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martedì 6 maggio 2025

Ilaria Serati. Giacomo Carrara (1714-1796) e la letteratura artistica.

 

Ilaria Serati
Giacomo Carrara (1714-1796) e la letteratura artistica.


Roma, Campisano, 2024 (ma 2025)

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 



Giacomo Carrara, uomo dei suoi tempi.

Giacomo Carrara è frequente ospite delle recensioni contenute in questo blog, ma il libro di Ilaria Serati è strumento che si fa apprezzare per comprenderne meglio la cultura visiva e soffermarsi sulla rete delle conoscenze del conte bergamasco, noto a tutti per aver fondato la locale scuola di pittura, nel 1794, e aver destinato alla medesima la sua galleria di quadri nel 1796. L’odierna Accademia Carrara, insomma, esiste grazie al conte bergamasco. Ciò detto, è doveroso dire che un suo inquadramento nell’ambito della storia della letteratura artistica è sempre stato difficoltoso perché il conte, in realtà, non pubblicò mai nulla di suo. Da dove cominciare? L’epistolario – come fa Ilaria Serati - mi pare un ottimo punto di partenza. Anche qui bisogna capirsi: conoscevamo già molte lettere del conte indirizzate a corrispondenti diversi, grazie alle quali – oltre agli attestati pubblici di ringraziamento – appare chiaro come Carrara collaborò con vari eruditi del Settecento nella raccolta di informazioni relative ad artefici soprattutto bergamaschi: i casi del conte Tassi e delle sue Vite, di Giovanni Gaetano Bottari e della relativa Raccolta di lettere ci sono ben noti e alle relative recensioni si rimanda; più recenti le puntualizzazioni sulla collaborazione fra il conte e Antonio Francesco Albuzzi per le Memorie della storia degli artefici milanesi;  e, ancora, Giovanna Perini Folesani non ha mancato di sottolinearne la frequentazione epistolare con Luigi Crespi. Carrara, insomma, è voce interpellata da queste e altre figure del Settecento italiano, da Carlo Giuseppe Ratti per Genova a Francesco Bartoli per la Guida di Bergamo del 1774 e per il fallito e aleatorio tentativo di approntare volumi dedicati a pitture, sculture e architetture dei principali edifici religiosi in Italia. Il volume presenta un’amplissima selezione dell’epistolario attivo e passivo di Carrara (in termini quantitativi è maggiore il numero delle lettere inviate al conte di quelle da lui spedite) e piace, senza dubbio, leggere tutte insieme queste missive, molte delle quali rimaste inedite o addirittura di nuova scoperta, divise per nuclei geografici, fra Bergamo, Roma, Venezia, Bologna e Milano. Piace, innanzi tutto, perché ogni lettera ha una valenza ben superiore alla singola unità e compone il tassello di un mosaico ben più ampio che delinea la fittissima trama degli scambi di informazioni a fini eruditi, ma anche commerciali, del Settecento italiano. Conosciamo molti altri esempi in proposito (mi viene in mente ad esempio la recente pubblicazione del carteggio del veneziano Antonio Maria Zanetti di Girolamo) e il vero interrogativo, ogni volta, è capire la cultura visiva del personaggio da cui si dipartono o a cui arrivano le missive. Non si sottrae all’ingrato compito nemmeno Ilaria Serati, che mi pare assuma una posizione molto equilibrata e del tutto condivisibile: Carrara non fu un puro compilatore che collazionava da opere altrui, pur non essendo nemmeno un conoscitore nel senso ottocentesco del termine. Percepì l’importanza di affiancare alle testimonianze scritte o alla tradizione orale la visione delle opere al fine di definire le «maniere» dei singoli artisti, e contemporaneamente non fu però capace di sviluppare una propria, convincente classificazione di tali maniere che si affrancasse dalle medesime testimonianze. Capì, insomma, di essere di fronte a una sfida; non sempre la vinse, ma comprese che qualcosa doveva cambiare. Certamente il conte godette di ampio credito da parte dei suoi interlocutori, al di là di ogni forma di piaggeria che fa bella mostra di sé, spessissimo, nelle missive. Così, ad esempio, mi pare molto indicativa l’attestazione di Bottari che, nel 1764, dopo averlo conosciuto a Roma qualche anno prima, gli scrive (p. 132): «Si dia gloria a Dio, ho conosciuto molti cavalieri che hanno fatto professione solenne d’essere intelligenti e di buon gusto, e niuno ne ho trovato a un gran pezzo fornito della perizia che ho ammirato in lei, onde mi ha sommamente rallegrato la speranza che mi dà di poterla qui rivedere». Se a ciò si aggiunge che lo stesso Bottari, annusando vicina la morte, propose spontaneamente proprio a Carrara di continuare la sua impresa della pubblicazione delle Lettere pittoriche, emerge chiaramente il senso di un uomo che aveva una credibilità da spendere fra gli intendenti di pittura.

