Javier Portús
El concepto de Pintura Española.
Historia de un problema
Madrid, Editorial Verbum, 2012
Alla ricerca della «pittura spagnola».
Quello di Javier Portús è un libro che ormai ha quindici
anni, ma non li dimostra. In un’opera densissima, di 220 pagine, l’autore
ripercorre i momenti principali che hanno portato a parlare dell’esistenza di
una specifica «pittura spagnola», in un percorso storico che va dal 1600 al
1950 circa. Portús chiarisce subito di non aver intenzione di proporre una sua
definizione in merito, amandole poco, e che qualsiasi affermazione in proposito
finisce per costituire una sovrastruttura che include alcune idee forti,
escludendone altre. Certamente non è allineato con la visione nazionalistica
della pittura della penisola consolidatasi in anni franchisti come ben distinta
e peculiare rispetto alle altre europee, a cominciare da quella italiana.
L’interesse di Portús è quello di evidenziare gli snodi
principali della vicenda e, per farlo, sono seguite tre piste: la letteratura
artistica, il collezionismo o, per meglio dire, l’esame delle modalità con cui
erano esposte nelle collezioni le opere spagnole rispetto a tutte le altre e,
infine, la consapevolezza degli stessi artisti dell’esistenza di una scuola
pittorica spagnola e la loro volontà di rivendicare la loro appartenenza, anche
stilistica, alla medesima. Restano escluse dall’analisi le rivendicazioni e i
processi legali per veder riconosciuta la natura liberale della pittura e non
dover, quindi, pagare le tasse a cui erano invece sottoposti gli artigiani. Si
tratta, ad avviso di Portús, di istanze di natura ‘sindacale’, che non necessariamente
implicano l’esistenza di una coscienza nazionale.
Questa recensione sarà, necessariamente, organizzata per
punti, saltando a volte di palo in frasca. La realtà è che il numero degli
spunti che il libro fornisce è tale che non sono in grado di fornire una
sintesi narrativa. Mi limiterò, pertanto a segnalare, le situazioni a mio
avviso più importanti. Naturalmente seguirò con particolare attenzione le
vicende legate alla letteratura artistica spagnola. Spesso, ma non sempre,
Portús riprende in mano testi molto noti, come i grandi trattati di Carducho, Pacheco,
Martinez
e Palomino, di cui ho già avuto modo di parlare o recensendo singole edizioni
critiche o nell’ambito delle antologie di Francisco
Xavier Sánchez Canton e di Francisco
Calvo Serraller, ma lo fa da una prospettiva nuova, non votata
esclusivamente all’analisi positivistica delle informazioni o a un approccio
puramente teorico, come succede rispettivamente nelle due raccolte appena
citate.
Dal Seicento a Palomino.
I primi embrioni della coscienza di una scuola pittorica spagnola, che meriti di essere valutata nella sua specificità e di cui si tenta di narrare una storia, possono essere rintracciati in opere su cui non si è riflettuto abbastanza. Ad esempio, nel De varia commensuracion para la Esculptura y Architectura di Juan de Arfe (1585) - si veda l’antologia di Sánchez Canton -, l’autore individua in Alonso Berruguete e Gaspar Becerra gli artefici che «desterraron la barbaridad que en España había hasta su tiempo» (p. 20). È un’affermazione molto simile a quelle italiane riferite a Cimabue e Giotto; qui, tuttavia, il momento dell’abbandono definitivo della barbarie artistica si colloca nella prima metà del Cinquecento e ha una ragione ben precisa: l’esperienza accumulata dai due artefici nelle rispettive permanenze italiane.
La derivazione dell’arte spagnola da quella italiana è, all’epoca, un fatto ampiamente condiviso. Fray José de Sigúenza, autore di una fondamentale Historia de la Orden de San Gerónimo in cui descrive il patrimonio artistico del Escorial (antologizzata sia da Sánchez Canton sia da Calvo Serraller) è addirittura il primo a parlare dell’esistenza di una «pittura spagnola», ma lo fa in termini negativi rispetto a quella italiana: i pittori locali sono eccessivamente leziosi nell’uso del colore, mentre ben altra è la padronanza coloristica che riconosce a Tiziano e alla pittura veneta (pp. 30-31). Per Sigúenza esiste un «campione» della pittura spagnola e costui è Juan Fernández Navarrete detto il Muto, che riesce a dare consistenza al suo fare artistico partendo proprio da esempi italiani. Resta il fatto che, Sigúenza, l’esempio di Navarrete non genera discepoli, ma si esaurisce con la sua morte.
