo degli
strumenti di laboratorio – pare di capire fra le righe – sta pericolosamente
causando (specie oltralpe), la creazione di enormi database che contengono le
singole prescrizioni delle ricette, in cui queste ultime sono considerate alla
stregua di tante tessere di un mosaico, senza tener conto di quando, come e
perché quel mosaico è stato prodotto. L’idea che i ricettari costituiscano la
più diretta testimonianza di quanto si faceva nelle botteghe medievali e che
semplicemente replicandole sperimentalmente si possa arrivare a risultati
sostanzialmente analoghi (specialmente a fini di restauro) è di, per sé, un
approccio che nasce nell’Ottocento, col revival del Medioevo e che accomuna i
grandi conoscitori, così come i grandi “cacciatori” di manoscritti (a partire
da Mary
Philadelphia Merrifield). Riproporre oggi la stessa visione del
mondo, semplicemente fruendo di una massa di dati molto più corposa e di
strumenti di analisi assai più efficienti, può essere un errore. C’è una fase
precedente che non può essere trascurata, ed è quella di approccio
filologico al testo; quella che permette di svelare come si è arrivati alla
materialità di un determinato manoscritto, qual è la tradizione da cui attinge,
cosa facesse il probabile autore o redattore, quale fosse il pubblico finale.
Senza questo tipo di analisi – scrivono Baroni e Travaglio – si corre il
rischio di incorrere in clamorosi errori, tipo quello di sostenere “che
le Compositiones lucenses siano il ‘monumento della trattatistica
d’arte del Medioevo, «il più antico tra i manuali che l’Alto Medioevo dedica
all’arte di fare arte», mentre invece sono solo la preziosa ma – per danni di
trasmissione – scombinata testimonianza dell’antica traduzione latina di
un’opera ellenistica in origine perfettamente organizzata e coerente. […] Anche Mappae
clavicula tutto è tranne che un testo medievale: sotto questo titolo,
infatti, frutto di una cattiva traduzione dal greco, si cela un commentario a
opere dell’alchimia alessandrina, anch’esso tradotto in latino sul finire del
mondo antico” (p. 18). Basti qui ricordare che Baroni e Travaglio sono i
curatori della recente edizione di Mappae
clavicula, che è stata ampiamente recensita su questo blog.
Nella sostanza, ciò che i
linguisti hanno dato ovviamente per assodato da secoli, ovvero che, nonostante
fratture e sconvolgimenti della storia, la nostra lingua è di derivazione
antica, greca o romana, e che una serie di innumerevoli trasformazioni nel corso
dei millenni l’ha delineata così come si presenta oggi, fatica ad essere
ricordato di fronte ai ricettari di storia delle tecniche d’arte. Il
“ricettario” in quanto tale viene considerato un’invenzione medievale, mentre
in realtà si tratta il più delle volte di rielaborazioni di testi assai più
antichi, da cui bisogna saper distinguere ovviamente gli apporti originali e
più moderni. Non è certo qui il caso di passare in rassegna tutta le pagine
dedicate alla metodologia (che però vanno lette con grande attenzione), ma aver
presenti alcuni punti fermi non è male.
Innanzi tutto bisogna
operare una prima distinzione fra trattati e ricettari. Con il
termine ‘trattato’ si intendono gli scritti di contenuto autorale che si
presumono conferire apporti personali alla materia; i ‘ricettari’, invece, sono
“raccolte di carattere compilativo e redazionale, realizzati per compilazione e
assemblaggio di ricette tratte principalmente da altre fonti” (p. 25). Ne
deriva che i “trattati” sono in genere sottoinsieme dei “ricettari”, che
raccolgono compilazioni di vario tipo. In teoria possono esistere trattati
compiuti composti da un’unica ricetta (e nel concreto, in qualche saggio ne
vengono esaminati alcuni formati da solo due ricette). Queste compilazioni, in
seguito a una pluralità infinita di situazioni, che vanno dall’errore umano
nella trascrizione alla scompaginazione dei fascicoli, o alla intenzionale
rielaborazione di materiali pregressi, possono, a un primo esame, comparire
come totalmente incoerenti, tanto da essere chiamati “ricettari
informi”. Ma l’informità non è altro che sinonimo di disordine.
Compito di un esame filologico non è altro che “rimettere ordine” alle ricette,
delineandone la struttura originaria e (se possibile) l’eventuale derivazione.
