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giovedì 17 aprile 2025

Karel Van Mander and his 'Foundation of the Noble, Free Art of Painting'.



Karel Van Mander and his Foundation of the Noble, Free Art of Painting
First English Translation with Introduction and Commentary
A cura di Walter S. Melion

Leiden-Boston, Brill, 2022 

Recensione di Giovanni Mazzaferro




Un trattato manierista (forse).

Chi fu Karel van Mander (1548-1606)? Il Vasari fiammingo, così come Félibien fu quello francese e Palomino quello spagnolo: risposta sbagliata, in tutti e tre i casi. Il fatto che ognuno di questi tre autori abbia scritto biografie di artisti delle rispettive patrie dimostra solo che Vasari fu una delle principali fonti di ispirazione per la letteratura artistica europea, ma non restituisce la complessità dei rispettivi progetti, che non si esauriva nella redazione di medaglioni biografici vasariani.

Vediamo il caso di Van Mander. Il suo Schilder-boeck (Libro di pittura) pubblicato nel 1604 ad Harleem, è composto di sei parti:

  • Fondamenti dell’arte nobile e libera della pittura;
  • Vite dei pittori antichi;
  • Vite dei pittori italiani;
  • Vite dei pittori dei Paesi Bassi e tedeschi;
  • Un commento alle Metamorfosi di Ovidio;
  • Una sezione finale di iconologia dedicata alla rappresentazione degli dèi antichi.

Già così, si capisce che siamo di fronte a qualcosa di diverso, e più complesso, rispetto alle Vite vasariane. Il fatto che van Mander si attenga sostanzialmente a Vasari per ciò che attiene agli artisti italiani certifica solo che Vasari fu una delle sue fonti. Alla fine del primo dei quattordici capitoli dei Fondamenti, l’autore scrive, esplicitamente, di aver attinto da una molteplicità di testi e, sulla base di quanto estrapolato da essi, di aver esercitato la sua «invenzione», perché anche gli scrittori più importanti «hanno da pescare negli stagni altrui».

Brevemente; i Fondamenti sono rivolti ai giovani desiderosi di imparare (ma su questo punto tornerò) ed espongono le linee guida che gli aspiranti pittori devono seguire per divenire «universali», ossia capaci di dare il meglio di loro in ogni situazione; le parti dalla seconda alla quarta presentano le vite degli artisti antichi, di quelli italiani e di quelli nord-europei (ne è uscita un’edizione italiana a cura di Ricardo de Mambro Santos, che abbiamo già recensito); il commento alle Metamorfosi testimonia come esse fossero viste come fonte di ispirazione per tradurne le favole in immagini e, del tutto analogamente, le sezione finale è utile agli artisti per la rappresentazione degli dèi antichi. Non a caso, quinta e sesta parte furono commercializzate anche separatamente dalle prime quattro, come repertori iconografici, anche se non vi comparivano immagini (in questo senso, non possono essere equiparate all’Iconologia di Ripa).

Dei Fondamenti ho già pubblicato una recensione, quando, nel 2014, Jan Willem Noldus ha presentato la sua traduzione francese per Les Belles Lettres. Torno, comunque, a parlarne perché l’edizione Melion è, senza dubbio, di grande respiro e interesse; presenta un’introduzione iniziale di 150 pagine in cui il curatore cerca di mettere a fuoco alcuni principi teorici fondamentali del pensiero di Van Mander e un commentario al testo ancora più ampio. L’edizione Melion, fra l’altro, ha vinto il prestigioso Sixteenth Century Society & Conference's 2023 Roland H. Bainton Prize for Art History e – ripeto – è un testo di valore indiscutibile. Avendo sempre tutto ciò a mente, mi permetto di segnalare che l’assenza di un indice dei nomi e di un indice bibliografico grida vendetta, e stride con l’ampiezza del lavoro svolto.

