Annalisa Laganà
Lettere d’artista.
Invenzione di un patrimonio nell’Italia del nation-building
Napoli, FedOA Press, 2024
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Un’introduzione
Lineamenti storici di un processo
Ma veniamo al presente libro, di cui commento l’edizione
cartacea, ma che potete scaricare in open access all’indirizzo http://www.fedoabooks.unina.it/index.php/fedoapress/catalog/book/577.
Io, sinceramente, mi sono fatto l’idea
che, a monte della sua redazione, Annalisa Laganà abbia fatto un lavoro enorme.
Tangibile espressione di questo lavoro sono le due appendici finali, di cui
parlerò più avanti. Ma la vera ambizione dell’autrice è quella di partire da un
quadro assolutamente variegato per giungere a delineare delle linee di fondo,
dei processi storici interpretativi da applicare ai materiali grezzi. Sarò
sincero: a me pare che ci riuscita molto bene, dando un taglio ben definito
alla sua analisi. Pur contestualizzandola sia storicamente sia geograficamente,
e quindi non facendo mancare nulla, l’autrice ‘limita’ la sua analisi a un
periodo storico che va dalla seconda metà dell’Ottocento e ai primi decenni del
Novecento italiano. Le virgolette in corrispondenza di ‘limita’ sono obbligatorie,
perché in realtà ci troviamo di fronte a un’opera monumentale, in cui a 500
pagine a stampa se ne aggiungono altre 400 di appendici consultabili online. L’interesse
di Laganà è sul processo di patrimonializzazione delle lettere d’artista nei
decenni in cui l’Italia costruisce una sua immagine di nazione. Sto usando il
termine ‘patrimonializzazione’ in maniera non del tutto corretta, come spiega
Laganà a p. 423, ossia come derivazione dal francese ‘patrimonialisation’, che
indica «un processo politico, sociale, culturale in funzione del quale un
oggetto […] accede stabilmente al patrimonio culturale. Questa parola [n.d.r.
il tema è già affrontato in Lettere
d’artista. Per una storia transnazionale dell’arte (XVIII-XIX secolo)]
può, dunque, esprimere e sintetizzare in forma perfetta l’enorme complessità di
ragioni, fenomeni e funzioni che hanno condotto all’accesso delle lettere
d’artista nella sfera del patrimonio.» In italiano, ‘patrimonializzazione’ ha
invece valenza economico-giuridica e ancora si attende un suo allargamento
semantico ufficiale che, qui, comunque, si dà per acquisito.
L’accesso delle lettere d’artista al patrimonio pubblico
nell’Ottocento è il risultato di un processo molto più ampio, che, a un certo
punto, vede incontrarsi tendenze e motivazioni diverse. Da un lato vi è una
notissima presa di coscienza ‘pubblica’ dell’importanza del patrimonio
culturale in seguito alle spoliazioni napoleoniche, che non riguardarono solo
le opere d’arte, ma anche gli archivi e le biblioteche
[2]. Il problema della creazione di istituti pubblici che si occupino di
conservazione e tutela del patrimonio, anche di quello appartenuto a enti
ecclesiastici non più esistenti, si pone già, dunque, nei decenni della
Restaurazione, a vantaggio delle ‘piccole patrie’ dinastiche. In un quadro di
questo tipo l’attenzione per la lettera d’artista come genere a sé stante, a
dire il vero, stenta a imporsi se non in termini collezionistici e, ancora una
volta, in seguito alla vendita di enormi raccolte di missive che si verificano
in Francia dopo la caduta di Napoleone. Si tratta di materiali depredati che subiscono
una diaspora in nome del profitto: sono lettere di politici, letterati, scrittori
e anche artisti. Si impone, forte, il fenomeno delle autografoteche, una moda collezionistica
che, ben presto dilaga anche in Italia. La valenza delle lettere, in questo
contesto, è soprattutto di cimelio. Fenomeni come lo scambio di ‘doppi’, dove
per ‘doppie’ si intendono due lettere diverse di uno stesso autore, in
cui una viene ceduta per entrare in possesso di un autografo di un mittente
mancante, lo lasciano capire chiaramente. Nel caso specifico delle lettere di
artisti, vale semmai, un discorso di succedaneità. In assenza di opere di un
determinato artista, può andar benissimo una sua lettera o semplicemente la sua
firma (e non sono rari i casi di falsi); l’aspetto estetico prevale su quello
storiografico. Naturalmente il collezionismo di autografi vede la creazione di
raccolte private che spiccano per la loro importanza, e – va detto – anche per
la preparazione dei lori artefici, che si discostano dalle pratiche
superficiali appena indicate. Laganà, a titolo di esempio, prende in
considerazione le vicende delle collezioni di Carlo Morbio, piemontese
trapiantato a Milano, del marchese modenese Giuseppe Campori e del romagnolo
Carlo Piancastelli. Accanto alla lettera-cimelio, tuttavia, si va affermando
anche la consapevolezza che le lettere d’artista hanno qualcosa da raccontare
dal punto di vista storiografico: sono dunque fonti, e non solo cimeli, grazie
alle raccolte di Ticozzi (che continua, ampliandola, quella bottariana), di
Giovanni Gaye e di Michelangelo Gualandi.
