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mercoledì 5 febbraio 2025

Antonio Becchi, Marco Biffi. Le postille al 'Trattato di architettura' di Francesco di Giorgio Martini (ms. Ashb. 361): Leonardo da Vinci, Guglielmo Libri e i loro interpreti.

 

Antonio Becchi, Marco Biffi
Il biberon di Leonardo
Le postille al Trattato di architettura di Francesco di Giorgio Martini (ms. Ashb. 361): Leonardo da Vinci, Guglielmo Libri e i loro interpreti.

Recensione di Giovanni Mazzaferro




Ai suoi tempi ho scritto a lungo dei trattati architettonici di Francesco di Giorgio Martini, a partire dall’edizione curata da Corrado Maltese per Il Polifilo nel 1967, proseguendo con l’edizione del Vitruvio Magliabechiano di Gustina Scaglia, con il lavoro di Marco Biffi dedicato alle traduzioni martiniane di Vitruvio e, da ultimo, con Francesco di Giorgio e Vitruvio. Le traduzioni del «De architectura» nei codici Zichy, Spencer 129 e Magliabechiano II.I.141, di Massimo Mussini. Più o meno in tutti questi testi, di sfuggita o in maniera più approfondita, viene ricordato un dato: uno dei due testimoni del Trattato I, ossia il ms. Ashburnhamiano 361, conservato oggi presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze, contiene postille di mano di Leonardo da Vinci. La circostanza è stata, naturalmente, sottolineata con particolare interesse da parte degli studiosi di Leonardo. Di recente, ad esempio, è stata ribadita da Carlo Vecce in La biblioteca perduta. I libri di Leonardo (e nel successivo catalogo della mostra dedicata ai libri che lesse o di cui cercò di entrare in possesso). Il Ms. Ashb. 361 costituirebbe l’unico libro di cui abbiamo certezza che sia stato di proprietà di Leonardo e che facesse parte della sua biblioteca. Fra le poche voci controcorrente quella di Gustina Scaglia che, nel 1992, si dichiarava scettica sulla possibilità che Leonardo potesse permettersi di comprare un manoscritto in pergamena, particolarmente costoso; a ben vedere, insomma, obiettava più sulla proprietà del libro che sull’autenticità delle postille.

Il biberon di Leonardo è un libro in cui due nomi autorevoli, come quelli di Antonio Becchi e Marco Biffi, sostengono una nuova tesi: quella che le postille di Leonardo siano false e che siano state realizzate o fatte realizzare da Guglielmo Libri, sciagurato saccheggiatore di manoscritti di metà Ottocento, al solo scopo di rendere più appetibile sul mercato un manoscritto di Francesco di Giorgio, aggiungendovi note attribuite appunto a Leonardo stesso. Dico subito che le argomentazioni presentate in quest’occasione a me sembrano convincenti. In ogni caso quello di Becchi e Biffi è anche un libro che invita a meditare sulla moda di attribuire tutto a Leonardo, che non riguarda certo solo queste postille (Dio ci liberi da altre future attribuzioni di quadri e disegni al vinciano) e che ha portato qualcuno a ironizzare sul fatto che, dell’artista, ormai è stato ritrovato anche il suo biberon. Un volume – e questo è degno di nota – in cui non ci si limita a stigmatizzare comportamenti altrui, ma si fa anche una seria autocritica, come nel caso di Biffi, che dichiara di aver fatto parte della schiera degli studiosi che hanno dato per scontata la paternità delle postille leonardesche fino a quando non le ha studiate e ha avuto l’onestà intellettuale di rivedere il suo giudizio.

