Pagine

lunedì 3 marzo 2025

Javier Portús. El concepto de Pintura Española. Historia de un problema

 

Javier Portús
El concepto de Pintura Española.
Historia de un problema


Madrid, Editorial Verbum, 2012

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 


Alla ricerca della «pittura spagnola».

Quello di Javier Portús è un libro che ormai ha quindici anni, ma non li dimostra. In un’opera densissima, di 220 pagine, l’autore ripercorre i momenti principali che hanno portato a parlare dell’esistenza di una specifica «pittura spagnola», in un percorso storico che va dal 1600 al 1950 circa. Portús chiarisce subito di non aver intenzione di proporre una sua definizione in merito, amandole poco, e che qualsiasi affermazione in proposito finisce per costituire una sovrastruttura che include alcune idee forti, escludendone altre. Certamente non è allineato con la visione nazionalistica della pittura della penisola consolidatasi in anni franchisti come ben distinta e peculiare rispetto alle altre europee, a cominciare da quella italiana.

L’interesse di Portús è quello di evidenziare gli snodi principali della vicenda e, per farlo, sono seguite tre piste: la letteratura artistica, il collezionismo o, per meglio dire, l’esame delle modalità con cui erano esposte nelle collezioni le opere spagnole rispetto a tutte le altre e, infine, la consapevolezza degli stessi artisti dell’esistenza di una scuola pittorica spagnola e la loro volontà di rivendicare la loro appartenenza, anche stilistica, alla medesima. Restano escluse dall’analisi le rivendicazioni e i processi legali per veder riconosciuta la natura liberale della pittura e non dover, quindi, pagare le tasse a cui erano invece sottoposti gli artigiani. Si tratta, ad avviso di Portús, di istanze di natura ‘sindacale’, che non necessariamente implicano l’esistenza di una coscienza nazionale.

Questa recensione sarà, necessariamente, organizzata per punti, saltando a volte di palo in frasca. La realtà è che il numero degli spunti che il libro fornisce è tale che non sono in grado di fornire una sintesi narrativa. Mi limiterò, pertanto a segnalare, le situazioni a mio avviso più importanti. Naturalmente seguirò con particolare attenzione le vicende legate alla letteratura artistica spagnola. Spesso, ma non sempre, Portús riprende in mano testi molto noti, come i grandi trattati di Carducho, Pacheco, Martinez e Palomino, di cui ho già avuto modo di parlare o recensendo singole edizioni critiche o nell’ambito delle antologie di Francisco Xavier Sánchez Canton e di Francisco Calvo Serraller, ma lo fa da una prospettiva nuova, non votata esclusivamente all’analisi positivistica delle informazioni o a un approccio puramente teorico, come succede rispettivamente nelle due raccolte appena citate.

 

Dal Seicento a Palomino.

I primi embrioni della coscienza di una scuola pittorica spagnola, che meriti di essere valutata nella sua specificità e di cui si tenta di narrare una storia, possono essere rintracciati in opere su cui non si è riflettuto abbastanza. Ad esempio, nel De varia commensuracion para la Esculptura y Architectura di Juan de Arfe (1585) - si veda l’antologia di Sánchez Canton -, l’autore individua in Alonso Berruguete e Gaspar Becerra gli artefici che «desterraron la barbaridad que en España había hasta su tiempo» (p. 20). È un’affermazione molto simile a quelle italiane riferite a Cimabue e Giotto; qui, tuttavia, il momento dell’abbandono definitivo della barbarie artistica si colloca nella prima metà del Cinquecento e ha una ragione ben precisa: l’esperienza accumulata dai due artefici nelle rispettive permanenze italiane.

Gaspar Becerra, Copia dal Giudizio universale di Michelangelo, XVI secolo. Madrid, Museo del Prado
Fonte: https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/partial-copy-of-michelangelos-last-judgment/72d8e963-8284-4918-bbf6-b429bce0475e?searchid=deac7735-8179-41a4-bc82-0056849d9376

La derivazione dell’arte spagnola da quella italiana è, all’epoca, un fatto ampiamente condiviso. Fray José de Sigúenza, autore di una fondamentale Historia de la Orden de San Gerónimo in cui descrive il patrimonio artistico del Escorial (antologizzata sia da Sánchez Canton sia da Calvo Serraller) è addirittura il primo a parlare dell’esistenza di una «pittura spagnola», ma lo fa in termini negativi rispetto a quella italiana: i pittori locali sono eccessivamente leziosi nell’uso del colore, mentre ben altra è la padronanza coloristica che riconosce a Tiziano e alla pittura veneta (pp. 30-31). Per Sigúenza esiste un «campione» della pittura spagnola e costui è Juan Fernández Navarrete detto il Muto, che riesce a dare consistenza al suo fare artistico partendo proprio da esempi italiani. Resta il fatto che, Sigúenza, l’esempio di Navarrete non genera discepoli, ma si esaurisce con la sua morte.

