Ilaria Serati
Giacomo Carrara (1714-1796) e la letteratura artistica.
Roma, Campisano, 2024 (ma 2025)
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Giacomo Carrara, uomo dei suoi
tempi.
Giacomo Carrara è frequente ospite
delle recensioni contenute in questo blog, ma il libro di Ilaria Serati è
strumento che si fa apprezzare per comprenderne meglio la cultura visiva e soffermarsi
sulla rete delle conoscenze del conte bergamasco, noto a tutti per aver fondato
la locale scuola di pittura, nel 1794, e aver destinato alla medesima la sua
galleria di quadri nel 1796. L’odierna Accademia Carrara, insomma, esiste
grazie al conte bergamasco. Ciò detto, è doveroso dire che un suo inquadramento
nell’ambito della storia della letteratura artistica è sempre stato difficoltoso
perché il conte, in realtà, non pubblicò mai nulla di suo. Da dove cominciare?
L’epistolario – come fa Ilaria Serati - mi pare un ottimo punto di partenza.
Anche qui bisogna capirsi: conoscevamo già molte lettere del conte indirizzate
a corrispondenti diversi, grazie alle quali – oltre agli attestati pubblici di
ringraziamento – appare chiaro come Carrara collaborò con vari eruditi del
Settecento nella raccolta di informazioni relative ad artefici soprattutto
bergamaschi: i casi del
conte Tassi e delle sue Vite, di Giovanni Gaetano Bottari e
della relativa Raccolta di lettere ci sono ben noti e alle relative
recensioni si rimanda; più recenti le puntualizzazioni sulla collaborazione fra
il conte e Antonio
Francesco Albuzzi per le Memorie della storia degli artefici
milanesi; e, ancora, Giovanna Perini
Folesani non ha mancato di sottolinearne la frequentazione epistolare con
Luigi Crespi. Carrara, insomma, è voce interpellata da queste e altre
figure del Settecento italiano, da Carlo Giuseppe Ratti per Genova a Francesco
Bartoli per la Guida di Bergamo del 1774 e per il fallito e aleatorio
tentativo di approntare volumi dedicati a pitture, sculture e architetture dei
principali edifici religiosi in Italia. Il volume presenta un’amplissima
selezione dell’epistolario attivo e passivo di Carrara (in termini quantitativi
è maggiore il numero delle lettere inviate al conte di quelle da lui spedite) e
piace, senza dubbio, leggere tutte insieme queste missive, molte delle quali
rimaste inedite o addirittura di nuova scoperta, divise per nuclei geografici,
fra Bergamo, Roma, Venezia, Bologna e Milano. Piace, innanzi tutto, perché ogni
lettera ha una valenza ben superiore alla singola unità e compone il tassello
di un mosaico ben più ampio che delinea la fittissima trama degli scambi di
informazioni a fini eruditi, ma anche commerciali, del Settecento italiano.
Conosciamo molti altri esempi in proposito (mi viene in mente ad esempio la
recente pubblicazione del carteggio del veneziano Antonio
Maria Zanetti di Girolamo) e il vero interrogativo, ogni volta, è capire la
cultura visiva del personaggio da cui si dipartono o a cui arrivano le missive.
Non si sottrae all’ingrato compito nemmeno Ilaria Serati, che mi pare assuma
una posizione molto equilibrata e del tutto condivisibile: Carrara non fu un
puro compilatore che collazionava da opere altrui, pur non essendo nemmeno un
conoscitore nel senso ottocentesco del termine. Percepì l’importanza di
affiancare alle testimonianze scritte o alla tradizione orale la visione delle
opere al fine di definire le «maniere» dei singoli artisti, e
contemporaneamente non fu però capace di sviluppare una propria, convincente
classificazione di tali maniere che si affrancasse dalle medesime
testimonianze. Capì, insomma, di essere di fronte a una sfida; non sempre la
vinse, ma comprese che qualcosa doveva cambiare. Certamente il conte godette di
ampio credito da parte dei suoi interlocutori, al di là di ogni forma di
piaggeria che fa bella mostra di sé, spessissimo, nelle missive. Così, ad esempio,
mi pare molto indicativa l’attestazione di Bottari che, nel 1764, dopo averlo
conosciuto a Roma qualche anno prima, gli scrive (p. 132): «Si dia gloria a
Dio, ho conosciuto molti cavalieri che hanno fatto professione solenne d’essere
intelligenti e di buon gusto, e niuno ne ho trovato a un gran pezzo fornito
della perizia che ho ammirato in lei, onde mi ha sommamente rallegrato la
speranza che mi dà di poterla qui rivedere». Se a ciò si aggiunge che lo stesso
Bottari, annusando vicina la morte, propose spontaneamente proprio a Carrara di
continuare la sua impresa della pubblicazione delle Lettere pittoriche,
emerge chiaramente il senso di un uomo che aveva una credibilità da spendere
fra gli intendenti di pittura.