L’Italia unita
L’unità d’Italia pone, immediatamente, un problema di
conservazione e tutela del patrimonio a cui, a dire il vero, lo Stato sabaudo
replica in maniera certo non particolarmente tempestiva: pesano, soprattutto,
le esigenze di bilancio e una chiara difficoltà a ragionare in termini di ‘bene
pubblico’. Lo Stato italiano nasce ultraliberale e sarà bene ricordare che, nel
1876, la destra storica di Minghetti cade perché il Parlamento boccia il piano
di nazionalizzazioni delle ferrovie della penisola. Sappiamo come si risolsero
le cose per quanto riguarda le opere d’arte, con la realizzazione di musei
periferici preferita (sostanzialmente per motivi di bilancio che si combinavano a
rivendicazioni campanilistiche) a quella della creazione di grandi musei nazionali. Destino
analogo attende i documenti, che affluiscono soprattutto a musei e biblioteche
civiche locali. In una situazione, a dire il vero, ancora confusa, si
afferma tuttavia una prassi molto diffusa nei ceti eruditi, che il più delle
volte coincidono con quelli benestanti: la donazione di archivi, biblioteche,
carteggi privati per disposizione ereditaria proprio a musei, archivi,
biblioteche. Molto spesso, la cessione proprio di quelle autografoteche create nei decenni precedenti. Si tratta, da un lato, di un atto patriottico, dall’altro di
un’umanissima esigenza di autorappresentazione come ‘membri fondatori’ di una
nuova cultura nazionale. Da parte mia, ma non per smitizzare il tutto, mi si
lasci dire che a volte le donazioni furono anche incentivate da contropartite
monetarie: Pelagio Palagi, bolognese, per decenni pittore di corte dei Savoia, morto
il 6 marzo 1860, lasciò i suoi beni alle istituzioni bolognesi (la raccolta
egizia confluirà al Museo civico, le carte all’Archiginnasio) in cambio di un
vitalizio alla moglie. Ma non vi è dubbio che la sua scelta di donare alla sua città natale, che cinque giorni dopo, l’11 e il 12 marzo, avrebbe scelto con un
plebiscito l’annessione al regno di Piemonte, abbia avuto una fortissima connotazione
in ambito di nation building (in salsa sabauda).
Laganà segue anche i fatti storici che portano alla
creazione di musei e biblioteche dopo l’unità d’Italia. Non sottovaluta, ai
fini dell’individuazione del processo di nation building l’importanza
della creazione dei 'musei del Risorgimento'. Sottolinea come le donazioni dei
privati si rivolgano soprattutto a musei e biblioteche più che agli archivi,
per i quali, almeno fino agli anni Settanta, non sono fissati criteri di apertura
al pubblico. Ma soprattutto ha ben presente che, nell’ambito della
patrimonializzazione, le donazioni sono un momento fondamentale, ma solo
iniziale: si tratta non solo di garantire la tutela e la conservazione di
documenti, ma anche di agevolare la loro fruizione al pubblico. In questo senso
sono fondamentali l’organizzazione data ai fondi, l’inventariazione e la
catalogazione dei medesimi. In proposito Laganà si sofferma su quattro
concreti: il museo Correr e l’acquisizione delle raccolte d’autografi d’artista
a Venezia, il fondo Carteggi d’artisti all’Archivio di Stato di Firenze,
la collezione degli autografi della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e
le vicende di carte e lettere d’artisti della Biblioteca del Museo Nazionale di
San Martino a Napoli.
Esperienza imprescindibile è quella a cui, poi, diede vita, spontaneamente,
Giuseppe Mazzatinti (1855-1906), direttore della biblioteca comunale di Forlì. Mazzatinti
«immaginò un vasto progetto di inventariazione del materiale documentario
manoscritto presente nelle biblioteche del territorio italiano, destinato a
supplire all’assenza di un’iniziativa statale, pure resa urgente dal giacere
occulto di un enorme patrimonio di carte. L’inaccessibilità ai documenti,
invisibili poiché mai catalogati oppure disponibili alla ricerca solo per
coloro che potessero consultare i registri interni delle biblioteche civiche e governative,
doveva essere risolta da una collana di inventari dedicati alle sezioni di
manoscritti di tutte le biblioteche che avessero aderito all’iniziativa» (p.