Per gli indomiti sostenitori di Vasari si potrebbe pensare che, a parte le ultime due sezioni ‘di servizio’, il progetto di Van Mander sia, in ultima analisi, un ampliamento di quello dell’aretino; una parte iniziale di ordine teorico (le Teoriche, appunto, per Vasari, i Fondamenti per il fiammingo) che spiega tutto quello che bisogna sapere per capire lo sviluppo storico delineato nelle tre sezioni sulle vite. Non è così. Pur contenendo tre sezioni sulle vite, lo Schilder-boeck, è il tipico trattato manieristico di fine Cinquecento, che espunge la storia dalla sua trattazione e punta, invece, alla trattazione sistematica dell’arte in tutte le sue componenti; secondo Melion «le tre età vasariane dell’arte italiana divennero tre distinte storie culturali dell’arte» (p. 26). A me piace più pensare che, mentre le Teoriche vasariane sono lo strumento necessario per  capire le Vite, e sono quest’ultime a dominare, proponendo uno sviluppo storico diviso per età, qui lo sviluppo storico non esiste, o, comunque, non è l’aspetto saliente: greci e romani, italiani, fiamminghi sono tutti esempi che avvalorano e approfondiscono quanto esposto nei Fondamenti. Un trattato manierista, dicevo, ma non ditelo in giro, perché un esperto come Melion, una delle massime autorità su Van Mander, non usa mai questo termine (a meno che io non sia stato cattivo lettore) ed è evidente che la scelta non è casuale; presumo che rifugga dall’apposizione di etichette; nemmeno io le amo, ma a me pare che l’opera vada giudicata in un contesto culturale europeo in cui accadono cose sostanzialmente analoghe in realtà geografiche e politiche molto diverse fra loro. In questo senso lo Schilder-Boek e i Fondamenti al suo interno, non vanno giudicati come plagio di questo o di quello, ma, a prospettive ribaltate, come strumento di trasmissione di una cultura che, dall’Italia, travalica le Alpi e raggiunge il nord Europa. Sul piano del fare artistico si tratta di un tema che ha conosciuto grandissima fortuna: basti pensare ai magnifici libri di Nicole Dacos; mi pare si faccia un po’ più fatica a comprenderlo per la trattatistica. Ciò non toglie che l’opera di Van Mander abbia elementi strutturali di originalità: il progetto di scansione in sei parti è indubbiamente frutto dell’«invenzione» di Van Mander.


Karel van Mander

Una cosa è certa: Van Mander fu uomo di grande cultura; nacque a Meulebeke, in Belgio, da una famiglia che apparteneva alla piccola aristocrazia, studiò latino, fu poeta, scrisse rappresentazioni teatrali a sfondo religioso, ma fu soprattutto pittore: allievo di Lucas de Heere a Gand e di Pieter Vlerick a Kortijk e Tournai, dal 1574 al 1577 fu in Italia, fece in tempo a conoscere Vasari, lavorò a Roma, ma anche a Terni. Al termine dell’esperienza italiana (indelebile) Van Mander si spostò, sulla strada del ritorno, a Vienna, dove lavorò assieme al maestro e sodale Bartholomeus Sprangher per l’imperatore Rodolfo II, salvo poi tornare a Meulebeke, per poi spostarsi sei anni dopo a Haarlem, in Olanda. Per i Paesi Bassi è un periodo cruciale; nel 1581, in seguito a sanguinosi conflitti religiosi, sette province del Nord si staccano da quelle del Sud. Van Mander, che è un protestante mennonita, preferisce trasferirsi nel Nord. Sappiamo che a Haarlem Karel aprì anche un’Accademia assieme a Hubertus Goltzius e Cornelis von Haarlem. Tutti questi elementi, in maniera più o meno esplicita, trovano una loro eco nei Fondamenti e nello Schilder-Boeck, con accenti genuinamente olandesi; nella vita di Joris Hoefnaghel (siamo quindi nello Schilder-Boeck) possiamo leggere, ad esempio, che Karel loda l’abitudine invalsa nei Paesi Bassi secondo la quale i genitori benestanti mandano comunque i loro figli a imparare un’arte o un mestiere, perché chi ne conosce una può far fronte meglio ai rovesci della fortuna di un uomo semplicemente ricco, ma inetto. Difficile riassumere tutte le suggestioni che suscitano queste poche righe: si tratta, da un lato, della rivisitazione in chiave moderna e olandese di un tema già caro a Vitruvio, ossia quello del ringraziamento ai genitori da parte del figlio che è stato fatto studiare; dall’altra hanno contenuto chiaramente autobiografico (sono un tributo ai propri genitori), riflettono l’estrema incertezza politica e sociale di quegli anni, ma sono comunque lo specchio di una società in cui lavoro e mercato non sono un disonore, qualcosa da lasciar svolgere alla plebe come «in altri paesi» (e mi stupirei se, scrivendo «in altri paesi», Van Mander non stesse pensando a quella Spagna che controllava l’area oggi corrispondente al Belgio).

 

Van Mander poeta.

