Francesca Dell’Acqua
Iconophilia:
London and New York, Routledge Taylor&Francis Group, 2020
La questione delle immagini nell’Occidente cristiano
Ho già avuto modo di parlare della questione delle immagini
recensendo, anni fa, un libro scritto da Emanuela Fogliadini, ovvero L'invenzione
dell'immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell'icona al secondo
concilio di Nicea. Torno sull’argomento, questa volta, per parlare del
volume che Francesca Dell’Acqua ha pubblicato nel 2020 e che inquadra la vicenda
non da una prospettiva orientale, ma studiando i comportamenti occidentali,
soprattutto a Roma e nell’Italia centrale, nei secoli che furono
contraddistinti dalla disputa teologica sulle immagini. Va detto, innanzi
tutto, che l’approccio di Dell’Acqua è molto differente da quello di
Fogliadini: la prima è una storica dell’arte specializzata in medievistica, la
seconda una teologa. La prima differenza si coglie esaminando l’arco
cronologico dell’indagine: normalmente tale arco va dal 726 circa e l’843. A
questa scansione si attiene (sia pur non esplicitamente) Fogliadini. In quel
lasso di tempo si collocano alcuni episodi fondamentali che caratterizzano la vicenda:
- 726 d.C.: Leone III Isaurico, imperatore romano d’Oriente, emana un decreto con cui vieta la presenza nelle chiese di immagini sacre;
- 754 d.C.: si tiene il concilio di Hieria, in cui viene proclamata ufficialmente l’iconoclastia;
- 787 d.C.: il (secondo) concilio ecumenico di Nicea abolisce l’iconoclastia, tornando a proclamare l’iconofilia;
- 814: un nuovo ribaltamento della situazione nell’814, in seguito al sinodo di Costantinopoli, con cui, ancora una volta, si torna a condannare l’uso delle immagini sacre;
- 843: l’iconoclastia è definitivamente abolita ed è proclamata la Festa dell’Ortodossia, la prima domenica di Pasqua, che celebra il culto delle icone.
In particolare le date del 726 e dell'843 sono state assunte, convenzionalmente, come inizio e fine della lunga esperienza iconoclasta orientale. Naturalmente, nessuno specialista ritiene più valida una
scansione così rigida degli avvenimenti, se non altro perché non abbiamo, a
oggi, nessuna traccia del presunto decreto di Leone III, che avrebbe dato
inizio, improvvisamente, per esclusiva volontà imperiale, a una querelle
lunga più di un secolo. Non a caso, sin dal titolo, il libro di Dell’Acqua
prende in considerazione un periodo cronologico di un paio di secoli, dal 680
all’880, senza rimanere schiavi di gabbie ormai superate dal tempo.
L’approccio è di particolare interesse: normalmente l’attenzione è tutta giocata, almeno fino al concilio di Nicea, sugli accadimenti orientali; per lungo tempo si è detto che l’Occidente fu coinvolto solo marginalmente nella disputa e che la questione venne a galla soltanto quando il Papa inviò la traduzione latina della professione di fede del concilio niceno a Carlo Magno, re carolingio (dopo il 787). Alla corte carolingia successe ciò che papa Adriano I mai si sarebbe aspettato: fu prodotto un testo, l’Opus Caroli Regis contra Synodum o, più semplicemente, i cosiddetti Libri Carolini, che condannava gli esiti di Nicea. La condanna si basava (anche, ma non solo) su un equivoco derivante dall’uso in sostanza indistinto, nella traduzione latina, del termine adoratio, riferito a due diversi lemmi greci, rispettivamente proskynesis (venerazione, riverenza) e latreia (adorazione in senso stretto). Nei Libri Carolini Carlo Magno e la sua corte respingevano l’adorazione in senso stretto delle immagini. Ne derivò una dura reazione papale a difesa della posizione romana. Pur rinunciando a diffondere i Libri Carolini, Carlo Magno convocò un sinodo a Francoforte nel 794 che, in sostanza, equiparava Hieria e Nicea. Nell’825 il sinodo di Parigi recuperava, in qualche modo, la sintonia con la visione papale sostenendo, nel Libellus Synodalis, l’adozione di una ‘via media’ nell’uso delle immagini negli edifici religiosi. Tuttavia, vi furono strascichi iconoclasti anche nei decenni successivi, in coincidenza con il diffondersi dell’eresia adozionista dalla Spagna ad altre parti dell’impero carolingio [1].