Non sempre il conte seppe percepire
le novità. In una celebra lettera a Carlo Bianconi, nel 1792, scrisse che
l’abate Lanzi lo aveva visitato a Bergamo nell’ambito del suo viaggio per la
redazione della seconda edizione della sua Storia
pittorica. Carrara gli aveva messo a disposizione la sua pinacoteca e
vi aveva parlato a lungo, e il risultato era stato questo: «A dire il vero,
oltre l’esser corto di vista, quasi nulla conosce di autori tutto che della
scuola romana fiorentina, della qual intendo che abbia scritto e che faccia
questo viaggetto per scrivere ancora della Lombarda e Venezia. Confesso la
verità: che io non so come uno possa sensatamente caratterizzare le scuole
dando le precise differenze dall’una all’altra quando non sia in possesso del
carattere de’ principali autori delle mede[si]me, se non col copiare e riferire
quanto è stato scritto dalli altri» (p. 274). La lettera testimonia senza
dubbio l’impreparazione di Lanzi sulle maniere degli artisti della scuola
lombarda (e che fu ancora un protoconoscitore, in questo senso). Mi chiedo però
se il giudizio possa essere inquadrato in un contesto più ampio, in cui
potrebbe ricadere analogo atteggiamento nei confronti del padre Della Valle,
manifestato nella stessa lettera: «A dir vero gli scritti di tali autori io
nulla li reputo e resto anzi sorpreso che abbiano coraggio di scrivere, non
essendo essi in caso, come dice il proverbio milanese, che di copiare della
carta e metter in pagine».
Carrara e i primitivi
Vengo al punto e vorrei chiarire che l’ipotesi è soltanto mia e non riguarda il commento dell’autrice, in merito al quale, in linea di massima, non ho nulla da dire, visto che mi pare estremamente puntuale. La questione è che la lettura delle epistole è sempre fonte di stimolo e, a volte, porta a suggestioni di cui spero valga la pena parlare. Mi chiedo se la mancata sintonia fra Carrara e Lanzi o Della Valle non sia dovuta, almeno in parte, a un diverso atteggiamento nei confronti dei primitivi. In Carrara, a dire il vero, non fu nullo; lo testimonia il fatto che, per la sua collezione, comprò la Crocifissione del Foppa, oggi all’Accademia bergamasca.
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Vincenzo Foppa, Crocifissione, Bergamo, Accademia Carrara Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Vincenzo_foppa,_tre_crocifissi.jpg |
Ma è fuori di dubbio che, quando Giacomo parla di
antichi, faccia riferimento soprattutto al Cinque e al Seicento. Il suo antico
per eccellenza, ad esempio, è il Salmeggia, il Raffaello bergamasco. C’è a
questo proposito una lettera bellissima, indirizzata a Bottari il 6 dicembre
1759, che spiega con rara chiarezza le difficoltà di un intendente di livello,
come Carrara, di fronte al primitivo. In tutta onestà, io non ricordo se sia
già stata commentata. Nel dubbio la trascrivo quasi interamente. Vi prego di
leggerla tenendo a mente quante volte rimproveriamo ai testimoni dei Sei e
Settecento il fatto, letteralmente, di non vedere (e quindi non lasciar
traccia) delle opere del Tre e Quattrocento nelle loro guide o nei resoconti di
viaggio:
«Nelle vite de’ pittori della nostra
patria [n.d.r. Bergamo] prima del 1500 ne abbiamo ritrovati parecchi, ma alla
riserva [n.d.r. ad eccezione] di pochi possiamo con certezza attribuirli
qualche opera poiché la maggior parte delle opere è senza millesimo [n.d.r.
