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lunedì 17 febbraio 2025

Annalisa Laganà. Lettere d’artista. Invenzione di un patrimonio nell’Italia del 'nation-building'

 

Annalisa Laganà
Lettere d’artista.
Invenzione di un patrimonio nell’Italia del nation-building

Napoli, FedOA Press, 2024

Recensione di Giovanni Mazzaferro





Un’introduzione

Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che, ogni volta che incomincio a leggere un’opera dedicata ai carteggi artistici, affiora in me un senso di disorientamento. Come ‘mettere in ordine’ le cose? Per i trattati, in linea di massima, è semplice: siamo di fronte a un genere codificato. Ma nel caso delle lettere, no. Le lettere possono essere ‘anche’ un genere letterario (si pensi all’esempio dell’epistolario aretiniano), ma certamente sono molto altro e lo furono storicamente per chi le conservò o le collezionò, come vedremo. Si tratta di documenti in cui l’artista appare ora come scrittore, ossia come consapevole autore di una missiva spesso destinata alla pubblicazione sin dall’inizio, ora come scrivente, ossia come inconsapevole latore di informazioni destinate a un privato; a volte, addirittura, come semplice lettore, ossia come destinatario di quelle lettere. Eppure, abbiamo tutti piena consapevolezza che le lettere, nella loro varietà tipologica, contano. Paola Barocchi – lo ricorda Annalisa Laganà sin da p. 25 – nel 1980 presentava un testo a un convegno dedicato all’Ecdotica del carteggio che sarebbe poi stato pubblicato all’interno dei suoi Studi Vasariani nel 1984 con il titolo Fortuna dell’epistolografia artistica [1]. In quell’occasione, fra le altre cose, sosteneva che uno dei grandi pregi della Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura di Giovanni Gaetano Bottari (1754-1768) era l’aver anticipato la ricostruzione storica lanziana per scuole artistiche, presentando, quando possibile, nuclei omogenei di missive che rendessero conto degli sviluppi della storiografia artistica precedente. Non sono certissimo che le cose siano andate effettivamente così, e che un peso non secondario sia stato semplicemente giocato dalla maggiore disponibilità all’invio delle trascrizioni delle missive da parte di questo o quel committente. Cert’è che quella di Barocchi fu una riflessione che fece scuola e che ha prodotto, probabilmente, nuova attenzione sui carteggi artistici. Saltando tutti i passaggi intermedi, che Laganà illustra molto bene, sarà il caso di arrivare al giorno d’oggi. Negli ultimi anni i carteggi artistici sono stati nuovamente oggetto di grande attenzione, o per la pubblicazione di nuovi e importanti nuclei quasi sempre inediti (si pensi alle Lettere artistiche del Settecento veneziano) o per la costituzione di gruppi di lavoro che hanno proposto nuove prospettive di studio, come il progetto Lettres d’artistes. Pour une nouvelle histoire transnationale de l’art, XVIIIe-XIXe siècles, più orientato allo studio delle reti sociali internazionali e dei fenomeni autorappresentativi degli artisti. In merito, in questo blog, troverete la recensione a Lettere d’artista
Per una storia transnazionale dell’arte (XVIII-XIX secolo), a cura di Giovanna Capitelli, Maria Pia Donato, Carla Mazzarelli, Susanne Adina Meyer e Ilaria Miarelli Mariani.

 

