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lunedì 24 marzo 2025

La trattatistica d’arte nell’Italia del Cinquecento. A cura di Johannes Bartuschat, Marco Nava e Jonathan Schiesaro

 

La trattatistica d’arte nell’Italia del Cinquecento
Generi, pratiche, modelli
A cura di Johannes Bartuschat, Marco Nava e Jonathan Schiesaro

Roma, Carocci, 2024

Recensione di Giovanni Mazzaferro




Bilanci e sollecitazioni

La trattatistica d’arte nell’Italia del Cinquecento non ha nessuna ambizione ad essere un nuovo testo di riferimento all’interno della letteratura artistica. Lo chiarisce immediatamente il sottotitolo (Generi, pratiche, modelli); lo ribadiscono i curatori nella loro introduzione, parlando piuttosto di un libro che nasce a cinquant’anni dal primo volume degli Scritti d’arte del Cinquecento di Paola Barocchi e a cento da La letteratura artistica di Schlosser. I testi di riferimento continuano a essere quelli. Ciò non toglie che, dai tempi di Schlosser e della Barocchi possano essere venuti a galla nuove sollecitazioni. Senza nessuna pretesa di completezza, il libro ne raccoglie alcune, sollecitando il lettore a nuove riflessioni, alcune delle quali condivido, altre meno, ma sempre indicando possibili percorsi di ricerca. Un’impostazione che piace e lo rende non solo di lettura piacevole, ma interessante per chiunque si interessi alla materia. Proverò a riassumerne gli snodi principali, non prima di aver riportato l’indice dei contributi: 

  • Giulia Zaccariotto: Bellini, Giotto e Mantegna: componimenti poetici inediti in un manoscritto di Marin Sanudo;
  • Tommaso Ghezzani: L’artista e il cortigiano: note culturali e filosofiche su B. Castiglione e l’emancipazione delle “arti” belle;
  • Baptiste Tochon-Danguy: L’occhio della mente e l’intelletto dello scultore: fonti filosofiche e artistiche nelle Lezzioni sulle arti di Benedetto Varchi;
  • David Zagoury: «Queste tue historie del Bugiale di Plinio»: umorismo ed eterodossia nella critica d’arte a stampa (1546-50);
  • Jonathan Schiesaro: Un «praticone senza cuiussi»? Anton Francesco Doni scrittore e teorico d’arte;
  • Diletta Gamberini, «La mirabile invenzione di Laocoonte»: polimatia di riuso in una pagina del Disegno di Anton Francesco Doni;
  • Sara Stifano: Vasari, Condivi, Cellini: le “carezze torbide” di Cosimo I nelle biografie e autobiografie d’artisti;
  • Frédérique Dubard de Gaillarbois, Per una riedizione dell’Orazione funebre di Michelangelo Buonarroti scritta da Benedetto Varchi;
  • Eliana Carrara: «Con questa voce sola si possono chiamare i veri disegni» considerazioni sulle Regole del disegno di Alessandro Allori;
  • Marco Nava: Per un’edizione dei Ragionamenti delle regole del disegno di Alessandro Allori;
  • Margherita Quaglino: Disegnare e colorire nei Veri precetti della pittura di Giovan Battista Armenini (1586);
  • Ilenia Pittini: Intorno a Paolo Giovio, scrittore d’arte: genere e modello per una storia della storia dell’arte rinascimentale e ottomana.

 

Giulia Zaccariotto
Bellini, Giotto e Mantegna: componimenti poetici inediti in un manoscritto di Marin Sanudo.

L’autrice presenta i primi esiti dello studio del Ms. Lat. Cl. XII, 210 (=4689), conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e appartenente in origine a Marin Sanudo. Di Sanudo (1466-1536) sappiamo molto; conosciamo la sua attività di cronachista, possediamo edizioni sia dell’Itinerario in Terraferma sia dei Diarii (e dei Commentarii della guerra di Ferrara). Il Ms. Lat. 210 presenta «versi e iscrizioni latine quasi esclusivamente moderni», non tutti scritti da Sanudo stesso, ma, in diversi casi, semplice trascrizione di composizioni altrui. Zaccariotto ha in programma la pubblicazione integrale dei suoi contenuti e, se non ho capito male, proprio leggendo un’iscrizione collocata un tempo sotto i Tre filosofi di Giorgione e riportata da Sanudo ha pubblicato di recente «Vivitur ingenio». I Tre filosofi di Giorgione e Taddeo Contarini, in cui presenta un contributo allo scioglimento della difficile iconografia dell’opera e alla comprensione della committenza contariniana. Qui, tuttavia, si occupa di alcune composizioni poetiche dedicate a Giovanni Bellini, alcune edite altre no. Uno, ad esempio, è il sonetto in lode del ritratto del doge Leonardo Loredan, pubblicato in origine dal ravennate Bernardino Livio Catti (1502), erudito di cui Sanudo possiede altri versi. 

Giovanni Bellini, Ritratto del doge Leonardo Loredan, Londra, National Gallery
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:
Giovanni_Bellini,_portrait_of_Doge_Leonardo_Loredan.jpg

Più difficile l’identificazione di alcuni versi in cui si propone un confronto fra Giotto e Bellini (Giovanni? Gentile?) forse riconducibili a un certo Marziale da Brescia che a Sanudo scrisse una lettera nel 1481: «anche se nulla esclude viaggi più a sud della Serenissima, è probabile che l’esperienza di Giotto di questo Marziale sia relativa al contesto padovano» (p. 25). Impossibile, infine, avanzare ipotesi su un ulteriore componimento, anonimo e in latino, in cui il paragone, questa volta, è fra cognati, ossia fra Mantegna e Giovanni Bellini. Mantegna sta all’apice della gerarchia dei pittori e solo Giovanni è stato in grado di raggiungerlo. Il fatto stesso che i due appaiano posti a confronto in uno stesso testo è, a detta di Zaccariotto, indice di modernità critica.

