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sabato 14 dicembre 2024

Diletta Gamberini. Le parole per l'immagine della sofferenza. I letterati rinascimentali alla prova del Laocoonte

 

Diletta Gamberini
Le parole per l’immagine della sofferenza.
I letterati rinascimentali alla prova del Laocoonte

Firenze, Olschki, 2024

Recensione di Giovanni Mazzaferro




Confessione.

Non ho nessuna difficoltà nel confessare che mi sono avvicinato a Le parole per l’immagine della sofferenza di Diletta Gamberini con qualche titubanza, soprattutto perché le mie poche conoscenze in materia risalgono ai tempi remotissimi del liceo. Ero, tuttavia, perfettamente cosciente che Gamberini affrontava un tema, quello delle composizioni poetiche cinquecentesche dedicate al Laocoonte all’indomani del suo ritrovamento nel 1506, che mostrava tangenze importanti col mondo della letteratura artistica. Sarà banale dirlo, ma l’opera d’arte per eccellenza, non solo nel Cinquecento, ma almeno sino a Winckelmann e Lessing non fu la Gioconda di Leonardo (la cui fortuna a livello mediatico è dovuta al furto di primo Novecento), ma proprio il Laocoonte. È sul Laocoonte (e sugli altri manufatti presto ospitati nel bramantesco Cortile delle Statue in Vaticano) che si confrontarono artisti, letterati, filosofi e storici. Va peraltro aggiunto che la fitta trama di componimenti poetici che fu dedicata al gruppo scultoreo (e che, con l’eccezione di qualche aggiunta segnalata per l’occasione da Gamberini, può essere letta nella parte antologica del Laocoonte di Salvatore Settis, curata da Sonia Maffei, Donzelli 1999) rappresenta solo la manifestazione più evidente di quell’ut pictura poesis che non era certo inedito, ma che trionfò nei secoli successivi nelle corti e nelle tipografie di tutta Europa.

In genere, quando si avvicina un libro con queste titubanze i risultati sono due: si viene immediatamente respinti con perdite o ci si innamora di qualcosa di nuovo che si impara. Il mio caso, per fortuna, è il secondo: sin dall’inizio mi sono sentito accolto dall’autrice e condotto per mano alla scoperta di un mondo affascinante. Ci sono, in merito, dei segni distintivi che aiutano a capire le reali volontà dell’autore nei confronti del lettore: uno di questi è, senza dubbio, l’umiltà (e anche il rischio, perché è cosa tutt’altro che banale) di tradurre in italiano i testi originali, sia che essi siano in latino o in greco, sia che facciano riferimento a saggi più o meno moderni in tedesco. Fa eccezione l’inglese, ma qui, davvero, siamo di fronte alla moderna lingua franca e sarebbe eccessivo. Eppure, inviterei lettrici e lettori a riflettere su quante volte si sono trovati di fronte a scritti proposti solo in originale; si tratta di una scelta inconsciamente volta a marcare una distanza (non capisci il greco antico? Non puoi leggere questo libro), ma, più sottilmente – come dicevo – a evitare rischi di errori. È bello, quindi, vedere che l’autrice ha il coraggio non solo di tradurre, ma anche di assumersi le sue responsabilità, facendo presente in nota in più di un’occasione le sue diverse interpretazioni nella resa dei versi rispetto a colleghi che l’hanno preceduta. 

Agesandro, Atanadoro e Polidoro, Laocoonte, Città del Vaticano, Musei Vaticani
Fonte: LivioAndronico via Wikimedia Commons


Rinascimento e mondo greco-romano.

