Karel Van Mander and his Foundation of the Noble, Free Art of Painting
First English Translation with Introduction and Commentary
A cura di Walter S. Melion
Leiden-Boston, Brill, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Un trattato manierista (forse).
Chi fu Karel van Mander
(1548-1606)? Il Vasari fiammingo, così come Félibien
fu quello francese e Palomino quello spagnolo: risposta sbagliata, in tutti e
tre i casi. Il fatto che ognuno di questi tre autori abbia scritto biografie di
artisti delle rispettive patrie dimostra solo che Vasari fu una delle
principali fonti di ispirazione per la letteratura artistica europea, ma non
restituisce la complessità dei rispettivi progetti, che non si esauriva nella
redazione di medaglioni biografici vasariani.
Vediamo il caso di Van Mander. Il
suo Schilder-boeck (Libro di
pittura) pubblicato nel 1604 ad Harleem, è composto di sei parti:
- Fondamenti dell’arte nobile e libera della pittura;
- Vite dei pittori antichi;
- Vite dei pittori italiani;
- Vite dei pittori dei Paesi Bassi e tedeschi;
- Un commento
alle Metamorfosi di Ovidio;
- Una sezione finale di iconologia dedicata alla rappresentazione degli dèi antichi.
Già così, si capisce che siamo di
fronte a qualcosa di diverso, e più complesso, rispetto alle Vite
vasariane. Il fatto che van Mander si attenga sostanzialmente a Vasari per
ciò che attiene agli artisti italiani certifica solo che Vasari fu una delle
sue fonti. Alla fine del primo dei quattordici capitoli dei Fondamenti,
l’autore scrive, esplicitamente, di aver attinto da una molteplicità di testi e,
sulla base di quanto estrapolato da essi, di aver esercitato la sua
«invenzione», perché anche gli scrittori più importanti «hanno da pescare negli
stagni altrui».
Brevemente; i Fondamenti sono
rivolti ai giovani desiderosi di imparare (ma su questo punto tornerò) ed
espongono le linee guida che gli aspiranti pittori devono seguire per divenire «universali»,
ossia capaci di dare il meglio di loro in ogni situazione; le parti dalla
seconda alla quarta presentano le vite degli artisti antichi, di quelli
italiani e di quelli nord-europei (ne è uscita un’edizione italiana a cura di
Ricardo de Mambro Santos, che
abbiamo già recensito); il commento alle Metamorfosi testimonia come
esse fossero viste come fonte di ispirazione per tradurne le favole in immagini
e, del tutto analogamente, le sezione finale è utile agli artisti per la
rappresentazione degli dèi antichi. Non a caso, quinta e sesta parte furono
commercializzate anche separatamente dalle prime quattro, come repertori
iconografici, anche se non vi comparivano immagini (in questo senso, non
possono essere equiparate all’Iconologia di Ripa).
Dei Fondamenti ho già
pubblicato una recensione, quando, nel 2014, Jan Willem Noldus ha
presentato la sua traduzione francese per Les Belles Lettres. Torno,
comunque, a parlarne perché l’edizione Melion è, senza dubbio, di grande
respiro e interesse; presenta un’introduzione iniziale di 150 pagine in cui il
curatore cerca di mettere a fuoco alcuni principi teorici fondamentali del
pensiero di Van Mander e un commentario al testo ancora più ampio. L’edizione
Melion, fra l’altro, ha vinto il prestigioso Sixteenth Century Society &
Conference's 2023 Roland H. Bainton Prize for Art History e – ripeto – è un
testo di valore indiscutibile. Avendo sempre tutto ciò a mente, mi permetto di
segnalare che l’assenza di un indice dei nomi e di un indice bibliografico
grida vendetta, e stride con l’ampiezza del lavoro svolto.