Non sempre il conte seppe percepire le novità. In una celebra lettera a Carlo Bianconi, nel 1792, scrisse che l’abate Lanzi lo aveva visitato a Bergamo nell’ambito del suo viaggio per la redazione della seconda edizione della sua Storia pittorica. Carrara gli aveva messo a disposizione la sua pinacoteca e vi aveva parlato a lungo, e il risultato era stato questo: «A dire il vero, oltre l’esser corto di vista, quasi nulla conosce di autori tutto che della scuola romana fiorentina, della qual intendo che abbia scritto e che faccia questo viaggetto per scrivere ancora della Lombarda e Venezia. Confesso la verità: che io non so come uno possa sensatamente caratterizzare le scuole dando le precise differenze dall’una all’altra quando non sia in possesso del carattere de’ principali autori delle mede[si]me, se non col copiare e riferire quanto è stato scritto dalli altri» (p. 274). La lettera testimonia senza dubbio l’impreparazione di Lanzi sulle maniere degli artisti della scuola lombarda (e che fu ancora un protoconoscitore, in questo senso). Mi chiedo però se il giudizio possa essere inquadrato in un contesto più ampio, in cui potrebbe ricadere analogo atteggiamento nei confronti del padre Della Valle, manifestato nella stessa lettera: «A dir vero gli scritti di tali autori io nulla li reputo e resto anzi sorpreso che abbiano coraggio di scrivere, non essendo essi in caso, come dice il proverbio milanese, che di copiare della carta e metter in pagine».

 

Carrara e i primitivi

Vengo al punto e vorrei chiarire che l’ipotesi è soltanto mia e non riguarda il commento dell’autrice, in merito al quale, in linea di massima, non ho nulla da dire, visto che mi pare estremamente puntuale. La questione è che la lettura delle epistole è sempre fonte di stimolo e, a volte, porta a suggestioni di cui spero valga la pena parlare. Mi chiedo se la mancata sintonia fra Carrara e Lanzi o Della Valle non sia dovuta, almeno in parte, a un diverso atteggiamento nei confronti dei primitivi. In Carrara, a dire il vero, non fu nullo; lo testimonia il fatto che, per la sua collezione, comprò la Crocifissione del Foppa, oggi all’Accademia bergamasca. 

Vincenzo Foppa, Crocifissione, Bergamo, Accademia Carrara
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Vincenzo_foppa,_tre_crocifissi.jpg


Ma è fuori di dubbio che, quando Giacomo parla di antichi, faccia riferimento soprattutto al Cinque e al Seicento. Il suo antico per eccellenza, ad esempio, è il Salmeggia, il Raffaello bergamasco. C’è a questo proposito una lettera bellissima, indirizzata a Bottari il 6 dicembre 1759, che spiega con rara chiarezza le difficoltà di un intendente di livello, come Carrara, di fronte al primitivo. In tutta onestà, io non ricordo se sia già stata commentata. Nel dubbio la trascrivo quasi interamente. Vi prego di leggerla tenendo a mente quante volte rimproveriamo ai testimoni dei Sei e Settecento il fatto, letteralmente, di non vedere (e quindi non lasciar traccia) delle opere del Tre e Quattrocento nelle loro guide o nei resoconti di viaggio:

«Nelle vite de’ pittori della nostra patria [n.d.r. Bergamo] prima del 1500 ne abbiamo ritrovati parecchi, ma alla riserva [n.d.r. ad eccezione] di pochi possiamo con certezza attribuirli qualche opera poiché la maggior parte delle opere è senza millesimo [n.d.r. senza indicazione dell’anno] e nome d’autore alcuno, così che abbiamo moltissime opere, tra le quali alcune ancora di notabile pregio per que’ tempi, essendo certamente del 1300 e forsi prima, non molto dissimili da quelle di Giotto da me attentamente esaminate in più lochi, e spezialmente il san Francesco in Santa Croce di Firenze e le opere del Campo Santo di Pisa, e molto migliori di quelle di Cimabue, da me prima diligentemente osservata in Firenze suddetta. Ma come dissi, per lo più non si sa a chi attribuirle. Pel contrario, poi, ritroviamo negli archivi vari nomi di pittori di quei tempi de’ quali, per lo più, non sappiamo rintracciare alcuna opera. Da tutto ciò però evidentemente rilevasi che la pittura ancor a que’ tempi sparsa era per tutta Italia, sebbene forsi con qualche disparità di merito de’ pittori, sicome succede anche in presente et è succeduto nell’1500, con questa disparità però: che nel 1500 le maniere che si sono formate sono molto fra di loro diverse, e pel contrario quelle del 1400 e de’ secoli anteriori sono poco dissimili, di que’ pittori però che vivevano in uno stesso tempo, mentre anche nei suddetti primi tempi vi era qualche differenza da un secolo all’altro […]. Questo è quanto mi è accaduto di rilevare nel confronto delle antiche pitture da me diligentemente esaminate in quasi tutte le città d’Italia.» (p. 129).

Carrara, dunque, vede anche i primitivi, ma non sa leggerli. Poco importa, in questo senso, che i suoi riferimenti siano sbagliati: il San Francesco di Giotto a Santa Croce non può esser la cappella Bardi con Storie del Santo, scialbata a inizio Settecento e recuperata solo a metà Ottocento; e, ovviamente, al Camposanto di Pisa Giotto non c’è. Il problema, per Carrara, è che le maniere dei primitivi sono poche perché sono tutte simili, mentre solo dal Cinquecento cominciano a diventare tante. Questo il motivo per cui non è nemmeno abbozzato un tentativo di lettura stilistica: si resta con opere senza anni e senza nome e con archivi pieni di nomi a cui non si sanno abbinare quadri. Carrara avrebbe potuto aggiungere che, in fondo, le opere del Trecento sono tutte fondo oro, senza prospettiva, senza velature e non ci sarebbe stato nulla di strano, per i tempi. La sua non è un’incapacità personale a leggere l’opera d’arte, ma la conseguenza evidente di un’educazione, proposta sia all’artista sia al dilettante, che si basa sulla divisione delle opere in parti (disegno, colore, composizione, etc etc) e che non insegna ad avere una visione critica di tutto ciò che non si può ridurre a questa griglia valutativa. In questo senso, io non dubito che Lanzi e Della Valle sapessero pochissimo di pittura lombarda; certamente mostravano un interesse più spiccato nei confronti dei primitivi, interesse che il conte non comprendeva. Giacomo Carrara, insomma, mi pare pienamente un uomo del Settecento, un esponente dei tempi suoi.

 

L’Abecedario pittorico e le stampe di traduzione.

