Antonio Becchi, Marco Biffi
Il biberon di Leonardo
Le postille al Trattato di architettura di Francesco di Giorgio Martini (ms.
Ashb. 361): Leonardo da Vinci, Guglielmo Libri e i loro interpreti.
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Ai suoi tempi ho scritto a lungo dei trattati
architettonici di Francesco di Giorgio Martini, a partire dall’edizione curata da Corrado Maltese per Il
Polifilo nel 1967, proseguendo con l’edizione del Vitruvio Magliabechiano di
Gustina Scaglia, con il lavoro di Marco Biffi dedicato alle traduzioni
martiniane di Vitruvio e, da ultimo,
con Francesco di Giorgio e Vitruvio. Le traduzioni del «De
architectura» nei codici Zichy, Spencer 129 e Magliabechiano II.I.141, di Massimo Mussini. Più o meno in tutti questi
testi, di sfuggita o in maniera più approfondita, viene ricordato un dato:
uno dei due testimoni del Trattato I, ossia il ms. Ashburnhamiano 361,
conservato oggi presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze, contiene postille di mano di Leonardo da Vinci. La circostanza è stata, naturalmente, sottolineata
con particolare interesse da parte degli studiosi di Leonardo. Di recente, ad
esempio, è stata ribadita da Carlo Vecce in La biblioteca perduta. I libri di Leonardo (e nel successivo catalogo della mostra dedicata ai
libri che lesse o di cui cercò di entrare in possesso). Il Ms. Ashb. 361
costituirebbe l’unico libro di cui abbiamo certezza che sia stato di proprietà
di Leonardo e che facesse parte della sua biblioteca. Fra le poche voci
controcorrente quella di Gustina Scaglia che, nel 1992, si dichiarava scettica sulla
possibilità che Leonardo potesse permettersi di comprare un manoscritto in
pergamena, particolarmente costoso; a ben vedere, insomma, obiettava più sulla
proprietà del libro che sull’autenticità delle postille.
Il biberon di Leonardo è un libro in cui due nomi autorevoli, come quelli di
Antonio Becchi e Marco Biffi, sostengono una nuova tesi: quella che le postille
di Leonardo siano false e che siano state realizzate o fatte realizzare da
Guglielmo Libri, sciagurato saccheggiatore di manoscritti di metà Ottocento, al
solo scopo di rendere più appetibile sul mercato un manoscritto di Francesco di
Giorgio, aggiungendovi note attribuite appunto a Leonardo stesso. Dico subito
che le argomentazioni presentate in quest’occasione a me sembrano convincenti.
In ogni caso quello di Becchi e Biffi è anche un libro che invita a meditare sulla
moda di attribuire tutto a Leonardo, che non riguarda certo solo queste
postille (Dio ci liberi da altre future attribuzioni di quadri e disegni al vinciano)
e che ha portato qualcuno a ironizzare sul fatto che, dell’artista, ormai è
stato ritrovato anche il suo biberon. Un volume – e questo è degno di nota – in
cui non ci si limita a stigmatizzare comportamenti altrui, ma si fa anche una
seria autocritica, come nel caso di Biffi, che dichiara di aver fatto parte
della schiera degli studiosi che hanno dato per scontata la paternità delle
postille leonardesche fino a quando non le ha studiate e ha avuto l’onestà
intellettuale di rivedere il suo giudizio.
