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lunedì 24 febbraio 2025

Francesca Dell'Acqua. Iconophilia [...] in Rome, c. 680-880.

 

Francesca Dell’Acqua
Iconophilia:
Politics, Religion, Preaching, and the Use of Images in Rome, c. 680-880.

London and New York, Routledge Taylor&Francis Group, 2020

Recensione di Giovanni Mazzaferro 



La questione delle immagini nell’Occidente cristiano

Ho già avuto modo di parlare della questione delle immagini recensendo, anni fa, un libro scritto da Emanuela Fogliadini, ovvero L'invenzione dell'immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell'icona al secondo concilio di Nicea. Torno sull’argomento, questa volta, per parlare del volume che Francesca Dell’Acqua ha pubblicato nel 2020 e che inquadra la vicenda non da una prospettiva orientale, ma studiando i comportamenti occidentali, soprattutto a Roma e nell’Italia centrale, nei secoli che furono contraddistinti dalla disputa teologica sulle immagini. Va detto, innanzi tutto, che l’approccio di Dell’Acqua è molto differente da quello di Fogliadini: la prima è una storica dell’arte specializzata in medievistica, la seconda una teologa. La prima differenza si coglie esaminando l’arco cronologico dell’indagine: normalmente tale arco va dal 726 circa e l’843. A questa scansione si attiene (sia pur non esplicitamente) Fogliadini. In quel lasso di tempo si collocano alcuni episodi fondamentali che caratterizzano la vicenda:

  • 726 d.C.: Leone III Isaurico, imperatore romano d’Oriente, emana un decreto con cui vieta la presenza nelle chiese di immagini sacre;
  • 754 d.C.: si tiene il concilio di Hieria, in cui viene proclamata ufficialmente l’iconoclastia;
  • 787 d.C.: il (secondo) concilio ecumenico di Nicea abolisce l’iconoclastia, tornando a proclamare l’iconofilia;
  • 814: un nuovo ribaltamento della situazione nell’814, in seguito al sinodo di Costantinopoli, con cui, ancora una volta, si torna a condannare l’uso delle immagini sacre;
  • 843: l’iconoclastia è definitivamente abolita ed è proclamata la Festa dell’Ortodossia, la prima domenica di Pasqua, che celebra il culto delle icone.

In particolare le date del 726 e dell'843 sono state assunte, convenzionalmente, come inizio e fine della lunga esperienza iconoclasta orientale. Naturalmente, nessuno specialista ritiene più valida una scansione così rigida degli avvenimenti, se non altro perché non abbiamo, a oggi, nessuna traccia del presunto decreto di Leone III, che avrebbe dato inizio, improvvisamente, per esclusiva volontà imperiale, a una querelle lunga più di un secolo. Non a caso, sin dal titolo, il libro di Dell’Acqua prende in considerazione un periodo cronologico di un paio di secoli, dal 680 all’880, senza rimanere schiavi di gabbie ormai superate dal tempo.

L’approccio è di particolare interesse: normalmente l’attenzione è tutta giocata, almeno fino al concilio di Nicea, sugli accadimenti orientali; per lungo tempo si è detto che l’Occidente fu coinvolto solo marginalmente nella disputa e che la questione venne a galla soltanto quando il Papa inviò la traduzione latina della professione di fede del concilio niceno a Carlo Magno, re carolingio (dopo il 787). Alla corte carolingia successe ciò che papa Adriano I mai si sarebbe aspettato: fu prodotto un testo, l’Opus Caroli Regis contra Synodum o, più semplicemente, i cosiddetti Libri Carolini, che condannava gli esiti di Nicea. La condanna si basava (anche, ma non solo) su un equivoco derivante dall’uso in sostanza indistinto, nella traduzione latina, del termine adoratio, riferito a due diversi lemmi greci, rispettivamente proskynesis (venerazione, riverenza) e latreia (adorazione in senso stretto). Nei Libri Carolini Carlo Magno e la sua corte respingevano l’adorazione in senso stretto delle immagini. Ne derivò una dura reazione papale a difesa della posizione romana. Pur rinunciando a diffondere i Libri Carolini, Carlo Magno convocò un sinodo a Francoforte nel 794 che, in sostanza, equiparava Hieria e Nicea. Nell’825 il sinodo di Parigi recuperava, in qualche modo, la sintonia con la visione papale sostenendo, nel Libellus Synodalis, l’adozione di una ‘via media’ nell’uso delle immagini negli edifici religiosi. Tuttavia, vi furono strascichi iconoclasti anche nei decenni successivi, in coincidenza con il diffondersi dell’eresia adozionista dalla Spagna ad altre parti dell’impero carolingio [1].