E siccome fu un uomo dei tempi suoi, va, a mio avviso sottolineato che, se c’è un protagonista delle missive giunte o spedite a Giacomo, questo non è un uomo, ma l’Abecedario pittorico, questa pubblicazione fortunatissima, edita per la prima volta da padre Pellegrino Orlandi nel 1704 e poi ristampata, aggiornata, imitata in infinite occasioni nel corso del secolo. In quasi tutte le lettere l’Abecedario, di qualsiasi edizione si stia parlando, è considerato uno strumento indispensabile di lavoro, lo strumento per eccellenza a disposizione degli intendenti nel Secolo dei Lumi; poi se ne maledicono le tantissime inesattezze, si progettano nuove edizioni, si fa dell’ironia sulle nuove edizioni (p. 141), si afferma (il povero Bottari, le cui missive sono commoventi) che rifarlo sarebbe un’impresa erculea e richiederebbe decenni di lavoro. Anche Carrara preparò delle Giunte destinate a un ipotetico aggiornamento dell’opera, Giunte che, a suo tempo, sono state pubblicate da Marina Magrini [1]. È evidente lo «spirito del tempo». L’Abecedario pittorico perfetto non esiste; anzi, siamo di fronte a una sorte di Wikipedia del Settecento, zeppa di errori; ma se esistesse, se qualcuno avesse la forza di scriverlo, se una rete di eruditi si riunisse e operasse in tal senso, gli intendenti conoscerebbero le maniere di tutti gli artefici e ogni problema sarebbe risolto. Sul fronte delle immagini, poi, l’equivalente dell’Abecedario sono le traduzioni a stampa, oggetti costosissimi per chi li produce e per chi li compra, ma indispensabili per divenire intendenti. Nemmeno Giacomo sfugge alla moda; anch’egli pensa di far incidere le opere della sua pinacoteca per dar modo ai dilettanti di conoscere le maniere. Quello di Carrara non è intento autocelebrativo, ma didattico, lo stesso che lo porta a progettare la nascita di una scuola di pittura, a beneficio dei giovani e degli amatori.

 

Il restauro.

Un’ultimissima osservazione sul restauro, ancora una volta partendo dallo stralcio di una lettera, questa volta indirizzata a Luigi Crespi (che si quest’aspetto predicava bene e razzolava malissimo) il 17 marzo 1772: «Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima sa quante vicende abbia corso il Cenacolo di Leonardo da Vinci poiché fu perfino imbiancato, indi, levato il bianco, accomodato con molti non necessari ritocchi del pittore Belotti, sì che si poteva dire per la massima parte rifatto. Ora Giuseppe Mazza da Locarno ha levati di novo tutti li ritocchi del detto Belotti e ridotti tutti li avanzi dell’originale vergini e puri, sulla traccia de’ quali con infinita diligenza, maestria e ricerca ritoccandolo, l’ha messo in stato da tenersi ancormò per una delle più belle opere d’Italia» (pp. 248-249). Il biasimo rivolto a Belotti non è metodologico; non si contesta il fatto di aver ritoccato il Cenacolo, ma di averlo fatto male, cioè senza seguire la maniera di Leonardo. Tutto ciò spiega perché Carrara possa dire che, una volta rimossi gli interventi di Belotti, Mazza abbia effettuato un nuovo restauro mimetico, che questa volta ha reso l’opera una delle più belle d’Italia. Ci fu un lungo dibattito su quel restauro e il fatto che Mazza fosse amico di Carrara certo non depone a favore della testimonianza. Ciò che conta, tuttavia, è ancora una volta l’aspetto concettuale; il restauro cavalcaselliano è ancora ben al di là da venire. Ancora nel secondo decennio dell’Ottocento, a un anziano Pietro Edwards, uomo del Settecento, che chiedeva di istituire una scuola di restauro in Accademia a Venezia, fu risposto che era impossibile e inutile, perché troppo sarebbero state le maniere da imitare ed era impossibile che un bravo restauratore le conoscesse tutte. Carrara mai pensò di istituire una sezione di restauro nella sua scuola di pittura; lui, uomo del Settecento, la pensava esattamente alla stessa maniera.

 

NOTE

[1] Marina Magrini, Giunte all’Abecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi compilate dal conte Giacomo Carrara, in «Saggi e memorie di storia dell’arte», XIX, 1994, pp. 275-318.

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