 

Tommaso Ghezzani
L’artista e il cortigiano: note culturali e filosofiche su B. Castiglione e l’emancipazione delle “arti” belle.

Del contributo di Ghezzani trovo di particolare interesse la premessa, ossia le riflessioni sullo status di quelle che diventeranno nel Settecento le «belle arti» all’inizio del Cinquecento. La fine del secolo precedente segna la crisi conclamata della sistemazione scolastica delle arti in trivio e quadrivio. Basti pensare a Leonardo, nel cui Paragone la pittura assume un calibro superiore a qualsiasi altra arte, anche speculativa, sulla base della priorità della vista sugli altri sensi umani. Tutto ciò non toglie che si ragioni in quegli anni di bellezza o come armonia delle parti e proporzionalità su basi matematiche o «come principio unificante e sovra-razionale al di là di ogni misurazione» (p. 36). Siamo di fronte, manco a dirlo, ad approcci rispettivamente di tipo pitagorico-aristotelico o platonico. In particolare, nel caso della bellezza unificante, è ravvisabile una tipologia di ragionamento che, «pur continuando a concepire il bello come una forma di sapere veritativo, vuole superare la codificazione a livello razionale del fare artistico per approdare all’illuminazione istantanea puramente intellettiva; nel corso del Cinquecento questa concezione non è esclusiva dei letterati ma viene fatta propria anche dagli artisti figurativi» (ivi). La «rivincita» di un approccio neoplatonico al fare artistico è conseguenza della divulgazione di testi ermetici e platonici a opera di Marsilio Ficino: «il rapporto col mondo sensibile diventa solo una fase dell’ascesa conoscitiva, la più bassa; la vera conoscenza è infatti già presente, per quanto sopita, nell’anima umana, e il mondo sensibile può contribuire ad avviare tale processo di anamnesi, ma nulla più» (p. 37). Mi si lasci, in proposito, operare un paio di considerazioni sulla differenza fra questo tipo di neoplatonismo e il movimento anagogico sugeriano (derivante dallo pseudo-Dionigi) del XIII secolo: in Sugerio, o in Dionigi, se si preferisce, noi non abbiamo una conoscenza di Dio (che è la vera bellezza) in potenza, cioè senza saperlo; inoltre il moto anagogico si innesca tramite la materia (le pietre, le gemme, le vetrate) e non tramite la mimesi naturalistica, aspetto che è ritenuto di nessun interesse. Sia per Dionigi sia per Ficino, tuttavia, la vera bellezza è «un’unità superiore priva di parti, che può essere simbolicamente espressa dalla luce» (ivi). Per gli artisti rinascimentali, ne consegue che la vera sfida a cui sono di fronte non è l’imitazione, ma l’invenzione; o, se vogliamo porla in termini platonici, non l’imitazione icastica, ma quella fantastica, quella – chiarisce Marsilio nei suoi scritti di astrologia – propria dei «nati sotto Saturno», aventi un temperamento malinconico, ma capaci di straordinarie intuizioni. Scrive Marsilio ne El libro dell’amore: «Solamente per ispiratione divina potevano gli huomini intendere che cosa fussi la vera bellezza». L’adesione alla mimesi, tuttavia, porta naturalmente – sottolinea Ghezzani – a una sintesi di istanze neoplatoniche e aristoteliche: il bello ideale passa comunque sempre attraverso l’esperienza dei sensi. È proprio quanto capita a Castiglione, quando, nel suo Cortegiano, parla dell’arte. Da un lato il bello artistico risponde a criteri armonici legati alla proporzione, dall’altro esiste un’imitazione che porta a una forma ideale, che tuttavia non può prescindere dal reale. E anche nel caso dell’amore, «dopo aver specificato, in piena ottica platonica, che la bellezza non si manifesta solo come proporzione corporea, ma anche nell’immateriale registro etico e sapienziale, e che questa bellezza spirituale può innescare l’afflato amoroso anche senza la bellezza visuale, [n.d.r Castiglione] ribadisce la sua posizione iniziale: quando si contempla la bellezza fisica indubbiamente la conoscenza dei principi armonici che la regolano, conosciuti dall’artista, aumenta il piacere estetico» (p. 42). In realtà, tramite una serie di citazioni da passi del Cortegiano che non sono compresi alla fine del primo Libro, dove si parla di pittura, Ghezzani si spinge oltre e nota come l’uso del lessico artistico riempia di sé l’opera, non solo – è il caso più noto – nella sezione in cui si parla della sprezzatura, dove lo stesso Baldassarre opera il paragone col pittore, ma anche parlando del ruolo della donna.

 

Baptiste Tochon-Danguy
L’occhio della mente e l’intelletto dello scultore: fonti filosofiche e artistiche nelle Lezzioni sulle arti di Benedetto Varchi.