Fin qui, il riassunto dei fatti, un riassunto talmente tagliato con l’accetta che, con ogni probabilità, l’autrice, che insegna Storia dell’arte medievale all’Università di Salerno, mi boccerebbe all’esame. A me interessa, tuttavia, mettere in evidenza alcuni snodi, di merito e di metodo, che rendono l’opera di particolare interesse. È quello che proverò a fare.

 

Il comportamento dei papi

È molto discutibile che le vicende relative all’iconoclastia siano giunte in Occidente soltanto nella parte finale dell’VIII secolo d.C. Oltre al sinodo antiiconoclasta del 731, di cui pure non ci resta nulla - cfr. infra - lo dimostra un’iscrizione risalente al 730 circa, perduta, ma trascritta a cavallo fra 700 e 800, apposta alla chiesa di Corteolona (Pv).

Corteolona (Pavia), Rustico che ingloba resti del palazzo longobardo e della chiesa di Sant'Anastasio
Fonte: Markkv tramite Wikimedia Commons

A Corteolona Liutprando, re dei Longobardi, aveva fatto costruire una sua residenza estiva. L’iscrizione celebra l’immagine del re come pio e devoto e la contrappone a quella dell’Imperatore Leone III che era precipitato dall’alto della dignità che gli era dovuta "nella fossa dello scisma". Pur non facendo nessun riferimento alla scelta iconoclasta di Leone è proprio quest’ultima a fornire l’unica possibile spiegazione alle parole messe in bocca a Liutprando nell’iscrizione. L’ignoranza del tema, del resto, stride se messa a confronto con la mobilità delle persone. Sappiamo che Roma era, all’epoca, una città cosmopolita, con una forte componente monacale di lingua greca. Si dirà che essere di lingua greca non vuol dire che, automaticamente, si venisse da Bisanzio. Prima dell’iconoclastia, è certo che un consistente fenomeno migratorio coinvolse la città nel corso del VII secolo, in coincidenza con l’espansione dell’Islam. Sono note e documentate le azioni con cui vari papi diedero accoglienza a comunità di religiosi e religiose (di lingua greca) provenienti da Siria e Palestina, destinando loro conventi, a Roma e nell’Italia centrale. Non abbiamo, invece, conferma fattuale di trasferimenti altrettanto consistenti in coincidenza delle presunte persecuzioni di Leone III nei confronti degli iconofili. Ciò che è certo, tuttavia, è che, proprio in quei decenni, testi scritti in greco da o su fervidi sostenitori dell’iconofilia raggiunsero Roma e furono letti e tradotti grazie alle comunità monastiche di lingua greca.  Le figure in questione sono quelle del vescovo Andrea di Creta, rimosso e richiamato a Costantinopoli per le sue posizioni iconofile nel 730; del patriarca Germano di Costantinopoli, dimessosi per i medesimi motivi, e di Giovanni Damasceno che si trovava in una situazione relativamente più tranquilla, vivendo a Damasco, in un’area sotto controllo dell’Islam. I suoi tre discorsi scritti a difesa delle immagini sacre furono estesi attorno al 730 e certamente furono letti ben presto a Roma.

