Allan Ellenius
De arte pingendi.
Latin Art Literature in Seventeenth-Century Sweden and Its International Backgrounds
Uppsala e Stoccolma, Almqvist & Wiksells Boktryckeru, 1960
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Fuori tempo massimo?
Recensire oggi, nel 2025, un libro pubblicato nel 1960 può
suscitare scetticismo. Eppure, l’opera di Allan Ellenius (1927-2008), all’epoca
trentatreenne, mantiene ancor oggi profili di particolare interesse che
meritano, a mio avviso, di essere sottolineati. Si tratta, innanzi tutto, di un
testo dedicato per la maggior parte al commento di Graphice, id est de arte
pingendi, lavoro pubblicato a Norimberga nel 1669 e di cui fu autore
Johannes Schefferus (1621-1679), alsaziano di Strasburgo, all’epoca facente
parte del Sacro Romano Impero. Stiamo parlando di un umanista tedesco che, dopo
essersi formato presso l’università della sua città natale, lì rimase,
insegnando, fino al 1648, quando fu chiamato dalla regina Cristina di Svezia (1626-1689)
e fu docente presso l’università di Uppsala, nonché istitutore di molti giovani
nobili svedesi fino alla morte. Ellenius non presenta il testo dell’opera, ma,
in compenso, propone un’analisi dettagliatissima che non si limita solo al De
arte pingendi, ma prende in considerazione con estrema attenzione il contesto
in cui esso si colloca: sottolinea il fatto che il testo sia scritto in latino
e ricostruisce storicamente, da Pomponio Gaurico in poi, l’evolversi internazionale
di questo tipo di produzione; ricostruisce, peraltro, la produzione letteraria svedese
in ambito artistico, precedente e successiva al trattato di Schefferus. Tutti
argomenti di cui, sinceramente, non sapevo nulla e che mi sembra interessante mettere
a disposizione dei lettori, partendo, però, dal contesto politico riguardante la
Svezia nel XVII secolo.
La Svezia nel Seicento
Facciamo fatica a comprendere, oggi, come, nel Seicento la Svezia fosse una delle maggiori potenze europee. L’affermazione è valida, soprattutto, in ambito militare e dal 1640 circa. La Svezia poteva contare, infatti, su uno degli eserciti meglio addestrati del continente e, attorno al 1660, la sua estensione era, grosso modo, il doppio di quella attuale. Il Baltico era, ad eccezione delle coste danesi, un mare interno: la Svezia controllava tutte le coste che lo circondavano, non solo sul lato della penisola scandinava, ma anche da quello dell’Europa continentale, nonché gli sbocchi a mare di tutti i principali fiumi tedeschi, circostanza che le permetteva di riscuotere dazi elevatissimi sui trasporti di merci. La potenza svedese aveva trovato il suo formale riconoscimento al termine della Guerra dei Trent’Anni, con la pace di Vestfalia (1648). Sono gli anni del regno di Cristina di Svezia (1626-1689), salita al trono, sotto tutela, all’età di sei anni, donna di erudizione pari soltanto alla sua propensione a svuotare le casse dello Stato. Cristina punta a fare di Stoccolma l’ “Atene del Nord”. Chiama a corte gli umanisti più famosi (Cartesio muore a Stoccolma nel 1650), guarda con attenzione ai fenomeni culturali del tempo, raccoglie una smisurata collezione di manufatti artistici, non facendosi certo scrupolo sul modo in cui essi vengono ottenuti. Migliaia di pezzi fra quadri, sculture, monete, libri giungono, ad esempio, dalla collezione già appartenuta, a Praga, a Rodolfo II d’Asburgo; è il 1648 e si tratta dell’esito ultimo della partecipazione dell’esercito svedese alla vittoriosa battaglia di Praga, sfociata poi nella pace di Vestfalia. Il mecenatismo di Cristina ha confini che devono essere ancora esplorati completamente. Non esiste alcuna prova documentaria in merito, ma Claire Farago pensa, ad esempio, che la dedica a Cristina del Trattato della pittura di Leonardo nella sua versione in italiano (1651), sia conseguenza del fatto che fu proprio la sovrana svedese a finanziarne la pubblicazione. Che sia andata così oppure no, quella stessa dedica dimostra quale fosse il prestigio internazionale della monarca