Sin dal primo Seicento, artisti e letterati vivono in un
rapporto simbiotico molto stretto. Scrittori spagnoli, ad esempio, presentano liste
di artisti spagnoli con toni spesso elogiativi. Fra essi spicca il caso di Lope
de Vega che elabora «parnasi» di tal tipo in diverse occasioni, a partire da
un poema scritto nel 1602, (l’Hermosura de Angélica), proseguendo con La
Jerusalem conquistada (1609). A differenza di Sigúenza, tali elenchi prendono
in considerazione uno sviluppo storico e mirano ad affermare la continuità
dell’arte spagnola da Navarrete El Mudo fino ai contemporanei, spingendosi a
sostenere che la pittura peninsulare non ha nulla da invidiare a quella
italiana. Aggiungo io che non è certo un caso che, nel 1629, il Memorial
informatorio por los pintores dia conto di una lite fiscale fra pittori e
amministrazione finanziaria e che presenti, a sostegno della nobiltà dell’arte,
proprio il parere di Lope de Vega. Il letterato era lo scrittore spagnolo più
famoso dell’epoca e larga eco deve aver avuto l’elogio della pittura inserito
dal medesimo nel Laurel de Apolo (1630), non tanto per elementi nuovi
rispetto agli esempi precedenti, ma perché l’opera fu una delle più lette e
famose di quel periodo nella penisola iberica.
Sostanzialmente coeva rispetto alle prime opere di Lope de
Vega è la redazione, da parte del sivigliano Francisco Pacheco, del Libro
de descripción de verdaderos retratos, un’opera mai finita e forse
nemmeno destinata a essere pubblicata, che, nell’ambito di una raccolta di «ritratti»
figurati e letterari di eruditi e religiosi, pone anche alcuni artisti; fra
essi Luis de Vargas. L’occasione è propizia per fornire anche una primissima
storia locale (e non nazionale) della pittura andalusa (p. 28). Resta il fatto
che l’opera venne pubblicata solo alla fine dell’Ottocento e che, quindi, il
«parnaso» di Lope de Vega fu assai più influente rispetto a quello di Pacheco.
Né i Diálogos de la pintura. Su defensa, origen, esencia,
definición, modos y diferencias di Vicente Carducho (1633) – si vedano Sánchez
Cánton e Calvo
Serraller - né l’Arte
de la Pintura di Pacheco (1649, ma scritta a partire almeno da
trent’anni prima) hanno un’impronta storicistica, come si capisce dai loro
titoli. Il loro scopo è quello di sostenere e sancire la nobiltà dell’arte
della pittura; naturalmente ciò non impedisce di dire che essi forniscano informazioni
di grande interesse Ci si muove, comunque, nell’ambito dell’arte di corte, e
dunque di un’arte internazionale, in cui il problema di una storia della
pittura spagnola non è preso in considerazione sistematicamente. Ciò non toglie
che, nell’Arte de la Pintura, Pacheco non esalti la figura di Velázquez:
«Dall’Arte de la pintura sale [n.d.r. per la prima volta] l’immagine
nitida di Velázquez come artista stimato dal re, intelligente, con un’identità
pittorica forte e concreta, relazionata alla difesa del naturale e ai
precedenti nell’opera di Caravaggio. Velázquez ha, nel libro, una funzione
somigliante a quella che aveva avuto Navarrete nell’opera di Sigúenza». La
figura di Velázquez come riferimento assoluto dell’arte spagnola sarà, da quel
momento in poi, una costante mai disconosciuta. La fama dell’artista è
consolidata anche dal letterato Francisco de Quevedo, cantore dell’artista
nella sua raccolta di scritti intitolata El pincel, pubblicata solo nel
1670, ma composta probabilmente attorno al 1630 e circolante in diverse
versioni manoscritte. Qui si fanno presenti alcuni concetti fondamentali, come
il suo dipingere a macchie e la sua capacità di rendere gli affetti dei suoi
personaggi.