Dell’Acqua mette in evidenza un comportamento di fondo che caratterizza tutti i papi che si succedono sul soglio pontificio nei due secoli presi in esame: le loro azioni sono volte a ribadire la supremazia morale del papato sugli altri titolari di sedi patriarcali e tale supremazia si sostanzia nell’essere espressione della fede nella sua forma più ortodossa. Si tratta, a ben vedere, di una supremazia che è riconosciuta alla sede papale sin dal 680-81, quando si svolge a Costantinopoli il sesto concilio ecumenico, riunito per giudicare il monotelismo, che non negava la doppia natura, umana e divina, del Cristo, ma sosteneva l’esistenza di una sola volontà, quella divina. È interessante ragionare sul tema, che sfociò con la dichiarazione di eresia, perché il concilio ecumenico del 680 segnava un riavvicinamento fra Impero e papato, dopo una crisi trentennale legata alla simpatia del Patriarca di Costantinopoli e dell’Imperatore per le tesi del monotelismo; nel 649 papa Martino I aveva convocato un sinodo a Roma che aveva già dichiarato la dottrina come eretica, producendo una raffinata controffensiva teologica sul tema. L’unico risultato che ottenne fu quello di essere prelevato dalla truppe bizantine e, dopo un processo farsa a Costantinopoli, morire in esilio in Crimea. Ebbene, a trent’anni da questi accadimenti, nella risoluzione finale del concilio del 680, l’imperatore Costantino IV definiva il pontefice come «arcivescovo dell’antica e gloriosa Roma e papa dell’ecumene», ossia dell’intera comunità dei fedeli (p. 21). Si trattava di un riconoscimento più o meno implicito a cui i papi non intendevano più derogare. Così si spiega, ad esempio, la dura reazione romana al concilio Quinisesto o in Trullo (692), convocato dall’imperatore Giustiniano II. Fra i suoi esiti ve ne era uno (il canone 82) che codificava la maniera corretta di rappresentare l’immagine del Dio incarnato: la rappresentazione doveva avere sembianze umane, mentre era vietato l’uso simbolico dell’Agnello. Come si può capire, siamo di fronte a un’istanza tutt’altro che iconoclasta. Ma l’aspetto inaccettabile, per papa Sergio I era che, di fatto, l’imperatore decideva cosa fosse o non fosse lecito in materia religiosa; non è certo un caso che proprio in quegli anni Sergio I stabilisca che, nella messa, durante la celebrazione eucaristica, sia cantato l’Agnus Dei.

Molti hanno confuso l’assenza di una posizione teologica esplicita e ufficiale come sostanziale disinteresse nei confronti della questione delle immagini. La circostanza è smentita dalla tenuta di un sinodo antiiconoclasta convocato da papa Gregorio III a fine 731, a Roma. Si tratta di un dato che possiamo desumere dal Liber Pontificalis e su cui poco sappiamo, perché gli atti sono andati perduti, ma le scelte iconografiche di Gregorio non lasciano dubbi sulla sua iconofilia; un secondo sinodo antiiconoclasta risale al 769, dopo il concilio di Hieria. Ancora una volta: i papi non cercarono di elaborare una teologia alternativa a quella discussa in Oriente; proprio perché si consideravano depositari dell’ortodossia, il loro fu un continuo richiamarsi alla tradizione, testimoniata dai Padri della Chiesa. Nel suo libro, Emanuela Fogliadini, da teologa, legge la circostanza come un’oggettiva incapacità di elaborazione teorica da parte occidentale. Dell’Acqua, da storica dell’arte, ma anche da una prospettiva più culturale che artistica, interpreta la vicenda come una scelta premeditata. I documenti, quando esistono, sono semplici florilegia, ossia riproposizioni di brani di scritti dei Padri o, al massimo, di Giovanni Damasceno (p. 50), a segnalare una continuità di comportamento che trova un corrispettivo nelle scelte iconografiche, nelle modifiche alla liturgia, nelle nuove processioni introdotte nel calendario delle feste religiose. Fra le scelte iconografiche segnalo, a puro titolo di esempio, fra i tanti casi proposti da Dell’Acqua, un’immagine fatta realizzare da papa Paolo I (757-767) nell’oratorio di San Pietro dove già si trovava la tomba di Leone Magno e destinata a decorare il sepolcro dello stesso Paolo: si trattava di un’effigie della Vergine «in forma di statua», di argento dorato e pesante 150 libbre. La presenza di una «statua» non può essere confermata, posto che il manufatto è andato perso; più probabilmente, tenuto conto dell’atavica diffidenza cristiana nei confronti delle statue, considerate idoli pagani, si era di fronte a un rilievo di dimensioni così grandi che dava l’impressione di essere una statua, ma che, all’interno di San Pietro, era opportunamente «addomesticato» e «dimostrava che l’autorità spirituale e dottrinale del papa poteva controllare l’idolatria ed essere piegata negli interessi della Chiesa romana» (p. 63). Altro caso di particolare interesse è da ravvisarsi in Santa Maria Antiqua dove Paolo fece dipingere immagini murali che testimoniavano il culto ufficiale di santi non solo occidentali, ma anche orientali. Santa Maria Antiqua era la chiesa più importante per i fedeli di lingua greca in città e non è certo un caso che il pontefice vi operasse una scelta inclusiva, chiaramente contrapposta alle coeve scelte bizantine. Tuttavia, tradirei lo spirito del libro se parlassi solo di manufatti artistici


