Mariaceleste Di Meo
Il cantiere delle Notizie
Filippo Baldinucci e la fortuna dei primitivi
Firenze, Fondazione Memofonte - S.P.E.S, 2024
Recensione di Giovanni Mazzaferro
La riscoperta di Baldinucci
È fuori di dubbio che il nuovo millennio abbia portato con sé, fortunatamente, la rivalutazione della figura di Filippo Baldinucci (1625-1697) e, con essa, di altre fonti seicentesche come la Felsina pittrice del suo 'grande rivale’, Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) o come gli album di disegni di padre Sebastiano Resta (1635-1714). Aggiungerei che parte di questo assestamento critico è costituito dal riesame delle sezioni dedicate nelle rispettive opere (specie nel caso di Baldinucci e Malvasia) dedicate ai cosiddetti ‘primitivi’, intendendo come tali gli artisti vissuti fino alla fine del XV secolo circa. Su Baldinucci e Malvasia pendevano giudizi critici non particolarmente generosi espressi da Giovanni Previtali nel suo La fortuna dei primitivi. Restando al caso di Baldinucci, dopo la fondamentale ristampa delle Notizie nell’edizione Ranalli (1845-1847) a cui l’autrice aggiunse una Nota critica (all’inizio del volume VI) che è tuttora di riferimento, si sono aggiunte, quanto meno, l’edizione critica del sottovalutato Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame, curata da Evelina Borea nel 2013 e gli atti di una giornata di studi del 2020, curati da Elena Fumagalli, Massimiliano Rossi ed Eva Struhal (Per Filippo Baldinucci. Storiografia e collezionismo a Firenze nel secondo Seicento, Firenze, Mandragora) e ora, finalmente, il volume di Mariaceleste Di Meo sulla fortuna dei primitivi nelle Notizie baldinucciane (e in altri scritti minori, come La Veglia del 1684).
Un libro molto atteso; un libro che
non delude.
Non delude per molti motivi, cominciando dall’evidente sforzo
di ricerca e contestualizzazione dell’opera sviluppato – mi pare di capire – a
partire dalla sua tesi di dottorato, da cui emergono rigore e acribia non comuni;
ma proseguendo per un’impostazione che ho apprezzato particolarmente nel
momento in cui si cercano i punti di contatto e non di frattura fra autori diversi:
ho molto apprezzato, ad esempio, l’affermazione secondo cui il tradizionale nemico
fiorentino di Baldinucci, ossia Ferdinando Del Migliore «in realtà, si nutre
della stessa linfa culturale di Baldinucci, sfruttando informazioni e suggerimenti
degli eruditi locali, soprattutto nell’ambito archivistico, per le sue ricerche
[…] Previtali non riconobbe in alcun modo a Baldinucci né il compimento di una
ricerca e composizione delle opere, né una effettiva comunanza d'intenti nel metodo di ricerca e composizione delle opere, dividendo fittiziamente gli autori
fiorentini menzionati in due fazioni in realtà inesistenti, se non per
specifiche argomentazioni e per la differente notorietà dei testi in ambito
extra fiorentino. […] La vera divergenza risiedette principalmente nei
risultati: gli intenti di Baldinucci, rivolti verso una «storia universale»
dell’arte, non poterono non contrapporsi a quelli della storia «fiorentina del
Del Migliore» e delle altre scritte in ambito locale» (p. 206). Allo stesso
modo non si può non valutare in termini estremamente positivi l’obiettività
dell’autrice in merito alla debolezze di Baldinucci: «L’assenza di una concreta
analisi stilistica, così come di una predilezione per la visione diretta dei
testi figurativi, rappresentarono il perno delle critiche rivolte al testo baldinucciano
da parte di Longhi e dei filo-longhiani nel secolo scorso. Una rigorosa
esaminazione delle Notizie non è in grado di ribaltare le valutazioni espresse
in tal senso» (p. 328). Quando si affronta un corpo a corpo con un autore
(parlo per esperienza personale) il pericolo di ‘mitizzarlo’, forzandone i
meriti, è sempre dietro l’angolo. Di Meo lo evita e tutto ciò rende più
autorevoli le acquisizioni a cui giunge, sempre facendo riferimento agli
scritti e al contesto in cui furono prodotti. In questo senso, e al di là dei
diversi pareri che non nasconde quando ne ritiene ve ne siano, è evidente che l’autrice
si colloca sulla scia del magistero di Paola Barocchi e non è poco.
Le edizioni delle Notizie
Non mi sembra il caso di ripetere quanto scrissi ai suoi
tempi in sede di recensione delle Notizie; rimandando
a quel testo, mi sembra tuttavia logico richiamare alcuni elementi
indispensabili. L’opera fu pubblicata in sei volumi, tre con Baldinucci in vita
e altri tre postumi, a cura del figlio Francesco Saverio. Brevemente il
riassunto delle date di edizione:
Volume primo: 1681: decennale 1260-1300;
Volume secondo: 1686: decennali dal 1300 al 1400;
Volume terzo (postumo): 1728: decennali dal 1400 al 1550;
Volume quarto: 1688: decennali dal 1550 al 1580;
Volume quinto (postumo): 1702: decennali dal 1580 al 1610;
Volume sesto (postumo): 1728: decennali dal 1610 al 1670.
Come è immediatamente visibile, l’ordine delle pubblicazioni
non seguì quello cronologico. In particolare il volume terzo, comprensivo del
secolo e mezzo che andava dal 1400 al 1550, fu pubblicato postumo, sotto la
curatela di Francesco Saverio, mentre il quarto è precedente e ancora seguito
in prima persona da Filippo. Appare abbastanza evidente che Filippo avesse
raccolto materiali con riferimento a tutto l’arco cronologico di quella che
doveva essere una vera e propria storia universale dell’arte, ma che preferì
far uscire il quarto volume prima del terzo, consapevole delle lacune che in
esso si presentavano.