I Fondamenti furono composti certamente entro il 1603; sin dalla prefazione Van Mander fa capire che si è trattato di un lavoro lungo, eseguito nel tempo libero, ma soprattutto con una caratteristica: quello che presenta è un poema scritto in fiammingo, scandito in quattordici capitoli, di dimensioni fra loro diverse. L’autore si rivolge ai giovani pittori con spirito di servizio, e dichiara esplicitamente di farlo in versi perché è più facile impararne a memoria i contenuti (p. 174). Nel Cinquecento, la tendenza a vedere artisti che scrivono poemi si va consolidando in tutt’Europa, ma qui è evidente che un ruolo fondamentale deve essere stato giocato dal vissuto personale di Karel, allievo di Lucas de Heere, a sua volta pittore e poeta, autore di un’antologia poetica a stampa (1565) intitolata Den Hoof en Boomgaerd der Poesien (Giardino e frutteto della Poesia). L’opera contiene una settantina di composizioni, la maggior parte delle quali sono traduzioni di versi altrui pubblicati in origine in francese; ma, fra le parti originali, sono rinvenibili versi dedicati a singoli artisti e a singole opere e un testo che pone fra loro a confronto pittura e poesia [1]. Stando allo stesso Van Mander, inoltre, de Heere sarebbe stato autore di biografie in versi dedicate ad artisti del nord Europa (presumibilmente sul genere di quelle di Lampsonio) rimaste incomplete e andate smarrite (p. 23).

La preparazione dell’autore in ambito poetico è, tuttavia, di livello ben superiore rispetto a quella di de Heere. Melion ritiene che, più che ai testi di quest’ultimo, i Fondamenti debbano essere comparati a trattati di retorica in versi, come il De const van rhetoriken (L’arte della retorica) di Matthis de Caslelein (1555). Sin dalla prefazione al poema, Van Mander dimostra assoluta padronanza della materia e spiega i motivi per cui ha deciso di comporre i Fondamenti in ottave rime italiane, ossia in stanze di otto endecasillabi alla volta, sia pure con struttura abaabbcc, leggermente diversa da quella canonica abababcc; chiarisce inoltre perché ha scartato invece il tradizionale metro poetico francese e, allo stesso modo, quello fiammingo, ritenuto «zoppicante». Può sembrar banale, ma è la dimostrazione che Karel conosce le regole della metrica di tutta l’Europa contemporanea, oltre naturalmente, a quella antica dei latini. Van Mander, fra le altre cose, fu un ammiratore del francese Pierre Ronsard, alias il «principe dei poeti», membro del movimento della Pléiade, che aveva l’obiettivo di valorizzare la lingua francese in contrapposizione al latino. Le citazioni da poeti antichi e moderni si colgono nell’ambito di tutto il poema. Personalmente mi hanno colpito in particolare i frequenti riferimenti all’Orlando furioso dell’Ariosto e all’Arcadia di Jacopo Sannazzaro, che dimostrano un’attenzione tutt’altro che secondaria nei confronti della poesia italiana. Ariosto, Sannazzaro e molti altri poeti o prosatori sono citati nell’ambito di descrizioni ecfrastiche che servono da spiegazione ai principi fondamentali dell’arte della pittura. A questo proposito, è evidente che l’ut pictura poesis è trionfante, e la poesia è considerata essa stessa strumento di creazione di un immaginario pittorico, come facente parte, in senso largo, della pittura. Non è un caso, in fondo, che nel capitolo nono, dedicato alla rappresentazione degli animali, Van Mander scriva che è sua volontà svelare ai discenti i secreti dell’arte, ma esclusivamente tramite ciò che scrive la sua penna, senza immagini illustrative (pp. 303-304). Lo fa già l’ecfrasi. Sono rarissimi i casi in cui l’autore sembra rimpiangere la sua scelta, come quando rileva che chiunque, fra i grandi maestri fiamminghi, volesse pubblicare un «abc book of prints» (ossia un libro di modelli) sui rudimenti dell’arte sarebbe degno di gratitudine. Da parte sua, si lamenta di non avere l’occorrente per farlo, mentre altri, che l’avrebbero, mostrano, in merito, di essere riluttanti (cap. II stanza 6, p. 221). Molto probabilmente ha in mente esempi stranieri e forse già anche il Livre de pourtraicture de maistre Jean Cousin, edito a Parigi nel 1595 e destinato a successo secolare.

