Sandro Baroni, Paola Travaglio
De vitri coloribus: fortuna medievale di un trattato bimillenario.
Colorazione del vetro, delle gemme artificiali, degli smalti, della decorazione
ceramica
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Medioevo Europeo
Rivista di filologia e altra medievalistica 4, 2020, 1
Avvertenza di Giovanni Mazzaferro
Questa volta mi sono divertito a fare un giochino. In questo saggio troverete due recensioni dello stesso articolo, scritto da Sandro Baroni e Paola Travaglio. Il primo, prodotto in tre minuti, è stato scritto dall’intelligenza artificiale di Adobe; il secondo, frutto di due giorni di lavoro fra lettura e scrittura è opera mia. È la prima volta in vita mia che uso l’intelligenza artificiale. Che giudizio ne do? Il risultato mi sembra più che discreto, al netto del fatto che, come noto, non siamo di fronte a qualcosa di veramente intelligente, ma a un semplice programma. Ciò che colpisce è che nel saggio prodotto artificialmente manca qualsiasi capacità di giudizio critico, di stabilire un nesso, di fare salti e comparazioni da un’opera all’altra; siamo di fronte a uno strumento efficientissimo se si tratta di fare un riassunto di ciò che non abbiamo tempo di leggere. La parte più pericolosa? Le righe finali in cui l'AI stabilisce che "l'articolo rappresenta un contributo significativo alla storia delle tecniche dell'arte e della filologia, offrendo una panoramica esaustiva e ben documentata di un trattato che ha attraversato secoli di storia". Nel caso specifico, è vero: temo che avrei letto la stessa cosa anche se ci si trovasse davanti, in realtà, a un testo del tutto insufficiente. Quello espresso non è un giudizio critico, ma una formula di cortesia.
Se ho
capito bene, i programmi generativi apprendono da loro stessi. Può darsi
benissimo che, quando qualcuno chiederà all’intelligenza artificiale che ha a
disposizione di parlargli del De vitri coloribus, le mie considerazioni saranno
estrapolate e citate, naturalmente senza il nome del loro autore, ma lo saranno
sempre in maniera asseverativa, come se stessimo leggendo una definizione sul
vocabolario, senza riuscire (spero) a riprodurre il ragionamento critico alla
base di esse.
L'articolo "De vitri coloribus: fortuna medievale
di un trattato bimillenario. Colorazione
del vetro, delle gemme artificiali, degli smalti, della decorazione
ceramica" offre un'analisi approfondita di un antico trattato sulla
colorazione del vetro, originatosi in epoca ellenistico-romana e diffusosi
ampiamente nel Medioevo latino. Il
testo, noto come "De vitri coloribus", è
presentato come una fonte fondamentale per la storia della lavorazione del
vetro, delle gemme artificiali, degli smalti e della decorazione ceramica.
L'articolo si distingue per la sua meticolosa
ricostruzione della tradizione manoscritta del trattato, evidenziando le
diverse versioni e traduzioni che si sono succedute nel tempo. Viene sottolineata l'importanza del testo non solo
per le tecniche artigianali tramandate, ma anche per le osservazioni
scientifiche sulle proprietà delle sostanze utilizzate. La trattazione include
riferimenti a traduzioni latine come il "Liber sacerdotum", il
"Liber administrationum" attribuito ad al-Kindi, e il "Liber de
coloribus metallorum et petrarum" di Rusticus, oltre a una versione in
volgare italiano.
L'articolo è arricchito da un'analisi dettagliata dei
manoscritti che contengono il trattato, con citazioni specifiche e confronti
tra diverse versioni. Viene inoltre esplorata la connessione del testo con la
tradizione alchemica e la sua influenza su altre opere medievali. La ricerca si
conclude con una riflessione sull'importanza del "De vitri coloribus"
per la comprensione delle tecniche artistiche e scientifiche del passato,
evidenziando la sua rilevanza per la storia della tecnologia del vetro e della ceramica.
