Jonathan Schiesaro
Baccio Bandinelli e le anatomie degli scartafacci
Il “Libro del disegno”, l’archivio di famiglia e la questione del “Memoriale”
Berlin, De Gruyer, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Uno scultore e la satira
«Ercole non mi dar che i tuoi vitelli / Ti renderò con tutto il tuo bestiame / Ma il bue l’ha hauto Baccio Bandinelli». Questa terzina anonima, riferita al gruppo scultoreo dell’Ercole e Caco di Baccio Bandinelli (1493-1560) poco dopo il suo scoprimento in Piazza della Signoria a Firenze, nel 1534, proprio a Firenze ebbe certamente enorme successo.
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Baccio Bandinelli, Ercole e Caco, Firenze, Piazza della Signoria Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Già Vasari, nel terzo volume
delle sue Vite giuntine (1568) scrisse che l’opera, posta accanto al David
di Michelangelo, non piacque e che «furono appiccati ancora intorno alla basa
molti versi latini & Toscani», ma non cita la terzina. Louis Alexander
Waldman, nel suo fondamentale Baccio Bandinelli and Art at the Medici Court
scrive che le tre righe impietose nei confronti dell’opera si incontrano in un
manoscritto che presenta una raccolta di composizioni di Alfonso de’ Pazzi
(1509-1555), anche se con calligrafia diversa da quella del testo principale, a
mo’ di aggiunta di un terzo (p. 514). Mi sia consentito aggiungere, a mia
volta, che gli stessi versi compaiono nelle postille manoscritte vergate dal fiorentino Annibale Mancini sulle Vite vasariane (Biblioteca Corsiniana, Roma, segnatura 29.E.4-6); le postille sono databili al 1620 circa. Sono inoltre rintracciabili in un
altro esemplare della Giuntina custodito presso la Biblioteca Nazionale
Centrale di Roma (coll. 71.5 C12): il postillatore è anonimo. In un terzo testimone, conservato a
Montreal, presso il Centre Canadien d’Architecture (Bibliothèque CAGE | W209),
si può vedere una postilla slavata e illeggibile collocata nella stessa
posizione, che non dovrebbe ripetere la terzina, ma certamente commenta la
vicenda.
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Postilla slavata in un esemplare delle Vite giuntine conservato presso il Centre Canadien d'Architecture, Montreal (Bibliothèque CAGE | W209) Su cortese autorizzazione del CCA. |
Solo per dire che Baccio Bandinelli (1493-1560) è passato
alla storia, oltre che come scultore e disegnatore, per le composizioni
satiriche che attirò contro di sé e le testimonianze negative rispetto al suo
carattere e al suo comportamento, prima fra tutte quelle di Benvenuto Cellini
nella sua Autobiografia e di Vasari nella Giuntina. L’uomo, certamente,
non ebbe carattere facile, non fu modesto, non si fece amare e fu molto pieno
di sé, come risulta chiaramente dal Memoriale ai figliuoli che è giunto
sino ai giorni nostri.
Gli scritti di Baccio
Degli scritti di Baccio si è occupato, di recente, Jonathan
Schiesaro in Baccio Bandinelli e le anatomie degli scartafacci, un libro di grande interesse, che, peraltro, è disponibile online in open access e
che potete scaricare qui: https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/9783111256085/html.
Quella di Schiesaro è, di fatto, la "dissezione anatomica" delle carte (gli
scartafacci) provenienti dall’archivio della famiglia Bandinelli, sia che esse
facciano parte ancor oggi di quell'archivio (Fondo Palatino Bandinelli 1-12 presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze) sia che siano andate disperse e oggi siano altrove. Fra queste carte è contenuto il celebre Memoriale
bandinelliano, la cui prima edizione critica uscì nel 1905, a cura di Arduino
Colasanti, sulla rivista tedesca «Repertorium für Kunstwissenschaft», XXVIII,
pp. 407-443. A quasi settant’anni di distanza è stata la volta di Paola
Barocchi a trascrivere e commentare nuovamente il testo nel secondo tomo dei
suoi Scritti d’arte del Cinquecento (pp. 1359-1411). Sia Colasanti sia
Barocchi, al netto di errori di interpretazione che sono di importanza minore, erano
propensi a dare fiducia a quanto si poteva leggere sul manoscritto: il testo
sarebbe stato dettato da Baccio a suo figlio Cesare e risalirebbe, dunque, agli
ultimi anni della vita dello scultore. Saltando passaggi intermedi, va
segnalato che, a cavallo del nuovo millennio, Louis Alexander Waldman ha
dimostrato che le cose non stavano in questa maniera, che il manoscritto è
secentesco e ha individuato in Baccio Bandinelli il Giovane (1579-1636), nipote
di Baccio scultore, l’autore di questo pastiche che ha dichiarato essere
un falso. Per questo motivo Waldman non ha inserito il Memoriale in Baccio
Bandinelli and Art at the Medici Court (2004), raccolta di fonti
documentarie dedicate al grande artista fiorentino.