Anche quello di Tochon-Danguy è un approccio filosofico applicato a una delle figure del Cinquecento fiorentino a suo giudizio più sottovalutata, ossia quella di Benedetto Varchi (1503-1565). L’autore evidenzia le conoscenze e le frequentazioni in ambito artistico di Varchi e come il vocabolario inserito nelle due celebri Lezioni, tenute nel 1547, ma sfociate in un testo a stampa solo nel 1550 [1], manifesti «una continua transizione tra concetti filosofici e lemmi artistici, questi ultimi tratti da lettere di artisti che Varchi inserisce in appendice alla sua lezione sul paragone» (p. 51). In sostanza, Tochon-Danguy sostiene che la vera ambizione di Varchi, con le Lezioni, non fosse quella di operare un esercizio di natura retorica, valutazione nel cui ambito sono state troppo spesso confinate, ma «di formulare una concezione filosofica delle arti del disegno, o, piuttosto, per citare Robert Klein, «di trasformare quella che era stata, durante il Medioevo, una teoria delle arti meccaniche e liberali in una filosofia delle belle arti»» (ivi). La tesi è estremamente affascinante. In realtà mi pare che il saggio si possa dividere in due parti: nella prima l’autore anticipa che Varchi, noto studioso di Aristotele e in particolare del suo commentatore Averroè, usa, quando si tratta di delineare un «sistema delle arti» un approccio sincretico: «non è facile stabilire se le Lezzioni si presentino come un nucleo aristotelico avvolto da un apparente strato di platonismo, oppure come un aristotelismo integrato nello schema neoplatonico» (p. 61). In ogni caso, appare chiaro che Varchi dimostra una vicinanza al mondo dell’arte che non si risolve in mera frequentazione, «ma si estende allo sviluppo di un discorso che si nutre degli argomenti degli artisti, riconoscendo le nuove auctoritates artistiche e il valore teorico della pratica (p. 53) [2]. Il tema appare pertinente con riferimento a una delle motivazioni avanzate a favore della superiorità della scultura nella Lezione sul paragone, in cui alla fatica fisica dell’artefice (argomento portato tradizionalmente a sfavore) si oppone la fatica mentale del medesimo, costretto, per motivi tecnici ben comprensibili, a lavorare senza vedere la figura finita. Quello che Varchi delinea è uno scarto tra il lavoro della mano e quello dell’occhio fisico che, reso impotente dalle costrizioni del lavoro sulla pietra, libera ed eccita l’attività dell’intelletto. «Varchi definisce così una relazione dialettica tra il lavoro manuale sui dettagli, sulle parti che si vedono da vicino, e la concezione intellettuale del tutto, la totalità della figura che non si può vedere in un solo momento» (p. 55): assume una posizione teorica partendo da un’istanza pratica. Nella Lezione sul paragone, tuttavia, egli finisce per stabilire una sostanziale equivalenza fra pittura e scultura, che in realtà è smentita nella Lezione sul celeberrimo sonetto di Michelangelo: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto…» Qui Varchi chiaramente prende posizione a favore della scultura. L’aspetto interessante è che commenta il sonetto del Buonarroti, di per sé apertamente neoplatonico, con argomenti mutuati da Averroè. Il punto di partenza è chiaro: non si può realizzare nulla se prima non lo si è concepito nell’intelletto. Qui, però, viene operata una precisazione: quando si parla di intelletto, in realtà se ne intendono due: uno, universale, è quello che risponde all’anima razionale; l’altro, particolare è ciò che distingue l’uomo dagli animali, ossia la capacità di vedere le differenze fra le cose e di dar loro un valore; di riconoscere, ad esempio, che di fronte a noi sta un uomo e non un cavallo. A questo intelletto particolare si dà il nome di cogitativa. «Nella tradizione averroista, si fa spesso ricorso a una metafora per spiegarne l’azione […]: L’uomo capisce le differenze delle cose, e le loro intenzioni proprie, intenzioni che sono nella cosa sensibile come il nocciolo all’interno della frutta» (pp. 59-60). È evidente, a questo punto, l’analogia con la scultura: la cosa sensibile è il blocco di marmo e il nocciolo la statua che esso contiene e che risulterà una volta tolto il soverchio; quel nocciolo è nella mente dell’artefice grazie alla cogitativa. Ma il passo successivo è il più importante: cavando il soverchio, lo scultore non divide il blocco in tante parti, ma rende perfetta la sostanza che in esso è contenuta. 

Michelangelo, Schiavo che si ridesta (Un prigione), Firenze, Galleria dell'Accademia
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Prigioni#/media/File:Michelangelo,_schiavo_che_si_ridesta.jpg


Conoscere la sostanza è privilegio, dunque, dello scultore, e non del pittore: il pittore dipinge l’aspetto particolare delle cose, ossia gli accidenti, coi colori, le luci, le ombre; lo scultore fa emergere la sostanza, perfezionandola nello stesso momento in cui la priva del soverchio, colore e movimento compresi. Mi si lasci aggiungere un aspetto ulteriore. Già Alberti, nel De statua, aveva parlato della possibilità di «liberare» una statua dal blocco di marmo che la conteneva e aveva sostenuto di poterlo fare perfettamente; si trattava, tuttavia, in quell’occasione, di un procedimento basato sulla matematica, sull’uso dell’exempeda e di altri strumenti di misurazione. Quello che per Alberti era aspetto meramente matematico, per Varchi (e per gli scultori) è un fatto cognitivo.

In realtà, e qui mi fermo, si tratta di capire fino a che punto l’impostazione varchiana ebbe successo. Tochon-Danguy conclude il suo saggio scrivendo che «il lavoro dello scultore assume progressivamente, nel corso del Cinquecento, una dimensione universale, sulla quale sia i poeti che gli scrittori e i filosofi possono riflettere congiuntamente» (p. 66). Al netto di richiami a Vasari e a Doni operati in precedenza, si tratta di capire se ciò avvenga anche per merito di Varchi o se, invece, il suo tentativo di sistematizzare le arti belle passi, tutto sommato, inosservato. Sotto questo punto di vista, un dato cronologico mi sembra possa dare una risposta immediata: le Lezioni escono nel gennaio 1550; lo stesso anni (e poi nel 1568) sono pubblicate le Vite di Vasari, contenenti anche la parte iniziale con le Teoriche. Pare logico pensare che gli scritti varchiani cadano in un cono d’ombra da cui, forse, stanno uscendo completamente solo ora.

 

David Zagoury
«Queste tue historie del Bugiale di Plinio»: umorismo ed eterodossia nella critica d’arte a stampa (1546-50).