In sintesi, l'articolo rappresenta un contributo significativo alla storia delle tecniche dell'arte e della filologia, offrendo una panoramica esaustiva e ben documentata di un trattato che ha attraversato secoli di storia, adattandosi e influenzando diverse culture e ambiti geografici.
Il De vitri coloribus non esiste; o.
meglio, non ci è giunto nessun testimone che contenga, isolatamente e con
questo titolo, attribuito in via convenzionale da Baroni e Travaglio, la tradizione
di un’opera che però è esistita storicamente e che ha attraversato in lingue e
forme diverse due millenni di storia, originandosi probabilmente nel mondo tardo-egizio, venendo recepito in età
ellenistica e diramandosi poi, con buon successo, nel corso del Medioevo.
La comparsa di una tradizione più o meno omogenea di
testi relativa all’arte vetraria e riconducibile al De vitri coloribus comincia
a manifestarsi nel mondo occidentale, in latino, attorno al XII-XIII secolo. Per
comprendere l’attribuzione del titolo bisogna aver presente che per colorazione
del vetro non si intende unicamente la colorazione di manufatti prodotti a
stampo o per soffiatura, come i vetri, ma, in senso ampio, quella di tessere
musive, gemme artificiali, smalti, decorazioni ceramiche invetriate e maioliche.
Più in generale, nel mondo antico e medievale, l’aspetto delle procedure è
accostato a considerazioni sulle proprietà e le qualità dei materiali. Siamo di
fronte, insomma, a interessi che possiamo definire scientifici, naturalmente in
una visione della scienza che è ben diversa da quella che conosciamo modernamente (p.
6).
L’analisi degli autori ha un punto di partenza, che è il
ms. Lat. 6514 della Bibliothéque Nationale de France, a Parigi, noto anche Liber
sacerdotum e databile,
grosso modo, al 1260; si tratta di un manoscritto che non è sconosciuto; fu
presentato per la prima volta da Marcelin Berthelot nel 1893. Fu proprio
Berthelot ad attribuire il titolo Liber sacerdotum al manoscritto (anche se non
si accorse che vi erano preparazioni relativi al vetro, trascrivendo ‘nitri’
invece di ‘vitri’). Vi fu poi una seconda edizione nel 1936. Che cos’è il Liber
sacerdotum? In realtà siamo di fronte a una raccolta particolarmente scombinata
di circa duecento prescrizioni che oggi prenderebbe il nome di ‘ricettario
informe’, ossia di un ricettario che, se letto senza alcun approccio
filologico, presenta procedimenti fra loro incoerenti e, soprattutto, irrealizzabili.
Molto spesso (e non solo in questo caso) tutto ciò è stato semplicemente
ricondotto al mondo del cosiddetto ‘Medioevo fantastico’, ma in realtà siamo di
fronte alla corruzione e all’interpolazione di testi provenienti da opere
separate che in origine avevano un loro significato ben connotato e, soprattutto,
coerente. Se volete capire meglio, consiglio la lettura, in questo blog, della
recensione al n. 16 della rivista Studi di Memofonte, dedicato a trattati e
ricettari per colori. Qui, invece, banalizzo il tutto con un esempio di
scuola: nei primi decenni del Novecento, un
giapponese di nome Tsune Nakamura, innamorato della pittura francese e, in
particolare, di Auguste Renoir, tradusse dal francese al giapponese Il libro
dell’arte di Cennino Cennini (si noti che già la base di partenza, cioè
il testo francese, non era originale, ma si fondava su una traduzione dall’italiano
al francese). Lo fece perché Renoir, nei decenni finali della sua vita, si entusiasmò
a tal punto del testo cenniniano da cambiare stile di pittura e da farne la
pietra miliare della sua arte, una volta abbandonato l’impressionismo. Supponiamo che, oggi, un marziano interessato alla storia delle tecniche artistiche
voglia indagare quelle giapponesi di inizio Novecento, e che trovi diverse
opere in merito, fra cui anche la traduzione di Nakamura, di cui si sia perso
però il nome dell’autore medievale italiano originario. Finirà per considerare
quello scritto un testimone della pittura giapponese del Novecento,
accostandolo ad altri scritti giapponesi sull’argomento, travisando
completamente il contesto. E fra Nakamura e Cennino sono passati ‘soltanto’
cinquecento anni. Fra il Liber sacerdotum e il De vitri coloribus,
probabilmente, quattro volte di più. Non solo: per tutta l’antichità e il medioevo
scritti di questo tipo erano conservati in fogli sfascicolati (o di cui si
erano rotte le rilegature); la numerazione delle pagine con caratteri arabi è
un’invenzione umanistica. Capite quanto fosse facile sbagliare, invertire gli
ordini, travisare i contenuti. È proprio ciò che testimonia il Liber
sacerdotum.