Il Ms. Ashburnhamiano 361
La storia del Ms. Ashb. 361 è piena di ombre. Nel 1816 si trovava, certamente, nella Biblioteca Estense di Modena, dove lo trovò e lo studiò Giovanni Battista Venturi (1746-1822). Quello di Venturi è un nome pesante. Di nascita reggiana, fisico e matematico, Venturi, nel 1796, ebbe modo di studiare a Parigi i manoscritti di Leonardo trafugati dai francesi in seguito alle requisizioni napoleoniche e fu lui ad attribuire a quei manoscritti la celebre numerazione in lettere dell’alfabeto, dalla A alla N. Come noto, al termine dell’epoca napoleonica, dodici manoscritti (marcati da A a M) rimasero in Francia, mentre il solo Codice Atlantico (marcato N) tornò alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Ma Venturi fece di più: nel suo soggiorno parigino studiò i manoscritti di Leonardo e ne trascrisse delle parti su suoi taccuini, che riportò con sé in Italia e che, per sua comodità, segnò con le lettere dalla O alla T. Queste trascrizioni assumono un ruolo di particolare importanza perché nel corso dell’Ottocento i manoscritti parigini da A a M furono saccheggiati dagli utenti dell’Institut de France, convinti di poter realizzare lauti guadagni rivendendoli clandestinamente. Fra questi, immancabile, vi era Guglielmo Libri. Noi, quindi, conosciamo varie parti dei codici originali di Leonardo grazie alle trascrizioni di Venturi, essendo venuti meno gli originali. E' certo, ad esempio, che Libri abbia rubato carte dei manoscritti A e B, vendendole in Inghilterra a Lord Ashburnham nel 1847.
Anche il Ms. Ashb. 361, in un momento imprecisato, ma
prima del 1831, fu rubato dalla biblioteca estense e riapparve a Londra presso
il libraio Robert Harding Evans il 22 novembre 1837. Nel catalogo di vendita il
codice era attribuito a Leonardo da Vinci e, tuttavia, pur in un periodo in cui
la mania per l’artista di Vinci era già esplosa, il manoscritto rimase
invenduto. Perché? La risposta appare banale: perché era scritto normalmente,
da sinistra a destra, e non, alla maniera di Leonardo, alla rovescia,
circostanza che, evidentemente, portò gli eventuali compratori a diffidare
dell’attribuzione. Il manoscritto fece quindi ritorno in Italia, a Milano,
presso il libraio Antonio Tosi che – mi pare di capire – lo ripropose in asta
questa volta a Parigi e senza attribuzione, nel 1843. Qui fu comprato da
Guglielmo Libri. C’è una circostanza importante da mettere in evidenza: in nessuna
delle descrizioni del manoscritto, quella di Venturi, quella del catalogo del
1837 e quella presente in un ulteriore catalogo realizzato nel 1842 in vista
dell’asta parigina, si parla della presenza di postille; postille che, se ci
fossero state, sarebbe stato facile attribuire a Leonardo perché scritte questa
volta alla rovescia, da destra a sinistra. La circostanza, tenuto conto che il
valore del manoscritto ne sarebbe stato incrementato, e non di poco, ha
dell’incredibile. Nel 1847 Libri rivendette l’Ashb. 361 al conte di Ashburnham,
assieme ai fogli vinciani rubati dai manoscritti A e B dell’Institut de France.
Questa volta l’attribuzione era tornata a Leonardo. Non sono del tutto convinto
– sarò onesto – che l’indicazione al n. 359 del catalogo del 1842 («magnifique
ouvrage inédit de Léonard de Vinci et rempli d’admirables dessins etc…», cfr.
p. 69) sia la pistola fumante che dimostra come le postille vi fossero state
aggiunte; d’altra parte mi pare poco convincente l’argomento ‘a sfavore’ contenuto
nel catalogo stesso che indicava il manoscritto come proveniente dalla collezione
Gianfilippi di Verona (cfr. 75-76). Chiunque sia in possesso di un codice
rubato, al momento della vendita ha il problema di dargli una provenienza
lecita, e questo sembra essere il classico caso di scuola. Fatto sta che
quando, nel 1884, la famiglia Ashburnahm vendette il codice allo Stato italiano
e il manoscritto finì alla Biblioteca Medicea Laurenziana, quelle postille
c’erano e furono immediatamente riferite a Leonardo, dando vita a una
tradizione giunta sino ai giorni nostri.
Una parentesi lunga più di un secolo
In sostanza, la situazione si stabilizzò rapidamente,
sin da fine secolo. Le postille dell’Ashb. 361 furono attribuite a Leonardo e
rispecchiavano l'interesse del vinciano per gli scritti di Francesco di Giorgio. Nel
1975, però, Nando de Toni, su segnalazione di Carlo Maccagni, annunciava di
essersi accorto che il testo di una delle postille del ms. Asbh. 361 coincideva
con un brano contenuto nel ms. O conservato alla Biblioteca comunale di Reggio
Emilia (oggi con segnatura Regg. A 35/2), dove erano confluite le carte di
Giovanni Battista Venturi per donazione degli eredi. Come abbiamo visto, i
manoscritti da O a T erano considerati raccolte di trascrizioni dagli originali
leonardeschi (numerati da A a N) effettuate da Venturi nel suo soggiorno parigino
di fine Settecento. Questi ultimi erano stati saccheggiati, in parte da Guglielmo
Libri e in parte da ignoti, di modo che avevano perso molto del loro materiale.