Zagoury parte da un dato oggettivo: attorno alla metà del secolo si affollano la redazione e la pubblicazione di una serie di scritti dedicati all’arte. Nella loro struttura, questi testi mostrano un’estrema varietà: si va dai dialoghi alle trattazioni storiche basate su una lettura evolutiva del fare artistico, precedute da un prologo di natura teorica (le Vite di Vasari). Ridurre a sistema il tutto è difficile, e soprattutto non è detto che sia corretto. Dal suo punto di vista, Zagoury propone una linea interpretativa originale in merito agli scritti e ai loro autori; si tratta di una visione che parte dall’esame dell’atteggiamento di questi ultimi nei confronti della «fantasia». In un contesto in cui la «fantasia» è guardata con sospetto e ambiguità (benissimo quando con essa si intende un approccio platonico all’imitazione, ossia l’imitazione fantastica, ma molto male quando è assimilata a caos e disordine), Zagoury individua due «partiti», uno severo e conservatore (Vasari e tutto il gruppo degli intellettuali medicei, ad esempio) che la condanna, e un altro che se ne lascia affascinare. Il secondo gruppo, che trova un suo embrionale nucleo nelle pasquinate romane dell’Aretino (vera e propria «critica» d’arte, intesa come invettiva nei confronti degli autori), ha il suo esponente più rappresentativo in Anton Francesco Doni. In generale, esiste un tema specifico che funge da cartina di tornasole in merito, ossia quello delle grottesche. Uniche testimonianze della antica pittura romana, le grottesche propongono all’artista e agli eruditi una contraddizione concettuale evidente: in un mondo in cui ciò che conta è l’imitazione dell’antico e della natura, la sola figurazione arrivata sino ai primi del Cinquecento è manifestamente antinaturalistica. [3] Ma il conflitto fra partiti pro e anti fantasia ha una sua esplicita manifestazione anche nei generi letterari scelti per scrivere d’arte; da un lato il dialogo, che affonda a sua volta le sue origini nel burlesco e negli scritti greci di Luciano di Samosata (che di arte scrisse molto, per inciso); dall’altro «l’enciclopedismo e l’esaustività totale delle biografie e della prefazione tecnica, oppure della molto seria lezione filosofica del Varchi» (p. 70). Il tema è molto stimolante e merita di essere approfondito, ma confesso di non aver un’opinione ben precisa in merito; il rischio che mi pare si possa intravvedere nelle tesi dell’autore è quello di una lettura ex-post, che riempia di contenuti teorici fenomeni storici verificatisi senza una precisa consapevolezza delle cose (ad esempio, non mi convince del tutto la figura di Lomazzo vista come erede della letteratura eterodossa di Doni; Lomazzo scrisse sì i Rabisch, il Libro dei Sogni, Le rime ad imitazioni dei Grotteschi, ma anche l’Idea del Tempio della Pittura e il Trattato dell’Arte della Pittura, Scultura et Architettura).

 

Jonathan Schiesaro
Un «praticone senza cuiussi»? Anton Francesco Doni scrittore e teorico d’arte.

A Jonathan Schiesaro spetta un compito fra i più ardui, ossia quello di valutare quali siano le idee di Anton Francesco Doni in ambito di teoria dell’arte. Ammesso che ve ne fossero, verrebbe da aggiungere. Doni, bollato in senso spregiativo con il termine «poligrafo», scrisse tutto e il contrario di tutto con una disinvoltura che spesso ha lasciato interdetti. È fuori di dubbio che conoscesse e frequentasse artisti, come gli scultori Baccio Bandinelli e Giovanni Angelo Montorsoli. Egli stesso si definisce, con un lessico certo non classicista, un «praticone senza cuiussi», ossia un uomo molto pratico d’arte, senza però ricorrere a frasi latine dotte citate per pura pedanteria [4]. E indubbiamente gli scritti del Doni presentano diversi riferimenti all’arte. Il problema è che – e qui rimando a Giorgio Masi, «Cose rare e mirabili». L’artigianato letterario di Anton Francesco Doni -, in un mondo in cui tutto e il contrario di tutto sono già stati detti, al fiorentino girovago interessa molto più il virtuosismo compositivo delle sue opere che il loro contenuto strictu sensu. L’esito finale del ragionamento di Schiesaro mi sembra molto equilibrato: «al netto dei copiosi riferimenti alla materia figurativa (oggi meritoriamente studiati e valorizzati) che si rintracciano agevolmente nell’opera del Doni, è soprattutto nelle lettere, nella Diceria [n.d.r. al Montorsoli] e nel Disegno che pare emergere una timida inclinazione alla teorica d’arte, le cui coordinate si presentano però, a un attento esame, più come il prodotto dell’interesse e della curiosità militante di un letterato frequentatore di artisti […] che non già, organicamente, come spia di un sistema strutturato e coerente» (pp. 93-94). Il lasso di tempo che comprende la Diceria a Giovanni Angelo Montorsoli e il Disegno va dal 1547 al 1549. Il tema che attrae l’attenzione di Schiesaro è il paragone delle arti: nella Diceria, in più di un’occasione, Doni ribadisce che le arti figurative sono tre, ma non pittura, scultura e architettura, come ci verrebbe da pensare, bensì disegno, pittura e scultura. A suo giudizio esse stanno su un piano del tutto equivalente, create da Dio nello stesso momento, e l’autorità che certifica il tutto è Michelangelo: «perché egli è così valente nel disegno come nella pittura e scultura» (il michelangiolismo di Anton Francesco è ben noto). Due anni dopo, nel Disegno (1549) le cose cambiano completamente: disegno, pittura e scultura non sono più arti equivalenti e create nello stesso momento, ma disposte in senso gerarchico. Dapprima viene il disegno, concepito direttamente da Dio; poi scultura e, infine, la pittura. Quest’ultima valutazione è operata, nella finzione letteraria, da Baccio Bandinelli, conoscenza fiorentina del Doni e da un certo momento in poi anche suo parente acquisito. Bandinelli era stato il grande escluso dall’inchiesta varchiana sul paragone e la sua presenza può essere il tentativo di una forma di rivalsa. Si è discusso, in realtà, se il Disegno sia stato scritto come reazione al Dialogo di pittura di Paolo Pino (1548), verso cui non è certo tenero, o se, invece, fosse risposta alla disputa varchiana [5], che, pure, come visto, fu pubblicata solo nel 1550. Schiesaro fa notare che, nello stesso periodo in cui Doni scriveva il Disegno, Bandinelli stava redigendo il suo Libro del Disegno, rimasto manoscritto: «Nel trattato [n.d.r. di Bandinelli] si osservano conclusioni molto simili a quelle che emergono dalla sesta parte del dialogo doniano: il primato del disegno, seguito, nell’ordine, dalla scultura e dalla pittura, ed elementi di ispirazione vagamente neoplatonica, come l’idea di un demiurgo primo creatore del disegno. Nel dialogo del Doni prevale, tuttavia, l’interazione di elementi eterogenei, come si evince dagli argomenti chiamati in causa dai dibattenti, non sempre chiaramente inquadrabili dentro una prospettiva unitaria e coerente» (p. 89).