Navarrete 'El Mudo', Battesimo di Cristo, 1567, Madrid, Museo del Prado
Fonte: https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/the-baptism-of-christ/7ac9dfc6-9032-4259-8d3b-a72de09a7d88?searchid=e1c9d058-0c8a-d592-0535-0819c03db22a


Sin dal primo Seicento, artisti e letterati vivono in un rapporto simbiotico molto stretto. Scrittori spagnoli, ad esempio, presentano liste di artisti spagnoli con toni spesso elogiativi. Fra essi spicca il caso di Lope de Vega che elabora «parnasi» di tal tipo in diverse occasioni, a partire da un poema scritto nel 1602, (l’Hermosura de Angélica), proseguendo con La Jerusalem conquistada (1609). A differenza di Sigúenza, tali elenchi prendono in considerazione uno sviluppo storico e mirano ad affermare la continuità dell’arte spagnola da Navarrete El Mudo fino ai contemporanei, spingendosi a sostenere che la pittura peninsulare non ha nulla da invidiare a quella italiana. Aggiungo io che non è certo un caso che, nel 1629, il Memorial informatorio por los pintores dia conto di una lite fiscale fra pittori e amministrazione finanziaria e che presenti, a sostegno della nobiltà dell’arte, proprio il parere di Lope de Vega. Il letterato era lo scrittore spagnolo più famoso dell’epoca e larga eco deve aver avuto l’elogio della pittura inserito dal medesimo nel Laurel de Apolo (1630), non tanto per elementi nuovi rispetto agli esempi precedenti, ma perché l’opera fu una delle più lette e famose di quel periodo nella penisola iberica.

Sostanzialmente coeva rispetto alle prime opere di Lope de Vega è la redazione, da parte del sivigliano Francisco Pacheco, del Libro de descripción de verdaderos retratos, un’opera mai finita e forse nemmeno destinata a essere pubblicata, che, nell’ambito di una raccolta di «ritratti» figurati e letterari di eruditi e religiosi, pone anche alcuni artisti; fra essi Luis de Vargas. L’occasione è propizia per fornire anche una primissima storia locale (e non nazionale) della pittura andalusa (p. 28). Resta il fatto che l’opera venne pubblicata solo alla fine dell’Ottocento e che, quindi, il «parnaso» di Lope de Vega fu assai più influente rispetto a quello di Pacheco.

Né i Diálogos de la pintura. Su defensa, origen, esencia, definición, modos y diferencias di Vicente Carducho (1633) – si vedano Sánchez Cánton e Calvo Serraller - né l’Arte de la Pintura di Pacheco (1649, ma scritta a partire almeno da trent’anni prima) hanno un’impronta storicistica, come si capisce dai loro titoli. Il loro scopo è quello di sostenere e sancire la nobiltà dell’arte della pittura; naturalmente ciò non impedisce di dire che essi forniscano informazioni di grande interesse Ci si muove, comunque, nell’ambito dell’arte di corte, e dunque di un’arte internazionale, in cui il problema di una storia della pittura spagnola non è preso in considerazione sistematicamente. Ciò non toglie che, nell’Arte de la Pintura, Pacheco non esalti la figura di Velázquez: «Dall’Arte de la pintura sale [n.d.r. per la prima volta] l’immagine nitida di Velázquez come artista stimato dal re, intelligente, con un’identità pittorica forte e concreta, relazionata alla difesa del naturale e ai precedenti nell’opera di Caravaggio. Velázquez ha, nel libro, una funzione somigliante a quella che aveva avuto Navarrete nell’opera di Sigúenza». La figura di Velázquez come riferimento assoluto dell’arte spagnola sarà, da quel momento in poi, una costante mai disconosciuta. La fama dell’artista è consolidata anche dal letterato Francisco de Quevedo, cantore dell’artista nella sua raccolta di scritti intitolata El pincel, pubblicata solo nel 1670, ma composta probabilmente attorno al 1630 e circolante in diverse versioni manoscritte. Qui si fanno presenti alcuni concetti fondamentali, come il suo dipingere a macchie e la sua capacità di rendere gli affetti dei suoi personaggi.