Per gli indomiti sostenitori di
Vasari si potrebbe pensare che, a parte le ultime due sezioni ‘di servizio’, il
progetto di Van Mander sia, in ultima analisi, un ampliamento di quello
dell’aretino; una parte iniziale di ordine teorico (le Teoriche,
appunto, per Vasari, i Fondamenti per il fiammingo) che spiega tutto
quello che bisogna sapere per capire lo sviluppo storico delineato nelle tre
sezioni sulle vite. Non è così. Pur contenendo tre sezioni sulle vite, lo Schilder-boeck, è il tipico trattato manieristico di fine Cinquecento, che espunge la
storia dalla sua trattazione e punta, invece, alla trattazione sistematica dell’arte
in tutte le sue componenti; secondo Melion «le tre età vasariane dell’arte
italiana divennero tre distinte storie culturali dell’arte» (p. 26). A me piace
più pensare che, mentre le Teoriche vasariane sono lo strumento necessario per capire le Vite, e sono quest’ultime
a dominare, proponendo uno sviluppo storico diviso per età, qui lo sviluppo
storico non esiste, o, comunque, non è l’aspetto saliente: greci e romani,
italiani, fiamminghi sono tutti esempi che avvalorano e approfondiscono quanto
esposto nei Fondamenti. Un trattato manierista, dicevo, ma non
ditelo in giro, perché un esperto come Melion, una delle massime autorità su
Van Mander, non usa mai questo termine (a meno che io non sia stato cattivo
lettore) ed è evidente che la scelta non è casuale; presumo che rifugga dall’apposizione
di etichette; nemmeno io le amo, ma a me pare che l’opera vada giudicata in un
contesto culturale europeo in cui accadono cose sostanzialmente analoghe in
realtà geografiche e politiche molto diverse fra loro. In questo senso lo Schilder-Boek e i Fondamenti al suo interno, non vanno giudicati come
plagio di questo o di quello, ma, a prospettive ribaltate, come strumento di
trasmissione di una cultura che, dall’Italia, travalica le Alpi e raggiunge il
nord Europa. Sul piano del fare artistico si tratta di un tema che ha
conosciuto grandissima fortuna: basti pensare ai magnifici libri di Nicole Dacos; mi pare si faccia un po’ più fatica a
comprenderlo per la trattatistica. Ciò non toglie che l’opera di Van Mander
abbia elementi strutturali di originalità: il progetto di scansione in sei
parti è indubbiamente frutto dell’«invenzione» di Van Mander.
Karel van Mander
Una cosa è certa: Van Mander fu uomo di grande cultura; nacque a
Meulebeke, in Belgio, da una famiglia che apparteneva alla piccola aristocrazia,
studiò latino, fu poeta, scrisse rappresentazioni teatrali a sfondo religioso,
ma fu soprattutto pittore: allievo di Lucas de Heere a Gand e di Pieter Vlerick
a Kortijk e Tournai, dal 1574 al 1577 fu in Italia, fece in tempo a conoscere
Vasari, lavorò a Roma, ma anche a Terni. Al termine dell’esperienza italiana
(indelebile) Van Mander si spostò, sulla strada del ritorno, a Vienna, dove
lavorò assieme al maestro e sodale Bartholomeus Sprangher per l’imperatore
Rodolfo II, salvo poi tornare a Meulebeke, per poi spostarsi sei anni dopo a Haarlem,
in Olanda. Per i Paesi Bassi è un periodo cruciale; nel 1581, in seguito a
sanguinosi conflitti religiosi, sette province del Nord si staccano da quelle
del Sud. Van Mander, che è un protestante mennonita, preferisce trasferirsi nel
Nord. Sappiamo che a Haarlem Karel aprì anche un’Accademia assieme a Hubertus
Goltzius e Cornelis von Haarlem. Tutti questi elementi, in maniera più o meno
esplicita, trovano una loro eco nei Fondamenti e nello Schilder-Boeck, con
accenti genuinamente olandesi; nella vita di Joris Hoefnaghel (siamo quindi
nello Schilder-Boeck) possiamo leggere, ad esempio, che Karel
loda l’abitudine invalsa nei Paesi Bassi secondo la quale i genitori benestanti
mandano comunque i loro figli a imparare un’arte o un mestiere, perché chi ne
conosce una può far fronte meglio ai rovesci della fortuna di un uomo
semplicemente ricco, ma inetto. Difficile riassumere tutte le suggestioni che
suscitano queste poche righe: si tratta, da un lato, della rivisitazione in
chiave moderna e olandese di un tema già caro a Vitruvio, ossia quello del
ringraziamento ai genitori da parte del figlio che è stato fatto studiare;
dall’altra hanno contenuto chiaramente autobiografico (sono un tributo ai
propri genitori), riflettono l’estrema incertezza politica e sociale di quegli
anni, ma sono comunque lo specchio di una società in cui lavoro e mercato non
sono un disonore, qualcosa da lasciar svolgere alla plebe come «in altri paesi»
(e mi stupirei se, scrivendo «in altri paesi», Van Mander non stesse pensando a
quella Spagna che controllava l’area oggi corrispondente al Belgio).
Van Mander poeta.