Tornando a noi, l’esame filologico del Liber
sacerdotum, condotto dagli autori, porta a ritenere che all’interno delle
duecento prescrizioni di cui esso si compone, vi sia un nucleo coerente di ricette
(una cinquantina) relative alla colorazione del vetro assieme ad altre provenienti da opere diverse su cui non mi dilungherò. Una volta liberatici del
‘superfluo’ (fra cui anche attribuzioni a uno Johannes che sembrano riguardare
altri testi interpolati con l’originale), riesce a emergere la struttura tipica
di una trattaziona tecnica ellenistica, con
un’organizzazione gerarchica delle sostanze, divisione in sezioni per la
realizzazione dei preparati e indice mnemotecnico finale. L’esame delle ricette
così individuate permette di ricostruire un’originale stesura in greco, una
prima traduzione in arabo e, da questa, un ulteriore passaggio al latino.
L’esemplare conservato a Parigi è probabilmente il frutto «di una semplice,
acritica copia effettuata da un unico scriba dell’Italia centro-settentrionale, avendo per antigrafo un insieme sfascicolato di varie opere circolanti nello stesso ambito» (p. 16).
Dall’esame complessivo del manoscritto (quindi, sia del nucleo riferibile al De
vitri coloribus sia di tutto ciò che con esso vive in simbiosi) riusciamo anche a
capire che esso fu redatto da un’unica mano, probabilmente non particolarmente
esperta della materia, intorno al 1260, operante nell’Italia
settentrionale, perché possiamo leggere nomi di personaggi di Cremona, Mantova
e Brescia. Lo scriba dell’Italia settentrionale è, insomma, il marziano della
situazione: probabilmente aveva a disposizione un insieme sfascicolato di opere
circolanti nello stesso ambito, fra cui il De vitri coloribus.
Senza entrare nei particolari (per cui sono necessarie conoscenze specifiche a me ignote), capite quanto sia affascinante un approccio del genere. Baroni e Travaglio stabiliscono anche che il De vitri coloribus abbia viaggiato per lungo tempo insieme a testi della tradizione ermetica, nel senso etimologico del termine, ossia a testi di natura filosofica risalenti a Ermete Trimegisto e suoi seguaci, ossia di età ellenistica. La filosofia ermetica riguarda l’interpretazione della natura attraverso tradizioni misteriche a loro volta derivate dal mondo egizio. Capiamo allora perché il De vitri coloribus vi possa essere stato accostato: perché per la scienza dell’epoca anch’esso indagava le proprietà dei materiali, delle cose, in ultima analisi della natura. È ferma convinzione degli autori che «l’opera greca da noi convenzionalmente definita De vitri coloribus attraversò quindi certamente ambienti dell’alchimia araba e poi latina e si arricchì di accostamenti ed interpolazioni che, se non individuate, rischiano di falsare la corretta lettura del testo e soprattutto del suo più accurato inquadramento storico» (p. 23).