Lineamenti storici di un processo

Ma veniamo al presente libro, di cui commento l’edizione cartacea, ma che potete scaricare in open access all’indirizzo http://www.fedoabooks.unina.it/index.php/fedoapress/catalog/book/577.  Io, sinceramente, mi sono fatto l’idea che, a monte della sua redazione, Annalisa Laganà abbia fatto un lavoro enorme. Tangibile espressione di questo lavoro sono le due appendici finali, di cui parlerò più avanti. Ma la vera ambizione dell’autrice è quella di partire da un quadro assolutamente variegato per giungere a delineare delle linee di fondo, dei processi storici interpretativi da applicare ai materiali grezzi. Sarò sincero: a me pare che ci riuscita molto bene, dando un taglio ben definito alla sua analisi. Pur contestualizzandola sia storicamente sia geograficamente, e quindi non facendo mancare nulla, l’autrice ‘limita’ la sua analisi a un periodo storico che va dalla seconda metà dell’Ottocento e ai primi decenni del Novecento italiano. Le virgolette in corrispondenza di ‘limita’ sono obbligatorie, perché in realtà ci troviamo di fronte a un’opera monumentale, in cui a 500 pagine a stampa se ne aggiungono altre 400 di appendici consultabili online. L’interesse di Laganà è sul processo di patrimonializzazione delle lettere d’artista nei decenni in cui l’Italia costruisce una sua immagine di nazione. Sto usando il termine ‘patrimonializzazione’ in maniera non del tutto corretta, come spiega Laganà a p. 423, ossia come derivazione dal francese ‘patrimonialisation’, che indica «un processo politico, sociale, culturale in funzione del quale un oggetto […] accede stabilmente al patrimonio culturale. Questa parola [n.d.r. il tema è già affrontato in Lettere d’artista. Per una storia transnazionale dell’arte (XVIII-XIX secolo)] può, dunque, esprimere e sintetizzare in forma perfetta l’enorme complessità di ragioni, fenomeni e funzioni che hanno condotto all’accesso delle lettere d’artista nella sfera del patrimonio.» In italiano, ‘patrimonializzazione’ ha invece valenza economico-giuridica e ancora si attende un suo allargamento semantico ufficiale che, qui, comunque, si dà per acquisito.

L’accesso delle lettere d’artista al patrimonio pubblico nell’Ottocento è il risultato di un processo molto più ampio, che, a un certo punto, vede incontrarsi tendenze e motivazioni diverse. Da un lato vi è una notissima presa di coscienza ‘pubblica’ dell’importanza del patrimonio culturale in seguito alle spoliazioni napoleoniche, che non riguardarono solo le opere d’arte, ma anche gli archivi e le biblioteche [2]. Il problema della creazione di istituti pubblici che si occupino di conservazione e tutela del patrimonio, anche di quello appartenuto a enti ecclesiastici non più esistenti, si pone già, dunque, nei decenni della Restaurazione, a vantaggio delle ‘piccole patrie’ dinastiche. In un quadro di questo tipo l’attenzione per la lettera d’artista come genere a sé stante, a dire il vero, stenta a imporsi se non in termini collezionistici e, ancora una volta, in seguito alla vendita di enormi raccolte di missive che si verificano in Francia dopo la caduta di Napoleone. Si tratta di materiali depredati che subiscono una diaspora in nome del profitto: sono lettere di politici, letterati, scrittori e anche artisti. Si impone, forte, il fenomeno delle autografoteche, una moda collezionistica che, ben presto dilaga anche in Italia. La valenza delle lettere, in questo contesto, è soprattutto di cimelio. Fenomeni come lo scambio di ‘doppi’, dove per ‘doppie’ si intendono due lettere diverse di uno stesso autore, in cui una viene ceduta per entrare in possesso di un autografo di un mittente mancante, lo lasciano capire chiaramente. Nel caso specifico delle lettere di artisti, vale semmai, un discorso di succedaneità. In assenza di opere di un determinato artista, può andar benissimo una sua lettera o semplicemente la sua firma (e non sono rari i casi di falsi); l’aspetto estetico prevale su quello storiografico. Naturalmente il collezionismo di autografi vede la creazione di raccolte private che spiccano per la loro importanza, e – va detto – anche per la preparazione dei lori artefici, che si discostano dalle pratiche superficiali appena indicate. Laganà, a titolo di esempio, prende in considerazione le vicende delle collezioni di Carlo Morbio, piemontese trapiantato a Milano, del marchese modenese Giuseppe Campori e del romagnolo Carlo Piancastelli. Accanto alla lettera-cimelio, tuttavia, si va affermando anche la consapevolezza che le lettere d’artista hanno qualcosa da raccontare dal punto di vista storiografico: sono dunque fonti, e non solo cimeli, grazie alle raccolte di Ticozzi (che continua, ampliandola, quella bottariana), di Giovanni Gaye e di Michelangelo Gualandi.