 

I principi della pittura

Tutto ciò chiarito, è lecito chiedersi quale sia il contenuto dell’opera. Melion si sofferma in particolare sul significato teorico di termini come «disegno» e «pittura», pittura «dalla natura» e dallo «spirito», «decoro», «colorito» e molto altro ancora. Da questo esame, che – sia chiaro – è meritorio, a me pare che emerga una sostanziale non originalità degli argomenti addotti, con chiari rimandi alla contemporanea trattatistica italiana di impianto manierista. In fondo non è un caso se, fra gli esempi portati a conforto delle varie tesi compaiano da un lato la stampa della Festa per il matrimonio di Cupido e Psiche realizzata da Hendrick Goltzius da un’opera di Bartholomeus Spranger (1587) e l’Annunciazione di Federico Zuccari un tempo presso la chiesa di Santa Maria dell’Annunziata a Roma, oggi a noi nota tramite l’incisione di Cornelis Cort (1571). 

Festa per il matrimonio di Cupido e Psiche realizzata da Hendrick Goltzius da un’opera di Bartholomeus Spranger (1587)
Fonte: 
https://www.metmuseum.org/art/collection/search/338919

L’Annunciazione di Federico Zuccari un tempo presso la chiesa di Santa Maria dell’Annunziata a Roma, oggi a noi nota tramite l’incisione di Cornelis Cort (1571)
Fonte: 
https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0302036285

Al netto di tutte le differenze stilistiche e iconografiche del caso, siamo di fronte allo stesso horror vacui manierista che è sempre al limite fra attenzione al dettaglio, raffinata allegoria e sfoggio di erudizione. Entrambi sono prodotti del manierismo internazionale, sia in termini artistici (Zuccari è ben noto per il suo soggiorno ad Anversa, dove «scopre» la stampa come strumento di autopromozione) sia in ambito letterario. Melion cerca di capire quali siano gli apporti personali di Van Mander in questo contesto: osserva, ad esempio, come vi sia sempre un legame fra l’aspetto teorico e quello pratico, che si traduce in indicazioni sulle tecniche da utilizzare, sui colori e quant’altro. Qui indugia sull’importanza che Karel attribuisce, a livello teorico, sul ruolo della mano, che opera congiuntamente ad animo e occhio ai fini della creazione artistica. È senz’altro vero che quest’aspetto è riscontrabile, ma, in tutta onestà, non mi sembra particolarmente originale. Si tratta, in ultima analisi, della riproposizione, in chiave moderna, del tema medievale della docta manus. Si pensi, ad esempio, a quanto scrive Filippo Villani nel 1382 nel suo De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus: «Le raffigurazioni da lui [n.d.r. da Giotto] rese col pennello sono così simili alle immagini che ci offre la natura, che allo spettatore sembrano vivere e respirare; e i loro gesti, i loro atteggiamenti sono così corrispondenti alla realtà che paiono davvero parlare, piangere, ridere e fare ogni cosa; con grande piacere di chi guarda e loda l’ingegno [n.d.r. la docta mens] e la mano [n.d.r. la docta manus] dell’artista». Naturalmente, non sto dicendo che Van Mander leggesse o conoscesse Villani; ma che il tema della docta manus è già nell’ambiente artistico da secoli per poter parlare di un’«invenzione» olandese. Più in generale, sono evidenti le riprese di argomenti (disegno, colorito, composizione pittorica) provenienti da Alberti. In questo senso appare chiaro a Melion che il tramite sia stato il Der furnembsten, notwendigsten, der gantzen Architectur anghörigen Künst di Walter Ryff (1547), opera che in realtà più che di architettura si occupa di aspetti teorici solo accennati in Vitruvio. Ryff, autore della prima edizione in Germania di Vitruvio (1543) e della sua traduzione in tedesco (1548), scrive un testo che presenta temi albertiani ripresi dal De pictura e li travasa nel mondo del nord Europa, dove Mander li recupera e li fa propri.

In questo contesto, come si pone Van Mander rispetto a una presunta specificità neerlandese? Si è detto già della docta manus. Per molti versi l’autore riprende temi già propri della letteratura artistica italiana: i fiamminghi sono noti per la loro attenzione al dettaglio, per la bellezza dei loro paesaggi, ma anche per essere carenti nel disegno della figura umana. Non sembra che, in sostanza, Karel presenti una lettura diversa da questa: semmai invita i giovani artisti a colmare le loro lacune andando in Italia a studiare il disegno tosco-romano e il colorito veneziano. Soprattutto non si coglie una qualsiasi forma di acredine campanilistica. Salvo eccezioni, Van Mander rifugge dallo scontro, anche verbale: è un mennonita: crede nella costruzione della pace e contesta il ruolo e l’utilità delle guerre: non ne ingaggia nemmeno di verbali nel suo Schilder-Boeck, e in questo si differenzia da molti altri testi contemporanei.