De Toni, basandosi sul loro contenuto, riteneva che le note del manoscritto O
provenissero dall’originale codice E. Purtroppo Venturi non aveva provveduto a
indicare da quale codice avesse effettuato le copie e, men che meno, da quali
carte del medesimo; inoltre, le sue trascrizioni erano spesso parziali. Sulla
postilla richiamata da de Toni non si nutrivano dubbi: essa era di pugno di
Leonardo. Si aprivano, a questo punto, due grandi strade: studiare meglio il
manoscritto O, come prezioso testimone di carte scomparse in origine nell’E, e
stabilire quale fosse il rapporto fra testi in origine nell’E e ms. Ashb. 361
(riconosciuto, a quelle date, certamente di Francesco di Giorgio). In realtà,
per decenni, non se ne fece nulla. De Toni studiò i manoscritti di Leonardo
tutta la vita, da «dilettante», e si scontrò sempre con gelosie e pregiudizi, pur
facendo fronte per un lungo periodo alla sostanziale paralisi dell’attività
della Commissione Nazionale Vinciana pubblicando a sue spese il Notiziario
Vinciano. In sostanza, fu sempre tenuto ai margini in un mondo, quello dei
leonardisti, che per decenni non è stato esattamente un esempio di disinteresse
e lavoro in collaborazione. Una volta tramontata la possibilità di pubblicare
le edizioni critiche dei manoscritti vinciani, si ritagliò un suo spazio cercando
di ricostruire dalle testimonianze indirette il contenuto delle carte perdute
dell’artista. Le sue segnalazioni, giuste o sbagliate, furono
ampiamente sottovalutate. È il caso della coincidenza fra postilla del
manoscritto martiniano e il venturiano codice O. Becchi non ha alcuna
difficoltà a inserirsi, come fatto anche da Biffi, nel novero di chi,
colpevolmente, sorvolò sull’argomento, ma proprio a loro si deve, negli ultimi anni, un deciso cambiamento di rotta.
Sul manoscritto O
Provo, a questo punto, a riassumere. Per quanto
riguarda il manoscritto O, la tesi dei due autori è che, in realtà, esso presenti sì annotazioni di Venturi, ma relative a un testo vergato da altre mani. Si tratterebbe di un manoscritto molto più vecchio, redatto attorno al 1639, risalente, cioè a
160 anni prima. Sarebbe, in sostanza, una raccolta di precetti vinciani redatta su
sollecitazione di Cassiano dal Pozzo e del cardinal Francesco Barberini. Sappiamo che i due concepirono, nel quarto decennio del Seicento, il progetto
di collazionare gli scritti di Leonardo; dalla loro iniziativa, peraltro,
derivò la cessione di un manoscritto sul Trattato della pittura che fu
ceduto in Francia e portò alla prima pubblicazione dell’opera nel 1651. Tuttavia,
il progetto iniziale di Dal Pozzo e Barberini fu certamente più ampio, come
sottolineato, ad esempio, da Juliana Barone in Seventeenth-Century
Transformations: Cassiano dal Pozzo’s Manuscript Copy of the Abridged Libro di pittura. Mi pare di poter
dire, tuttavia, che, mentre Barone considera come facente parte di questo cluster
di codici quello Del Moto
e Misura dell’Acqua, datato 1643,
non prenda in esame il ms. O. Se fosse confermato che il ms. O faceva parte dei
materiali fatti preparare da Arconati per il
duo romano ci troveremmo di fronte a un’importante acquisizione. Su questo
punto mi permetto di mantenere il giudizio sospeso, in attesa che esca la prima
edizione a stampa del manoscritto, che dovrebbe essere imminente: Leonardo
da Vinci e il manoscritto O. Letture e peripezie di un apografo vinciano, dall’officina
Arconati al Fondo Venturi della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a cura
di Antonio Becchi, Simone Gibertini e Roberto Marcuccio. Sin d’ora, però, si
può dire – perché anticipato da Becchi – che la grafia del manoscritto O è ben
più simile a quella di chi scrisse il celebre ms. H 227 inf., famosissimo
testimone del Trattato di pittura in possesso di Dal Pozzo e Barberini, rispetto
a quella di Venturi; o che è noto sin dal 1982 che il codice reggiano presenta alcune
note, attribuibili a un uso precedente dei fogli, appartenenti a un libro di
conti in cui compare la data 1636.