Santa Maria Antiqua, Roma: Cristo in trono fra santi e martiri occidentali e orientali, 757 -767 circa
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commns


Ambrogio Autperto

La posizione dell’autrice è ben chiara: la ‘semplice’ lettura di realizzazioni artistiche, di dimensioni monumentali o ridottissime, come gli amuleti indossati dai fedeli, non esauriscono le posizioni iconofile del papato. Le opere vanno inserite in un contesto in cui hanno una loro funzioone anche la maggior importanza conferita a particolari processioni, soprattutto quelle mariane; l’elaborazione di traduzioni latine di inni greci, come l’Akathistos; i testi di omelie che, pur non schierandosi apertamente contro l’iconoclasmo, sono imbevuti di spirito iconofilo e presentano quelle che Dell’Acqua definisce «textual icons». In contrapposizione a un mondo come quello bizantino che a Hieria lancia un anatema non solo nei confronti delle immagini, ma anche di chi pensa alla divinità tramite immagini mentali, l’Occidente contrappone testi che sono una sorta di «visibile parlare». La figurazione, insomma, non è solo un dato oggettivo, ma un comune modo di sentire, a cui si fa riferimento sui muri delle chiese, nella liturgia, e nelle omelie. Sempre avendo a mente quest'aspetto, l’autrice dedica tre capitoli a differenti temi iconografici di cui analizza l’evoluzione nei secoli dell’iconoclasmo: Cristo inteso come luce; l’immagine di Cristo come agnello di Dio, raffigurato in piedi sull’altare nel momento della presentazione al Tempio; l’Assunzione di Maria, che è forse l’esempio in cui maggiore è la varietà delle soluzioni figurative proposte in assenza di una esplicita narrazione evangelica dell’episodio.

Assume una particolare rilevanza il ruolo di Ambrogio Autperto (morto nel 784) e dei suoi scritti. Di Ambrogio sappiamo che era di origini francesi e che visse gran parte della sua vita nel monastero di San Vincenzo al Volturno, nel Sannio. Oggi praticamente sconosciuto, dobbiamo pensare a quel monastero come a un centro monastico di particolare importanza, collocato in una zona di confine, nel ducato di Benevento, sotto controllo longobardo, ma non distante dai possedimenti dei Franchi. Certamente Ambrogio fu uomo di cultura e monaco non di secondo piano, se papa Adriano ebbe modo di parlarne a Carlo Magno (anche se non per questioni teologiche). Dell’Acqua mette in evidenza come, nei suoi scritti, Autperto non affronti mai di petto la questione dell’iconoclastia, ma, in sostanza, risulti essere un serbatoio di icone testuali che riflettono un comune sentire dell’epoca. Ampia influenza degli scritti di Ambrogio è rintracciabile nella decorazione della Cripta di Epifanio, che si trovava annessa al monastero di San Vincenzo al Volturno. 

Cripta di Epifanio (San Vincenzo al Volturno): La Vergine assunta in cielo, inizio del IX secolo d.C.
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons 