Con il dipanarsi delle vicende artistiche nel Secolo d’Oro
della pittura spagnola è normale che emerga una consapevolezza maggiore del
fenomeno e l’esigenza, quasi la necessità, di scriverne una storia. Il primo
esempio, in proposito, è un caso sfortunato, ossia quello dell’Origen
y Yllustracion del Nobilísimo y Real Arte de la Pintura y Dibuxo con
un Epilogo y Nomenclatura de sus mas ilustres o más insignes y más
afamados profesores di Lázáro Díaz del Valle, opera giuntaci non solo
allo stato di manoscritto, ma anche in una fase di lavorazione ancora molto
confusa. Più che il risultato effettivo, «è interessante constatare che, a metà
del XVII secolo, si fece un tentativo di compilazione di biografie di artisti
e, con esso, di articolare timidamente una «storia» della pittura; che questo
tentativo provenga dalla mano di un «amatore», e non di un pittore
professionista […]; che Velázquez è già identificato come il principale
referente di questa storia e che vi era la coscienza che il momento
attraversato dalla pittura di corte a metà del secolo fosse di interesse
notevole» (p. 45). Pittura cortigiana, si diceva, perché quella di Diaz del
Valle è un’opera, come le precedenti di cui si è detto, che ha come riferimento
la pittura di corte, di per sé basata su una committenza che ragiona a livello
internazionale, di celebrazione di una dinastia e non di una nazione. In questo
senso, pur in un’ottica che, di quando in quando, mostra accenti
nazionalistici, compaiono anche artisti italiani e fiamminghi.
Sporadicamente, assistiamo anche alla produzione di scritti
che mirano a codificare non una tradizione spagnola, ma altre di dimensione
locale, in cui la pittura e l’arte, in generale, diventano orgoglio di una
città. Nessuno di essi assume la forma di trattato artistico. È il caso, ad
esempio, di Siviglia e di diversi scritti (1663-1672) con cui Fernando de la
Torre Farfán descrive cerimonie legate alla cattedrale o altre chiese cittadine.
Nella sua narrazione, l’autore si dilunga nella descrizione dei dipinti che
contengono e finisce per dar vita a un nuovo modello di pittore sivigliano
ideale, rappresentato da Murillo (pp. 47-49). Analogo il caso di Diego Ortiz de
Zuñiga, che nel 1677 pubblica la storia di Siviglia inglobando in essa aspetti
storico-artistici mutuati in parte da Torre Farfán e in parte frutto di sue
apportazioni.
I Discursos
practicables del nobilísimo arte de la pintura del pittore Jusepe Martínez,
scritti attorno al 1675, si distinguono sia dai trattati di Carducho e Pacheco,
di ambiente cortigiano, sia dall’elogio di singole scuole artistiche, come
quella sivigliana, per l’ambizione di fornire una storia dell’arte spagnola «en
diferentes reinos de España». Le sue notizie non riguardano solo i pittori
dell’Aragona, di cui è originario, ma anche di altre regioni, che frequenta per
motivi lavorativi; in questo senso i più sottovalutati sono gli artefici di
Siviglia, area che evidentemente non ha avuto modo di visitare. Da notare anche
un cenno alla pittura spagnola dei ‘primitivi’, che loda per la devozione delle
opere, che, sotto questo aspetto, dovrebbero essere imitate dai moderni. Va
detto che l’opera rimase inedita e fu pubblicata solo a metà Ottocento.
Per avere una storia della pittura spagnola a stampa
bisognerà attendere il 1724, quando Antonio Palomino dà alla luce il terzo e
ultimo volume del suo Museo pictórico y escala óptica (cfr. si vedano Sánchez
Cánton e Calvo
Serraller). Il Museo pictórico, il cui primo tomo risaliva al 1715,
era un progetto che puntava a coniugare aspetti teorici legati
all’apprendimento della pittura con una valutazione storiografica presentata
appunto nell’ultimo volume dell’opera, intitolato El Parnaso español
pictoresco laureado. Decisive furono le vicende biografiche del pittore: «Palomino
fu il primo trattatista spagnolo sulla pittura la cui traiettoria biografica lo
mise in condizione di offrire un panorama comprensivo della storia del Secolo
d’oro» (p. 55). Larga parte delle 226 Vite che compongono il Parnaso
sono dedicate a pittori o scultori spagnoli, anche se non mancano presenze
straniere, da Tiziano a Luca Giordano: «anche se il concetto di storia era
differente da quello che si affermò a partire dall’Illuminismo, e in esso
trovavano spazio informazioni prive di riscontri e a volte leggendarie, [n.d.r.