senza indicazione dell’anno] e nome d’autore alcuno, così che abbiamo
moltissime opere, tra le quali alcune ancora di notabile pregio per que’ tempi,
essendo certamente del 1300 e forsi prima, non molto dissimili da quelle di
Giotto da me attentamente esaminate in più lochi, e spezialmente il san
Francesco in Santa Croce di Firenze e le opere del Campo Santo di Pisa, e molto
migliori di quelle di Cimabue, da me prima diligentemente osservata in Firenze
suddetta. Ma come dissi, per lo più non si sa a chi attribuirle. Pel contrario,
poi, ritroviamo negli archivi vari nomi di pittori di quei tempi de’ quali, per
lo più, non sappiamo rintracciare alcuna opera. Da tutto ciò però evidentemente
rilevasi che la pittura ancor a que’ tempi sparsa era per tutta Italia, sebbene
forsi con qualche disparità di merito de’ pittori, sicome succede anche in
presente et è succeduto nell’1500, con questa disparità però: che nel 1500 le
maniere che si sono formate sono molto fra di loro diverse, e pel contrario
quelle del 1400 e de’ secoli anteriori sono poco dissimili, di que’ pittori
però che vivevano in uno stesso tempo, mentre anche nei suddetti primi tempi vi
era qualche differenza da un secolo all’altro […]. Questo è quanto mi è
accaduto di rilevare nel confronto delle antiche pitture da me diligentemente
esaminate in quasi tutte le città d’Italia.» (p. 129).
Carrara, dunque, vede anche i
primitivi, ma non sa leggerli. Poco importa, in questo senso, che i suoi
riferimenti siano sbagliati: il San Francesco di Giotto a Santa Croce
non può esser la cappella Bardi con Storie del Santo, scialbata a inizio
Settecento e recuperata solo a metà Ottocento; e, ovviamente, al Camposanto di
Pisa Giotto non c’è. Il problema, per Carrara, è che le maniere dei primitivi sono
poche perché sono tutte simili, mentre solo dal Cinquecento cominciano a
diventare tante. Questo il motivo per cui non è nemmeno abbozzato un tentativo
di lettura stilistica: si resta con opere senza anni e senza nome e con archivi
pieni di nomi a cui non si sanno abbinare quadri. Carrara avrebbe potuto
aggiungere che, in fondo, le opere del Trecento sono tutte fondo oro, senza
prospettiva, senza velature e non ci sarebbe stato nulla di strano, per i tempi.
La sua non è un’incapacità personale a leggere l’opera d’arte, ma la
conseguenza evidente di un’educazione, proposta sia all’artista sia al
dilettante, che si basa sulla divisione delle opere in parti (disegno, colore,
composizione, etc etc) e che non insegna ad avere una visione critica di tutto
ciò che non si può ridurre a questa griglia valutativa. In questo senso, io non
dubito che Lanzi e Della Valle sapessero pochissimo di pittura lombarda;
certamente mostravano un interesse più spiccato nei confronti dei primitivi,
interesse che il conte non comprendeva. Giacomo Carrara, insomma, mi pare
pienamente un uomo del Settecento, un esponente dei tempi suoi.
L’Abecedario pittorico e
le stampe di traduzione.