Si tratta di decorazioni murali che risalgono ai primi decenni dell’800 e che manifestamente sono ispirate ai sermoni di Autperto. In questi ultimi è evidente l’assimilazione di temi provenienti dal mondo orientale di cui il monaco doveva essere tutt’altro che digiuno, molto probabilmente conoscendo il greco o, comunque, grazie alle comunità monastiche appartenenti a quella cultura. Un discorso più complesso è capire se gli scritti di Autperto, che poi ebbero diffusione anche nell’Europa settentrionale, furono di ispirazione non solo per i monaci di San Vincenzo, ma anche per i papi, e in particolare per papa Pasquale I (817-824) per i suoi cicli di decorazione monumentale realizzati a Roma. Sul punto è bene fare propria la posizione dell’autrice: le consonanze sono evidenti; tuttavia dobbiamo abbandonare un certo tipo di atteggiamento che vede deterministicamente il rapporto fra testi e immagini segnato da una relazione di causa-effetto (in qualsiasi direzione essa si muova). È sbagliato, insomma, dire che Pasquale decise il programma iconografico dell’abside della chiesa di Santa Cecilia o in quello di Santa Prassede perché lesse gli scritti di Autperto. È del tutto giustificato, invece, ribadire la comune appartenenza a una visione del mondo iconofila, o, se si preferisce, a una condivisione culturale di temi che sono particolarmente importanti a inizio IX secolo proprio per l’evolvere orientale delle vicende iconoclaste.

Basilica di Santa Cecilia in Trastestevere, Roma: mosaico absidale con (al centro) Cristo, con (a sinistra) papa Pasquale I, l'araba fenice, santa Ceciclia e san Paolo e (a destra) San Pietrom sant'Agata (?) e san Valeriano (?), 819-820 d.C.
Fonte: Di Carlo Raso - https://www.flickr.com/photos/70125105@N06/33159295601/, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=115407775


I papi e il mondo carolingio

Due parole vanno dette anche sul rapporto fra papi e ambienti carolingi. Sappiamo bene che, a metà 700, due mondi che fino a quel momento si erano sostanzialmente ignorati trovarono una loro reciproca convenienza nel sostenersi a vicenda. L’apice di questa alleanza è senza dubbio rappresentata dall’incoronazione di Carlo Magno a Roma, nell’800, a imperatore del Sacro Romano Impero; un impero nuovo, a ben vedere, visto che un legittimo erede dell’esperienza romana esisteva e si trovava a Bisanzio. In un quadro così complesso è appena evidente che i dissidi sulla questione delle immagini emersi coi Libri Carolini, a cui papa Adriano replicò seccamente col suo Hadrianum, una lunga lettera realizzata nel 793, potevano essere potenzialmente esplosivi. Si scelse di non esacerbare gli animi, e alla fine si giunse alla raccomandazione del sinodo di Parigi dell’825 per la venerazione e l’utilizzo delle immagini secondo una ‘via media’. Se è accettabile la considerazione che il papa vide in qualche modo riconosciuto dai Franchi un ruolo spirituale di cerniera fra Oriente e Occidente, non si piò dire, tuttavia, che le vicende che vanno dai Libri Carolini al sinodo di Parigi esauriscano tutte le tensioni in materia religiosa e, più in particolare, di immagini. È esistita, e proprio in territori carolingi, un’iconoclastia occidentale che vide probabilmente nel vescovo Claudio di Torino il suo esponente più rappresentativo. Ma probabilmente la vicenda più intricata è quella legata alla rappresentazione dell’Assunzione di Maria, un tema che Dell’Acqua esplora in tutte le sue implicazioni. Immagini relative all’Assunzione compaiono in Occidente, con una certa varietà iconografica, fra 700 e 800 nell’ambito di una forte spinta al culto mariano voluto dai papi. La varietà nelle rappresentazioni è legata al fatto che l’Assunzione non aveva trovato spazio nei Vangeli, ma solo in testi considerati di dubbia provenienza. La circostanza si scontrava con la politica di Carlo Magno, che si ispirava a un rigido controllo delle fonti scritturali, motivo che spinse a incaricare Paolo Diacono, nel 786-787, di compilare un nuovo omeliario ufficiale che si basasse esclusivamente sulle affermazioni dei Padri della Chiesa e delle Scritture. Vari sinodi locali ammisero la celebrazione dell’Assunzione sub iudice, fino a quando, con un capitolare dell’810, Carlo Magno non l’escluse dalle feste liturgiche carolinge. La decisione non mancò di suscitare reazioni interne, come risulta dal sinodo di Mainz dell’813. Ci troviamo, di fronte, a una situazione di inquietudine, contemporanea allo svolgersi del secondo iconoclasmo orientale e che, formalmente, fu riassorbita nell’826 quando, Luigi il Pio, figlio di Carlo Magno, tornò a inserire l’Assunzione come festa comandata. Le polemiche, tuttavia, non si spensero qui. Sappiamo ad esempio che Pascasio Roberto, abate di Corbie e S. Riquier, produsse un celebre falso, attribuito a san Girolamo, in cui il tema dell’Assunzione era trattato con molta cautela e una chiara propensione a ritenere che solo l’anima di Maria fosse stata assunta in cielo. Da parte sua, il fronte tradizionalista, che si rifaceva al dettato papale, provvide a tradurre e diffondere le omelie di Giovanni Damasceno, Andrea di Creta e Germano di Costantinopoli, unendole in un manoscritto di metà Ottocento intitolato Mariale. A Roma, intanto, la reazione papale fu quella di mettere un atto una serie di comportamenti che non si esaurirono nella realizzazione di opere d’arte, ma che di esse fecero solo una faccia di una realtà prismatica. In questo ambito l’autrice suggerisce che il mosaico nell’abside della chiesa di Santa Maria in Domnica non rappresenti una semplice Maria Madre di Dio (Theotokos), ma vada interpretato come l’immagine di una Madonna assunta, che intercede in cielo per papa Pasquale e per tutti i fedeli, e che può intercedere solo perchè assunta. Non sfuggirà il fatto che quel mosaico fu realizzato fra 818 e 819, entro un decennio dalla decisione di Carlo Magno di escludere l’Assunzione dalle feste di precetto.