Palomino] costituisce la fonte antica più importante per conoscere lo sviluppo
della pittura spagnola e uno strumento fondamentale che facilitò, nelle
generazioni seguenti, la presa di coscienza che nel paese si era andata svolgendo
un fare artistico importante» (pp. 56-57). Naturalmente l’autore attinge a
piene mani da fonti precedenti, ma il suo merito è quello di giungere a una
visione complessiva, organizzata in termini cronologici, ma anche con una
gerarchia ben precisa, che culmina, naturalmente, con Velázquez. Va detto
peraltro che anche i due volumi precedenti forniscono considerazioni storiche
non banali. Anche Palomino, naturalmente, riconosce il peso dell’arte italiana
su quella spagnola, ma sottolinea come vi siano stati artisti iberici
perfettamente in grado di raggiungere livelli qualitativi molto alti anche
senza aver vissuto nella nostra penisola, primo fra tutti Murillo. Dalla sua
opera, che sarà base per qualsiasi ricostruzione storica successiva, emerge,
chiara, la convinzione che la pittura spagnola abbia raggiunto la sua maturità,
abbia una propria storia degna di essere ricostruita e sia incardinata su un
corpus teorico fondato non solo sui trattati, ma anche sulle rivendicazioni
legali in difesa dei diritti degli artisti.
L’Illuminismo spagnolo (1724-1808).
Portús è subito chiarissimo (p. 87): «Dal punto di vista
della presa di coscienza della «pittura spagnola», i fatti più importanti che
si verificarono nel corso del XVIII secolo furono i seguenti: a) l’aumento
considerevole delle informazioni storiche, grazie a lavori di Antonio Ponz e
Céan [n.d.r Bermudez]; b) l’identificazione di una cornice storica e di chiavi
estetiche che permisero di rivendicare adeguatamente [n.d.r. le qualità] di
questa pittura; c) l’interesse concreto manifestatosi nelle collezioni reali
per acquisire opere spagnole, esporle e diffondere la loro conoscenza; d) la
volontà di alcuni artisti di identificarsi come eredi di questa tradizione e di
rifletterla nelle loro opere.» Va peraltro aggiunto che la nascita della Real
Accademia de San Fernando a Madrid nel 1752, se da un lato sancisce il riconoscimento
della nobiltà della pittura e ‘istituzionalizza’ il ruolo delle arti
nell’ambito dello stato, dall’altro stimola un quadro teorico che non sempre si
concilia con le concrete preferenze estetiche degli artisti dell’epoca: «Di
fatto, la storia della rivendicazione della pittura spagnola dell’epoca si può
descrivere come la tensione fra il desiderio di individuare una storia propria
e la necessità di aggiustarla all’orizzonte normativo accademico» (p. 88).
È indicativo, sotto questo punto di vista, il caso di Anton
Raphael Mengs, campione del neoclassicismo, che ebbe un ruolo di grande
importanza alla corte reale nei due periodi che visse in Spagna (1761-1770 e
1774-1776). Mengs affida il suo pensiero sulla pittura spagnola nella Carta
a D. Antonio Ponz sobre el mérito de los cuadros más singulares que se
conservan en el Palacio Real de Madrid (datata 1776), che esprime la
preferenza neoclassica per un’arte che migliora la natura in termini ideali e che
non si limita a recplicarla. Un’arte ‘intellettuale’, dunque, che si alimenta
di regole e richiede uno sforzo di comprensione, aliena alla tradizione del
Seicento spagnolo. Il giudizio di Mengs sulla pittura spagnola, dunque, non può
che essere negativo, anche se, in realtà l’artista dosa le sue considerazioni e
non manca di riservare ampie lodi nei confronti del ‘naturalista’ Velázquez
(tanto che vi saranno successivi fraintendimenti delle sue parole). Si tratta,
in realtà, di un’operazione che è possibile grazie all’ampio spettro di
versatilità del pittore spagnolo e, molto probabilmente, perché non viene
valutato conveniente provare ad abbattere l’eroe per antonomasia dell’arte
della penisola. Cert’è che la scala dei valori appare palese quando Velázquez è
messo a confronto con Correggio o Raffaello.