 

Il Ms. Ashburnhamiano 361

La storia del Ms. Ashb. 361 è piena di ombre. Nel 1816 si trovava, certamente, nella Biblioteca Estense di Modena, dove lo trovò e lo studiò Giovanni Battista Venturi (1746-1822). Quello di Venturi è un nome pesante. Di nascita reggiana, fisico e matematico, Venturi, nel 1796, ebbe modo di studiare a Parigi i manoscritti di Leonardo trafugati dai francesi in seguito alle requisizioni napoleoniche e fu lui ad attribuire a quei manoscritti la celebre numerazione in lettere dell’alfabeto, dalla A alla N. Come noto, al termine dell’epoca napoleonica, dodici manoscritti (marcati da A a M) rimasero in Francia, mentre il solo Codice Atlantico (marcato N) tornò alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Ma Venturi fece di più: nel suo soggiorno parigino studiò i manoscritti di Leonardo e ne trascrisse delle parti su suoi taccuini, che riportò con sé in Italia e che, per sua comodità, segnò con le lettere dalla O alla T. Queste trascrizioni assumono un ruolo di particolare importanza perché nel corso dell’Ottocento i manoscritti parigini da A a M furono saccheggiati dagli utenti dell’Institut de France, convinti di poter realizzare lauti guadagni rivendendoli clandestinamente. Fra questi, immancabile, vi era Guglielmo Libri. Noi, quindi, conosciamo varie parti dei codici originali di Leonardo grazie alle trascrizioni di Venturi, essendo venuti meno gli originali. E' certo, ad esempio, che Libri abbia rubato carte dei manoscritti A e B, vendendole in Inghilterra a Lord Ashburnham nel 1847.

Anche il Ms. Ashb. 361, in un momento imprecisato, ma prima del 1831, fu rubato dalla biblioteca estense e riapparve a Londra presso il libraio Robert Harding Evans il 22 novembre 1837. Nel catalogo di vendita il codice era attribuito a Leonardo da Vinci e, tuttavia, pur in un periodo in cui la mania per l’artista di Vinci era già esplosa, il manoscritto rimase invenduto. Perché? La risposta appare banale: perché era scritto normalmente, da sinistra a destra, e non, alla maniera di Leonardo, alla rovescia, circostanza che, evidentemente, portò gli eventuali compratori a diffidare dell’attribuzione. Il manoscritto fece quindi ritorno in Italia, a Milano, presso il libraio Antonio Tosi che – mi pare di capire – lo ripropose in asta questa volta a Parigi e senza attribuzione, nel 1843. Qui fu comprato da Guglielmo Libri. C’è una circostanza importante da mettere in evidenza: in nessuna delle descrizioni del manoscritto, quella di Venturi, quella del catalogo del 1837 e quella presente in un ulteriore catalogo realizzato nel 1842 in vista dell’asta parigina, si parla della presenza di postille; postille che, se ci fossero state, sarebbe stato facile attribuire a Leonardo perché scritte questa volta alla rovescia, da destra a sinistra. La circostanza, tenuto conto che il valore del manoscritto ne sarebbe stato incrementato, e non di poco, ha dell’incredibile. Nel 1847 Libri rivendette l’Ashb. 361 al conte di Ashburnham, assieme ai fogli vinciani rubati dai manoscritti A e B dell’Institut de France. Questa volta l’attribuzione era tornata a Leonardo. Non sono del tutto convinto – sarò onesto – che l’indicazione al n. 359 del catalogo del 1842 («magnifique ouvrage inédit de Léonard de Vinci et rempli d’admirables dessins etc…», cfr. p. 69) sia la pistola fumante che dimostra come le postille vi fossero state aggiunte; d’altra parte mi pare poco convincente l’argomento ‘a sfavore’ contenuto nel catalogo stesso che indicava il manoscritto come proveniente dalla collezione Gianfilippi di Verona (cfr. 75-76). Chiunque sia in possesso di un codice rubato, al momento della vendita ha il problema di dargli una provenienza lecita, e questo sembra essere il classico caso di scuola. Fatto sta che quando, nel 1884, la famiglia Ashburnahm vendette il codice allo Stato italiano e il manoscritto finì alla Biblioteca Medicea Laurenziana, quelle postille c’erano e furono immediatamente riferite a Leonardo, dando vita a una tradizione giunta sino ai giorni nostri.