In questo senso può aiutare
operare una distinzione dei ricettari fra cronologici (in cui
cioè materiali provenienti da due o più manoscritti sono scritti uno dopo
l’altro, in genere ad uso privato), tematici (con l’originaria
preparazione di un numero di fascicoli pari al numero degli argomenti trattati
e l’inserimento in ogni fascicolo di ricette uniformi per argomento provenienti
da testimoni diversi), o, infine, interpolati (con la
sistematica – e ragionata – fusione fra materiali di manoscritti differenti).
Naturalmente vi sono poi mille
altri fenomeni di cui rendere conto: ad esempio la formazione di
“teste” o di “code” nell’ambito di ogni fascicolo, ovvero l’aggiunta
posteriore di materiale che viene scritto negli spazi bianchi del manoscritto.
Molto spesso i fascicoli avevano in origine la pagina iniziale e finale bianca
per non correre il rischio che il testo potesse rovinarsi per cause
accidentali. In momenti successivi può essere successo che tali spazi siano
stati utilizzati a fronte di carenza di carta. Immaginatevi cosa può succedere
quando un ricettario tematico, composto da tanti fascicoli, presenta tante
teste e tante code quanti sono i suoi fascicoli; e come si complichino
ulteriormente le cose se poi i fascicoli siano stati scompaginati, o alcuni
siano stati distrutti etc. [...]
***
I perché di un silenzio
Nulla di tutto ciò compare nello
scritto di Del Savio. Un peccato, perché sarebbe stato facile riconoscere in Comment
l’en peult faire toutes couleurs un ricettario tematico interpolato e
magari provare a capire da dove proviene ragionando non basandosi sulle singole ricette,
ma su sequenze di esse. Il silenzio, peraltro, si estende, colpevolmente, ai
commenti sui principali testi di riferimento nell’ambito della letteratura
tecnico-artistica. Di Cennino Cennini, ad esempio, troviamo citate le edizioni
Milanesi (del 1859!), Brunello, e Ricotta, quest’ultima ottima per il commento
linguistico (trovate
la recensione qui) ma priva di tutta la parte tecnica (è la stessa autrice
a far presente di essere una linguista e a rimandare all’edizione del compianto
Fabio Frezzato, di gran lunga la più comune e la migliore sotto questo profilo).
Intendiamoci: compilare bibliografie raffazzonate, citando un po’ a caso, è, nelle edizioni accademiche frettolose, miranti a inanellare l’ennesima pubblicazione a fini concorsuali, una consuetudine (chissà perché, tuttavia, non ci si dimentica mai di nessuna delle proprie pubblicazioni, anche la più insignificante). Tuttavia, si vorrebbe un minimo di precisione: quanto meno nel controllare i titoli. Così, ad esempio, si scoprirebbe che il titolo originale della famosissima antologia di Mary Philadelphia Merrifield pubblicata nel 1849 (nota 5) non è Medieval and Renaissance Treatises on the Arts of Painting. Original Text with English Translation, titolo redazionale attribuito da Dover Publications in occasione della ristampa anastatica novecentesca, ma Original Treatises, Dating from the XIIth to the XVIIIth Centuries, [o]n the Arts of Painting,: In Oil, Miniature, Mosaic, and on Glass; of Gilding, Dyeing, and the Preparation of Colours and Artificial Gems; Preceded by a General Introduction; with Translations, Prefaces, and Notes. By Mrs. Merrifield. Mi si dirà: l’autrice ha voluto ricordare il titolo dell’ultima edizione moderna. Non è così: analoga situazione, ma a parti invertite, vale per i Materials for a history of oil painting di Charles Eastlake, il cui primo volume uscì nel 1847 con quel titolo, poi cambiato da Dover in Method and Materials of Painting of the Great Schools. Questa volta (n. 51) viene usato il titolo giusto, quello ottocentesco.
Si cita a caso, insomma, in fretta, senza
controllare, per ingrossare la bibliografia oltre agli unici titoli che realmente
contano: i propri. Già che ci sono mi si
lasci dire un’altra cosa che mi ha fatto trasalire. Liquidare Eastlake come
“pittore ed erudito” (p. 32) è imbarazzante, tenuto conto che stiamo parlando
dell’allora segretario della londinese Commission on The Fine Arts, del
Presidente della Royal Academy dal 1850 e del Direttore della National Gallery
dal 1855; definire Mary P. Merrifield (una donna straordinaria) “artista ed
erudita” è proprio sbagliato, perché Merrifield non fu mai artista (espose,
forse, alcuni acquerelli a una mostra in gioventù) ma una straordinaria
ricercatrice di età vittoriana, che nel suo viaggio italiano cercò con ugual
passione e sistematicità trattati artistici per la pittura a olio e la ricetta
per la polenta (forse più la polenta che altro) e abbandonò del tutto il campo
delle tecniche artistiche per poi dedicarsi a quello delle alghe, imparando il
danese a 60 anni per capirci qualcosa e ottenendo, infine, quella che ritenne
la più grande gioia della sua vita: vedersi dedicato il nome di un’alga.