Un giudizio ugualmente limitativo è espresso da Francisco
Preciado de la Vega nella Lettera a Giovan Battista Ponfredi datata 1765 e
pubblicata da Giovanni Gaetano Bottari nel
sesto tomo delle sue Lettere pittoriche. Siamo, ancora, in ambito
accademico: Preciado de la Vega era direttore della ‘succursale’ romana dell’Accademia
de San Fernando. Da un punto di vista metodologico, la sua lettera è il primo
tentativo di fornire una storia della pittura spagnola che esuli dallo schema
delle biografie; in questa cornice Preciado scrive che la maggior parte dei
pittori spagnoli ha avuto come stella polare il naturalismo (inteso in senso
peggiorativo) e non è riuscita a raggiungere il «gran carácter depurado que en
la escuela romana se adquiere con vey y estudiar las estatuas antiguas» (pp.
98-98).
Di lì a qualche anno comincia l’impresa del pittore e
viaggiatore Antonio Ponz, ossia la pubblicazione del Viage de España,
realizzata in 18 volumi fra 1772 e 1794. Si tratta, in qualche modo, di un’opera
di natura enciclopedica, in cui le informazioni fornite sulle diverse aree del
paese toccano, ad esempio, anche l’economia, ma che fornisce note molto
importanti ed estese sulla pittura spagnola. Ponz evita di presentare un
discorso storico sul suo sviluppo; il fatto che presenti proprio nella sua
opera la Carta di Mengs di cui abbiamo già parlato fa comprendere che il
suo orizzonte è neoclassicista; ma la reale importanza del suo Viaggio è
legata all’impressionante mole di nuove informazioni che sono poste a
disposizione del lettore e alla creazione di una nuova sensibilità nei
confronti del patrimonio artistico, inteso come bene pubblico anche quando in
mano a privati. Compare, insomma, un orgoglio nazionale che sarà una cifra che
incontreremo spesso di lì in poi, ad esempio ne La pintura. Poema didáctico
en tres actos (1786) di Diego Antonio Rejón de Silva, che propone un
triumvirato in cima alla pittura spagnola formato da Ribera, Velázquez e
Murillo. Gli aspetti caratterizzanti del fare artistico locale sono, ormai
immancabilmente, l’imitazione perfetta della natura e la verità e dolcezza del
colorito, acquisita elaborando i capolavori veneti e fiamminghi.
Ma la prima storia della pittura spagnola è tracciata nel 1782
da Gaspar Melchior de Jovellanos, una delle figure di spicco dell’illuminismo
spagnolo di secondo Settecento, non artista, ma amatore dell’arte, attento ai
valori del naturalismo e del sentimento. Si tratta del testo di un discorso
tenuto all’Accademia de San Fernando (quindi in territorio ‘scomodo’) in cui
scompaiono i giudizi diminutivi di natura neoclassica. L’origine della pittura spagnola
è rintracciata in Italia, ma si coniuga con il mecenatismo regio e la costruzione
dell’Escorial. Non solo: la storia diventa policentrica e prende in considerazione
le esperienze di Toledo, Siviglia, Granada e Valencia. Oltre a Velázquez compaiono
elogi di Zurbarán (è uno dei primissimi), El Greco, Murillo. Una delle
caratteristiche di Jovellanos è, appunto, una tendenza inclusiva; appare una
nuova e strutturata coscienza che la storia della pittura spagnola sia un
fenomeno nazionale. In termini cronologici, a fronte dello straordinario
sviluppo artistico secentesco, Jovellanos individua un periodo di grossa
decadenza nel Settecento che, in ambito architettonico, indica nel cosiddetto «churriguerismo»
(che potremmo considerare un barocco degenerato e iperornamentale) e, per ciò
che attiene la pittura, trova il suo antieroe in Luca Giordano (di cui Palomino
aveva tessuto l’elogio). Solo a metà Settecento assistiamo a una ripresa, che l’autore
lega (con chiari intenti celebrativi di natura politica) all’arrivo al trono
dei Borbone e alla fondazione dell’Academia de San Fernando.