La tesi di Gamberini è semplicissima. Molti dei temi che furono affrontati nelle poesie neolatine del Cinquecento (e non solo; Eurialo d’Ascoli, ad esempio, scrisse in volgare le sue Stanze) attingono formule letterarie dal modo con cui gli antichi a loro volta descrissero opere d’arte del tempo loro (che, più di una volta, non ci sono giunte). Stiamo parlando di ecfrasi, naturalmente, e quindi di descrizioni di opere d’arte volte a suscitare nel lettore o nell’uditore un insieme di impressioni mentali che riproducano il carattere e lo stato d’animo dei protagonisti dell’opera d’arte. L’ecfrasi è pratica antichissima e di particolare fortuna nel mondo greco ellenistico. Conosciamo bene alcuni dei nomi dei suoi protagonisti, dai Filostrati a Callistrato e a Luciano di Samosata. Nel caso specifico del Laocoonte, poi, non possiamo dimenticare i grandi classici, da quelli perduti, come la tragedia sofoclea dedicata al sacerdote greco al famosissimo esempio dell’Eneide in cui Virgilio ne narra la tragica fine e quella dei figli, uccisi tutti e tre da enormi serpi marine per volontà di Pallade Atena. Una vicenda così celebre da comparire anche nel famosissimo esemplare manoscritto noto come Virgilio Vaticano (Vat. Lat. 3225), codice, grosso modo, di metà 400 d.C., quando – si badi bene – il cristianesimo era religione ufficiale dell’Impero da più di mezzo secolo e qualsiasi rappresentazione di natura pagana era vietata dalla legge.




Gamberini ritiene che, oltre a queste fonti, un ruolo fondamentale nel recupero di ‘frammenti’ letterari da parte dei poeti del Cinquecento abbia avuto la cosiddetta Antologia Planudea. Si tratta di una ricchissima raccolta di epigrammi che prende il nome da Massimo Planude, il quale, attorno alla fine del XIII secolo, li aveva collazionati in una silloge che cominciò a circolare manoscritta in Italia dal 1460 circa, realisticamente portatavi da uno dei tanti eruditi giunti nella nostra penisola in seguito alla caduta dell’Impero romano d’Oriente (1453): «Se in quegli anni si moltiplicarono nella Penisola le traduzioni e libere imitazioni in versi neolatini degli epigrammi planudei, vero volano dello straordinario successo della silloge furono la stampa della sua editio princeps nel 1494 e quella di un volume edito a Venezia da Aldo [n.d.r. Manuzio] nel 1503. L’esemplarità, in materia di commento poetico sull’arte, della miriade di componimenti ecfrastici della raccolta sarebbe comunque proseguita a lungo. Per tutta la prima età moderna, la tradizione epigrammatica confluita nella cosiddetta Antologia Greca avrebbe in effetti continuato a rivestire un ruolo paradigmatico per quei poeti che intendessero trattare delle creazioni di artisti figurativi» (pp. 20-21).