La valutazione di Schiesaro, che fornisce l’edizione critica del testo, è, alla luce dell’analisi delle carte, più calibrata. L’autore rileva, innanzi tutto, che il Memoriale presenta soprattutto l’intervento di due mani, certamente secentesche: una scrive il testo e l’altra aggiunge centinaia di postille a commento. Mentre la prima è ancora anonima (ma chiaramente Schiesaro sospetta di Francesco, fratello di Baccio il Giovane), le postille sono certamente scritte con la calligrafia del nipote omonimo dello scultore. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che senso ha tutta l’operazione? In realtà va inquadrata nell’ambito della riorganizzazione dell’archivio privato di famiglia, eseguita attorno al 1633-1634, volta a richiedere e conseguire per i nipoti di Baccio il Giovane una patente (tecnicamente, «provanza») di nobiltà familiare. Quella stessa patente era già stata conseguita dal nonno scultore, dichiarato Cavaliere di Santiago da Carlo V attorno al 1530. Chiariamo subito le cose: le prove che stavano a dimostrare l’appartenenza di Baccio (Bartolomeo) Brandini alla nobile famiglia senese dei Bandinelli (il cambio di cognome è proprio di quegli anni) erano costruite ad hoc, certamente in cambio di una dazione di denaro. Questo fatto, naturalmente, non sfuggì ai nemici più acerrimi dello scultore, che non mancarono di scrivere di tutto sulla presunta nobiltà dell’artista. Un secolo dopo, Baccio il Giovane, nell’ambito di un’operazione complessiva di tutela del lignaggio della stirpe, che trovava nella richiesta delle provanze nobiliari la sua ragione immediata, rimise mano a tutte le carte familiari e le riorganizzò. In termini filologici, possiamo discutere all’infinito di come lo fece. La realtà è che operò esattamente come altri eredi di famiglie fiorentine dell’epoca, come Michelangelo il giovane o gli eredi di Vasari: trascrivendo, modificando, a volte interpolando, se necessario. In questo senso, parlare del Memoriale come di un falso non è del tutto corretto: Schiesaro sostiene – e io sono assolutamente d’accordo – che Baccio il giovane non l’abbia presentato come tale in sede di revisione dell’archivio, ma, semplicemente, come trascrizione di un testo più antico. I lettori, probabilmente dei periti chiamati a rilasciare le provanze, chiamati a giudicare su un aspetto molto tecnico, la presunta nobiltà della famiglia, sapevano bene che quel testo non era l’originale del Cinquecento. Che poi l’erede dello scultore abbia ritenuto di aggiungere o inventare particolari, per rendere più persuasivo il discorso sulla nobiltà della stirpe è discorso che ci invita solamente a essere molto cauti nell’interpretare il testo.
Ciò detto, la questione mi sembra un’altra: che valore ha il Memoriale? Non mi sembra eccezionale, se non per aspetti puntuali relativi alla carriera del Bandinelli e come conferma dell’ambizione smisurata del personaggio. I punti più delicati sono, probabilmente quelli in cui Baccio lo scultore dichiara di avere avuto anche una fitta produzione letteraria e che, se la necessità non lo avesse costretto a orientarsi diversamente, proprio alle lettere si sarebbe dedicato interamente, invece che al disegno e alle arti. In questa sezione è citata la composizione di oltre duecento sonetti, diciotto canzoni e due trionfi (p. 171) e altre opere relative alle arti: «Tra le altre cose, figlioli mia, che io vi lascio, sono prima alcuni dialoghi con Giotto sopra la scultura e disegno [n.d.r. ne riporta l’incipit], un libro, quale sia più nobile, la pittura o la scultura, con la dedicatoria al duca Cosimo [n.d.r. ne riporta l’incipit], un libro di disegno in 70 capitoli [n.d.r. baldunune riporta l’incipit]; un altro libro pure del disegno, il principio del quale è questo: «Disegno è una dispositione di infinite e varie specie, formate in tanti vari modi, come la maestà della natura ci mostra di continuo, le quali specie nelle umane menti si formano, etc.»; l’Accademia [ne riporta l’incipit]; item della architettura, tempi, colonne, colossi, etc; un libro della vera nobiltà […]; un raccolto di più sermoni […], un raccolto di lettere a diversi e di diversi principi e particolari […], etc.». Fantasie, invenzioni? Forse in parte, ma non in toto, tenuto conto che nel 2004 Waldman ha pubblicato, dopo averli rintracciati presso la Biblioteca Moreniana di Firenze, due lunghi frammenti di un testo, d’ora in poi chiamato Libro del disegno, che comincia proprio in questa maniera: «Disegno è una dispositione di infinite e varie specie, formate in tanti vari modi, come la maestà della natura ci mostra di continuo, le quali specie nelle umane menti si formano».
