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mercoledì 18 giugno 2025

Sandro Baroni. Ancora su 'Sources on Colours': riflessioni, errori, perplessità.

 

Sandro Baroni
Ancora su Sources on Colours: riflessioni, errori, perplessità.






Avvertenza di Giovanni Mazzaferro: in seguito all’ultima mia recensione pubblicata sul blog, relativa a Sources on Colours. A Selection of Medieval and Premodern Texts on Colours and How to Make Them, a cura di Michela Del Savio e Richard Trachsler, ho ricevuto uno scritto di Sandro Baroni, noto restauratore e studioso di tecniche artistiche. Baroni, per restare a pubblicazioni recensite in questo blog, è: a) coautore dell’edizione critica di Mappae clavicula - Alle origini dell’alchimia in Occidente. Testo-Traduzione-Note, a cura di Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio, Il Prato, 2014; b) autore, singolarmente o in collaborazione con Paola Travaglio, di diversi contributi in Studi di Memofonte 16/2016, [Atti del seminario “Trattati e ricettari per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche. Milano, 6 dicembre 2013] (di particolare importanza quelli metodologici); c) co-curatore dei due tomi dedicati alle Tecniche dell’arte, A cura di Sandro Baroni e Micaela Mander, Ugo Mursia editore, 2021; coautore, con Paola Travaglia di De vitri coloribus: fortuna medievale di un trattato bimillenario. Colorazione del vetro, delle gemme artificiali, degli smalti, della decorazione ceramica, in Medioevo Europeo, 4, 2020, 1. Come promesso al termine della mia recensione, tenuto conto che il blog nasce per essere uno spazio di libertà, pubblico integralmente il suo testo, ricordando a tutti che farò altrettanto nel caso me ne giungessero altri.


***

Gentile Giovanni Mazzaferro; Gentili lettori del blog,

concordo con le osservazioni generali della recensione; in particolare il contributo introduttivo di Del Savio, zeppo di gravi errori e di inspiegabili omissioni, fornisce una ricostruzione dello status quaestionis, che, offre un quadro complessivo gravemente fuorviante e assolutamente parziale dello stato degli studi. Ho già scritto a suo tempo una lettera di molte pagine a Del Savio ed ai responsabili della pubblicazione, segnalando le innumerevoli mende e i gravi errori (mi è stato risposto solo dalla interessata che mi ha scritto che sono un maleducato…). Dichiaro quindi, a questo punto, che sono parte troppo in causa in proposito e troppo coinvolta dalle omissioni, per infierire in questa sede sull’autrice del saggio. Del resto, sarebbe cosa ormai inutile e noiosa per tutti.

Il punto da rilevare e discutere (il punto della questione), a partire dal libro curato da Michela Del Savio e Richard Trachsler è, invece, a mio avviso, un altro, assai più importante della ricorrente manipolazione bibliografica e degli errori marchiani. Considero, infatti, di maggiore interesse per i lettori della recensione e per chi si occupa in particolare di questo settore della letteratura artistica chiedersi: “È possibile condurre l’edizione scientifica di un manoscritto tecnico medioevale senza nulla capire di ciò che il testo dice?”

Può sembrare questa una domanda pleonastica, superflua; ma assolutamente non lo è, anzi è tema attualissimo e cruciale, oggi, negli studi di questo settore. Scrivevo già in proposito, in data non sospetta (nel 1994, se ricordo bene), che può sembrare facile, rovistando tra i fondi manoscritti di una biblioteca, scegliere, tra i più leggibili, un ricettario, una trattazione tecnica per le arti, trascriverne il testo e darlo alle stampe. Questa operazione, pur lodevole, non è una edizione scientifica. Meglio sarebbero, piuttosto, le fotocopie o, meglio ancora, le riproduzioni digitali di quelle pagine, dove si possono osservare molte più cose e direttamente, al netto dei rischi di sempre possibili errori di copia e possibile errato scioglimento di eventuali abbreviature, segni di unità ponderali, cifre, etc. A confortarmi allora in questa affermazione stava il noto aforisma attribuito a Michele Barbi: “Senza la comprensione di ciò che il testo dice, nessuna edizione, buona o cattiva, si fa.”

Un principio disatteso nel caso del secondo contributo di Del Savio al volume in oggetto (ed anche in altri dello stesso libro):

Pagina 169, prescrizione [17]:

Ad ponendum aurum. Accipe gipsum bene tritum et terre cum colla tartari… (etc.)