Fin qui, il riassunto dei fatti, un riassunto talmente
tagliato con l’accetta che, con ogni probabilità, l’autrice, che insegna Storia
dell’arte medievale all’Università di Salerno, mi boccerebbe all’esame. A me
interessa, tuttavia, mettere in evidenza alcuni snodi, di merito e di metodo,
che rendono l’opera di particolare interesse. È quello che proverò a fare.
Il comportamento dei papi
È molto discutibile che le vicende relative all’iconoclastia siano giunte in Occidente soltanto nella parte finale dell’VIII secolo d.C. Oltre al sinodo antiiconoclasta del 731, di cui pure non ci resta nulla - cfr. infra - lo dimostra un’iscrizione risalente al 730 circa, perduta, ma trascritta a cavallo fra 700 e 800, apposta alla chiesa di Corteolona (Pv).
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Corteolona (Pavia), Rustico che ingloba resti del palazzo longobardo e della chiesa di Sant'Anastasio Fonte: Markkv tramite Wikimedia Commons |
A Corteolona Liutprando, re dei Longobardi, aveva fatto costruire una sua residenza estiva. L’iscrizione celebra l’immagine del re come pio e devoto e la contrappone a quella dell’Imperatore Leone III che era precipitato dall’alto della dignità che gli era dovuta "nella fossa dello scisma". Pur non facendo nessun riferimento alla scelta iconoclasta di Leone è proprio quest’ultima a fornire l’unica possibile spiegazione alle parole messe in bocca a Liutprando nell’iscrizione. L’ignoranza del tema, del resto, stride se messa a confronto con la mobilità delle persone. Sappiamo che Roma era, all’epoca, una città cosmopolita, con una forte componente monacale di lingua greca. Si dirà che essere di lingua greca non vuol dire che, automaticamente, si venisse da Bisanzio. Prima dell’iconoclastia, è certo che un consistente fenomeno migratorio coinvolse la città nel corso del VII secolo, in coincidenza con l’espansione dell’Islam. Sono note e documentate le azioni con cui vari papi diedero accoglienza a comunità di religiosi e religiose (di lingua greca) provenienti da Siria e Palestina, destinando loro conventi, a Roma e nell’Italia centrale. Non abbiamo, invece, conferma fattuale di trasferimenti altrettanto consistenti in coincidenza delle presunte persecuzioni di Leone III nei confronti degli iconofili. Ciò che è certo, tuttavia, è che, proprio in quei decenni, testi scritti in greco da o su fervidi sostenitori dell’iconofilia raggiunsero Roma e furono letti e tradotti grazie alle comunità monastiche di lingua greca. Le figure in questione sono quelle del vescovo Andrea di Creta, rimosso e richiamato a Costantinopoli per le sue posizioni iconofile nel 730; del patriarca Germano di Costantinopoli, dimessosi per i medesimi motivi, e di Giovanni Damasceno che si trovava in una situazione relativamente più tranquilla, vivendo a Damasco, in un’area sotto controllo dell’Islam. I suoi tre discorsi scritti a difesa delle immagini sacre furono estesi attorno al 730 e certamente furono letti ben presto a Roma.
Dell’Acqua mette in evidenza un comportamento di fondo che
caratterizza tutti i papi che si succedono sul soglio pontificio nei due secoli
presi in esame: le loro azioni sono volte a ribadire la supremazia morale del
papato sugli altri titolari di sedi patriarcali e tale supremazia si sostanzia
nell’essere espressione della fede nella sua forma più ortodossa. Si tratta, a
ben vedere, di una supremazia che è riconosciuta alla sede papale sin dal
680-81, quando si svolge a Costantinopoli il sesto concilio ecumenico, riunito per
giudicare il monotelismo, che non negava la doppia natura, umana e divina, del
Cristo, ma sosteneva l’esistenza di una sola volontà, quella divina. È
interessante ragionare sul tema, che sfociò con la dichiarazione di eresia,
perché il concilio ecumenico del 680 segnava un riavvicinamento fra Impero e
papato, dopo una crisi trentennale legata alla simpatia del Patriarca di
Costantinopoli e dell’Imperatore per le tesi del monotelismo; nel 649 papa
Martino I aveva convocato un sinodo a Roma che aveva già dichiarato la dottrina
come eretica, producendo una raffinata controffensiva teologica sul tema.