241). Ne nacque la serie degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia.
Chiunque abbia frequentato un gabinetto dei manoscritti in una biblioteca
italiana conosce il «Mazzatinti», ossia una collana che a oggi conta circa 120
volumi, edita da Olschki, e che storicamente ha rappresentato uno strumento
fondamentale di nation building, che permise agli studiosi di ‘farsi un’idea’
sui contenuti di fondi a cui, altrimenti, avrebbero avuto difficoltà ad
accedere. Mazzatinti, in realtà, seguì solo i primi tredici volumi (1890-1908);
alla sua morte la sua eredità fu raccolta da Albano Sorbelli, storico direttore
dell’Archiginnasio che seguì le pubblicazioni fino al volume LXXV, pubblicato
nel 1945. Nel frattempo, l’iniziativa era stata implementata in ambito
pubblico. Naturalmente, il «Mazzatinti» è una collana che mostra mille limiti;
basti pensare che, a partire da indicazioni di massima, la redazione degli
inventari delle singole biblioteche fu affidata ai relativi bibliotecari, che
potevano avere sensibilità diverse nell’organizzare le informazioni da rendere
pubbliche. Altrettanto naturalmente, gli inventari riguardano tutte le carte
manoscritte di ogni singola biblioteca, senza distinzione fra artisti e altri
soggetti: è comunque evidente che siamo di fronte a un’ottima base di partenza,
non a caso ampiamente sfruttata, nel concreto da Laganà.
Le Appendici.
Accennavo già in precedenza all’importanza delle Appendici
nell’opera. L’Appendice prima, in realtà, nel volume a stampa è poco più di un
QR-code. Inquadrando il QR-code si ha accesso a questo indirizzo: https://www.iris.unina.it/retrieve/e3d29ed3-15cf-4fe4-b910-eceab564d48e/Database.pdf.
Vi consiglio caldamente di segnarvelo, perché contiene il Censimento delle
lettere d’artista conservate in Italia, un’appendice in forma tabellare di
439 pagine che Laganà ha realizzato estrapolando tutti i dati relativi appunto
ad artisti, intesi in senso largo (quindi sarebbe più opportuno parlare di
operatori del mondo dell’arte, compresi, ad esempio, antiquari e mercanti) compulsando
sistematicamente tutti i volumi della serie degli Inventari di Mazzatinti.
Sono più di tremila occorrenze, che potete consultare facilmente. Ora, mi
direte che si tratta di un’immagine sicuramente approssimata per difetto. Non
vi è il minimo dubbio. Tanto per cominciare, ad esempio, è riferita solo a
biblioteche pubbliche i cui inventari siano stati editi nella serie pubblicata
da Olschki. A volte questi inventari sono superati. Farò un caso banalissimo,
ma che conosco bene: il carteggio attivo e passivo di Giovan Battista Cavalcaselle
conservato presso l’omonimo fondo alla Marciana non c’è, semplicemente perché,
quando furono pubblicati gli inventari nella collana (fra anni Settanta e
Ottanta), quel fondo non era stato ancora inventariato da Susy Marcon. Tuttavia,
i libri si apprezzano sempre per quello che vi è contenuto e non per quello che
non c’è. Il lavoro di Laganà, in questo senso, è preziosissimo. Così come
preziosissima la seconda appendice che, questa volta, presenta una ricchissima bibliografia
specialistica su Edizioni di lettere, epistolari e carteggi artistici e d’artista
dal Cinquecento (si parte con Aretino) a oggi. Ancora una volta uno strumento
meraviglioso. Motivo per cui chiuderò facendo un’affermazione che fa torto al
lavoro dell’autrice. Non volete leggere il libro? Non fatelo. Ma se vi occupate
di ricerca, non dimenticate di tenerlo a mente, comprandolo o scaricandolo
direttamente da Internet, perché le sezioni finali, prima o poi, vi saranno
utili e vi risparmieranno tanto lavoro. Di quel risparmio dovremo essere tutti grati
ad Annalisa Laganà.
NOTE
[1] Paola Barocchi, Fortuna dell’epistolografia artistica,
in Eadem, Studi Vasariani, Torino, Einaudi, 1984, pp. 83-111. Di grande
interesse anche Giovanni Perini [Folesani], Le lettere degli artisti da strumento
di comunicazione, a documento a cimelio, in Documentary culture: Florence
and Rome from Grand-Duke Ferdinand I to Pope Alexander VII, a cura di
Elisabeth Cropper e Giovanna Perini, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1992, pp.
165-183.
[2] Segnalo anche, pur non avendolo letto, Maria Pia Donato,
L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia, Bari,
Laterza, 2019.
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