Diego Velázquez, Esopo, 1638 circa, Madrid, Museo del Prado
Fonte: 
https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/aesop/014e0cb2-128c-42d7-a380-df7527e734ce?searchid=c3d7fddd-3553-9efd-4565-4ab8e3985b43


Con il dipanarsi delle vicende artistiche nel Secolo d’Oro della pittura spagnola è normale che emerga una consapevolezza maggiore del fenomeno e l’esigenza, quasi la necessità, di scriverne una storia. Il primo esempio, in proposito, è un caso sfortunato, ossia quello dell’Origen y Yllustracion del Nobilísimo y Real Arte de la Pintura y Dibuxo con un Epilogo y Nomenclatura de sus mas ilustres o más insignes y más afamados profesores di Lázáro Díaz del Valle, opera giuntaci non solo allo stato di manoscritto, ma anche in una fase di lavorazione ancora molto confusa. Più che il risultato effettivo, «è interessante constatare che, a metà del XVII secolo, si fece un tentativo di compilazione di biografie di artisti e, con esso, di articolare timidamente una «storia» della pittura; che questo tentativo provenga dalla mano di un «amatore», e non di un pittore professionista […]; che Velázquez è già identificato come il principale referente di questa storia e che vi era la coscienza che il momento attraversato dalla pittura di corte a metà del secolo fosse di interesse notevole» (p. 45). Pittura cortigiana, si diceva, perché quella di Diaz del Valle è un’opera, come le precedenti di cui si è detto, che ha come riferimento la pittura di corte, di per sé basata su una committenza che ragiona a livello internazionale, di celebrazione di una dinastia e non di una nazione. In questo senso, pur in un’ottica che, di quando in quando, mostra accenti nazionalistici, compaiono anche artisti italiani e fiamminghi.

Sporadicamente, assistiamo anche alla produzione di scritti che mirano a codificare non una tradizione spagnola, ma altre di dimensione locale, in cui la pittura e l’arte, in generale, diventano orgoglio di una città. Nessuno di essi assume la forma di trattato artistico. È il caso, ad esempio, di Siviglia e di diversi scritti (1663-1672) con cui Fernando de la Torre Farfán descrive cerimonie legate alla cattedrale o altre chiese cittadine. Nella sua narrazione, l’autore si dilunga nella descrizione dei dipinti che contengono e finisce per dar vita a un nuovo modello di pittore sivigliano ideale, rappresentato da Murillo (pp. 47-49). Analogo il caso di Diego Ortiz de Zuñiga, che nel 1677 pubblica la storia di Siviglia inglobando in essa aspetti storico-artistici mutuati in parte da Torre Farfán e in parte frutto di sue apportazioni.

I Discursos practicables del nobilísimo arte de la pintura del pittore Jusepe Martínez, scritti attorno al 1675, si distinguono sia dai trattati di Carducho e Pacheco, di ambiente cortigiano, sia dall’elogio di singole scuole artistiche, come quella sivigliana, per l’ambizione di fornire una storia dell’arte spagnola «en diferentes reinos de España». Le sue notizie non riguardano solo i pittori dell’Aragona, di cui è originario, ma anche di altre regioni, che frequenta per motivi lavorativi; in questo senso i più sottovalutati sono gli artefici di Siviglia, area che evidentemente non ha avuto modo di visitare. Da notare anche un cenno alla pittura spagnola dei ‘primitivi’, che loda per la devozione delle opere, che, sotto questo aspetto, dovrebbero essere imitate dai moderni. Va detto che l’opera rimase inedita e fu pubblicata solo a metà Ottocento.