L’unico risultato che ottenne fu quello di essere prelevato dalla truppe
bizantine e, dopo un processo farsa a Costantinopoli, morire in esilio in
Crimea. Ebbene, a trent’anni da questi accadimenti, nella risoluzione finale
del concilio del 680, l’imperatore Costantino IV definiva il pontefice come «arcivescovo
dell’antica e gloriosa Roma e papa dell’ecumene», ossia dell’intera comunità
dei fedeli (p. 21). Si trattava di un riconoscimento più o meno implicito a cui
i papi non intendevano più derogare. Così si spiega, ad esempio, la dura
reazione romana al concilio Quinisesto o in Trullo (692), convocato
dall’imperatore Giustiniano II. Fra i suoi esiti ve ne era uno (il canone 82)
che codificava la maniera corretta di rappresentare l’immagine del Dio
incarnato: la rappresentazione doveva avere sembianze umane, mentre era vietato
l’uso simbolico dell’Agnello. Come si può capire, siamo di fronte a un’istanza tutt’altro
che iconoclasta. Ma l’aspetto inaccettabile, per papa Sergio I era che, di
fatto, l’imperatore decideva cosa fosse o non fosse lecito in materia religiosa;
non è certo un caso che proprio in quegli anni Sergio I stabilisca che, nella
messa, durante la celebrazione eucaristica, sia cantato l’Agnus Dei.
Molti hanno confuso l’assenza di una posizione teologica esplicita e ufficiale come sostanziale
disinteresse nei confronti della questione delle immagini. La circostanza è smentita dalla tenuta di un sinodo antiiconoclasta
convocato da papa Gregorio III a fine 731, a Roma. Si tratta di un dato che
possiamo desumere dal Liber Pontificalis e su cui poco sappiamo, perché
gli atti sono andati perduti, ma le scelte iconografiche di Gregorio non
lasciano dubbi sulla sua iconofilia; un secondo sinodo antiiconoclasta risale
al 769, dopo il concilio di Hieria. Ancora una volta: i papi non
cercarono di elaborare una teologia alternativa a quella discussa in Oriente;
proprio perché si consideravano depositari dell’ortodossia, il loro fu un
continuo richiamarsi alla tradizione, testimoniata dai Padri della Chiesa. Nel
suo libro, Emanuela Fogliadini, da teologa, legge la circostanza come
un’oggettiva incapacità di elaborazione teorica da parte occidentale.
Dell’Acqua, da storica dell’arte, ma anche da una prospettiva più culturale che
artistica, interpreta la vicenda come una scelta premeditata. I documenti, quando
esistono, sono semplici florilegia, ossia riproposizioni di brani di
scritti dei Padri o, al massimo, di Giovanni Damasceno (p. 50), a
segnalare una continuità di comportamento che trova un corrispettivo nelle
scelte iconografiche, nelle modifiche alla liturgia, nelle nuove processioni introdotte
nel calendario delle feste religiose. Fra le scelte iconografiche segnalo, a
puro titolo di esempio, fra i tanti casi proposti da Dell’Acqua, un’immagine
fatta realizzare da papa Paolo I (757-767) nell’oratorio di San Pietro dove già
si trovava la tomba di Leone Magno e destinata a decorare il sepolcro dello
stesso Paolo: si trattava di un’effigie della Vergine «in forma di statua», di
argento dorato e pesante 150 libbre. La presenza di una «statua» non può essere
confermata, posto che il manufatto è andato perso; più probabilmente, tenuto
conto dell’atavica diffidenza cristiana nei confronti delle statue, considerate
idoli pagani, si era di fronte a un rilievo di dimensioni così grandi che dava l’impressione di essere
una statua, ma che, all’interno di San Pietro, era opportunamente