Ben chiaro a tutti è l’impatto (sulla scia di Jovellanos) del
lavoro di Juan Agustin Ceán Bermúdez a cavallo fra Sette e Ottocento, culminante
con il Diccionario de los más ilustres profesores de las bellas artes en
España (1808). Quella di Ceán è un’autentica rivoluzione, basata sulla verifica
critica di tutti i materiali precedenti (a partire da Palomino) e un respiro del
tutto inedito, che si allarga alle manifestazioni artistiche spagnole
precedenti al Cinquecento. Lo schema resta quello di Jovellanos: interesse per
le manifestazioni della pittura spagnola a livello nazionale, comprensivo delle
scuole locali, apice con Velàzquez, decadenza di inizio Settecento, sfacelo
legato a Luca Giordano, recupero coi Borbone. Ma su Ceán mi permetto di
rinviare a due recensioni su questo blog: la prima è a Ceán
Bermúdez, Historiador del arte y collecionista ilustrado, a cura di Elena
Maria Santiago Páez, e la seconda alla sua inedita Historia
del arte de la pintura en España.
Il Prado.
Resterebbero da dire tantissime cose. Mi limiterò a segnalare la maturazione dei ragionamenti sulla pittura spagnola nel corso dell’Ottocento e del secolo successivo attraverso la storia del suo Museo più famoso, il Prado, fondato nel 1819. Seguendo il suo allestimento si possono osservare molte cose. Il museo nasce, inizialmente, dalle raccolte reali e riflette quindi lo spirito cosmopolita del mecenatismo regio. È così che, nella prima metà dell’Ottocento, la sua galleria principale è dedicata soprattutto all’esposizione di opere italiane. Eppure, a metà Ottocento, la fama di cui gode la pittura spagnola del Seicento ha travalicato i confini nazionali (mi sia consentito dire: anche in termini di mercato) e se a visitare il museo sono conoscitori come Passavant e Cavalcaselle che ancora, chiaramente, riservano le loro attenzioni all’arte italiana e fiamminga, vi è anche una fetta di pubblico che va rapidamente consolidandosi e che vede la pinacoteca come il luogo migliore per osservare gli sviluppi della pittura spagnola. Il fenomeno si traduce in riallestimenti in cui man mano i dipinti iberici acquistano maggiore visibilità, all’allestimento di sale monografiche (la principale delle quali è dedicata a Velázquez), in un’oculata serie di acquisizioni. Fondamentale è anche il trasferimento delle opere del museo de la Trinidad, avvenuto negli anni Sessanta. Il Prado, come detto, era museo che nasceva dalle collezioni reale, prive, in sostanza, di primitivi spagnoli; il museo della Trinidad, invece, aperto nel 1838, accoglieva le opere provenienti dalle soppressioni ecclesiastiche degli anni Trenta ed era ricco proprio di quelle opere, precedenti al Cinquecento. Il loro trasferimento al Prado, se da un lato pose seri problemi legati agli spazi, relegando molti lavori nei magazzini per decenni, dall’altro permise un allestimento in serie cronologiche molto più completo e la riscoperta di artisti altrimenti ignoti. Riscoperta che, peraltro, non riguardò solo i primitivi, ma anche figure come Zurbarán e molti altri. Nei primi anni del Novecento, poi, sono le mostre temporanee, dedicate ad artisti di cui il museo aveva poche opere (El Greco, ad esempio) che, di volta in volta, portano alla rivalutazione di aspetti rimasti in ombra, il tutto in un’ottica sempre più nazionalista. In questa chiave, ad esempio, va letta la riscoperta delle nature morte (i bodegones), di cui man mano si va rivendicando la specificità e l’autonomia rispetto a quadri di analogo soggetto italiani o fiamminghi.
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Francisco de Zurbarán, Natura morta con limoni, arance e una rosa, Pasadena (CA), The Norton Simon Museum Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Francisco_de_Zurbar%C3%A1n_063.jpg |
Il Prado, dunque, è la cartina di tornasole
attraverso cui Portús legge, principalmente, lo sviluppo di un’idea identitaria
della pittura spagnola, che viene declinata nella seconda parte del volume
seguendone i mille rivoli, di fronte ai quali, per evidenti motivi di spazio,
sono costretto a fermarmi.
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