Per avere una storia della pittura spagnola a stampa bisognerà attendere il 1724, quando Antonio Palomino dà alla luce il terzo e ultimo volume del suo Museo pictórico y escala óptica (cfr. si vedano Sánchez Cánton e Calvo Serraller). Il Museo pictórico, il cui primo tomo risaliva al 1715, era un progetto che puntava a coniugare aspetti teorici legati all’apprendimento della pittura con una valutazione storiografica presentata appunto nell’ultimo volume dell’opera, intitolato El Parnaso español pictoresco laureado. Decisive furono le vicende biografiche del pittore: «Palomino fu il primo trattatista spagnolo sulla pittura la cui traiettoria biografica lo mise in condizione di offrire un panorama comprensivo della storia del Secolo d’oro» (p. 55). Larga parte delle 226 Vite che compongono il Parnaso sono dedicate a pittori o scultori spagnoli, anche se non mancano presenze straniere, da Tiziano a Luca Giordano: «anche se il concetto di storia era differente da quello che si affermò a partire dall’Illuminismo, e in esso trovavano spazio informazioni prive di riscontri e a volte leggendarie, [n.d.r. Palomino] costituisce la fonte antica più importante per conoscere lo sviluppo della pittura spagnola e uno strumento fondamentale che facilitò, nelle generazioni seguenti, la presa di coscienza che nel paese si era andata svolgendo un fare artistico importante» (pp. 56-57). Naturalmente l’autore attinge a piene mani da fonti precedenti, ma il suo merito è quello di giungere a una visione complessiva, organizzata in termini cronologici, ma anche con una gerarchia ben precisa, che culmina, naturalmente, con Velázquez. Va detto peraltro che anche i due volumi precedenti forniscono considerazioni storiche non banali. Anche Palomino, naturalmente, riconosce il peso dell’arte italiana su quella spagnola, ma sottolinea come vi siano stati artisti iberici perfettamente in grado di raggiungere livelli qualitativi molto alti anche senza aver vissuto nella nostra penisola, primo fra tutti Murillo. Dalla sua opera, che sarà base per qualsiasi ricostruzione storica successiva, emerge, chiara, la convinzione che la pittura spagnola abbia raggiunto la sua maturità, abbia una propria storia degna di essere ricostruita e sia incardinata su un corpus teorico fondato non solo sui trattati, ma anche sulle rivendicazioni legali in difesa dei diritti degli artisti.

Diego Velázquez, Las Meninas, 1650, Madrid, Museo del Prado
Fonte: 
https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/las-meninas/9fdc7800-9ade-48b0-ab8b-edee94ea877f?searchid=3fd32f1e-6ed1-fe7e-1ccf-a8030980eb87

L’Illuminismo spagnolo (1724-1808).

Portús è subito chiarissimo (p. 87): «Dal punto di vista della presa di coscienza della «pittura spagnola», i fatti più importanti che si verificarono nel corso del XVIII secolo furono i seguenti: a) l’aumento considerevole delle informazioni storiche, grazie a lavori di Antonio Ponz e Céan [n.d.r Bermudez]; b) l’identificazione di una cornice storica e di chiavi estetiche che permisero di rivendicare adeguatamente [n.d.r. le qualità] di questa pittura; c) l’interesse concreto manifestatosi nelle collezioni reali per acquisire opere spagnole, esporle e diffondere la loro conoscenza; d) la volontà di alcuni artisti di identificarsi come eredi di questa tradizione e di rifletterla nelle loro opere.» Va peraltro aggiunto che la nascita della Real Accademia de San Fernando a Madrid nel 1752, se da un lato sancisce il riconoscimento della nobiltà della pittura e ‘istituzionalizza’ il ruolo delle arti nell’ambito dello stato, dall’altro stimola un quadro teorico che non sempre si concilia con le concrete preferenze estetiche degli artisti dell’epoca: «Di fatto, la storia della rivendicazione della pittura spagnola dell’epoca si può descrivere come la tensione fra il desiderio di individuare una storia propria e la necessità di aggiustarla all’orizzonte normativo accademico» (p. 88).

È indicativo, sotto questo punto di vista, il caso di Anton Raphael Mengs, campione del neoclassicismo, che ebbe un ruolo di grande importanza alla corte reale nei due periodi che visse in Spagna (1761-1770 e 1774-1776). Mengs affida il suo pensiero sulla pittura spagnola nella Carta a D. Antonio Ponz sobre el mérito de los cuadros más singulares que se conservan en el Palacio Real de Madrid (datata 1776), che esprime la preferenza neoclassica per un’arte che migliora la natura in termini ideali e che non si limita a recplicarla. Un’arte ‘intellettuale’, dunque, che si alimenta di regole e richiede uno sforzo di comprensione, aliena alla tradizione del Seicento spagnolo. Il giudizio di Mengs sulla pittura spagnola, dunque, non può che essere negativo, anche se, in realtà l’artista dosa le sue considerazioni e non manca di riservare ampie lodi nei confronti del ‘naturalista’ Velázquez (tanto che vi saranno successivi fraintendimenti delle sue parole). Si tratta, in realtà, di un’operazione che è possibile grazie all’ampio spettro di versatilità del pittore spagnolo e, molto probabilmente, perché non viene valutato conveniente provare ad abbattere l’eroe per antonomasia dell’arte della penisola. Cert’è che la scala dei valori appare palese quando Velázquez è messo a confronto con Correggio o Raffaello.