Sulle postille
Come detto, mantengo il giudizio sospeso in attesa di
saperne di più. Tuttavia, va detto che, qualsiasi sia l’origine del ms. O, sia esso
stato scritto nel 1639 o da Venturi attorno al 1796, ciò non inficia il
discorso sulle postille, affrontato analiticamente da Biffi nella seconda parte
del libro. Le note ‘leonardiane’ sono dodici; in sei dei dodici casi è
possibile trovare un riscontro con il Ms. Ashb. 361 [1]. Le postille possono
essere divise in tre gruppi: testi che indicano il contenuto della pagina con
un titolo generale e generico; annotazioni che presentano titolazioni più
specifiche (Biffi parla di sostanziale analogia con il moderno hashtag); note ‘lunghe’
con una vera e propria struttura sintattica. In tutti i casi, comunque, appare evidente
che le postille non sono in intima connessione con il testo, ma si agganciano
vagamente alle illustrazioni martiniane presenti nel manoscritto. In sostanza,
è come se Leonardo non avesse letto il testo martiniano, ma si fosse
genericamente limitato a scrivere ciò che gli veniva in mente dando una rapida
occhiata alle figure. La circostanza, tenuto conto, peraltro, che il codice era
di particolare valore economico e che quindi andava conservato con riguardo,
appare francamente improbabile e fa torto all’innata curiosità del vinciano. Tutto,
insomma, porta a ritenere che, in realtà, si sia di fronte a un ‘abbellimento’
ottocentesco volto a rendere finalmente vendibile un codice che era rimasto
inesitato per anni. Se il nome di Francesco di Giorgio non era sufficientemente
attrattivo, si trattava di dargli nuovo appeal aggiungendo quello, enormemente
più noto, di Leonardo. Ancora una volta Guglielmo Libri si profila come l’unico
operatore con le conoscenze giuste per mettere in piedi un’operazione così
delicata.
Intendiamoci: nessuno intende negare la conoscenza fra
Francesco e Leonardo (certificata almeno dal 1490) e il fatto che quest’ultimo
ne abbia letto parte degli scritti. La circostanza è nota: nel ms. Madrid II
(uno dei due codici di Leonardo ritrovati in Spagna) sono trascritte pagine
provenienti dai trattati martiniani. Ma proprio qui è il punto: quelle pagine
provengono dal Trattato II di Francesco di Giorgio e non dal I. Se
dovessimo ritenere originali le postille del vinciano sull’Ashb. 361, dovremmo
immaginare una situazione assurda, in base alla quale Leonardo legge il Trattato
II di Martini, ma scrive i suoi appunti, riferiti al II, su un esemplare
del Trattato I. Francamente, un po’ troppo. Nulla togliendo al rapporto
fra i due grandi ingegnari, l’indagine di Becchi e Biffi conferma,
insomma, che, quando si tratta di Leonardo, troppe cose vengono date per scontate
sulle ali dell’entusiasmo e, in sostanza, mina alla base la paternità vinciana
delle annotazioni. La verità viene ristabilita su basi filologiche. Fino al
prossimo biberon.
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NOTA
[1] A complicare ulteriormente le cose va aggiunta l’osservazione
che nemmeno il ms. Ashb. 361 (ossia il manoscritto di Francesco di Giorgio è
completo): quattro sue carte si trovano, ad esempio, all’interno del fondo
Venturi a Reggio, a dimostrazione che il problema della tutela delle carte d’archivio
era particolarmente cogente nel corso del XIX secolo.
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