 

Diletta Gamberini
«La mirabile invenzione di Laocoonte»: polimatia di riuso in una pagina del Disegno di Anton Francesco Doni.

Mi si passi il termine: il contributo di Diletta Gamberini è una specie di spin-off del suo Le parole per l’immagine della sofferenza. I letterati rinascimentali alla prova del Laocoonte, alla cui recensione rimando. Il termine polimatia sta a indicare l’accumulazione di nozioni disparate, provenienti da diverse fonti, ma ha, intrinsecamente, anche un valore riduttivo: sta a segnalare l’incapacità di rielaborarle in maniera organica e sistematica. Gamberini prende in considerazione una pagina del Disegno doniano, cercando di «mettere in luce gli intarsi di reminiscenze che si concentrano nella sezione centrale della quinta parte dell’opera», in cui è presente il richiamo al gruppo scultoreo del Laocoonte. Emergono da un lato tematiche albertiane, che sono fortemente estremizzate; dall’altro, tuttavia, appare evidente che Doni si ispira anche alle composizioni poetiche di primo Cinquecento realizzate poco dopo la riscoperta dell’opera, in particolare al De Laocoontis Statua, scritto nel 1506 dal Sadoleto. Uscendo dal caso doniano, mi pare molto interessante un’osservazione conclusiva: «Lina Bolzoni ha […] dimostrato come anche le Vite vasariane ricorrano in via strategica a citazioni, parafrasi e più dissimulate memorie dei versi che poeti antichi e moderni avevano dedicato ad artisti o alle loro creazioni» (p. 108).

 

Sara Stifano
Vasari, Condivi, Cellini: le “carezza torbide” di Cosimo I nelle biografie e autobiografie d’artisti.

L’autrice esamina le varie prospettive con cui i Medici (in particolare, ma non solo, Cosimo I) compaiono nell’autobiografia vasariana allegata alle Vite del 1568, nella quasi-autobiografia di Michelangelo scritta dal Condivi (1553) e nell’autobiografia di Benvenuto Cellini. Limitando per ora il giudizio a Vasari e a Cellini, «il ritratto di Cosimo che emerge […] è contrastante ma rivela le sfaccettature di un uomo di potere capace di sostenere e patrocinare gli artisti e al contempo di ammaliarli e usarli» (p. 125). In Cellini si manifesta il carattere fortemente individualista di un artefice che non manca di ricordare l’amicizia che legava le due famiglie, la conoscenza personale del duca, le sue promesse di adeguate ricompense, ma anche le delusioni e le richieste disattese. In particolare, poi, è interessante che Cellini riconosca a Cosimo la piena competenza sul piano della politica, ma la sua impreparazione nell’ambito del giudizio artistico: «alla forza del Duca in tutti gli altri campi, fa da contraltare la forza del Cellini nel campo dell’arte» (p. 129). Narrando la vicenda del Perseo (e dei dubbi di Cosimo insinuati da Baccio Bandinelli, nemico personale di Benvenuto), Cellini fa capire di essere «superiore persino al padrone di Firenze che «con grande difficoltà» resta a sentire le ragioni tecniche di Benvenuto e che se ne va «scotendo il capo» per poi riempirsi di meraviglia quando, alla prova dei fatti, Benvenuto proverà il vero» (p. 130). 

Benvenuto Cellini, Perseo, Firenze, Piazza della Signoria
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Perseo_con_la_testa_di_Medusa#/media/
File:Firenze.Loggia.Perseus02.JPG


Il suo porsi nel confronto di Cosimo è chiaramente enunciato nel testo: rispetto, ma rivendicata incapacità di adulazione; consapevolezza, quindi, dei limiti di chi governa e indipendenza di giudizio. Vasari, al contrario, è cortigiano fino al modello e ha ben chiaro che la sua fortuna personale dipende dalla fiducia che gli ha accordato e continua ad accordargli il duca: «Nulla del Cosimo mercante [n.d.r. aspetto evidenziato da Benvenuto], permaloso, inesperto si ritrova nelle Vite vasariane. Al contrario, dal momento in cui il Duca chiama Vasari a Firenze l’apoteosi politica del primo e l’apoteosi artistica del secondo procedono di pari passo» (p. 131). Quello di Vasari «è un Cosimo […] che mantiene le promesse, che riconosce le fatiche dell’artista e che ha anche una visione artistica, legata naturalmente alla propria affermazione» (p. 132). A ogni modo, le testimonianze di Cellini e Vasari stridono rispetto alla biografia michelangiolesca del Condivi. Il motivo è banale e non è solo legato al fatto che Michelangelo dal 1534 in poi abbandonò definitivamente Firenze, non avendo modo di lavorare per il duca: Buonarroti ha profonde simpatie per la repubblica e lo stesso Condivi è un fuoriuscito fiorentino; per questo non è mai nominato. Eppure, Cosimo trova il modo ugualmente di servirsene e ciò accade in occasione della traslazione della salma dell’artista a Firenze e della celebrazione delle sue esequie (a cui, peraltro, il granduca non partecipò direttamente). La celebrazione di Michelangelo diventa, nelle pagine delle Vite, anche celebrazione della dinastia medicea: «è un dato altamente significativo che la vita giuntina di Michelangelo si chiuda non tanto sulla nota celebrativa dell’artista quanto su quella del generoso e magnanimo Duca» (p. 123).