Anton Raphael Mengs, Autoritratto, 1761-1769, Madrid, Museo del Prado
Fonte: https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/self-portrait/6f125017-998e-4ded-9d55-94115e6d3add?searchid=082fd99b-a399-f743-46de-522627ffd842


Un giudizio ugualmente limitativo è espresso da Francisco Preciado de la Vega nella Lettera a Giovan Battista Ponfredi datata 1765 e pubblicata da Giovanni Gaetano Bottari nel sesto tomo delle sue Lettere pittoriche. Siamo, ancora, in ambito accademico: Preciado de la Vega era direttore della ‘succursale’ romana dell’Accademia de San Fernando. Da un punto di vista metodologico, la sua lettera è il primo tentativo di fornire una storia della pittura spagnola che esuli dallo schema delle biografie; in questa cornice Preciado scrive che la maggior parte dei pittori spagnoli ha avuto come stella polare il naturalismo (inteso in senso peggiorativo) e non è riuscita a raggiungere il «gran carácter depurado que en la escuela romana se adquiere con vey y estudiar las estatuas antiguas» (pp. 98-98).

Di lì a qualche anno comincia l’impresa del pittore e viaggiatore Antonio Ponz, ossia la pubblicazione del Viage de España, realizzata in 18 volumi fra 1772 e 1794. Si tratta, in qualche modo, di un’opera di natura enciclopedica, in cui le informazioni fornite sulle diverse aree del paese toccano, ad esempio, anche l’economia, ma che fornisce note molto importanti ed estese sulla pittura spagnola. Ponz evita di presentare un discorso storico sul suo sviluppo; il fatto che presenti proprio nella sua opera la Carta di Mengs di cui abbiamo già parlato fa comprendere che il suo orizzonte è neoclassicista; ma la reale importanza del suo Viaggio è legata all’impressionante mole di nuove informazioni che sono poste a disposizione del lettore e alla creazione di una nuova sensibilità nei confronti del patrimonio artistico, inteso come bene pubblico anche quando in mano a privati. Compare, insomma, un orgoglio nazionale che sarà una cifra che incontreremo spesso di lì in poi, ad esempio ne La pintura. Poema didáctico en tres actos (1786) di Diego Antonio Rejón de Silva, che propone un triumvirato in cima alla pittura spagnola formato da Ribera, Velázquez e Murillo. Gli aspetti caratterizzanti del fare artistico locale sono, ormai immancabilmente, l’imitazione perfetta della natura e la verità e dolcezza del colorito, acquisita elaborando i capolavori veneti e fiamminghi.

Ma la prima storia della pittura spagnola è tracciata nel 1782 da Gaspar Melchior de Jovellanos, una delle figure di spicco dell’illuminismo spagnolo di secondo Settecento, non artista, ma amatore dell’arte, attento ai valori del naturalismo e del sentimento. Si tratta del testo di un discorso tenuto all’Accademia de San Fernando (quindi in territorio ‘scomodo’) in cui scompaiono i giudizi diminutivi di natura neoclassica. L’origine della pittura spagnola è rintracciata in Italia, ma si coniuga con il mecenatismo regio e la costruzione dell’Escorial. Non solo: la storia diventa policentrica e prende in considerazione le esperienze di Toledo, Siviglia, Granada e Valencia. Oltre a Velázquez compaiono elogi di Zurbarán (è uno dei primissimi), El Greco, Murillo. Una delle caratteristiche di Jovellanos è, appunto, una tendenza inclusiva; appare una nuova e strutturata coscienza che la storia della pittura spagnola sia un fenomeno nazionale. In termini cronologici, a fronte dello straordinario sviluppo artistico secentesco, Jovellanos individua un periodo di grossa decadenza nel Settecento che, in ambito architettonico, indica nel cosiddetto «churriguerismo» (che potremmo considerare un barocco degenerato e iperornamentale) e, per ciò che attiene la pittura, trova il suo antieroe in Luca Giordano (di cui Palomino aveva tessuto l’elogio). Solo a metà Settecento assistiamo a una ripresa, che l’autore lega (con chiari intenti celebrativi di natura politica) all’arrivo al trono dei Borbone e alla fondazione dell’Academia de San Fernando.