Un manuale per i giovani pittori?

Una domanda finale, tuttavia, la dobbiamo fare. Veramente i Fondamenti sono un corso di pittura per giovani aspiranti all’esercizio della professione, come scritto sin dalla prefazione? Sì e no. No, perché Van Mander chiede ai lettori di avere una cultura umanistica sconfinata, circostanza quanto meno improbabile; se voleva fare un’opera destinata a tutti, fallisce clamorosamente. Sì, se si tiene conto che nel primo capitolo, dedicato allo stile di vita dell’artista, che deve essere sempre caratterizzato da morigeratezza dei costumi e studio costante, Karel chiarisce subito che c’è pittore e pittore, e che fra uno e l’altro può ergersi una montagna. Qui si pone il problema della convivenza con la Corporazione. Come detto, Van Mander aprì ad Haarlem un’Accademia, sulla cui attività sappiamo assai poco. Certamente non lo fece con lo spirito di sostituirsi alla gilda, o, comunque, con l’idea di trovare una sponda politica per affermare la nobiltà della sua professione. Non che non credesse in tale nobiltà: il problema, semmai, era contingente. Il potere a cui appoggiarsi e su cui fare leva, l’equivalente dei Medici a Firenze o dei papi a Roma, nelle sette Province Unite ancora non c’era: basti pensare che dal 1581, anno del distacco rispetto alle province del Sud, al 1588 non era ancora chiaro se la nuova entità statuale sarebbe stata una repubblica o una monarchia; o, ancor meglio, non erano definiti i poteri del governo centrale rispetto alle singole province. Impossibile, in questo contesto, andare a uno scontro con la gilda per la gestione della professione. In linea di massima, l’approccio è pacificatore; quella di Karel, Hubertus Goltzius e Cornelis von Haarlem sembra più un’iniziativa privata rivolta a una fascia alta di aspiranti artisti (quella stessa fascia a cui risalivano le origini di Karel) senza, però, la volontà di tagliare i ponti col mondo delle professioni artigiane. Assistiamo, in questo modo, a una serie di considerazioni fra loro manifestamente in contraddizione che, però, bene esprimono questa volontà di conciliazione. Così, la pittura è un’invenzione degli Egizi e dei Caldei, e da essi si diffuse presso Greci e Romani, presso i quali fu ritenuta un’arte nobile e libera, non come le professioni regolate dalle gilde (p. 20); nel secondo capitolo, il disegno è definito prima padre della pittura, poi – immediatamente dopo – balia di tutte le arti, anche quelle liberali, anche della Grammatica, secondo l’antico adagio per il quale anche la scrittura è disegno e pittura; ma contemporaneamente la sua nobiltà fa aumentare la dignità anche delle arti minori che col disegno e la pittura hanno a che fare (e qui stiamo parlando di attività artigianali).  
 

In conclusione…

Mi si lasci evidenziare una circostanza che, sinceramente, mi ha stupito, e non in positivo: come detto, prima di Melion, Noldus ha pubblicato una traduzione francese con commento dei Fondamenti. Quell’edizione, se non mi sbaglio, è citata soltanto due volte, nelle note, facendo riferimento a divergenze di traduzione di singoli vocaboli. Non una sola parola è spesa su quel commento. Non so quali siano le motivazioni che abbiano indotto il curatore a passare in sostanza sotto silenzio il lavoro precedente del suo collega. Posso immaginare che vi siano ragioni di ordine personale. Quello che mi pare certo è che, in questo modo, non si fa un servizio al lettore; si può essere più o meno d’accordo con le tesi altrui, ma va spiegato perché, alla luce del sole. Questa volta non è avvenuto.

 

NOTE

[1] Cfr. Bart Ramakers, Art and Artistry in Lucas de Heere, «Netherlands Yearbook for History of Art / Nederlands Kunsthistorisch Jaarboek», 2009, pp. 165-192. Si veda anche Frederica Van Dam, ‘Tableaux Poétique’: A Recently Discovered Manuscript by the Flemish Painter Lucas D’Heere (1534-1584), «Dutch Crossing: Journal of Low Countries Studies», XXXVIII, 2014, pp. 20-38.

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