Bisogna subito chiarire una cosa: le composizioni poetiche dedicate al Laocoonte (che non sempre, a loro volta, sono epigrammi) sono il risultato di una produzione letteraria colta. I loro autori sono umanisti ben aggiornati sul recupero dei modelli antichi (Gamberini fa convincentemente notare che tale recupero era in atto anche prima della riscoperta del gruppo scultoreo – cfr. pp. 32-39)) e colto è il pubblico (sempre di umanisti) destinato a leggerli. Quelli che sono operati, dunque, sono prelievi di temi da testi originari che non sono semplici calchi, ma presumono una capacità di rielaborazione di singoli frammenti (un po’ come i ‘mosaici’ di cui parla Roberto Cardini nel suo famoso saggio su Leon Battista Alberti) che lascia lo spazio anche alla possibilità che il lettore li decodifichi e riconosca i frammenti originari, in una sorta di finissimo gioco intellettuale tipicamente umanistico. Fra coloro che si resero protagonisti di una rilettura poetica del Laocoonte compaiono nomi importanti dell’umanesimo romano (Jacopo Sadoleto su tutti, Evangelista Maddaleni Capodiferro, Marcantonio Casanova, Francesco Sperulo, Elio Lempridio Cerva, Bernardo Accolti) e di altri centri (i ferraresi Ercole Strozzi e Antonio Tebaldeo, il veneziano Bartolomeo Leonico Tomeo), senza dimenticare, spingendosi appena un poco più in là in termini cronologici, le Stanze di Eurialo d’Ascoli (1539), i testi neolatini di un gruppo di giuristi umbri (1548) e quelli di Fausto Sabeo (1556), bibliotecario della Vaticana. Ma la tesi di Gamberini, che si regge sull’esame puntuale dei testi, va molto oltre e giunge a formulare la convinzione che a queste forme epigrammatiche guardarono anche Johann Joachim Winckelmann e Gotthold Ephraim Lessing nelle rispettive letture del gruppo scultoreo di Agesandro, Atanadoro e Polidoro nella seconda metà del Settecento (si veda in proposito l’intero capitolo IV). In proposito vale la pena di citare, con riferimento a Winckelmann: «Il fatto che la maggior parte di queste poesie fosse, all’epoca della stesura della prima edizione della Geschichte der Kunst des Altertums [n.d.r. Storia dell’arte nell’antichità, 1764] disponibile a stampa rende non del tutto inverosimile l’ipotesi che tali materiali potessero venir consultati da chi a Roma avrebbe lavorato, dal 1758, come bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, avendo poi grazie a quell’incarico accesso privilegiato alle collezioni della Vaticana e di altre storiche biblioteche romane. Ad ogni modo, non è indispensabile avere certezza che lo studioso possedesse una conoscenza di prima mano di quei versi per sottolineare il fenomeno che qui più interessa rilevare. Quand’anche la sua conoscenza fosse passata attraverso la mediazione di altri scritti, il dato fondamentale è che le sue influenti pagine sul marmo romano facevano estensivamente ricorso a moduli verbali che erano stati canonizzati, due secoli prima, dal vasto corpus di poesia latina e italiana sul gruppo scultoreo» (pp. 121-122).

 

Prelievi non visuali e visuali.

Ma quali furono i prelievi dall’Antologia Planudea (e non solo)? Seguendo l’ordine che si è data l’autrice, li possiamo dividere in due gruppi a seconda che non riguardino le forme (e siano, quindi, concettismi) o che abbiano a che fare più propriamente con esse. In ogni caso siamo di fronte a un campionario da cui si attinge à la carte, un po’ come succedeva per gli aneddoti presentati da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia (si veda, in questo blog, la recensione al libro di Valerie Naas sull’argomento). Nel caso dei ‘concettismi’ è facile, a puro titolo di esempio, riconoscere l’analogia fra la riflessione dei letterati cinquecenteschi sull’artista ‘aguzzino’, che eternando Laocoonte nel marmo gli impedisce di morire e quella dei loro predecessori greci su analoghe situazioni riguardanti immagini di Prometeo o di Filottete: si tratta di «un topos che più volte sarebbe stato ripreso dai poeti del Laocoonte e che, decenni dopo, sarebbe ad esempio stato sfruttato anche dal Marino commentatore in versi de La strage degli innocenti di Guido Reni. L’idea da cui si irradiava una pluralità di concettismi era quella della paradossale eternità del momento rappresentativo scelto dall’artista. Muovendo dall’assunto che una pittura (o una scultura) sottragga all’impermanenza l’istante che essa sceglie di illustrare, tale idea implicava il sadismo di ogni rappresentazione artistica che perpetuasse la straziante situazione del soggetto quale era in un determinato punto nel continuum del tempo» (p. 72). Ma altro tema chiaramente derivante dall’Antologia è quello del perché lo scultore sia riuscito a raggiungere un livello mimetico tale da rendere vivo il marmo e far sì che lo strazio della situazione colpisca gli occhi dello spettatore: era presente sul posto al momento degli accadimenti? si trattava di un’immagine divina? o di una visione onirica?: «Nel susseguirsi dei dubbi e delle diverse ipotesi in merito all’eziologia di un capolavoro a prima vista inspiegabile come risultato dell’imitazione di una realtà fenomenica, tale famiglia di testi offrì ai nostri poeti un modello fungibile di quali fossero le questioni da sollevare al cospetto di un’opera che pareva in un certo senso sottrarsi al normale dominio della mimesi artistica» (p. 66). Quando si passa poi ad analizzare i richiami di ordine formale, compare, logicamente, sulla scena un convitato di pietra: Aby Warburg con le sue Pathosformeln (formule patetiche) che affondano le loro radici nell’antico; formule non necessariamente riproposte con lo stesso significato originario, ma a volte indicanti una situazione completamente opposta. È il caso, ad esempio, del motivo del ginocchio piegato e di quello dei corpi inarcati che indicano uno sforzo sovrumano, e che nel caso specifico di Laocoonte, colgono il sacerdote nell’attimo immediatamente precedente alla sconfitta (cioè alla morte), ma che nell’epigrammatica greca possono essere riferite alle vittoriose fatiche di Ercole. Ciò che conta è la tensione del momento, non la situazione narrativa in sé, e del resto, come intelligentemente fa notare l’autrice «oggi sappiamo che significati affettivi antitetici potevano essere iscritti in identici schemata corporei anche entro i confini di una stessa epoca dell’arte antica» (p. 98).