1: Non esiste una “colla tartari”; il tartaro, come tartrato acido di potassio, comune deposito nelle botti da vino, non produce alcun adesivo. 2: Nel medioevo neppure si conoscono colle così “infernali” da meritar l’associazione alla più remota regione dell’oltretomba. 3: Altrettanto, la nota stirpe guerriera di razza e lingua mongolica o, meglio, uno dei suoi membri, benchè assai temuti nell’ occidente latino, non erano in alcun modo rinomati per l’uso o produzione di una qualsivoglia colla. L’incongruenza nel testo non è minimamente rilevata dalla editrice, neppure con il fatidico “sic!”, e “colla tartari” viene così pure inserita nel “Repertorio terminologico” tra gli ingredienti di origine vegetale (p. 176) alla fine del saggio. L’autrice, peraltro, neppure sa che, in realtà, il testo della prescrizione è ben noto: Siamo a fronte della prima prescrizione del Trattato di Maestro Bernardo: (Liber Colorum): Ad ponendum aurum in cartis secundum morem graecorum: Accipe gipsum bene tritum et tere cum colla cartarum… (cfr.: https://www.memofonte.it/home/files/pdf/XVI_2016_TRAVAGLIO_LIBER_COLORUM.pdf).

Quest’opera, che assieme a Paola Travaglio sua editrice, è già stata sottoposta a damnatio memoriae da Del Savio nello studio introduttivo del volume qui in oggetto, è persino nota, con voce propria, su Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/Liber_colorum_secundum_magistrum_Bernardum). Tutti e quattro i testimoni che portano il testo e probabilmente l’opera stessa, son riconducibili all’area padana centro-orientale. Questo testo ha avuto ben due edizioni in italiano ed una in tedesco. Quella italiana, più recente, basata su quattro manoscritti, è in Memofonte 16-2016 ed è quindi pure online. Una omissione rilevante, nelle conseguenze, anche perché nel testo di Arnaldo da Bruxelles di cui si occupa Del Savio, sono riconoscibili prescrizioni in comune con Bernardus. Non è quindi più necessario, oggi, nell'edizione di un testo, segnalare le sue molteplici attestazioni? Non è importante, riguardo alla circolazione dell’opera di maestro Bernardo, rilevare che questa, a distanza di due secoli dalla propria redazione, veniva copiata e circolava ancora in Italia meridionale nella seconda metà del XIV secolo? Non è importante ai fini della considerazione di quelle che Del Savio chiama “competenze (anche) tecniche di un erudito quattrocentesco”, sapere che costui, al pari della sua odierna editrice e commentatrice, nulla capiva di ciò che andava trascrivendo?

Non esiste una “colla tartari” ma semmai una “colla cartari”, o qualcosa del genere. Questo, anche perché la medesima ricetta è nota in altri quattro testimoni dove si trova unanimemente “colla cartarum” (che è la originaria lezione), sicuramente due secoli dopo divenuta “cartari” per mala interpretazione della abbreviatura finale o, con un caso di commutazione di codice (code switching) attribuita ai “cartari” e non alle carte, e trascritta poi da Arnaldo come “tartari”. Paleograficamente parlando, nelle grafie quattrocentesche sul genere di quella di Arnaldo (una umanistica tonda), poi, “c” e “t” sono assai facilmente confondibili. Il manoscritto porta indubitabilmente “tartari”, ma ogni pur modesto editore sa che nel “telefono senza fili” della tradizione, da “cartarum”, per cattivo scioglimento di un’abbreviatura finale, o altro, si può passare a “cartari” che a sua volta può facilmente esser letta “tartari”. E così copiata. A confermare “cartarum” sta l’unanimità degli altri testimoni del testo di Maestro Bernardo, ma in primo luogo, a fronte di “tartari” un campanello di allarme avrebbe dovuto risuonare nella mente dell’editore moderno. È da questo che poi si attiva la ricerca e se poi l’indagine in banche dati, memorie personali, ed altri trucchi e armamentari di un buon editore non dà esito, se non spiegata, l’evidente incongruenza va comunque segnalata.



Nella stessa pagina 169 prescrizione [13]:

Quomodo fit azurum ex plumbo. Recipe plumbum et lamina eum subtiliter et pone in olla bene sigillata inter grappas uve in vinacia per 14 dies et aperi et invenies florem circa ipsum. Rade et serva quia azurium est; reduc ut prius in vinacia easdem laminas quousque omnes in azurium convertantur.