Il Libro del disegno
Alla luce di questa scoperta, credo che una rivalutazione sulla
produzione letteraria di Bandinelli giunta sino a noi vada formulata: il Libro
del disegno, pur ampiamente frammentario, è molto più interessante del
Memoriale. Anche del Libro Schiesaro fornisce un’ottima edizione
critica. Il testo è contenuto in in due bifoli, il primo dei quali, ordinato, certamente trascritto da uno scriba, e il secondo, invece, lacunoso, ancora nella calligrafia dell'artista. Dove sta l’importanza del testo? Nell’attribuire al disegno una
valenza metafisica riconducibile alla causa prima di tutte le cose, ossia a Dio:
negli esseri umani esiste un istinto a imitare il più possibile Dio «che prima
disegnò, poi rilievò [n.d.r. scolpì], di poi dipinse et dette lo spirito et il
moto a tutte le cose» (p. 82). Il disegno, dunque, è operazione divina, che
precede la creazione e l’artefice a esso si richiama prima di creare.
Schiesaro interpreta queste affermazioni come una risposta
indiretta alle lezioni accademiche tenute da Benedetto Varchi sulle arti nel
1547. Varchi e Bandinelli non si amavano; non è certo un caso che lo
scultore resti fuori dall’indagine promossa presso gli artisti sul primato fra
pittura e scultura. Possiamo, peraltro, operare altre osservazioni. Nel 1549
Anton Francesco Doni pubblica a Venezia (dove era scappato da Firenze per il
fallimento della sua tipografia a fine del 1547) un libretto intitolato Disegno,
in cui, esattamente come Bandinelli, e diversamente da Varchi o Vasari, in un
contesto dominato dal michelangiolismo, attribuisce al disegno un valore
filosofico, quasi metafisico: in Doni siamo di fronte a una «speculazione
divina, che produce un’arte eccellentissima, talmente che tu non puoi operare
cosa nessuna nella scoltura e nella pittura senza la guida di questa
speculazione e disegno». Doni e Bandinelli si conobbero. Sia pur poche, abbiamo
chiare prove in merito. Quando Bandinelli, nel 1530, si preoccupò di trovare
presso i presunti parenti senesi le conferme della sua nobiltà inviò nella
città del Palio proprio Anton Francesco Doni (la circostanza è confermata da una
lettera di quest’ultimo). Bandinelli sposò una Doni, cugina alla lontana del
poligrafo, che divenne così suo parente acquisito: Carlo Alberto Girotto ha
rintracciato altri elementi di frequentazione in anni tardi; sull’argomento si
è soffermato anche Stefano Pierguidi. Anche se non è del tutto chiaro il
rapporto che ci fu tra i due (Doni era più giovane di vent’anni di Baccio e
quando fu mandato a Siena ne aveva appena diciassette) è probabilissimo che i
due abbiano avuto di confrontarsi sui temi del disegno, forse in quella
primavera del 1547 in cui Varchi tenne le sue lezioni a Firenze e Doni era ancora nella
città toscana. Come se non bastasse, nella sesta e ultima parte del suo
libretto, Anton Francesco chiama un giudice a esprimersi sull’importanza del
disegno e sulla preminenza fra scultura e pittura, risolta a favore della
prima: quel giudice è, guarda caso, «Baccio disegnatore miracoloso» (si badi
bene: prima disegnatore, e poi scultore). È evidente che i due scrivono le loro
opere partecipando di uno stesso humus culturale. Non andrei oltre, non
cercherei derivazioni dirette di uno dall’altro anche perché quell’humus,
certamente, non riguarda solo Doni e Bandinelli: nel gennaio 1549, ad esempio,
Francisco de Hollanda scrive il Da pintura antiga; senz’altro vero che,
questa volta, l’autore colloca la pittura sopra scultura e architettura, ma
altrettanto interessante è che anch’egli, chiaramente mutuando dalla sua
esperienza italiana, scrive un trattato in cui i temi neoplatonici sono
evidentissimi: «Sicché l’idea è veramente nella pittura la più alta cosa che
possa essere immaginata dagli intelletti, perché, giacché è opera
dell’intelletto e dello spirito, le conviene di essere molto conforme a se
stessa; e una volta ottenuto questo, le conviene di andarsi elevando ogni volta
di più e facendosi spirito, e di andarsi a mescolare con la fonte e l’esemplare
delle prime idee, che è Dio»
Ancora sul Libro del disegno