 

Ecfrasi e storia dell’arte.

Resta da capire quale sia stato il peso storico dei componimenti poetici rinascimentali nell’ambito della storia dell’arte. Già abbiamo visto come essi siano stati traghettati fino a Winckelmann e Lessing. Ma una differenza fondamentale c’è, e su questo l’autrice è molto chiara. Gli epigrammi rinascimentali erano ‘mosaici’ tratti da quelli greci di età ellenistica; ma «le convenzioni del genere epigrammatico greco […] non concepivano […] la poesia sull’arte come ambito entro cui sviluppare […] un ragionamento sullo stile, sul contenuto, sull’iconografia o sulla materialità di determinate immagini. […] Essi privilegiavano invece quegli elementi […] che erano capaci di concentrare nel minor numero di versi il massimo grado di evocatività.» (pp. 141-42). In sostanza, preferivano l’effetto all’analisi razionale: «formulavano, cioè, proposizioni che del ragionamento avevano l’aspetto, ma che traevano inferenze da premesse assurde come quelle di ammettere che un marmo possa vivere, o il che il dolore possa alla lettera pietrificare un essere umano» (p. 142). Winckelmann ne è influenzato, ma riprende quei motivi in un quadro storico di natura stilistica. Cambia completamente, quindi, il quadro di riferimento. E tuttavia, svalutare il filone epigrammatico per non essere stato in grado di sviluppare un percorso alternativo è, ovviamente, un errore metodologico; né si può dire che non vi si possano rinvenire spunti di critica artistica: «procedendo in modo asimmetrico e frammentario, ricco di contraddizioni e controsensi, quei versi convogliavano il loro portato critico-estetico attraverso la carica evocativa che si sprigiona dai topoi: così idee relative all’opportunità o meno di fornire una rappresentazione degli estremi del dolore [n.d.r. minando quindi il principio del bello ideale], ovvero al problema di come sia possibile per un artista effigiare soggetti posti fuori dal consueto dominio della mimesi [n.d.r. si pensi al problema della rappresentazione trinitaria nel mondo cattolico], erano affidate a motivi come quelli dell’artista carnefice o, al contrario, autorizzato dagli dèi ad ascendere da vivo alle regioni celesti» (pp. 142-143). Insomma, l’esito finale del volume – implicitamente dato per dimostrato dall’autrice - è che, pur con tutte le loro specificità, anche Le parole per l’immagine della sofferenza, anche gli epigrammi ellenistici o rinascimentali, fanno parte a pieno titolo della letteratura artistica. Personalmente, non posso che convenirne.

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