«addomesticato» e «dimostrava che l’autorità spirituale e dottrinale del papa
poteva controllare l’idolatria ed essere piegata negli interessi della Chiesa
romana» (p. 63). Altro caso di particolare interesse è da ravvisarsi in Santa
Maria Antiqua dove Paolo fece dipingere immagini murali che testimoniavano il culto
ufficiale di santi non solo occidentali, ma anche orientali. Santa Maria
Antiqua era la chiesa più importante per i fedeli di lingua
greca in città e non è certo un caso che il pontefice vi operasse una scelta
inclusiva, chiaramente contrapposta alle coeve scelte bizantine. Tuttavia,
tradirei lo spirito del libro se parlassi solo di manufatti artistici
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Santa Maria Antiqua, Roma: Cristo in trono fra santi e martiri occidentali e orientali, 757 -767 circa Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commns |
Ambrogio Autperto
La posizione dell’autrice è ben chiara: la ‘semplice’
lettura di realizzazioni artistiche, di dimensioni monumentali o ridottissime,
come gli amuleti indossati dai fedeli, non esauriscono le posizioni
iconofile del papato. Le opere vanno inserite in un contesto in cui hanno una loro funzioone anche la maggior
importanza conferita a particolari processioni, soprattutto quelle mariane; l’elaborazione
di traduzioni latine di inni greci, come l’Akathistos; i testi di omelie
che, pur non schierandosi apertamente contro l’iconoclasmo, sono imbevuti di spirito
iconofilo e presentano quelle che Dell’Acqua definisce «textual icons». In
contrapposizione a un mondo come quello bizantino che a Hieria lancia un
anatema non solo nei confronti delle immagini, ma anche di chi pensa alla
divinità tramite immagini mentali, l’Occidente contrappone testi che sono una sorta
di «visibile parlare». La figurazione, insomma, non è solo un dato oggettivo,
ma un comune modo di sentire, a cui si fa riferimento sui muri delle chiese,
nella liturgia, e nelle omelie. Sempre avendo a mente quest'aspetto, l’autrice dedica tre
capitoli a differenti temi iconografici di cui analizza l’evoluzione nei secoli
dell’iconoclasmo: Cristo inteso come luce; l’immagine di Cristo come agnello di
Dio, raffigurato in piedi sull’altare nel momento della presentazione al Tempio;
l’Assunzione di Maria, che è forse l’esempio in cui maggiore è la varietà delle
soluzioni figurative proposte in assenza di una esplicita narrazione evangelica
dell’episodio.
Assume una particolare rilevanza il ruolo di Ambrogio Autperto (morto nel 784) e dei suoi scritti. Di Ambrogio sappiamo che era di origini francesi e che visse gran parte della sua vita nel monastero di San Vincenzo al Volturno, nel Sannio. Oggi praticamente sconosciuto, dobbiamo pensare a quel monastero come a un centro monastico di particolare importanza, collocato in una zona di confine, nel ducato di Benevento, sotto controllo longobardo, ma non distante dai possedimenti dei Franchi. Certamente Ambrogio fu uomo di cultura e monaco non di secondo piano, se papa Adriano ebbe modo di parlarne a Carlo Magno (anche se non per questioni teologiche). Dell’Acqua mette in evidenza come, nei suoi scritti, Autperto non affronti mai di petto la questione dell’iconoclastia, ma, in sostanza, risulti essere un serbatoio di icone testuali che riflettono un comune sentire dell’epoca. Ampia influenza degli scritti di Ambrogio è rintracciabile nella decorazione della Cripta di Epifanio, che si trovava annessa al monastero di San Vincenzo al Volturno.