I Fondamenti furono composti certamente entro il 1603; sin
dalla prefazione Van Mander fa capire che si è trattato di un lavoro lungo,
eseguito nel tempo libero, ma soprattutto con una caratteristica: quello che
presenta è un poema scritto in fiammingo, scandito in quattordici capitoli, di
dimensioni fra loro diverse. L’autore si rivolge ai giovani pittori con spirito
di servizio, e dichiara esplicitamente di farlo in versi perché è più facile
impararne a memoria i contenuti (p. 174). Nel Cinquecento, la tendenza a vedere
artisti che scrivono poemi si va consolidando in tutt’Europa, ma qui è evidente
che un ruolo fondamentale deve essere stato giocato dal vissuto personale di
Karel, allievo di Lucas de Heere, a sua volta pittore e poeta, autore di
un’antologia poetica a stampa (1565) intitolata Den Hoof en Boomgaerd der Poesien (Giardino e frutteto della
Poesia). L’opera contiene una
settantina di composizioni, la maggior parte delle quali sono traduzioni di
versi altrui pubblicati in origine in francese; ma, fra le parti originali,
sono rinvenibili versi dedicati a singoli artisti e a singole opere e un testo
che pone fra loro a confronto pittura e poesia [1]. Stando allo stesso Van
Mander, inoltre, de Heere sarebbe stato autore di biografie in versi dedicate
ad artisti del nord Europa (presumibilmente sul genere di
quelle di Lampsonio) rimaste incomplete e andate smarrite (p. 23).
La preparazione dell’autore in ambito poetico è, tuttavia, di livello
ben superiore rispetto a quella di de Heere. Melion ritiene che, più che ai
testi di quest’ultimo, i Fondamenti
debbano essere comparati a
trattati di retorica in versi, come il De const van rhetoriken (L’arte della retorica) di Matthis de Caslelein (1555). Sin dalla
prefazione al poema, Van Mander dimostra assoluta padronanza della materia e
spiega i motivi per cui ha deciso di comporre i Fondamenti in ottave rime
italiane, ossia in stanze di otto endecasillabi alla volta, sia pure con struttura
abaabbcc, leggermente diversa da quella canonica abababcc; chiarisce inoltre
perché ha scartato invece il tradizionale metro poetico francese e, allo stesso
modo, quello fiammingo, ritenuto «zoppicante». Può sembrar banale, ma è la
dimostrazione che Karel conosce le regole della metrica di tutta l’Europa
contemporanea, oltre naturalmente, a quella antica dei latini. Van Mander, fra
le altre cose, fu un ammiratore del francese Pierre Ronsard, alias il «principe
dei poeti», membro del movimento della Pléiade, che aveva l’obiettivo di
valorizzare la lingua francese in contrapposizione al latino. Le citazioni da
poeti antichi e moderni si colgono nell’ambito di tutto il poema. Personalmente
mi hanno colpito in particolare i frequenti riferimenti all’Orlando furioso dell’Ariosto
e all’Arcadia di Jacopo Sannazzaro, che dimostrano un’attenzione tutt’altro
che secondaria nei confronti della poesia italiana. Ariosto, Sannazzaro e molti
altri poeti o prosatori sono citati nell’ambito di descrizioni ecfrastiche che
servono da spiegazione ai principi fondamentali dell’arte della pittura. A
questo proposito, è evidente che l’ut pictura poesis è trionfante, e la
poesia è considerata essa stessa strumento di creazione di un immaginario
pittorico, come facente parte, in senso largo, della pittura. Non è un caso, in
fondo, che nel capitolo nono, dedicato alla rappresentazione degli animali, Van
Mander scriva che è sua volontà svelare ai discenti i secreti dell’arte, ma esclusivamente
tramite ciò che scrive la sua penna, senza immagini illustrative (pp. 303-304).
Lo fa già l’ecfrasi. Sono rarissimi i casi in cui l’autore sembra rimpiangere
la sua scelta, come quando rileva che chiunque, fra i grandi maestri fiamminghi,
volesse pubblicare un «abc book of prints» (ossia un libro di modelli) sui
rudimenti dell’arte sarebbe degno di gratitudine. Da parte sua, si lamenta di
non avere l’occorrente per farlo, mentre altri, che l’avrebbero, mostrano, in
merito, di essere riluttanti (cap. II stanza 6, p. 221). Molto probabilmente ha
in mente esempi stranieri e forse già anche il Livre de pourtraicture de
maistre Jean Cousin, edito a Parigi nel 1595 e destinato a successo
secolare.