Potrei fare decine di esempi come questi. Mi asterrò e passerò invece al tema più scabroso: perché, invece, le non citazioni? Perché non dire che di Mappae Clavicula esiste un’edizione critica uscita nel 2015 (trovate qui la recensione), perché non parlare del volume di Thea Burns sulle Compositiones variae (senza tener conto di tutto lo spazio che a esse è dedicato nel numero di Studi di Memofonte)? (ma situazioni di questo tipo sono molte di più).
Davvero, io non lo so. Si badi bene; non sto parlando di contributi secondari pubblicati su riviste specialistiche, ma di edizioni fondamentali. I casi sono due: o l’autrice li ignora, e in tal caso la sua preparazione ne risulterebbe fortemente minata, oppure li consegna al silenzio perché non è d’accordo con quanto ha letto. Nel caso, questo comportamento, semplicemente, non è scientifico. Già in molte occasioni (ad esempio, in fondo alla recensione che potete leggere qui) mi è capitato di dire che i comportamenti omissivi, una sorta di cancel-culture accademica, non sono eleganti, né tollerabili. Se non si è d'accordo, lo si dice e si motiva la propria opinione, ma si deve sempre dar conto dello stato completo della bibliografia fondamentale,
Mi avvio alla conclusione: l’assenza
di un qualsiasi criterio di inquadramento critico coerente di trattati e/o
ricettari espone a frasi che suonano vuote. Che significato ha, ad esempio,
con riferimento a Cennino Cennini (p. 33) che siamo di fronte a «un ricettario
vestito da trattato»? Si usa qui la distinzione metodologica proposta in Studi
di Memofonte? Immagino di no. Ma sinceramente non mi viene in mente alcuna
spiegazione alternativa. O, ancora, che senso ha disquisire dell’intrecciarsi
di trasmissione orale e scritta delle ricette dicendo che le testimonianze
della prima sono rarissime? E’ ovvio che se, in senso stretto, si vogliono
cercare dichiarazioni di compilatori che dicono di aver ricevuto una ricetta
per via orale, l’unico esempio a noi noto è quello dei manoscritti Le Bègue (qui
la recensione). Ma qui per oralità si intende un’altra cosa, ossia la
ragionevole sicurezza che la struttura di una ricetta, con caratteri
marcatamente mnemotecnici, sia fatta per essere imparata a memoria e trasmessa
oralmente, in un’epoca in cui ben pochi sanno leggere. Di esempi di questo tipo
ce ne sono moltissimi: il principale è, probabilmente, il De
coloribus et mixtionibus (qui la recensione).
Potrei dire molto altro; ad esempio
potrei far presente che quasi sempre le incongruenze nelle ricette, ossia il
fatto che esse non funzionino, non sono espressione di un Medioevo 'fantastico',
ma di un mondo in cui gli scribi commettono errori: molto probabilmente
quell’azzurro che non si riesce a ottenere dall’argento non è risultato di una sperimentazione mal intesa, ma semplicemente l’incomprensione di un simbolo
scambiato per un altro dai copisti e poi tramandatosi per pigrizia o
incompetenza degli scribi. Mi spiegherò con un esempio contemporaneo. A p. 45 nota 16 di
questo libro posso leggere un “See infra, pp. XX-XX”. Fra
cinquecento anni, gli interpreti si chiederanno il perché di questa citazione
bizzarra, tenuto conto che nel libro manca la numerazione romana. Gli interrogativi
aumenteranno se la citazione verrà acriticamente ripetuta. La spiegazione è
molto semplice: le autrici hanno temporaneamente indicato con due coppie di X
un rimando a pagine che ancora non conoscevano, ma poi si sono dimenticate di
aggiornare il riferimento una volta ricevuto l’impaginato. Sperimentazione? Io
non credo.
P.S. Come al solito questo blog è aperto al contributo di tutti. Mi rendo conto di non aver scritto cose simpatiche. Chi la pensa diversamente può scrivere nei 'Commenti' o contattarmi direttamente, con la mia parola che qualsiasi testo sarà pubblicato integralmente (salvo la presenza di insulti).
NOTE
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