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Cripta di Epifanio (San Vincenzo al Volturno): La Vergine assunta in cielo, inizio del IX secolo d.C. Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Si tratta di decorazioni murali che risalgono ai primi decenni dell’800 e che
manifestamente sono ispirate ai sermoni di Autperto. In questi ultimi è
evidente l’assimilazione di temi provenienti dal mondo orientale di cui il
monaco doveva essere tutt’altro che digiuno, molto probabilmente conoscendo il
greco o, comunque, grazie alle comunità monastiche appartenenti a quella
cultura. Un discorso più complesso è capire se gli scritti di Autperto, che poi
ebbero diffusione anche nell’Europa settentrionale, furono di ispirazione non solo per i monaci di San Vincenzo, ma anche per i
papi, e in particolare per papa Pasquale I (817-824) per i suoi cicli di
decorazione monumentale realizzati a Roma. Sul punto è bene fare propria la
posizione dell’autrice: le consonanze sono evidenti; tuttavia dobbiamo
abbandonare un certo tipo di atteggiamento che vede deterministicamente il
rapporto fra testi e immagini segnato da una relazione di causa-effetto (in
qualsiasi direzione essa si muova). È sbagliato, insomma, dire che Pasquale
decise il programma iconografico dell’abside della chiesa di Santa Cecilia o in
quello di Santa Prassede perché lesse gli scritti di Autperto. È del tutto
giustificato, invece, ribadire la comune appartenenza a una visione del mondo
iconofila, o, se si preferisce, a una condivisione culturale di temi che sono
particolarmente importanti a inizio IX secolo proprio per l’evolvere orientale
delle vicende iconoclaste.
I papi e il mondo carolingio
Due parole vanno dette anche sul rapporto fra papi e ambienti carolingi. Sappiamo bene che, a metà 700, due mondi che fino a quel momento si erano sostanzialmente ignorati trovarono una loro reciproca convenienza nel sostenersi a vicenda. L’apice di questa alleanza è senza dubbio rappresentata dall’incoronazione di Carlo Magno a Roma, nell’800, a imperatore del Sacro Romano Impero; un impero nuovo, a ben vedere, visto che un legittimo erede dell’esperienza romana esisteva e si trovava a Bisanzio. In un quadro così complesso è appena evidente che i dissidi sulla questione delle immagini emersi coi Libri Carolini, a cui papa Adriano replicò seccamente col suo Hadrianum, una lunga lettera realizzata nel 793, potevano essere potenzialmente esplosivi. Si scelse di non esacerbare gli animi, e alla fine si giunse alla raccomandazione del sinodo di Parigi dell’825 per la venerazione e l’utilizzo delle immagini secondo una ‘via media’. Se è accettabile la considerazione che il papa vide in qualche modo riconosciuto dai Franchi un ruolo spirituale di cerniera fra Oriente e Occidente, non si piò dire, tuttavia, che le vicende che vanno dai Libri Carolini al sinodo di Parigi esauriscano tutte le tensioni in materia religiosa e, più in particolare, di immagini. È esistita, e proprio in territori carolingi, un’iconoclastia occidentale che vide probabilmente nel vescovo Claudio di Torino il suo esponente più rappresentativo. Ma probabilmente la vicenda più intricata è quella legata alla rappresentazione dell’Assunzione di Maria, un tema che Dell’Acqua esplora in tutte le sue implicazioni. Immagini relative all’Assunzione compaiono in Occidente, con una certa varietà iconografica, fra 700 e 800 nell’ambito di una forte spinta al culto mariano voluto dai papi. La varietà nelle rappresentazioni è legata al fatto che l’Assunzione non aveva trovato spazio nei Vangeli, ma solo in testi considerati di dubbia provenienza. La circostanza si scontrava con la politica di Carlo Magno, che si ispirava a un rigido controllo delle fonti scritturali, motivo che spinse a incaricare Paolo Diacono, nel 786-787, di compilare un nuovo omeliario ufficiale che si basasse esclusivamente sulle affermazioni dei Padri della Chiesa e delle Scritture. Vari sinodi locali ammisero la celebrazione dell’Assunzione sub iudice, fino a quando, con un capitolare dell’810, Carlo Magno non l’escluse dalle feste liturgiche carolinge. La decisione non mancò di suscitare reazioni interne, come risulta dal sinodo di Mainz dell’813. Ci