È curioso come nel libro di Del Savio -Trachsler vengano definite irrealizzabili procedure che invece lo sono e si passino sotto silenzio ricette che davvero, concretamente non possono esserlo (non riproducibili). Un mondo alla rovescia. Son cose che succedono comunemente a chi non sa nulla riguardo a cosa dica il testo. È assolutamente evidente, qui, che il piombo, al trattamento indicato, non produca alcun colore azzurro. E ciò, perché questo metallo, in assoluto, nel dominio della chimica, non può generare in alcun modo sali di colore azzurro. Può eventualmente produrre solo un bianco in questo modo, ossia la biacca, cioè Carbonato di Piombo. Qui, in ogni pur modesto editore, dovrebbe scattare ancora una volta, il fatidico campanello di allarme. Questo, certamente, riguarda la veridicità del testo ma, naturalmente, anche la competenza del copista e nel caso nostro, pure del suo moderno editore. Circa le competenze dell’editore, lascio al lettore la valutazione. Quanto alla veridicità del testo il problema è altrettanto semplice.

Solo il rame (e sue leghe), tra i metalli, generano dei sali azzurri in questo modo. Ricette con il rame, simili a questa, sono, del resto, molto comuni. Possiamo, allora, lecitamente pensare che sia intervenuto un danno al testo, un danno coincidente con la sostituzione di Cu con Pb? Come è potuto accadere? Risposta: un copista precedente, o lo stesso Arnaldo in copia, hanno quasi certamente confuso la simbologia alchemica del rame, sciogliendola in piombo. Nelle simbologie alchemiche dei metalli, ad esempio, un sistema spesso applicato tra XV e XVI sec. utilizza simboli cruciformi. Lì è possibile e assai facile la confusione tra una croce con i terminali acuti o gigliati (Venere\Rame) con un'altra che, vagamente simile ad una croce greca, li presenta invece piatti e che significa Saturno\Piombo. Si può trovare ancora nella più tarda edizione del “Testamento di Basilio Valentino” una tavola che riporta simbologie più antiche tra cui, per Saturno e Venere, alcune simili a quelle appena nominate (si veda l’mmagine qui sotto).

Una tabella di simboli alchemici da Ultime volontà e Testamento di Basilius Valentinus, 1670
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Simbolo_alchemico#/media/File:Alchemical_table_Valentine_(1671).png



A questo possibile e assai frequente meccanismo di alcune tipologie di errori è arrivato, con molto buonsenso, anche Giovanni Mazzaferro a proposito dell’azzurro d’argento. Infatti, scrive nella sua recensione: “[Siamo in] un mondo in cui gli scribi commettono errori: molto probabilmente quell’azzurro che non si riesce a ottenere dall’argento non è risultato di una sperimentazione mal intesa, ma semplicemente l’incomprensione di un simbolo scambiato per un altro dai copisti e poi tramandatosi per pigrizia o incompetenza degli scribi”. Nel caso dell’azzurro di argento o di Alberto Magno la realtà è verosimilmente più complessa. Già Daniel V. Thompson trattò brillantemente il problema dell’incongruenza del testo di queste ricette; forse meglio ne ha argomentato Francesca Tolaini (anche con pratiche prove di riproducibilità) in due studi sul suo Scripta colorum sulla rivista Critica d’Arte, ottenendo un vivace azzurro. Anche questi studi, Del Savio e seguaci avrebbero dovuto ben leggere, prima di seminare la fola del procedimento irrealizzabile. Resta, comunque sia, che questo meccanismo di corruzione del testo, a seguito di errato scioglimento di simbologie alchemiche, è assai comune e frequente. Ed è proprio il nostro caso.

Disseminare largamente l’idea suggestiva che molti procedimenti tramandati secolarmente siano irrealizzabili, consente di deresponsabilizzare l’editore e, nel nostro caso specifico, l’editrice, da qualsiasi atto critico a fronte del testo. Sic est: siamo di fronte ad un neoletteralismo assai pericoloso ed altrettanto comodo. Come tutti i letteralismi è integralista. Teme il confronto, e da qui è spinto alla damnatio memoriae. Mi spiego?

I lettori di questo blog, si sono chiesti come mai Del Savio non fornisca neppure le traduzioni del testo che pur edita? Così fanno anche altri autori di saggi dello stesso volume. Forse son maleducato a ritener che l’edizione di un testo tecnico medioevale debba avere anche traduzione e puntuale commento tecnico? Si segnalano in corsivo (per giusta scientificità) lo scioglimento delle facili abbreviature del manoscritto e non si fornisce la traduzione del testo multilingue? Le traduzioni non servono solo ad avvicinare al testo i lettori che non conoscono la lingua impiegata, ma mostrano, e scientificamente, anche a chi comunque la sa, in quale modo l’editore lo sa leggere. Come lo interpreta. Quanto lo capisce. Così scientificità significa “trasparenza”.