 

Frédérique Dubard de Gaillarbois
Per una riedizione dell’Orazione funebre di Michelangelo Buonarroti scritta da Benedetto Varchi.

L’autrice del saggio ha curato di recente l’edizione critica bilingue (italiano e francese) dell’Orazione del Varchi: Oraison funèbre de Michel-Ange, Paris, Sourbonne University Press, 2024. L’approccio è simile a quello di Baptiste Tochon-Danguy, già esaminato in precedenza: Varchi non è puro retore, ma ha precise preferenze di carattere filosofico ed estetico con cui prova a sistematizzare il mondo delle arti figurative. Il contributo, peraltro, è particolarmente coraggioso sin dall’inizio, in cui l’autrice dichiara, a proposito di Varchi: «Senza disconoscere gli ovvi meriti di questi studiosi […] occorre […] diffidare dei sommari e piuttosto sprezzanti giudizi delle madri e dei padri nobili della storia dell’arte – Paola Barocchi (cfr. Vasari, 1966-87) e i Wittwkower (1964) – e del grigiore nel quale Varchi fu avvolto da Julius Schlosser» (p. 135). Dubard parte dalla semplice considerazione che l’Orazione di Varchi ha avuto una particolare sfortuna critica, specie se confrontata con il libretto delle Esequie del divino Michelagnolo Buonarroti (1564), che fu peraltro quasi integralmente trascritto da Vasari nelle Vite giuntine. Quel libretto, la cui paternità non è stata ancora accertata, contiene la preziosissima descrizione degli apparati funebri allestiti in occasione delle esequie al Buonarroti; curiosamente, tuttavia, nessuno ha notato che l’Orazione ne costituisce, per così dire, la colonna sonora, testimoniando un legame stretto e intimo con l’apparato allestito a San Lorenzo. Di quest’ultimo conosciamo gli artefici, ma non l’ideatore; o, per meglio dire, Vasari, nelle sue Vite, attribuisce il tutto a Vincenzio Borghini, circostanza di cui Dubard dubita, sulla base della lettura delle missive scambiate fra Vasari e Borghini, che testimoniano un’altra storia, fatta di continui contrattempi e dell’incapacità a coordinare fra loro i vari gruppi di artefici coinvolti. E, pure, se l’allestimento presenta un fatto eccezionale, cioè, la realizzazione di una biografia illustrata e allegorica di un artista scandita da una quarantina di opere fra dipinti e sculture, un inventore e coordinatore ci dev’essere stato. L’autrice è convinta che sia stato Varchi, a cui molti degli artisti coinvolti erano strettamente legati. La censura di Varchi da parte di Vasari non sarebbe, a tal proposito, un’operazione inconcepibile se è vero che, nelle Vite, Giorgio cassò la seconda delle due Lezioni varchiane sulle arti (quella sul paragone) riducendo la figura di Benedetto a quella di un letterato, ma non di un teorico dell’arte.  La regia varchiana risulterebbe confermata dalla pubblicazione, appena un mese dopo i funerali, della Selva delle notizie di Borghini, in cui, a quattordici anni di distanza, si recensiva e stroncava l’antologia di pareri sul paragone forniti a Borghini in occasione delle Due lezioni. Un’operazione che si spiega meglio se si pensa che quel testo potesse essere tornato in auge proprio in seguito all’Orazione. Ora, sia chiaro: Dubard ci presenta, di fatto, un teorema; non ha prove e legge tutti gli indizi in un’unica direzione. Io non amo molto questo tipo di approccio, ma, nel caso specifico, devo ammettere che il suo è un impianto complessivo credibile. Temo che, per stabilire se sia anche vero, dovremo attendere ulteriori ritrovamenti documentari. Mi paiono, peraltro, molto interessanti le considerazioni sull’Orazione in cui l’autrice fa presente che, di fatto, siamo di fronte a un’ulteriore biografia di Michelangelo, dopo la prima, contenuta nella Torrentiniana del 1550 e quella di Condivi del 1553. Tuttavia, si tratta di una biografia diversa, perché rinuncia preventivamente (o limita) all’elencazione dei fatti storici, per i quali rimanda alle precedenti, adottando «un approccio assai diverso […]: più interpretativo che documentario, più selettivo che esaustivo» (p. 149). Il Michelangelo che ne consegue è non solo artista, ma anche poeta e filosofo (come nelle Due lezioni), teologo (in quanto arrovellato da una serie di dubbi di ordine religioso) e matematico. In un confronto che non mi pare si regga su basi evolutive, Varchi, di fatto seleziona nell’arte fiorentina del Cinquecento due figure di uomini universali, ossia Leonardo e Michelangelo stesso, «uniti da quella stessa trasgressività, id est “mostruosità” […] che Vasari e Borghini si affannarono invece a circoscrivere, inquadrare, normalizzare nella Giuntina» (p. 153). Fin qui tutto bene. L’aspetto su cui personalmente resto più dubbioso (e non escludo di aver capito male) è l’evoluzione della teoria artistica varchiana fra Due lezioni e Orazione; nelle prime Varchi sancisce la diversità fra poesia e pittura; nella seconda scrive che «sono sorelle carnali, non essendo altra amendue, che imitazione; e niuno mai non imitò meglio […] né più meravigliosamente del Buonarroto» (p. 151). Con questa affermazione – scrive Dubard – Varchi, dopo averne probabilmente rappresentato l’apice, chiude il discorso del paragone fra le arti, estendendo l’equivalenza pittura-scultura anche alla poesia e spostando l’attenzione non più sullo status, ma sull’effetto delle discipline, figurative o letterarie che esse siano. Il tutto sarebbe avvenuto a lettura avvenuta del Paragone delle arti leonardiano. Io non sto qui contestando la possibilità che, in qualche modo, Varchi possa essere venuto a conoscenza del Paragone del vinciano. Dico, invece, che in quel testo Leonardo non sancisce alcuna equivalenza fra le arti e in particolare nessuna sorellanza fra pittura e poesia (al massimo fra pittura e musica e una parte della scultura, quella bronzea), essendo la pittura, legata al senso della vista, ontologicamente precedente in termini cognitivi alla poesia che si basa sull’udito. Qui, davvero, avrei bisogno di capire meglio.