 

L’Italia unita

L’unità d’Italia pone, immediatamente, un problema di conservazione e tutela del patrimonio a cui, a dire il vero, lo Stato sabaudo replica in maniera certo non particolarmente tempestiva: pesano, soprattutto, le esigenze di bilancio e una chiara difficoltà a ragionare in termini di ‘bene pubblico’. Lo Stato italiano nasce ultraliberale e sarà bene ricordare che, nel 1876, la destra storica di Minghetti cade perché il Parlamento boccia il piano di nazionalizzazioni delle ferrovie della penisola. Sappiamo come si risolsero le cose per quanto riguarda le opere d’arte, con la realizzazione di musei periferici preferita (sostanzialmente per motivi di bilancio che si combinavano a rivendicazioni campanilistiche) a quella della creazione di grandi musei nazionali. Destino analogo attende i documenti, che affluiscono soprattutto a musei e biblioteche civiche locali. In una situazione, a dire il vero, ancora confusa, si afferma tuttavia una prassi molto diffusa nei ceti eruditi, che il più delle volte coincidono con quelli benestanti: la donazione di archivi, biblioteche, carteggi privati per disposizione ereditaria proprio a musei, archivi, biblioteche. Molto spesso, la cessione proprio di quelle autografoteche create nei decenni precedenti. Si tratta, da un lato, di un atto patriottico, dall’altro di un’umanissima esigenza di autorappresentazione come ‘membri fondatori’ di una nuova cultura nazionale. Da parte mia, ma non per smitizzare il tutto, mi si lasci dire che a volte le donazioni furono anche incentivate da contropartite monetarie: Pelagio Palagi, bolognese, per decenni pittore di corte dei Savoia, morto il 6 marzo 1860, lasciò i suoi beni alle istituzioni bolognesi (la raccolta egizia confluirà al Museo civico, le carte all’Archiginnasio) in cambio di un vitalizio alla moglie. Ma non vi è dubbio che la sua scelta di donare alla sua città natale, che cinque giorni dopo, l’11 e il 12 marzo, avrebbe scelto con un plebiscito l’annessione al regno di Piemonte, abbia avuto una fortissima connotazione in ambito di nation building (in salsa sabauda).

Laganà segue anche i fatti storici che portano alla creazione di musei e biblioteche dopo l’unità d’Italia. Non sottovaluta, ai fini dell’individuazione del processo di nation building l’importanza della creazione dei 'musei del Risorgimento'. Sottolinea come le donazioni dei privati si rivolgano soprattutto a musei e biblioteche più che agli archivi, per i quali, almeno fino agli anni Settanta, non sono fissati criteri di apertura al pubblico. Ma soprattutto ha ben presente che, nell’ambito della patrimonializzazione, le donazioni sono un momento fondamentale, ma solo iniziale: si tratta non solo di garantire la tutela e la conservazione di documenti, ma anche di agevolare la loro fruizione al pubblico. In questo senso sono fondamentali l’organizzazione data ai fondi, l’inventariazione e la catalogazione dei medesimi. In proposito Laganà si sofferma su quattro concreti: il museo Correr e l’acquisizione delle raccolte d’autografi d’artista a Venezia, il fondo Carteggi d’artisti all’Archivio di Stato di Firenze, la collezione degli autografi della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e le vicende di carte e lettere d’artisti della Biblioteca del Museo Nazionale di San Martino a Napoli.