E siccome fu un uomo dei tempi suoi,
va, a mio avviso sottolineato che, se c’è un protagonista delle missive giunte
o spedite a Giacomo, questo non è un uomo, ma l’Abecedario pittorico,
questa pubblicazione fortunatissima, edita per la prima volta da padre
Pellegrino Orlandi nel 1704 e poi ristampata, aggiornata, imitata in infinite
occasioni nel corso del secolo. In quasi tutte le lettere l’Abecedario,
di qualsiasi edizione si stia parlando, è considerato uno strumento
indispensabile di lavoro, lo strumento per eccellenza a disposizione degli
intendenti nel Secolo dei Lumi; poi se ne maledicono le tantissime inesattezze,
si progettano nuove edizioni, si fa dell’ironia sulle nuove edizioni (p. 141), si
afferma (il povero Bottari, le cui missive sono commoventi) che rifarlo sarebbe
un’impresa erculea e richiederebbe decenni di lavoro. Anche Carrara preparò
delle Giunte destinate a un ipotetico aggiornamento dell’opera, Giunte
che, a suo tempo, sono state pubblicate da Marina Magrini [1]. È evidente lo
«spirito del tempo». L’Abecedario pittorico perfetto non esiste; anzi,
siamo di fronte a una sorte di Wikipedia del Settecento, zeppa di errori; ma se
esistesse, se qualcuno avesse la forza di scriverlo, se una rete di eruditi si
riunisse e operasse in tal senso, gli intendenti conoscerebbero le maniere di
tutti gli artefici e ogni problema sarebbe risolto. Sul fronte delle immagini,
poi, l’equivalente dell’Abecedario sono le traduzioni a stampa, oggetti
costosissimi per chi li produce e per chi li compra, ma indispensabili per
divenire intendenti. Nemmeno Giacomo sfugge alla moda; anch’egli pensa di far
incidere le opere della sua pinacoteca per dar modo ai dilettanti di conoscere
le maniere. Quello di Carrara non è intento autocelebrativo, ma didattico, lo
stesso che lo porta a progettare la nascita di una scuola di pittura, a beneficio
dei giovani e degli amatori.
Il restauro.
Un’ultimissima osservazione sul
restauro, ancora una volta partendo dallo stralcio di una lettera, questa volta
indirizzata a Luigi Crespi (che si quest’aspetto predicava bene e razzolava
malissimo) il 17 marzo 1772: «Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima sa
quante vicende abbia corso il Cenacolo di Leonardo da Vinci poiché fu perfino
imbiancato, indi, levato il bianco, accomodato con molti non necessari ritocchi
del pittore Belotti, sì che si poteva dire per la massima parte rifatto. Ora
Giuseppe Mazza da Locarno ha levati di novo tutti li ritocchi del detto Belotti
e ridotti tutti li avanzi dell’originale vergini e puri, sulla traccia de’
quali con infinita diligenza, maestria e ricerca ritoccandolo, l’ha messo in
stato da tenersi ancormò per una delle più belle opere d’Italia» (pp. 248-249).
Il biasimo rivolto a Belotti non è metodologico; non si contesta il fatto di
aver ritoccato il Cenacolo, ma di averlo fatto male, cioè senza seguire
la maniera di Leonardo. Tutto ciò spiega perché Carrara possa dire che, una
volta rimossi gli interventi di Belotti, Mazza abbia effettuato un nuovo
restauro mimetico, che questa volta ha reso l’opera una delle più belle
d’Italia. Ci fu un lungo dibattito su quel restauro e il fatto che Mazza fosse
amico di Carrara certo non depone a favore della testimonianza. Ciò che conta,
tuttavia, è ancora una volta l’aspetto concettuale; il restauro cavalcaselliano
è ancora ben al di là da venire. Ancora nel secondo decennio dell’Ottocento, a un
anziano Pietro Edwards, uomo del Settecento, che chiedeva di istituire una
scuola di restauro in Accademia a Venezia, fu risposto che era impossibile e
inutile, perché troppo sarebbero state le maniere da imitare ed era impossibile
che un bravo restauratore le conoscesse tutte. Carrara mai pensò di istituire
una sezione di restauro nella sua scuola di pittura; lui, uomo del Settecento,
la pensava esattamente alla stessa maniera.
NOTE
[1] Marina Magrini, Giunte
all’Abecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi compilate dal conte
Giacomo Carrara, in «Saggi e memorie di storia dell’arte», XIX, 1994, pp.
275-318.
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