 

Eliana Carrara
«Con questa voce sola si possono chiamare i veri disegni» considerazioni sulle Regole del disegno di Alessandro Allori.

Carrara colloca i Ragionamenti delle regole del disegno di Alessandro Allori (1535-1607) all’interno di un periodo storico, di fatto quello compreso fra la Torrentiniana e la Giuntina, in cui la nozione di «disegno» si approfondisce e s’allarga notevolmente. Basta, a tal proposito, partire dalle Teoriche della Torrentiniana, in cui la pittura nasce dal disegno e dall’aver ritratto figure naturali o copiato da modelli, deve essere esercitata continuamente e deve essere tale da far apparire le cose vere e in rilievo («E questo è il vero disegno») per arrivare alla Giuntina, in cui il disegno è associato a pittura, scultura e architettura, ed ha particolare rilievo per l’architetto perché in esso, sostanzialmente, si esaurisce il suo lavoro, essendo la messa in opera demandata alle maestranze. Ma espressione di questo approfondimento (che trova riscontro anche nel carteggio fra Borghini e Vasari) è, peraltro, nel lungo brano posto a preambolo del XV capitolo delle Teoriche giuntine, che esordisce con la celebre affermazione secondo la quale «il disegno, padre delle tre arti nostre architettura, scultura e pittura, procedendo dall’intelletto cava di molte cose un giudizio universale simile a una forma overo idea di tutte le cose della natura». I Ragionamenti di Allori – vedi infra il saggio di Marco Nava – sono rimasti allo stato di manoscritto e sono divisi in vari fascicoli che testimoniano diverse fasi di lavorazione. Nella redazione del fascicolo B, collocabile cronologicamente fra 1567 e 1569, Carrara rintraccia un periodo che, di fatto, riecheggia ad verbatim parte del preambolo del XV capitolo (e di una precedente missiva di Vasari a Borghini del 1564), a dimostrazione di un comune sentire che, nel caso di Allori si traduce su un piano didascalico, «incentrato sulla trasmissione diretta fra maestro ed allievo». Per la sua natura «pratica» il trattato di Allori «costituisce […] un importante precedente per il De’ veri precetti della pittura di Giovan Battista Armenini» (p. 173).

 

Marco Nava
Per un’edizione dei Ragionamenti delle regole del disegno di Alessandro Allori.

Marco Nava sta lavorando da tempo a un’edizione genetica dei Ragionamenti delle regole del disegno di Alessandro Allori (1535-1607), che sono stati oggetto della sua tesi di Ph.D. L’esistenza dei Ragionamenti è testimoniata sin dal 1584 da Raffaello Borghini nel suo Il Riposo. Nonostante gli auspici di Borghini, l’opera non fu mai pubblicata perché rimase incompiuta. La Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze conserva, rilegati tutti insieme (Cod. Pal. E.B.16.4), sei quaderni manoscritti che testimoniano varie fasi di stesura del lavoro di Allori, un lavoro che lo accompagnò per una vita, visto che il primo manoscritto è databile attorno al 1565 e l’ultimo potrebbe poter essere di poco precedente alla morte. Proprio per questo Nava prepara un’edizione genetica, che faccia, cioè, chiarezza sul percorso evolutivo del testo. Nel caso specifico, nessuno dei quaderni sembra derivare dalla semplice riscrittura del precedente con aggiunte o correzioni; è preferibile pensarli come tappe di un percorso in cui i ripensamenti investono la stessa struttura dell’opera e denotano, in più punti, i dubbi e le incertezze dello scrittore dilettante. Nel loro impianto i Ragionamenti dovevano essere un trattato didattico scritto in forma di dialogo che aveva esplicitamente per destinatari giovani nobili della Firenze colta e facoltosa. Oggetto del trattato era l’insegnamento del disegno, padre di tutte le arti (siamo in anni vasariani) avvalendosi sia di una componente testuale sia di un apparato illustrativo, che appare nettamente prevalente. «L’ambizioso progetto, concepito idealmente per la stampa, si è tuttavia arrestato dopo una lunga fase di elaborazione al primo di numerosi libri previsti, che avrebbero dovuto illustrare i procedimenti per raffigurare il corpo umano nelle sue diverse pose (frontale, di profilo e di tre quarti) e nelle due tre “divisioni” (lineamenti, muscolatura, ossa)» (p. 176). Siamo lontanissimi, mi pare di capire, dagli album di disegni utilizzati a fine secolo per l’insegnamento ai giovani allievi delle accademie. Qui il livello dell’apparato iconografico è elevatissimo. Non a caso Borghini scrive: «egli va ritrovando ogni vena, ogni nervo, ogni osso, ed ogni muscolo, et ha fatto molte belle notomie in diverse attitudini» (pp. 186-187). Nella realtà dei fatti tutto ciò che ci è arrivato è il testo, affidato a un copista di primo Seicento, del primo libro del trattato e un abbozzo del secondo libro. Da notare che nei quaderni cronologicamente anteriori Allori adotta un modello dialogico che lo vede confrontarsi con alcuni nobili fiorentini realmente esistiti e richiamare l’autorità del suo maestro Bronzino, in caso di dubbi. L’azione si svolge all’interno degli Orti Oricellari. Successivamente (e qui siamo già nel 1575 circa), l’artista cambia idea e torna a essere allievo di Bronzino, dialogando con lui all’interno del suo studio e promettendo di riferire ai medesimi giovani gli insegnamenti ricevuti.