nel mondo della cultura europea in quel preciso momento; un prestigio forse addirittura superiore a quello di Luigi XIV, non foss’altro perché quest’ultimo, nel 1651, aveva tredici anni. Non ci si stupisca, peraltro, che, l’anno dopo, il curatore della traduzione, Raphael Trichet du Fresne si sia trasferito proprio in Svezia, dove assunse l’incarico di direttore della biblioteca reale. Si tratta dello stesso meccanismo avvenuto per Schefferus nel 1648. Di lì a poco (1654), come tutti sappiamo, Cristina avrebbe abdicato a favore del cugino Carlo X, convertendosi al cristianesimo, e si sarebbe trasferita, più o meno in pianta stabile, a Roma. Il regno di Carlo X fu brevissimo e visto che alla sua morte il figlio Carlo XI (1655-1697) aveva appena quattro anni, seguito da un nuovo lungo periodo di reggenza. Proprio a queste circostanze sfortunate potremmo imputare il motivo che impedì alla Svezia di divenire una nuova Francia e fu causa di un rapido declino della sua potenza all’inizio del Settecento. Naturalmente le vicende belliche hanno la loro importanza, così pure come il fatto che stiamo parlando di un regno enorme, ma sostanzialmente spopolato e in cui l’agricoltura aveva un peso relativo. Le lunghe reggenze, da parte loro, impedirono quanto successo in Francia, ossia una politica di sostanziale espropriazione dei privilegi della nobiltà e mantennero in piedi un sistema semifeudale che nemmeno Carlo XI, una volta divenuto adulto, riuscì a scardinare completamente. Il peso politico dell’aristocrazia svedese va tenuto, dunque, in particolare considerazione; non è certo un caso che il De arte pingendi di Schefferus sia dedicato al giovane conte Axel Eriksson Oxenstierna, nipote di colui che, di fatto, fu il tutore e reggente del regno nel corso della minore età della regina Cristina.
La letteratura artistica in latino del nord-Europa.
Come detto, il Graphice, id est de arte pingendi è
scritto in latino. Qui bisogna fare una precisazione. A parte le opere
dell’antichità, l’umanesimo conosce trattati di pittura scritti in latino,
primo fra tutti il De
pictura di Leon Battista Alberti. Poco importa, a questo proposito,
sapere oggi (e non allora) che Alberti ne compilò prima una versione in
italiano o che ve sia poi stata una traduzione italiana, ripresa peraltro nel Trattato
della pittura di Leonardo (1651). Il latino è lingua colta per eccellenza e
anche quando i vari volgari si affermano nei rispettivi paesi, continua a
essere idioma di comunicazione nel mondo religioso da un lato e in quello
universitario dall’altro. Quest’ultimo è il caso, nello specifico, di Schefferus. Con
riferimento alla pittura, peraltro, l’uso del latino dimostra il grande peso
dato dagli autori agli studi antiquari e filologici. Si fa sempre riferimento a
una serie di scritti che vanno da Plinio a Vitruvio, da Cicerone a Quintiliano,
a seconda degli argomenti oggetto di discussione.
Rispetto al De arte pingendi esistono importanti
precedenti in merito, che Schefferus richiama nel suo libro a volte
criticandoli e accusandoli di essere confusi e quindi di scarsa utilità per il
lettore. Si tratta di:
- Ludovicus Demontiosius (in realtà il francese Louis de Montjosieu), autore, nel 1583, di un’opera intitolata Gallus Romae hospes. In essa, nell’ambito di quegli interessi antiquari che sono tipici di questa letteratura, si parla anche di pittura. I riferimenti classici richiamati da Demontiosius non mirano – secondo le sue stesse parole – a insegnare la pittura, ma a mettere a disposizione del lettore una base per poter operare meglio un confronto fra la pittura antica e quella contemporanea. In sostanza – scrive Ellenius – l’opera del francese è un commentario condotto su basi filologiche di Plinio, certamente non diretto ad artisti, ma a dilettanti colti.
- Julius Caesar Bulengerus (in realtà il gesuita Jules César Boulenger), autore del De pictura, plastice, statuaria libri duo (Lione, 1627). L’opera è – scrive Ellenius – di carattere prettamente compilativo [1].