I principi della pittura
Tutto ciò chiarito, è lecito chiedersi quale sia il contenuto dell’opera. Melion si sofferma in particolare sul significato teorico di termini come «disegno» e «pittura», pittura «dalla natura» e dallo «spirito», «decoro», «colorito» e molto altro ancora. Da questo esame, che – sia chiaro – è meritorio, a me pare che emerga una sostanziale non originalità degli argomenti addotti, con chiari rimandi alla contemporanea trattatistica italiana di impianto manierista. In fondo non è un caso se, fra gli esempi portati a conforto delle varie tesi compaiano da un lato la stampa della Festa per il matrimonio di Cupido e Psiche realizzata da Hendrick Goltzius da un’opera di Bartholomeus Spranger (1587) e l’Annunciazione di Federico Zuccari un tempo presso la chiesa di Santa Maria dell’Annunziata a Roma, oggi a noi nota tramite l’incisione di Cornelis Cort (1571).
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Festa per il matrimonio di Cupido e Psiche realizzata da Hendrick Goltzius da un’opera di Bartholomeus Spranger (1587) Fonte: https://www.metmuseum.org/art/collection/search/338919 |
Al netto di tutte le differenze stilistiche e iconografiche del caso, siamo di fronte allo stesso horror vacui manierista che è sempre al limite fra attenzione al dettaglio, raffinata allegoria e sfoggio di erudizione. Entrambi sono prodotti del manierismo internazionale, sia in termini artistici (Zuccari è ben noto per il suo soggiorno ad Anversa, dove «scopre» la stampa come strumento di autopromozione) sia in ambito letterario. Melion cerca di capire quali siano gli apporti personali di Van Mander in questo contesto: osserva, ad esempio, come vi sia sempre un legame fra l’aspetto teorico e quello pratico, che si traduce in indicazioni sulle tecniche da utilizzare, sui colori e quant’altro. Qui indugia sull’importanza che Karel attribuisce, a livello teorico, sul ruolo della mano, che opera congiuntamente ad animo e occhio ai fini della creazione artistica. È senz’altro vero che quest’aspetto è riscontrabile, ma, in tutta onestà, non mi sembra particolarmente originale. Si tratta, in ultima analisi, della riproposizione, in chiave moderna, del tema medievale della docta manus. Si pensi, ad esempio, a quanto scrive Filippo Villani nel 1382 nel suo De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus: «Le raffigurazioni da lui [n.d.r. da Giotto] rese col pennello sono così simili alle immagini che ci offre la natura, che allo spettatore sembrano vivere e respirare; e i loro gesti, i loro atteggiamenti sono così corrispondenti alla realtà che paiono davvero parlare, piangere, ridere e fare ogni cosa; con grande piacere di chi guarda e loda l’ingegno [n.d.r. la docta mens] e la mano [n.d.r. la docta manus] dell’artista». Naturalmente, non sto dicendo che Van Mander leggesse o conoscesse Villani; ma che il tema della docta manus è già nell’ambiente artistico da secoli per poter parlare di un’«invenzione» olandese. Più in generale, sono evidenti le riprese di argomenti (disegno, colorito, composizione pittorica) provenienti da Alberti. In questo senso appare chiaro a Melion che il tramite sia stato il Der furnembsten, notwendigsten, der gantzen Architectur anghörigen Künst di Walter Ryff (1547), opera che in realtà più che di architettura si occupa di aspetti teorici solo accennati in Vitruvio. Ryff, autore della prima edizione in Germania di Vitruvio (1543) e della sua traduzione in tedesco (1548), scrive un testo che presenta temi albertiani ripresi dal De pictura e li travasa nel mondo del nord Europa, dove Mander li recupera e li fa propri.
In questo contesto, come si pone
Van Mander rispetto a una presunta specificità neerlandese? Si è detto già
della docta manus. Per molti versi l’autore riprende temi già propri
della letteratura artistica italiana: i fiamminghi sono noti per la loro
attenzione al dettaglio, per la bellezza dei loro paesaggi, ma anche per essere
carenti nel disegno della figura umana. Non sembra che, in sostanza, Karel presenti
una lettura diversa da questa: semmai invita i giovani artisti a colmare le
loro lacune andando in Italia a studiare il disegno tosco-romano e il colorito
veneziano. Soprattutto non si coglie una qualsiasi forma di acredine
campanilistica. Salvo eccezioni, Van Mander rifugge dallo scontro, anche
verbale: è un mennonita: crede nella costruzione della pace e contesta il ruolo
e l’utilità delle guerre: non ne ingaggia nemmeno di verbali nel suo Schilder-Boeck,
e in questo si differenzia da molti altri testi contemporanei.