Nei frammenti che sono giunti sino a noi, oltre alla natura
del disegno, si può aver conferma dello spirito pedagogico con cui si muove
Bandinelli: «mi sforzerò mostrare ai teneri fanciulli la medesima via et modi
per facilitare et aprire loro la via, tanto dificile scientia et tanta lungha
pratica della quale si vede certo che infiniti si affaticano el tempo della lor
vita et no aqquiston tanto di essa arte che con essa si possin dar le spese»
(p. 83). Gli errori possono essere dovuti a insegnamenti sbagliati, ma anche al rifiuto
di fornirli: «Una altra spetie di maestri ci sono nella arte, che potrebano et saprebbano,
ma non vogliano, tanto sono accecati dalla maligna natura et pessima invidia et
di questi de’ secol nostro ne è più che mai fussi […] parendomi molto crudeli e
scellerati quegli maestri valentti nell’arte che ogni honore et bene ànno
conseguito pe’ buoni principi et buone et brieve vie che dai passati maestrii
sono state loro insegnata […] Et questi maligni et pessimi costumi sono nei
maestri di oggi schultori et pittori che, per non insegnare et da lor modi si
impari, operano segreti et serrati, con certa debole scusa di essere
fantastichi» (ibidem). Si tratta, per molti versi, di un topos;
chiarendo che si tratta di una mia suggestione personale e che l’autore non è
minimamente coinvolto, mi chiedo se non vi si possa leggere anche un'allusione a Michelangelo.
Esiste poi un’intima contraddizione che vale la pena
sottolineare. Più volte Bandinelli parla di una «grazia» o «bellezza» di
ispirazione divina «che da’ cieli viene negli ingegni humani et dalli ingegni
nell’atto et operation dei sensi» (p. 87). In questa logica è perfettamente
consequenziale l’affermazione secondo la quale «d’ogni minima cosa debbi
cercare assai più la gratia che le misure» (pp. 88-89). Tuttavia, Baccio
finisce proprio per occuparsi di misure, trattando le proporzioni degli esseri
umani e, nel secondo frammento, in particolare, quelle dei bambini (intendeva
fare lo stesso per uomini, anziani, donne etc). Si tratta di misure che sono
fornite con estrema dovizia di particolari. Perché? Da notare che la stessa, identica situazione vede coinvolto Baccio, questa volta come personaggio
letterario, nell’ultima parte del Disegno doniano: qui, in bocca al
disegnatore sono poste le misure della testa. Quello delle misure dell’uomo è
un problema che ha radici antichissime e che negli anni Trenta del Cinquecento
ha trovato negli scritti in latino di Dürer la loro più evidente
manifestazione. Vi si contrappone la «licenza nella regola» che è cifra
caratteristica della maniera moderna e che vede Michelangelo raccomandarsi di
avere «le seste negli occhi». Ma io qui vorrei sottolineare l’importanza del
lessico architettonico, da cui Bandinelli attinge a piene mani. Nel 1537
Sebastiano Serlio ha pubblicato il Libro IV del suo trattato (Regole
generali di architettura) dedicato agli ordini architettonici. Vitruvio non
è più un testo su cui riflettere, ma un canone da rispettare. Partendo dalle
colonne si può riconoscere e ricostruire l’aspetto di un tempio. Le misure,
naturalmente, hanno a loro volta spiegazione antropomorfa. È solo tenendo presente
tutto questo che si può capire come Bandinelli possa scrivere: «E per
prociedere cho’ debiti mezi, i’ modo che disciepoli chome maestri fati ne
posino chavare bono chostruto, comincieremo a schrivere li ordini e misure de’
picholi banbini e andremo sino a l’ultima età» (p. 96). Anche i bambini sono
risolti in termini di ordini, anche i bambini sono colonne. Siamo in un tempo di confine, in cui forze
centripete (la regola) e centrifughe (la licenza) si confrontano fra loro e lasciano evidente traccia di
loro proprio nel lessico utilizzato dagli scrittori.
Da ultimo
Mi si lasci dire un’ultimissima cosa: per acribia, coerenza,
capacità di attenersi al dato d’archivio senza forzarlo, questo è un lavoro
esemplare. La ricerca si fa così. Leggo che questa monografia nasce dalla tesi
di dottorato di Schiesaro. Abbiamo un nuovo ricercatore degno di questo titolo,
a cui auguro ogni fortuna nei decenni a venire.
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