 

Una parentesi lunga più di un secolo

In sostanza, la situazione si stabilizzò rapidamente, sin da fine secolo. Le postille dell’Ashb. 361 furono attribuite a Leonardo e rispecchiavano l'interesse del vinciano per gli scritti di Francesco di Giorgio. Nel 1975, però, Nando de Toni, su segnalazione di Carlo Maccagni, annunciava di essersi accorto che il testo di una delle postille del ms. Asbh. 361 coincideva con un brano contenuto nel ms. O conservato alla Biblioteca comunale di Reggio Emilia (oggi con segnatura Regg. A 35/2), dove erano confluite le carte di Giovanni Battista Venturi per donazione degli eredi. Come abbiamo visto, i manoscritti da O a T erano considerati raccolte di trascrizioni dagli originali leonardeschi (numerati da A a N) effettuate da Venturi nel suo soggiorno parigino di fine Settecento. Questi ultimi erano stati saccheggiati, in parte da Guglielmo Libri e in parte da ignoti, di modo che avevano perso molto del loro materiale. De Toni, basandosi sul loro contenuto, riteneva che le note del manoscritto O provenissero dall’originale codice E. Purtroppo Venturi non aveva provveduto a indicare da quale codice avesse effettuato le copie e, men che meno, da quali carte del medesimo; inoltre, le sue trascrizioni erano spesso parziali. Sulla postilla richiamata da de Toni non si nutrivano dubbi: essa era di pugno di Leonardo. Si aprivano, a questo punto, due grandi strade: studiare meglio il manoscritto O, come prezioso testimone di carte scomparse in origine nell’E, e stabilire quale fosse il rapporto fra testi in origine nell’E e ms. Ashb. 361 (riconosciuto, a quelle date, certamente di Francesco di Giorgio). In realtà, per decenni, non se ne fece nulla. De Toni studiò i manoscritti di Leonardo tutta la vita, da «dilettante», e si scontrò sempre con gelosie e pregiudizi, pur facendo fronte per un lungo periodo alla sostanziale paralisi dell’attività della Commissione Nazionale Vinciana pubblicando a sue spese il Notiziario Vinciano. In sostanza, fu sempre tenuto ai margini in un mondo, quello dei leonardisti, che per decenni non è stato esattamente un esempio di disinteresse e lavoro in collaborazione. Una volta tramontata la possibilità di pubblicare le edizioni critiche dei manoscritti vinciani, si ritagliò un suo spazio cercando di ricostruire dalle testimonianze indirette il contenuto delle carte perdute dell’artista. Le sue segnalazioni, giuste o sbagliate, furono ampiamente sottovalutate. È il caso della coincidenza fra postilla del manoscritto martiniano e il venturiano codice O. Becchi non ha alcuna difficoltà a inserirsi, come fatto anche da Biffi, nel novero di chi, colpevolmente, sorvolò sull’argomento, ma proprio a loro si deve, negli ultimi anni, un deciso cambiamento di rotta.

 

Sul manoscritto O

Provo, a questo punto, a riassumere. Per quanto riguarda il manoscritto O, la tesi dei due autori è che, in realtà, esso presenti sì annotazioni di Venturi, ma relative a un testo vergato da altre mani. Si tratterebbe di un manoscritto molto più vecchio, redatto attorno al 1639, risalente, cioè a 160 anni prima. Sarebbe, in sostanza, una raccolta di precetti vinciani redatta su sollecitazione di Cassiano dal Pozzo e del cardinal Francesco Barberini. Sappiamo che i due concepirono, nel quarto decennio del Seicento, il progetto di collazionare gli scritti di Leonardo; dalla loro iniziativa, peraltro, derivò la cessione di un manoscritto sul Trattato della pittura che fu ceduto in Francia e portò alla prima pubblicazione dell’opera nel 1651. Tuttavia, il progetto iniziale di Dal Pozzo e Barberini fu certamente più ampio, come sottolineato, ad esempio, da Juliana Barone in Seventeenth-Century Transformations: Cassiano dal Pozzo’s Manuscript Copy of the Abridged Libro di pittura. Mi pare di poter dire, tuttavia, che, mentre Barone considera come facente parte di questo cluster di codici quello Del Moto e Misura dell’Acqua, datato 1643, non prenda in esame il ms. O. Se fosse confermato che il ms. O faceva parte dei materiali fatti preparare da Arconati per il duo romano ci troveremmo di fronte a un’importante acquisizione. Su questo punto mi permetto di mantenere il giudizio sospeso, in attesa che esca la prima edizione a stampa del manoscritto, che dovrebbe essere imminente: Leonardo da Vinci e il manoscritto O. Letture e peripezie di un apografo vinciano, dall’officina Arconati al Fondo Venturi della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a cura di Antonio Becchi, Simone Gibertini e Roberto Marcuccio. Sin d’ora, però, si può dire – perché anticipato da Becchi – che la grafia del manoscritto O è ben più simile a quella di chi scrisse il celebre ms. H 227 inf., famosissimo testimone del Trattato di pittura in possesso di Dal Pozzo e Barberini, rispetto a quella di Venturi; o che è noto sin dal 1982 che il codice reggiano presenta alcune note, attribuibili a un uso precedente dei fogli, appartenenti a un libro di conti in cui compare la data 1636.