La posizione di Del Savio e simili, va però portata anche ai suoi impliciti estremi per essere veramente smascherata. Mi chiedo così: “Ma, i nostri predecessori erano davvero tutti imbecilli, nel tramandare costantemente e per secoli, leggendo e scrivendo, procedimenti privi di senso?”. Devo ricorrere ad un esempio tra i più noti. L’uso del sangue ircino (di capro) nei procedimenti di intaglio delle gemme e del vetro viene trasmesso in forma letteraria diversa in centinaia di fonti, da Plinio all’epoca preindustriale. Chi ha dato origine a questa applicazione e molti di quelli che l’hanno trasmessa, le gemme le intagliavano davvero; i moderni editori, generalmente no. Non occorre scrivere un articolo per spiegare, alla faccia dei moderni commentatori, che queste prescrizioni sono perfettamente realizzabili e ben funzionali all’intaglio di certi materiali. Perché gemme e vetri sì, e avorio fossile o meno, corno ed osso, no? È tutto molto semplice, nella pratica. Provare per credere. Il sangue di capro, talvolta addizionato di polimeri elastomerici naturali (lattice di turtumaglio, un’euforbiacea, o nelle molte varianti del procedimento lattici di altre piante), costituisce, una volta applicato e secco, una “guaina” superficiale che, da una parte guida l’attrezzo da intaglio, e dall’altra evita pericolosi scivolamenti del ferro e scheggiature concoidi del vetro. Oggi, un accorto artigiano che deve forare o tagliare una piastrella, senza che questa si scheggi, mette sulla superficie una forte pellicola autoadesiva e opera su quella. E, novanta su cento, questa non si scheggia. Chi sono adesso gli incompetenti? Gli antichi di due millenni di tradizione pratica e letteraria o tutti i moderni editori che senza nulla sapere di queste pratiche commentano vagheggiando superstizioni e irrealizzabilità del procedimento?

Ovviamente, non escludo a priori vi possano essere anche descrizioni di procedimenti di dubbia efficacia o irrealizzabili. Sto semplicemente affermando che nella stragrande maggioranza dei casi ciò che vien comunemente ritenuto nelle ricette come irrealizzabile, cela prevalentemente, ad una buona analisi, o un danno testuale o carenze ermeneutiche dell’interprete. Non “mitizziamo” il testo per giustificare la scarsa capacità della nostra critica, o peggio, la nostra ignoranza. Il Medioevo è davvero “fantastico”, ma non a nostro uso e consumo. Con l’esclusione delle due possibilità appena esposte, di procedimenti irrealizzabili in questo genere di scritti, nella mia pur limitata esperienza di studioso, ne conosco davvero talmente pochi che, ora, neppure uno potrei citarne con sicurezza. Neppure l’oro fatto con il basilisco di Teofilo può essere considerato procedimento irrealizzabile, si tratta, infatti di una prescrizione che descrive bene, e in termini facilmente decrittabili, il modo di produrre un bronzo arsenicale, appunto l’oro ispanico, di parvenza quasi indistinguibile da quella del più autentico oro metallico. È sufficiente leggere Olimpiodoro per capire cosa sia il mostro che uccide col solo sguardo o con il fiato o, in altri autori, odore. Ma questa è un'altra storia, troppo lunga, che invece meriterà un simpatico articolo.

Per estendere la verifica di incomprensione alla maggior parte del testo pubblicato da Del Savio, a sola pagina 169 (quella che mi venne a tiro, casualmente, la prima volta che aprii il libro in oggetto e che ora utilizzo come specimen di significativa verifica di densità del problema che andiamo trattando) vediamo brevemente e solo sinteticamente, da ultimo:

Pagina 169, prescrizione [14]:

Ad scribendum litteras aureas cum calamo. Recipe gummi arabici et dissolve in aqua bene et sic modicum de gumma et cum ista aqua mole materiam usque quo remaneat spissa aliqualiter, cui postea adde de succaro candito ad VI panellos quantum sunt duo grana ciceris et totum mole optime et incorporentur. Deinde mitte satis de aqua clara et levetur materia bene cum digito et sine pausare aquam, et discute digitum ne aliquid ei adhereat de s(uper?). Postea leviter eice aquam usque videas movere s(olem?) et iterum mitte de nova aqua et sic faciat tribus vel quatuor vicibus ut gummi in illis aquis solvatur et separetur a s(ole?), et materia siccabitur que servetur munde in vitro. Et quando volueris operari accipe modicum de dicta materia et dissolve aut distempera cum acqua gummata et scribe quod volueris.