L’ ‘originale’ greco-ellenistico.
Il termine ‘originale’ è fra virgolette perché è appena evidente che in sequenze storiche così ampie e complesse un originale non esiste; esistono semmai testimoni che possono essere considerati ‘fotogrammi’ di un grande percorso che si manifesta davanti ai nostri occhi. Ciò chiarito, gli autori sottolineano alcuni aspetti riferiti alla tradizione del De vitri coloribus nella sua fase iniziale: in primo luogo segnalano «l’elevato grado di rigore nella costruzione concettuale. L’oggetto della ricerca e trattazione dell’autore sono gli “effetti” delle sostanze nel vetro. Queste però vanno opportunamente preparate, cioè predisposte a sviluppare l’azione tintoria. Entro queste due polarità si svolge il discorso, in una serrata consequenzialità che non concede spazio ad altro. Il focus sono le “cause”, quindi le sostanze, presentate nell’ordinamento delle proprie gerarchie: metalli, minerali nativi, sostanze artificiali di origine minerale. I colori interessano per quanto ne sono l’effetto. L’autore è talmente centrato sul tema dell’indagine che nemmeno una prescrizione spiega come si produca il vetro. Nessun cenno meritano gli aspetti produttivi o artigianali, né il contesto operativo» (p. 26). In secondo luogo, Barone e Travaglio fanno presente che la ricchezza e la complessità delle ricette sono evidenti e riguardano una sessantina di colorazioni a cui si aggiungono le preparazioni delle sostanze impiegate, tutti elementi tali da indurre a ritenere che il De vitri coloribus non fosse l’elaborazione del patrimonio sapienziale di un singolo operatore: «ci troviamo con grande probabilità di fronte a un autore che ha l’opportunità di raccogliere le prescrizioni di una grande tradizione manufatturiera di esperienza secolare» (p. 23). E qui ci troviamo di fronte a un ulteriore problema: siamo risaliti dal Medioevo al mondo ellenistico per poi scoprire che anche qui, con estrema probabilità, siamo di fronte a una raccolta di prescrizioni precedenti di natura secolare. Si deve con ogni verosimiglianza risalire ancora indietro nel tempo, probabilmente al mondo egizio. Va peraltro detto che, tradizionalmente, opere di questo tipo erano ricondotte all’epoca, per brevità e facilità, alla figura di Democrito (450-350 a.C. circa): «la grande fama di Democrito [n.d.r. come esploratore dei fenomeni della natura] aveva infatti suscitato nel tempo la nascita di una vasta produzione pseudo-epigrafica, in parte connessa nei suoi sviluppi agli ambiti dell’alchimia ellenistico romana, che ebbe uno dei suoi centri più importanti in Alessandria d’Egitto. […] Questa figura si prestava meglio di altre a rappresentare gli esiti di culture e mondi assai differenti tra loro, nel compendio delle diverse esperienze e avanzamenti tecnici. Un sapere ricondotto spesso, nelle frequenti epitomi, a una visione sinottica delle prescrizioni, di stampo enciclopedico, tipica del mondo ellenistico» (p. 24). Di fronte all’impossibilità (o alla grande difficoltà) nell’indagare le origini passati di studi di natura filosofico-naturale, Democrito si poneva, insomma, come una facile scorciatoia, come la spiegazione originaria e astorica di una tradizione che invece – lo si ripete – appoggia con verosimiglianza su conoscenze egizie.
Altri manoscritti successivi al De vitri coloribus.