- Franciscus Junius (François du Jon), De pictura veterum (Amsterdam 1637). Qui siamo, senza dubbio, di fronte al più importante e influente trattato d’arte neolatino del Seicento. Basti pensare che l’opera fu tradotta in inglese già l’anno successivo e in olandese nel 1641 e conobbe numerose riedizioni nei vari idiomi nel corso di tutto il Seicento. Molti studiosi ne hanno sottolineato l’importanza anche per il mondo della trattatistica francese, anche se, a dire il vero, non trovo indicazioni su una traduzione francese precoce. Ellenius è ben consapevole dell’importanza dell’opera e le dedica decine di pagine. Mi è impossibile fare altrettanto; mi pare tuttavia importante richiamare alcuni fatti. Il De pictura veterum è, di fatto, una raccolta di citazioni da centinaia di fonti dell’antichità, ma soprattutto da Plinio. Parte del suo successo è, dunque, legata al fatto che consente di non leggere Plinio trovando aneddoti di ogni tipo, adatti per qualsiasi tipo di citazione, tutti insieme in un unico libro. Senza dubbio alcuno un secondo motivo di successo è che, oltre a questa componente, il De pictura veterum è anche un trattato di teoria artistica, che prende in considerazione le ‘parti’ della pittura e ne svolge una trattazione più o meno sistematica. Sotto questo punto di vista, Ellenius non manca di sottolineare quelli che, già per Schefferus, ne erano comunque i punti deboli, ossia l’impostazione eccessivamente dipendente dalla retorica latina e il considerare la pittura esattamente alla stregua delle arti a lei sorelle (non solo la scultura, ma la retorica vera e propria). In questo senso, il titolo dell’opera sarebbe addirittura diminutivo rispetto ai suoi contenuti. Junius scrive con intenti pedagogici e mira alla riforma della pittura; è un amante del passato, un conservatore, un sostenitore della teoria del declino dai tempi felici dell’antichità in poi. Ci si può chiedere quanto questo atteggiamento sia basato sulla concreta conoscenza del fare artistico o quanto dipenda da un’impostazione retorica che riempie di sé tutta l’opera. Secondo Ellenius, si tratta del secondo caso, e tale interpretazione deve essere stata anche quella che mosse Schefferus a scrivere il De arte pingendi. Certamente, il De pictura veterum propone una teoria dell’arte basata su concetti particolarmente tradizionali: l’ut pictura poesis, la supremazia della pittura di storia rispetto a ogni altro genere artistico o, ancora, la maggiore importanza del disegno rispetto al colore, inteso come puro ornamento e non come aspetto costitutivo dell’arte. “La forma assunta dal De pictura veterum rende palese che ciò che Junius aveva in mente era un sistema d’insegnamento ampiamente basato su fondamenta puramente classiche, comprendente una documentazione la più ricca possibile.” [2] Da ricordare che Junius era nato a Heidelberg, visse per vent’anni a Londra come bibliotecario ed educatore a servizio di Lord Arundel (in questo periodo uscì il De pictura veterum), poi rimase trent’anni in Olanda per poi tornare a Londra nel 1674 e morirvi tre anni dopo. La sua è, insomma, una figura cosmopolita, più che quella di un tedesco.
- Gerardus Vossius (ossia Gerrit Voss), De grapiche, sive arte pingendi (1650): nacque anch’egli a Heidelberg, ma visse soprattutto fra l’università di Leida e Amsterdam, dove morì nel 1649. L’anno dopo fu pubblicato il suo De quatuor artibus popolaribus, una sezione del quale è intitolata De grapiche, sive arte pingendi. Per molti versi Vossius richiama le argomentazioni di Junius (che, peraltro, curò l’edizione postuma dell’opera).
Schefferus e il De arte pingendi.
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Anonimo, Ritratto di Johannes Schefferus, National Portrait Gallery of Sweden Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:SchefferusJohannes.jpg |
Schefferus, pubblicando nel 1669 il suo De arte pingendi, si pone dunque sulla scia di queste pubblicazioni, come dichiara sin dall’introduzione. Aggiunge, inoltre, che si era sempre interessato d’arte: «ci dice che sin dalla prima giovinezza è assorbito da tale interesse e che pratica l’arte della pittura; aggiunge – certamente con una qualche esagerazione retorica – che il tempo che passa a dipingere non è inferiore, anzi, piuttosto, maggiore rispetto a quello che dedica allo studio erudito» (p. 107).