Santa Maria in Domnica, Roma: catino absidale con mosaico di Santa Maria Assunta fra angeli e papa Pasquale I in ginocchio, 818-819
Fonte: wiki ktulu tramite Wikimedia Commons

 

In conclusione

Non intendo eludere, da ultimo, un aspetto che mi sta particolarmente a cuore. Questo blog si intitola Letteratura artistica e, con chiaro omaggio a Schlosser, si occupa principalmente di fonti testuali di storia dell’arte. Mettendo in discussione una relazione causa-effetto fra testo e immagine Dell’Acqua sembrerebbe porre in crisi l’utilità stessa delle fonti. In realtà così non è, perché Schlosser non codificò mai una relazione di questo tipo. È tuttavia innegabile una tendenza degli ultimi decenni che tende ad allargare l’ambito delle fonti prendendo in considerazione anche opere, come quelle di Autperto, in cui non si parla direttamente di arte o, nel caso specifico, di iconoclastia; la tendenza è quella ad esplorare culturalmente un fenomeno esperienziale di cui le fonti, ma la stessa arte, sono solo un aspetto parziale. Sinceramente, trovo quest'approccio affascinante, anche se molto pericoloso, perché richiede una conoscenza e oserei dire una sensibilità personale nel capire dove osare e dove, invece, fermarsi e non forzare, doti che non sono comuni a tutti. In questo senso, Iconophilia è davvero un libro esemplare perché tale sensibilità è chiaramente posseduta dall'autrice, che esplora il mondo dell’iconofilia papale nella sua complessità senza dare mai nulla per scontato; il suo grande merito è quello di riportare all’attenzione del lettore un mondo fino a poco tempo fa ingiustamente trascurato a vantaggio delle controversie orientali. A me pare che il risultato sia pienamente conseguito. Senza affrontare - come dichiarato sin dall'inizio - questioni di carattere stilistico, appare chiaro come l’evolversi dell’iconografia occidentale (in particolare romana e centro-italiana) fra 680 e 880 non risponda a criteri ornamentali, ma a esigenze politiche e religiose che ora posso dire di conoscere meglio.


NOTE

[1] L'adozionismo, in realtà, esisteva da tanto, almeno da quando (nel III secolo d.C.) si sostenne che Cristo fosse stato adottato da Dio al momento del battesimo. Nel VII secolo se ne diffuse in Francia una versione più raffinata: Cristo aveva natura divina ed era veramente Figlio di Dio, ma, per quanto riguarda la sua natura umana, essa era conseguita tramite un'adozione. Cristo, nella sua versione umana, era solo 'figlio adottivo' di Dio (e, naturalmente, ne era molto sminuito il ruolo di Maria). 

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