 

Sulle postille

Come detto, mantengo il giudizio sospeso in attesa di saperne di più. Tuttavia, va detto che, qualsiasi sia l’origine del ms. O, sia esso stato scritto nel 1639 o da Venturi attorno al 1796, ciò non inficia il discorso sulle postille, affrontato analiticamente da Biffi nella seconda parte del libro. Le note ‘leonardiane’ sono dodici; in sei dei dodici casi è possibile trovare un riscontro con il Ms. Ashb. 361 [1]. Le postille possono essere divise in tre gruppi: testi che indicano il contenuto della pagina con un titolo generale e generico; annotazioni che presentano titolazioni più specifiche (Biffi parla di sostanziale analogia con il moderno hashtag); note ‘lunghe’ con una vera e propria struttura sintattica. In tutti i casi, comunque, appare evidente che le postille non sono in intima connessione con il testo, ma si agganciano vagamente alle illustrazioni martiniane presenti nel manoscritto. In sostanza, è come se Leonardo non avesse letto il testo martiniano, ma si fosse genericamente limitato a scrivere ciò che gli veniva in mente dando una rapida occhiata alle figure. La circostanza, tenuto conto, peraltro, che il codice era di particolare valore economico e che quindi andava conservato con riguardo, appare francamente improbabile e fa torto all’innata curiosità del vinciano. Tutto, insomma, porta a ritenere che, in realtà, si sia di fronte a un ‘abbellimento’ ottocentesco volto a rendere finalmente vendibile un codice che era rimasto inesitato per anni. Se il nome di Francesco di Giorgio non era sufficientemente attrattivo, si trattava di dargli nuovo appeal aggiungendo quello, enormemente più noto, di Leonardo. Ancora una volta Guglielmo Libri si profila come l’unico operatore con le conoscenze giuste per mettere in piedi un’operazione così delicata.

Intendiamoci: nessuno intende negare la conoscenza fra Francesco e Leonardo (certificata almeno dal 1490) e il fatto che quest’ultimo ne abbia letto parte degli scritti. La circostanza è nota: nel ms. Madrid II (uno dei due codici di Leonardo ritrovati in Spagna) sono trascritte pagine provenienti dai trattati martiniani. Ma proprio qui è il punto: quelle pagine provengono dal Trattato II di Francesco di Giorgio e non dal I. Se dovessimo ritenere originali le postille del vinciano sull’Ashb. 361, dovremmo immaginare una situazione assurda, in base alla quale Leonardo legge il Trattato II di Martini, ma scrive i suoi appunti, riferiti al II, su un esemplare del Trattato I. Francamente, un po’ troppo. Nulla togliendo al rapporto fra i due grandi ingegnari, l’indagine di Becchi e Biffi conferma, insomma, che, quando si tratta di Leonardo, troppe cose vengono date per scontate sulle ali dell’entusiasmo e, in sostanza, mina alla base la paternità vinciana delle annotazioni. La verità viene ristabilita su basi filologiche. Fino al prossimo biberon.

 

Leonardo - Borraccia Handy
Fonte: https://bimbomaniasrl.it/prodotto/jh075-leonardo-borraccia-handy/

 

NOTA

[1] A complicare ulteriormente le cose va aggiunta l’osservazione che nemmeno il ms. Ashb. 361 (ossia il manoscritto di Francesco di Giorgio è completo): quattro sue carte si trovano, ad esempio, all’interno del fondo Venturi a Reggio, a dimostrazione che il problema della tutela delle carte d’archivio era particolarmente cogente nel corso del XIX secolo.

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