È difficile ricostruire l’ambiente artistico di Strasburgo nella
prima metà del Seicento, dove Scheffer si formò, per un motivo banale: la città
alsaziana fu al centro degli eventi bellici legati alla Guerra dei Trent’anni (e
di molte altre guerre nei secoli successivi fino a quelle mondiali del
Novecento) e quasi tutto è andato distrutto. Sappiamo però che l’artista più
noto su piazza, alla fine del Cinquecento, fu Wendel Dietterlin (1551-1599),
pittore decorativo, disegnatore, incisore, ma anche scrittore d’arte. Fu autore
di Architettura: della distribuzione, simmetria e proporzione delle colonne
(1594), che non è un trattato generalista di architettura, ma, piuttosto, uno
scritto di impianto pratico: «l’oggetto principale del libro è
fornire progetti per finestre, camini[…], portali, fontane e iscrizioni
tombali; lo scopo pratico è quindi evidente e l’autore lo persegue con una
ricca capacità inventiva e una viva fantasia nelle soluzioni formali.»
(p. 102). Il libro – prosegue Ellenius – si colloca nel grande filone di quelli
che Schlosser chiama, in forma spregiativa, kunstbüchlein, ossia
libretti di natura tecnica privi del respiro dei grandi trattati rinascimentali
architettonici italiani. Sia quel che sia, è opinione di Ellenius che il suo Grapiche,
pur ancorato all’interesse antiquario e allo studio dei classici, riveli
comunque l’influsso dell’ambiente artistico in cui crebbe, un ambiente
fortemente vincolato alla corporazione e a istruzioni di natura pratica. Per
questo motivo il De arte pingendi si discosta dalle opere puramente retorico-letterarie
di Junius e Vossius.
Vi sono, a tale proposito, degli indicatori ben precisi. La
presenza di informazioni tecniche derivanti dalla pratica di bottega, ad
esempio sulla produzione dei colori, è uno di questi. Ellenius non manca di
sottolineare, in proposito, che a Strasburgo era conservato l’omonimo manoscritto
(ossia il Manoscritto
di Strasburgo che nell’Ottocento, fortunatamente, Charles Lock Eastlake
fece copiare prima che andasse distrutto in un incendio). Altra fonte di
ispirazione potrebbe essere stata, in alternativa, l’Illuminierbuch
pubblicato a Basilea nel 1548 da Valentin Boltz e, da allora, riedito in
diverse occasioni. Da un punto di vista teorico Schefferus si distingue
rispetto ai suoi predecessori perché non ritiene che le categorie da applicarsi
alla pittura (e alle arti congeneri) debbano essere le stesse, identiche,
derivanti dalla retorica antica. La pittura, insomma, ha una sua specificità
(discorso che giustifica anche la presenza di un aspetto tecnico, naturalmente):
«Schefferus
qui desidera metter in guardia dal praticare una trasposizione acritica alla
pittura di modi di pensiero che sono stati formulati avendo in mente tipi di
arte completamente diversi» (p. 142). Strettamente collegato a questo aspetto è la
messa in discussione della gerarchia dei generi artistici: non più il dominio
della pittura di storia su ritrattistica, pittura di paesaggio etc., ma la consapevolezza
di una coesistenza fra pittura di invenzione (historiae) e di genere (iconicae
picturae o contrafacturae). Sta all’artista scegliere il soggetto
dei suoi quadri in base alla predisposizione personale. Siamo nell’ambito di
una riconsiderazione della pittura di genere che è tipica del mondo
nord-europeo, dall’Olanda alla Germania settentrionale e trova precedenti, ad
esempio, nella Batavia
di Hubertus Junius e nello Schilderboeck
di Karel van Mander. Si tratta, del resto, di una propensione che troveremo
anche, a inizio Settecento, in Gerard
de Lairesse, Sia chiaro: mai, in tutto ciò, Schefferus viene meno all’impianto
classico e classicista della sua opera e anche quando si tratta di rivalutare i
generi minori si fa ricorso a citazioni di autori latini o greci; ma la
differenza rispetto a Junius e Vossius è importante. Lo è, più latamente, anche
in termini di attitudine con cui l’autore guarda al passato: non più una
visione pessimistica della contemporaneità e il tentativo di riformare la
pittura per recuperare un (mitico) splendore andato perduto, ma piena
consapevolezza di un livello già alto raggiunto dai moderni.