Pur non avendo avuto modo di vedere le immagini del manoscritto, è evidente che qui una grave lacuna interessa la prima parte del testo. Manca l’inserimento dell’oro metallico nel composto fluido di gomma arabica a cui seguentemente si aggiungerà zucchero. “Molere” significa in latino pressappoco ciò che noi in italiano intendiamo per “macinare”. È verbo non troppo frequentemente utilizzato nelle prescrizioni medioevali per tecniche di approntamento di colori e ausiliari alla miniatura che in genere preferiscono “terere” e derivati, o anche altri verbi come “pisare”. “Molere” ha comunque sempre relazione alla riduzione in polvere di sostanze dure o compatte, come anche oggi per noi in italiano. Nessuno macina la gomma arabica una volta ben sciolta in acqua e, soprattutto, questa, una volta dissoluta, con la macinazione non si addensa. Poi, basta leggere: qual è la materia che con questa acqua di gomma viene macinata? Forse che si è perso un “s(olem)” dopo “materiam”? Forse altro? Comunque, nella seconda parte della prescrizione un “s(olem)” compare inaspettatamente a rischiararci: Oro. Così sarei forse propenso a scioglier come “s(olem)” anche ciò che Del Savio propone invece sciogliere in “s(uper)”: “Che non resti dell’oro sul dito”; non “che qualcosa non vi aderisca sopra”. Anche se il senso complessivo del discorso non cambia, la maggior preoccupazione dell’autore del testo è più probabilmente per l’oro, piuttosto che per qualcosa che sporchi il dito. E tutto questo, anche per uniformità di scioglimento dell’abbreviatura (probabilmente una s puntata). Difficilmente la stessa abbreviatura si scioglie in due soluzioni diverse nella stessa pagina.

Anche quest’ultimo esempio vale a dimostrare come la comprensione di ciò di cui il testo stia parlando è fondamentale per l’editore nel riconoscere i dissesti, le lacune, così che possibilmente nel testo edito, e pure in nota, provveda almeno a segnalarle con una “crux desperationis”. Queste, come si vede in questo specimen, possono essere molte. Come molte dovrebbero essere le competenze che questo tipo di ecdotica richiede.

Ci fermiamo qui. Ma, la gravità della cosa, che mi par di aver sufficientemente delineato, non è che sia stata scritta in un contributo in un libro. È che sia stata insegnata, e a livelli di formazione direi elevati.


PS: Condivido le generali considerazioni di Giovanni Mazzaferro su un bravo studioso come Mark Clarke, anche se devo aggiungere che le sue ottime considerazioni sull’uso della “crux desperationis” sono state largamente disattese, proprio nei contributi contenuti nel volume che pure ha presentato. Si veda appunto l’ultimo esempio che ho citato. Mi permetto però di dissentire parzialmente da lui, tuttavia, quando questi scrive nella prefazione: “A Lachmannian approach will therefore fail: recipes are not the imperfect witnesses of some lost archetype but are the result of these deliberate reworkings.” C’è opera e opera. Ancora una volta mi permetto di ricordare un aforisma di Michele Barbi, che di testi e tradizioni fluide mi pare si occupò assai: “Ogni testo ha il suo problema”. Andiamoci piano con le soluzioni univoche e perentorie. Per alcuni testi, un moderato ed intelligente uso delle strategie di approccio di derivazione lachmanniana può essere praticabile e dare ottimi risultati. Per altri, certamente, no. Non tutti i testi poi sono “the result of these deliberate reworkings”. Ma che “deliberate”? A volte il risultato è quello di roditure di topi e pesciolini d’argento (Lepisma saccharina, L.), di buchi formati dalla acidità dell’inchiostro, della distrazione o, peggio, dalla più crassa ignoranza di svogliati o improvvisati copisti. Sarebbe lungo il discorso in proposito, lungo almeno quanto la rivisitazione della storia della Filologia. Se alcuni impieghi meccanici del metodo di Lachmann hanno però prodotto anche pessime edizioni, pure la semplificazione dello “state contente umane genti al quia” del manoscritto non è priva di una meccanicità intrinseca che come abbiamo visto per il caso della “colla tartari”, fa rabbrividire. Tocchiamo qui con mano la qualità di queste edizioni.

Dissento, da ultimo, e radicalmente, dal lapidario quanto encomiastico post di Cecilia Frosinini che si trova su academia.edu. a proposito del libro qui oggetto di recensione: “Ottimo compendio dello stato dell’arte sulla questione, bibliografia esaustiva, e impostazione critica ineccepibile”. Credo non sia necessario spiegare perché.



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