 

Margherita Quaglino
Disegnare e colorire nei Veri precetti della pittura di Giovan Battista Armenini (1586).

Fra i vari contributi presenti nel volume quello di Quaglino è senza dubbio il più tecnico e si occupa di lessico artistico all’interno del trattato di Armenini a partire da un’analisi di carattere quantitativo che conferma, di fatto, la natura prescrittiva dell’opera. Non stupisce che il lessico di Armenini risulti da stratificazione di lemmi precedenti, derivanti, per quanto riguarda la pratica, da ambiti artigianali e, per ciò che attiene la teoria da testi critici a lui cronologicamente più o meno vicini. Mi sembra piuttosto interessante che la lingua denoti un «maggiore investimento tecnico sui sostantivi, mentre ai verbi è demandata la funzione di tessere la trama sintattica dei collegamenti tra i diversi temi in modo perlopiù neutro» (p. 200).

 

Ilenia Pittini
Intorno a Paolo Giovio, scrittore d’arte: genere e modello per una storia della storia dell’arte rinascimentale e ottomana.

È noto che il museo gioviano di Borgovico conteneva anche ritratti di illustri condottieri del mondo musulmano. L’erudito stesso confessava di «peccare» nel desiderio di avere una raccolta la più completa possibile. Ci è altrettanto noto che la versione cartacea dei ritratti gioviani è costituita dai suoi Elogia, che, di fatto, dovevano replicare la simbiosi visivo-testuale realizzata nella raccolta. Tuttavia, mi sembra davvero molto interessante che esistano tracce che fanno pensare al processo inverso, ossia all’adozione del modello gioviano nel mondo musulmano. Il discorso è complicato, in assenza di prove concrete. Si deve sempre stare a confondere un desiderio, del tutto umano e atavico, di «vedere» le fattezze di un personaggio famoso, sia esso amico o nemico, vivo o morto (si faccia riferimento a Tommaso Casini, La molteplicità del volto. Studi per la storia del ritratto dal XVI al XXI secolo) e la specifica volontà di imitare le scelte collezionistiche del vescovo di Nocera. In proposito Pittini ricorda due esempi: lo storiografo ufficiale della corte ottomana tra il 1567 e il 1597, Seyyid Loķmām, che realizza nel 1579 un’opera dedicata ad aspetti, lineamenti, sembianze e qualità dei sultani ottomani, con una chiara attenzione alla fisiognomica; e un altro storico, operante nell’ambito della corte ottomana di Murad III, Mustafa ‘Âli di Gallipoli (attenzione: una città dei Dardanelli), autore di un’opera intitolata Epopee degli Artisti, completata nel 1587 e dedicata specificamente a calligrafi e pittori del mondo islamico. Le sue biografie evidenziano i tratti del carattere e qualità morali dei singoli, andando a costituire duecentosessanta elogi di stampo chiaramente gioviano. ‘Âli «si addentra in una branca meno esplorata, e lo fa da storico, non da artista, intellettuale dalla penna tagliente che, al pari di Giovio, aveva potuto affinare il suo intendimento in materia d’arte grazie alla frequentazione di uno stimolante e generoso ambiente cortigiano» (p. 229). Mi si lasci dire, tuttavia, che l’aspetto più suggestivo, è quello che emerge nel momento in cui lo storico descrive i motivi che lo hanno spinto a scrivere proprio sugli artisti, ossia su sollecitazione di suoi cari amici con talento artistico e di altri critici. Naturalmente può essere solo una casualità, ma è evidente che esiste una forte somiglianza fra queste parole e il racconto vasariano relativo alla cena a Palazzo Farnese in cui Giovio e gli altri gli suggerirono a Giorgio di scrivere le Vite. Ebbene, se ‘Âli conobbe gli Elogia del vescovo comasco, non mi sembra impossibile che gli fossero note anche le Vite di Vasari, che, a questo punto, potrebbero essere considerate modello anche per la sua opera. Siamo nel 1587, quasi vent’anni dopo l’uscita della Giuntina. La mia è una semplice suggestione; bisognerebbe sapere qualcosa in più sulla biografia dello storiografo, innanzi tutto se conoscesse l’italiano. Forse, un giorno, avremo maggiori informazioni in merito. 

 

NOTE

[1] Nel libro compare la data «gennaio 1549», ma va inteso seguendo il calendario fiorentino, che faceva scattare il nuovo anno dal 25 marzo. «Gennaio 1549» va letto, dunque, a tutti gli effetti, «gennaio 1550».

[2] È stata sostenuta l’ipotesi che Varchi abbia concretamente aiutato Benvenuto Cellini nella redazione della sua Autobiografia.

[3] Si veda Damiano Acciarino, Lettere sulle grottesche (1580-1581).

[4] Mi permetto di far presente che l’interpretazione data da Schiesaro a p. 77 non mi convince: per lui «praticone senza cuiussi» starebbe a significare «un osservatore curioso e interessato, ma privo di rigore e di scrupolosità». Avrebbe, insomma, un significato riduttivo. Se leggiamo il contesto in cui è citata, nel Disegno, il senso è più chiaro: «Egl’è pur venuto un tempo che i paperi (come si suol dire) menano a ber l’oche, cioè che ne sa più un praticone senza cuiussi [n.d.r. Doni], che un dottore di poco giudicio con molte lettere». Siamo di fronte, insomma, all’ammissione (anzi, alla rivendicazione) dei propri limiti posta in contrasto con la pedanteria fine a sé stessa dei letterati eruditi.

[5] Si veda in merito Stefano Pierguidi, Il Disegno di Doni e la disputa sul «Paragone»: alle origini dell’Accademia del Disegno. Tuttavia, Pierguidi ritiene che fra la concezione del disegno da parte di Doni e quella di Bandinelli esista uno scollamento che dovrebbe indurre a valutare in maniera molto ponderata la presunta influenza del secondo sul primo.

 

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