Lo scopo di Schefferus è, fondamentalmente, quello di
fornire materiale per consentire ai giovani nobili che frequentano l’università
o i collegi svedesi di acquisire un bagaglio di informazioni pari a quello di
cui possono già disporre soprattutto i loro omologhi francese. Si tratta, cioè,
di raggiungere un’indipendenza, anche attraverso la pratica vera e propria
della pittura, che è arte liberale; forse anche di rendere ‘inutile’ il
classico viaggio di istruzione in Francia o in Italia (la prima assai più
raggiungibile della seconda). Quest’ultimo aspetto, certamente, non fu
raggiunto: basti
pensare ai quaderni di viaggio di Tessin il giovane, successivi di appena
qualche anno, e del resto mi pare eccessivo che l’autore avesse un obiettivo così
ambizioso. Ellenius mette in evidenza come, a suo avviso, la sistemazione di
una teoria artistica sulla pittura non dipenda direttamente da fonti italiane o
francesi, ma da quelle latine (antiche o moderne), considerando latino anche
Alberti, naturalmente. Si tratterebbe, dunque, di un tentativo di
emancipazione, di costruzione di una strada nuova e autonoma. Tuttavia, ribadendo
di non aver letto l’opera, ho qualche dubbio in proposito.
Un dubbio sulle fonti di Schefferus
Quel dubbio mi sorge a proposito di un punto particolare
della trattazione, quello relativo alla rappresentazione del moto in pittura.
Qui, lo dico subito, l’influenza del Trattato di pittura di Leonardo
potrebbe essere stata non nulla. Ellenius scrive in merito che «Schefferus
mutua da Alberti i requisiti fondamentali per la rappresentazione dei movimenti
umani; essi devono essere conformi alla natura e, inoltre, essere intonati al
soggetto del dipinto». Siamo nell’ambito del «decorum» albertiano. Tuttavia, la
rappresentazione del moto corporeo è anche aspetto propedeutico a quella dei
moti dell’anima. «Ancora una volta viene enfatizzato lo studio della natura.
Senza di esso l’artista sarebbe incapace di comprendere gli scritti degli
antichi o anche solo di dipingere un quadro. Egli, quindi, dovrebbe osservare,
per esempio, le espressioni del volto della gente quando è arrabbiata, addolorata
o felice, imprimerli attentamente nella memoria e, se possibile, riprodurli immediatamente
su carta in forma di schizzo. La stessa cosa andrebbe fatta rappresentando
altri oggetti in natura, come gli alberi, l’acqua e così via»
(p. 175). Mi pare ci siano pochi dubbi: questo è Leonardo. Ho l’impressione, in
sostanza, che Ellenius abbia sottovalutato, nel 1960, l’importanza della
pubblicazione del Trattato di pittura a Parigi nel 1651, o nella
versione in francese o in quella in italiano (ricordo ancora che l’edizione
italiana era dedicata a Cristina di Svezia). Mi stupirei se Schefferus non
avesse avuto modo di sfogliarlo e leggerlo.
La letteratura artistica svedese nel Seicento
Sul De arte pingendi si potrebbe scrivere ancora
molto, ma naturalmente, mi fermerò. Vorrei, però, sottolineare un aspetto: pur
essendo opera di un oriundo svedese, l’opera si colloca più facilmente nell’ambito
di un umanesimo universitario cosmopolita di cui ho parlato a lungo che in una
prospettiva ‘nazionalista’. A questo punto si pone un’altra domanda: è esistita
una letteratura artistica svedese? Ellenius fornisce alcune indicazioni, che
riporto, sperando possano essere utili. Dico subito che, rispetto a quanto
scritto nel 1960, non ho trovato aggiornamenti, o, almeno, non li ho trovati in
inglese.
Nel 1666, ad esempio. Mathias Palbitzki, un amatore e
collezionista, indirizza una lettera a quello che allora è il cancelliere di
stato, il conte Magnus Gabriel De la Gardie, mecenate dai gusti vicini alla
pittura francese, e delinea una teoria dell’arte che sembra voler sviluppare
pubblicando un libro in materia. La lettera serve per chiedere a De la Gardie
il permesso di dedicargli l’opera, tuttavia mai edita. L’impostazione pare del
tutto classica: «ci sono due tipi di pittura, ossia quella dotta e sapiente
e quella ordinaria che si vende nei negozi» (p. 244). [3] Dopo una lunga
querelle pare essere invece opera di un pittore tedesco, ossia Samuel Bottschild,
il Kurtzer Unterricht, Observationes und Regulen von der Mahlereij (Brevi
lezioni, osservazioni e regole della pittura), pittore di corte a Dresda.
Rimasto manoscritto, è stato pubblicato nel 1918 come opera di David Klöcker
Ehrenstrahl, uno dei più famosi pittori svedesi dell’epoca [4]. Se così fosse,
di Ehrenstrahal ci resta solo una descrizione delle sue opere, da lui scritta e
pubblicata nel 1694, ossia Die vornehmste Schildereyen, welche in denen Pallāsten
des Königreiches
Schweden zu sehen sind, inventiret, verfertiget und beschrieben, Stoccolma,
1694.