Un manuale per i giovani
pittori?
Una domanda finale, tuttavia, la
dobbiamo fare. Veramente i Fondamenti sono un corso di pittura per
giovani aspiranti all’esercizio della professione, come scritto sin dalla
prefazione? Sì e no. No, perché Van Mander chiede ai lettori di avere una
cultura umanistica sconfinata, circostanza quanto meno improbabile; se voleva
fare un’opera destinata a tutti, fallisce clamorosamente. Sì, se si tiene conto
che nel primo capitolo, dedicato allo stile di vita dell’artista, che deve
essere sempre caratterizzato da morigeratezza dei costumi e studio costante,
Karel chiarisce subito che c’è pittore e pittore, e che fra uno e l’altro può
ergersi una montagna. Qui si pone il problema della convivenza con la
Corporazione. Come detto, Van Mander aprì ad Haarlem un’Accademia, sulla cui
attività sappiamo assai poco. Certamente non lo fece con lo spirito di
sostituirsi alla gilda, o, comunque, con l’idea di trovare una sponda politica
per affermare la nobiltà della sua professione. Non che non credesse in tale nobiltà:
il problema, semmai, era contingente. Il potere a cui appoggiarsi e su cui fare
leva, l’equivalente dei Medici a Firenze o dei papi a Roma, nelle sette
Province Unite ancora non c’era: basti pensare che dal 1581, anno del distacco
rispetto alle province del Sud, al 1588 non era ancora chiaro se la nuova
entità statuale sarebbe stata una repubblica o una monarchia; o, ancor meglio, non
erano definiti i poteri del governo centrale rispetto alle singole province. Impossibile,
in questo contesto, andare a uno scontro con la gilda per la gestione della
professione. In linea di massima, l’approccio è pacificatore; quella di Karel, Hubertus Goltzius e Cornelis von Haarlem
sembra più un’iniziativa privata rivolta a una fascia alta di aspiranti artisti
(quella stessa fascia a cui risalivano le origini di Karel) senza, però, la
volontà di tagliare i ponti col mondo delle professioni artigiane. Assistiamo,
in questo modo, a una serie di considerazioni fra loro manifestamente in contraddizione
che, però, bene esprimono questa volontà di conciliazione. Così, la pittura è
un’invenzione degli Egizi e dei Caldei, e da essi si diffuse presso Greci e
Romani, presso i quali fu ritenuta un’arte nobile e libera, non come le
professioni regolate dalle gilde (p. 20); nel secondo capitolo, il disegno è
definito prima padre della pittura, poi – immediatamente dopo – balia di tutte
le arti, anche quelle liberali, anche della Grammatica, secondo l’antico adagio
per il quale anche la scrittura è disegno e pittura; ma contemporaneamente la
sua nobiltà fa aumentare la dignità anche delle arti minori che col disegno e
la pittura hanno a che fare (e qui stiamo parlando di attività artigianali).
In conclusione…
Mi si lasci evidenziare una circostanza che, sinceramente, mi ha
stupito, e non in positivo: come detto, prima di Melion, Noldus ha pubblicato una
traduzione francese con commento dei Fondamenti. Quell’edizione, se non mi sbaglio, è citata
soltanto due volte, nelle note, facendo riferimento a divergenze di traduzione
di singoli vocaboli. Non una sola parola è spesa su quel commento. Non so quali
siano le motivazioni che abbiano indotto il curatore a passare in sostanza
sotto silenzio il lavoro precedente del suo collega. Posso immaginare che vi
siano ragioni di ordine personale. Quello che mi pare certo è che, in questo
modo, non si fa un servizio al lettore; si può essere più o meno d’accordo con
le tesi altrui, ma va spiegato perché, alla luce del sole. Questa volta non è
avvenuto.
NOTE
[1] Cfr. Bart Ramakers, Art
and Artistry in Lucas de Heere, «Netherlands
Yearbook for History of Art / Nederlands Kunsthistorisch Jaarboek», 2009, pp. 165-192.
Si veda anche Frederica Van Dam, ‘Tableaux
Poétique’: A Recently Discovered Manuscript by the Flemish Painter Lucas D’Heere
(1534-1584), «Dutch Crossing:
Journal of Low Countries Studies», XXXVIII, 2014, pp. 20-38.
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