troviamo, di fronte, a una situazione di inquietudine, contemporanea allo svolgersi del secondo iconoclasmo orientale e che, formalmente, fu riassorbita nell’826 quando, Luigi il Pio, figlio di Carlo Magno, tornò a inserire l’Assunzione come festa comandata. Le polemiche, tuttavia, non si spensero qui. Sappiamo ad esempio che Pascasio Roberto, abate di Corbie e S. Riquier, produsse un celebre falso, attribuito a san Girolamo, in cui il tema dell’Assunzione era trattato con molta cautela e una chiara propensione a ritenere che solo l’anima di Maria fosse stata assunta in cielo. Da parte sua, il fronte tradizionalista, che si rifaceva al dettato papale, provvide a tradurre e diffondere le omelie di Giovanni Damasceno, Andrea di Creta e Germano di Costantinopoli, unendole in un manoscritto di metà Ottocento intitolato Mariale. A Roma, intanto, la reazione papale fu quella di mettere un atto una serie di comportamenti che non si esaurirono nella realizzazione di opere d’arte, ma che di esse fecero solo una faccia di una realtà prismatica. In questo ambito l’autrice suggerisce che il mosaico nell’abside della chiesa di Santa Maria in Domnica non rappresenti una semplice Maria Madre di Dio (Theotokos), ma vada interpretato come l’immagine di una Madonna assunta, che intercede in cielo per papa Pasquale e per tutti i fedeli, e che può intercedere solo perchè assunta. Non sfuggirà il fatto che quel mosaico fu realizzato fra 818 e 819, entro un decennio dalla decisione di Carlo Magno di escludere l’Assunzione dalle feste di precetto.
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Santa Maria in Domnica, Roma: catino absidale con mosaico di Santa Maria Assunta fra angeli e papa Pasquale I in ginocchio, 818-819 Fonte: wiki ktulu tramite Wikimedia Commons |
In conclusione
Non intendo eludere, da ultimo, un aspetto che mi sta
particolarmente a cuore. Questo blog si intitola Letteratura artistica
e, con chiaro omaggio a Schlosser, si occupa principalmente di fonti testuali
di storia dell’arte. Mettendo in discussione una relazione causa-effetto fra
testo e immagine Dell’Acqua sembrerebbe porre in crisi l’utilità stessa delle
fonti. In realtà così non è, perché Schlosser non codificò mai una relazione di
questo tipo. È tuttavia innegabile una tendenza degli ultimi decenni che tende
ad allargare l’ambito delle fonti prendendo in considerazione
anche opere, come quelle di Autperto, in cui non si parla direttamente di arte
o, nel caso specifico, di iconoclastia; la tendenza è quella ad esplorare
culturalmente un fenomeno esperienziale di cui le fonti, ma la stessa arte, sono
solo un aspetto parziale. Sinceramente, trovo quest'approccio affascinante, anche
se molto pericoloso, perché richiede una conoscenza e oserei dire una
sensibilità personale nel capire dove osare e dove, invece, fermarsi e non forzare, doti che non
sono comuni a tutti. In questo senso, Iconophilia è davvero un libro
esemplare perché tale sensibilità è chiaramente posseduta dall'autrice, che esplora il mondo dell’iconofilia papale nella sua complessità senza
dare mai nulla per scontato; il suo grande merito è quello di riportare all’attenzione
del lettore un mondo fino a poco tempo fa ingiustamente trascurato a vantaggio
delle controversie orientali. A me pare che il risultato sia pienamente
conseguito. Senza affrontare - come dichiarato sin dall'inizio - questioni di carattere stilistico, appare chiaro
come l’evolversi dell’iconografia occidentale (in particolare romana e
centro-italiana) fra 680 e 880 non risponda a criteri ornamentali, ma a esigenze politiche e religiose che ora posso dire di conoscere meglio.
NOTE
[1] L'adozionismo, in realtà, esisteva da tanto, almeno da quando (nel III secolo d.C.) si sostenne che Cristo fosse stato adottato da Dio al momento del battesimo. Nel VII secolo se ne diffuse in Francia una versione più raffinata: Cristo aveva natura divina ed era veramente Figlio di Dio, ma, per quanto riguarda la sua natura umana, essa era conseguita tramite un'adozione. Cristo, nella sua versione umana, era solo 'figlio adottivo' di Dio (e, naturalmente, ne era molto sminuito il ruolo di Maria).
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