Esperienza imprescindibile è quella a cui, poi, diede vita, spontaneamente, Giuseppe Mazzatinti (1855-1906), direttore della biblioteca comunale di Forlì. Mazzatinti «immaginò un vasto progetto di inventariazione del materiale documentario manoscritto presente nelle biblioteche del territorio italiano, destinato a supplire all’assenza di un’iniziativa statale, pure resa urgente dal giacere occulto di un enorme patrimonio di carte. L’inaccessibilità ai documenti, invisibili poiché mai catalogati oppure disponibili alla ricerca solo per coloro che potessero consultare i registri interni delle biblioteche civiche e governative, doveva essere risolta da una collana di inventari dedicati alle sezioni di manoscritti di tutte le biblioteche che avessero aderito all’iniziativa» (p. 241). Ne nacque la serie degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia. Chiunque abbia frequentato un gabinetto dei manoscritti in una biblioteca italiana conosce il «Mazzatinti», ossia una collana che a oggi conta circa 120 volumi, edita da Olschki, e che storicamente ha rappresentato uno strumento fondamentale di nation building, che permise agli studiosi di ‘farsi un’idea’ sui contenuti di fondi a cui, altrimenti, avrebbero avuto difficoltà ad accedere. Mazzatinti, in realtà, seguì solo i primi tredici volumi (1890-1908); alla sua morte la sua eredità fu raccolta da Albano Sorbelli, storico direttore dell’Archiginnasio che seguì le pubblicazioni fino al volume LXXV, pubblicato nel 1945. Nel frattempo, l’iniziativa era stata implementata in ambito pubblico. Naturalmente, il «Mazzatinti» è una collana che mostra mille limiti; basti pensare che, a partire da indicazioni di massima, la redazione degli inventari delle singole biblioteche fu affidata ai relativi bibliotecari, che potevano avere sensibilità diverse nell’organizzare le informazioni da rendere pubbliche. Altrettanto naturalmente, gli inventari riguardano tutte le carte manoscritte di ogni singola biblioteca, senza distinzione fra artisti e altri soggetti: è comunque evidente che siamo di fronte a un’ottima base di partenza, non a caso ampiamente sfruttata, nel concreto da Laganà.

 

Le Appendici.

Accennavo già in precedenza all’importanza delle Appendici nell’opera. L’Appendice prima, in realtà, nel volume a stampa è poco più di un QR-code. Inquadrando il QR-code si ha accesso a questo indirizzo: https://www.iris.unina.it/retrieve/e3d29ed3-15cf-4fe4-b910-eceab564d48e/Database.pdf. Vi consiglio caldamente di segnarvelo, perché contiene il Censimento delle lettere d’artista conservate in Italia, un’appendice in forma tabellare di 439 pagine che Laganà ha realizzato estrapolando tutti i dati relativi appunto ad artisti, intesi in senso largo (quindi sarebbe più opportuno parlare di operatori del mondo dell’arte, compresi, ad esempio, antiquari e mercanti) compulsando sistematicamente tutti i volumi della serie degli Inventari di Mazzatinti. Sono più di tremila occorrenze, che potete consultare facilmente. Ora, mi direte che si tratta di un’immagine sicuramente approssimata per difetto. Non vi è il minimo dubbio. Tanto per cominciare, ad esempio, è riferita solo a biblioteche pubbliche i cui inventari siano stati editi nella serie pubblicata da Olschki. A volte questi inventari sono superati. Farò un caso banalissimo, ma che conosco bene: il carteggio attivo e passivo di Giovan Battista Cavalcaselle conservato presso l’omonimo fondo alla Marciana non c’è, semplicemente perché, quando furono pubblicati gli inventari nella collana (fra anni Settanta e Ottanta), quel fondo non era stato ancora inventariato da Susy Marcon. Tuttavia, i libri si apprezzano sempre per quello che vi è contenuto e non per quello che non c’è. Il lavoro di Laganà, in questo senso, è preziosissimo. Così come preziosissima la seconda appendice che, questa volta, presenta una ricchissima bibliografia specialistica su Edizioni di lettere, epistolari e carteggi artistici e d’artista dal Cinquecento (si parte con Aretino) a oggi. Ancora una volta uno strumento meraviglioso. Motivo per cui chiuderò facendo un’affermazione che fa torto al lavoro dell’autrice. Non volete leggere il libro? Non fatelo. Ma se vi occupate di ricerca, non dimenticate di tenerlo a mente, comprandolo o scaricandolo direttamente da Internet, perché le sezioni finali, prima o poi, vi saranno utili e vi risparmieranno tanto lavoro. Di quel risparmio dovremo essere tutti grati ad Annalisa Laganà.

 

NOTE

[1] Paola Barocchi, Fortuna dell’epistolografia artistica, in Eadem, Studi Vasariani, Torino, Einaudi, 1984, pp. 83-111. Di grande interesse anche Giovanni Perini [Folesani], Le lettere degli artisti da strumento di comunicazione, a documento a cimelio, in Documentary culture: Florence and Rome from Grand-Duke Ferdinand I to Pope Alexander VII, a cura di Elisabeth Cropper e Giovanna Perini, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1992, pp. 165-183.

[2] Segnalo anche, pur non avendolo letto, Maria Pia Donato, L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia, Bari, Laterza, 2019.


 

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