La situazione caotica del Liber sacerdotum non dovette
sfuggire a chi lo lesse nel tentativo di trarne un senso, e di darlo alla
prescrizioni sulla colorazione del vetro, specie in un momento storico, dal
1200 in poi, in cui la richiesta di pratiche di questo genere era sostenuta
dalla produzione di grandi vetrate istoriare: si pensi alle vetrate fatte costruire da Sugerio per Saint Denis e all’enorme rilevanza che tale tipo di
produzione assunse col gotico. Si ricordi in proposito che lo stesso Teofilo, nel De diversis artibus, dedicò uno dei suoi libri al vetro (ma con un approccio
diverso, indagandone tutte le fasi della produzione). Evidentemente vi fu chi
avvertì la necessità di rimettere ordine nel testo, non operando una ricerca storico-filologica,
ma ricollocando le prescrizioni secondo una logica personale di possibile
operatività. È così che assistiamo alla nascita di nuovi testi che derivano dal
manoscritto parigino e che, di volta in volta, assumono denominazioni diverse,
pur continuando a tramandare la stessa serie di indicazioni. È il caso del
Liber administrationum, che fu attribuito (da chi lo redasse) ad al-Kindi.
Anche qui ci troviamo di fronte, con ogni probabilità, a una situazione simile
a quella di Democrito. Al-Kindi visse nel IX secolo d.C. e i suoi scritti
raggiunsero l’Europa attorno al 1200; famosissimi quelli relativi alla
prospettiva naturale. Ma proprio la fama dell’autore deve indurre a essere
particolarmente sospettosi nei confronti di un’attribuzione che è relativa a materiali
provenienti chiaramente da secoli precedenti all’esistenza del filosofo arabo. Un
caso analogo, nella sua esigenza di fare ordine, ma contemporaneamente diverso,
perché sposta l’oggetto principale delle prescrizioni nell’ambito della
colorazione di vetrine nella produzione ceramica e, in particolare nella
maiolica è quello di un’ulteriore versione latina, testimoniata da due
manoscritti, uno oggi alla Biblioteca Nazionale di Torino e l’altro alla
Centrale di Firenze. Si tratta di copia tardive, rispettivamente databili al XV e al XVI
secolo, una delle quali (quella torinese) è intitolata Liber de coloribus diversarum
rerum. Non manca nemmeno una traduzione italiana, operata da Rustico e oggi a
Montpellier, il Libro de' colori de’ metalli et de pietre. Nel complesso,
dunque, siamo di fronte a indicazioni che, proveniendo con ogni probabilità dal
mondo egizio giungono sino a Rinascimento inoltrato, coprendo un arco di circa
duemila anni.
Il De vitri coloribus e Mappae clavicula.
Abbiamo già avuto modo di recensire Mappae
clavicula. Siamo di fronte a tradizioni fra loro diverse (che, però, si
mescolano nel Liber sacerdotum). Quello che mi preme qui ricordare sono le
diverse modalità di spostamento delle rispettive opere in Europa; modalità che
non possono che risultare indagando in termini filologici i testi che ce le
testimoniano. Mappae clavicula si occupa di metallurgia, ossia di lavorazioni
su e coi metalli; De vitri coloribus di colorazione del vetro. Entrambe, però,
hanno in comune un elemento: la loro provenienza dal mondo alchemico ellenistico
e l’essere state scritte in greco (avendo probabilmente precedenti egizi
in tutti e due le situazioni). Nel caso di Mappae clavicula, tuttavia, lo
sbarco in Europa avviene prima, probabilmente già nella tarda antichità, più o
meno in coincidenza con i secoli finali dell’Impero romano d’Occidente; per il
De vitri coloribus, invece, la penetrazione risale al 1200 circa ed è mediata
dal mondo arabo. A dimostrarlo sta l’assenza di una patina lessicale araba nel
primo caso, riscontrabile nel secondo. Non esiste, dunque, una regola fissa e
immutabile che spiega univocamente le circostanze in base alle quali un’opera
lascia il mondo ellenistico e raggiunge l’Europa occidentale. Ogni volta l’interprete
è posto di fronte alla necessità di studiare le modalità di queste migrazioni e,
a dire il vero, è questo il bello del suo lavoro.
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