Ben chiaro a tutti è l’impatto (sulla scia di Jovellanos) del lavoro di Juan Agustin Ceán Bermúdez a cavallo fra Sette e Ottocento, culminante con il Diccionario de los más ilustres profesores de las bellas artes en España (1808). Quella di Ceán è un’autentica rivoluzione, basata sulla verifica critica di tutti i materiali precedenti (a partire da Palomino) e un respiro del tutto inedito, che si allarga alle manifestazioni artistiche spagnole precedenti al Cinquecento. Lo schema resta quello di Jovellanos: interesse per le manifestazioni della pittura spagnola a livello nazionale, comprensivo delle scuole locali, apice con Velàzquez, decadenza di inizio Settecento, sfacelo legato a Luca Giordano, recupero coi Borbone. Ma su Ceán mi permetto di rinviare a due recensioni su questo blog: la prima è a Ceán Bermúdez, Historiador del arte y collecionista ilustrado, a cura di Elena Maria Santiago Páez, e la seconda alla sua inedita Historia del arte de la pintura en España.

 

Il Prado.

Resterebbero da dire tantissime cose. Mi limiterò a segnalare la maturazione dei ragionamenti sulla pittura spagnola nel corso dell’Ottocento e del secolo successivo attraverso la storia del suo Museo più famoso, il Prado, fondato nel 1819. Seguendo il suo allestimento si possono osservare molte cose. Il museo nasce, inizialmente, dalle raccolte reali e riflette quindi lo spirito cosmopolita del mecenatismo regio. È così che, nella prima metà dell’Ottocento, la sua galleria principale è dedicata soprattutto all’esposizione di opere italiane. Eppure, a metà Ottocento, la fama di cui gode la pittura spagnola del Seicento ha travalicato i confini nazionali (mi sia consentito dire: anche in termini di mercato) e se a visitare il museo sono conoscitori come Passavant e Cavalcaselle che ancora, chiaramente, riservano le loro attenzioni all’arte italiana e fiamminga, vi è anche una fetta di pubblico che va rapidamente consolidandosi e che vede la pinacoteca come il luogo migliore per osservare gli sviluppi della pittura spagnola. Il fenomeno si traduce in riallestimenti in cui man mano i dipinti iberici acquistano maggiore visibilità, all’allestimento di sale monografiche (la principale delle quali è dedicata a Velázquez), in un’oculata serie di acquisizioni. Fondamentale è anche il trasferimento delle opere del museo de la Trinidad, avvenuto negli anni Sessanta. Il Prado, come detto, era museo che nasceva dalle collezioni reale, prive, in sostanza, di primitivi spagnoli; il museo della Trinidad, invece, aperto nel 1838, accoglieva le opere provenienti dalle soppressioni ecclesiastiche degli anni Trenta ed era ricco proprio di quelle opere, precedenti al Cinquecento. Il loro trasferimento al Prado, se da un lato pose seri problemi legati agli spazi, relegando molti lavori nei magazzini per decenni, dall’altro permise un allestimento in serie cronologiche molto più completo e la riscoperta di artisti altrimenti ignoti. Riscoperta che, peraltro, non riguardò solo i primitivi, ma anche figure come Zurbarán e molti altri. Nei primi anni del Novecento, poi, sono le mostre temporanee, dedicate ad artisti di cui il museo aveva poche opere (El Greco, ad esempio) che, di volta in volta, portano alla rivalutazione di aspetti rimasti in ombra, il tutto in un’ottica sempre più nazionalista. In questa chiave, ad esempio, va letta la riscoperta delle nature morte (i bodegones), di cui man mano si va rivendicando la specificità e l’autonomia rispetto a quadri di analogo soggetto italiani o fiamminghi. 

Francisco de Zurbarán, Natura morta con limoni, arance e una rosa, Pasadena (CA), The Norton Simon Museum
Fonte: 
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Francisco_de_Zurbar%C3%A1n_063.jpg


Il Prado, dunque, è la cartina di tornasole attraverso cui Portús legge, principalmente, lo sviluppo di un’idea identitaria della pittura spagnola, che viene declinata nella seconda parte del volume seguendone i mille rivoli, di fronte ai quali, per evidenti motivi di spazio, sono costretto a fermarmi.  

Nessun commento:

Posta un commento