Letteratura artistica protestante successiva al Concilio
di Trento.
L’opera di Ellenius è davvero ricchissima di spunti. Non
posso tacere che l’autore mette in relazione il De arte pingendi anche
con la letteratura artistica protestante sorta in seguito alla Controriforma
(cfr. Painting and Religious Iconography, pp. 268-271). Si tratta di
scritti di cui, in Italia, sappiamo pochissimo, conoscendo invece le opere
fondamentali di Borromeo,
Paleotti,
o del teologo fiammingo Johannes Molanus, quest’ultima ristampata ininterrottamente
dal 1570 al 1771. Qui ci collochiamo, invece, sull’altro versante: «durante
la parte finale del XVII secolo si manifesta un rinnovato interesse da parte
protestante in merito al giudizio dogmatico da dare sull’arte pittorica in ambito
religioso: è possibile trovare diversi autori tedeschi che sono legati all’antica
traduzione luterana, ma anche chi mostra di essere influenzato dalla
letteratura cattolica» (p. 268). Ellenius nomina J.F. Jünger, De inanibus picturis
(1678), Philippus Rohr, Pictor errans in historia sacra (1679) e Peter
Mueller, De pictura… de abusu picturae et poena pictorum (1692). Si
tratta, in sostanza, di repertori iconografici di parte protestante. Non manca,
peraltro, una dissertazione di laurea svedese presentata all’università di Lund
nel 1699, per mano di Andreas Noleen. Sia detto per inciso: all’interno di
questa tesi compare quella che storicamente è la prima citazione di Caravaggio
(e del caravaggista Bartolomeo Manfredi) in Svezia. Contrariamente a quanto ci
si possa attendere, il giudizio non è negativo. Ne fornisco la traduzione,
avvisando che è fatta con Google Translate: «Non mancava loro [n.d.r. alle loro
opere] nulla se non la capacità di parlare. Anzi, un colto olandese disse una
volta di queste opere d'arte: "Apparivano e avevano la stessa eleganza di
un discorso ben strutturato, che catturava non solo l'orecchio, ma anche
l'anima e l'intera persona con tutti i sensi". Il Caravaggio “naturalista”
in senso deleterio per Bellori, diventa improvvisamente maestro di
composizione.
La fortuna del trattato
La fortuna del trattato di Schefferus appare, in tutta onestà, limitata.
Ellenius scrive che l’opera ebbe un impatto considerevole sia in Svezia sia all’estero,
ma non mi pare che porti concretamente argomentazioni convincenti in proposito.
La si trova citata più che altro in dissertazioni accademiche ed è naturale che
sia così, tenuto conto che nasceva in ambiente universitario. C’è, in realtà,
un solo riscontro oggettivo, ed è stupefacente. Si
tratta di El museo pictorico ó Escala Optica di Antonio Palomino
(1715 e 1724). Qui Schefferus è citato almeno una decina di volte nelle postille
a stampa poste a margine del testo. Capire come il De arte pingendi di
Schefferus sia giunto a conoscenza di Antonio Palomino è ancora cosa che deve
essere fatta. Certo si tratta dell’ennesima dimostrazione, se mai ve ne fosse
stato bisogno, che, anche agli inizi del Settecento, le idee non hanno confini
e riescono a circolare in tutta Europa.
NOTE
[1] Sul tema si veda Colette Nativel, Le De pictura,
plastice et statuaria du père Jules César Boulenger, S.J., in Acta
conventus neo-latini abulensis. Binghamton / New York, 2000, pp. 473-480, consultabile
online.
[2] Dei tre libri del De pictura veterum esiste oggi
un’edizione commentata moderna (deve ancora uscire il terzo volume) curata da
Colette Nativel: Livre I (1996) e Livre II (2024), Ginevra, Librairie Droz.
[3] La lettera è stata pubblicata in W. Nisser, Mathias
Palbitzki som connoisseur och technare, UUA 1934.
[4] David Klöcker Ehrenstrahl (ma l’attribuzione è
cambiata), Kurtzer Unterricht, Observationes und Regulen von der Mahlereij,
a cura di Gunnar Mascoll Silfverstolpe, Archiv för svensk konst- och kulturhistoria,
Vol. III Stoccolma, 1918.
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