Le Notizie hanno avuto diverse riedizioni, a volte con
integrazioni, a cura di Domenico Maria Manni (1690-1788) fra 1767 e 1774; di Giuseppe
Piacenza, quasi contemporanea, ma incompleta, fermandosi al 1570; della Società
Tipografica de’ Classici Italiani (1808-1812); e infine a cura di Ferdinando Ranalli
(cinque volumi editi fra 1845 e 1847). Proprio all’edizione Ranalli fece
ricorso Paola Barocchi, quando, a metà degli anni Settanta del Novecento,
decise di ristampare in anastatica l’opera, aggiungendovi poi ricchi apparati
di commento. Di Meo fa però presente che la scelta fu discutibile, dal momento
che Ranalli aveva stravolto i contenuti cronologici dei volumi: il suo volume
primo comprendeva le decennali fino al 1500: non solo saldava fra loro i primi
due tomi della princeps, ma spezzava in due il terzo, edito postumo trent’anni
dopo i precedenti a cura del figlio, e assemblava il tutto senza avvisare della
circostanza. L’appiattimento cronologico non era il solo problema: scomparivano apparati,
come le note di commento poste a margine e che in genere citavano le fonti su
cui si era basato Baldinucci, nonché parti non disprezzabili dei paratesti.
A puro livello di curiosità, faccio presente che la ‘riorganizzazione’ del
Ranalli trova un’esatta corrispondenza in quella operata fra 1841 e 1844 nella
riedizione ottocentesca della Felsina pittrice di Carlo Cesare Malvasia con
aggiunte, correzioni e note inedite dell’autore, di Giampietro Zanotti e di
altri scrittori viventi, che in realtà toccarono anche l’organizzazione dei
paratesti, continuando a fornire ancor oggi un’immagine distorta dell’opera, di
cui non esiste altra edizione integrale moderna. Lo dico perché nessuno mi
toglierà dalla mente che l’edizione Ranalli possa essere considerata,
esattamente come in qualche modo avvenne in origine, come una ‘risposta’ a
quella bolognese del Malvasia (e non a quella Le Monnier delle Vite di Vasari
cominciata nel 1846) e perché, appunto, molti dei giudizi che vengono espressi
oggi su entrambe le opere si basano su manipolazioni del XIX secolo che, per
pigrizia, vengono accettate senza andare a leggere gli originali.
Antonio Baratta, Ritratto di Filippo Baldinucci, incisione, Amsterdam, Rijksmuseum Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/collection/RP-P-1907-187 |
Baldinucci e i primitivi
In linea di massima, mentre gli ultimi volumi delle Notizie sono
stati i più apprezzati, perché riguardanti artisti che l’autore conobbe o di
cui si procurò notizie tramite i suoi celebri questionari, la censura è caduta
sui primitivi, in relazione ai quali si è registrato un eccesso di informazioni
di natura letteraria, scarsa affidabilità e poca comprensione degli stili.
Proprio di questa sezione, ossia dei contenuti di quelli che, in origine, erano
i primi due libri e mezzo si occupa Di Meo, facendo notare anzitutto che la
lettura delle opere riferita all’arte medievale e primo-Rinascimentale non era
prioritaria per Baldinucci. Quella che l'autore si propose era, piuttosto, la ricostruzione di
una ‘fortuna critica’ degli artisti basata fondamentalmente su due momenti ben distinti: in
primo luogo la ricognizione della letteratura precedente e, in una seconda
fase, il riscontro del quadro che ne risultava sulle fonti di archivio: «prove
voglion’essere contro l’autorità degli scrittori e non parole» (cap. II) e
quelle prove potevano trovarsi solo nelle antiche carte. Alle due fasi l’autrice
dedica i primi, corposi capitoli del suo libro, prendendo in esame innanzi
tutta la situazione delle biblioteche pubbliche e private fiorentine
e concentrandosi, di volta in volta, sulle figure che le gestivano e che
certamente aiutarono lo scrittore nella sua immane impresa. Nel ‘pubblico’ emergono
personaggi come Francesco Rondinelli, Carlo Roberto Dati e, soprattutto, Antonio
Magliabechi e la particolare importanza della consultazione di biblioteche come
l’odierna Mediceo Laurenziana (all’epoca Libreria di San Lorenzo), dove Filippo
trovò manoscritti di importanza capitale non solo (e non tanto) per la
compilazione della sua opera, ma, più in generale, per la storia della
letteratura artistica. A tal proposito basterà citare il manoscritto mediceo-laurenziano
che testimonia la copia più antica (1437) del
Libro dell’arte di Cennino Cennini, ma chiunque abbia un minimo di
dimestichezza con la letteratura artistica è cosciente di quale sia stato il contributo di
Filippo nella riscoperta di opere manoscritte precedentemente andate disperse. La
rete di conoscenze che consente a Baldinucci di entrare in possesso di
informazioni a riscontro o a confutazione delle fonti precedenti (in particolar
modo di Vasari) è straordinariamente ampia e trova minimi comun denominatori
nelle Accademie della Crusca e in quella, di matrice scientifica, del Cimento.
Poco importa, in questo senso, che Filippo sia accolto nella Crusca nel 1681,
più grazie alla pubblicazione del suo Vocabolario toscano dell’arte del disegno,
uscito lo stesso anno del primo volume delle Notizie. Sono documentati aiuti
dati a Baldinucci da membri dell’Accademia prima della sua cooptazione e, del
resto, il modus operandi è il medesimo. Scavallata la metà del secolo la Crusca
è totalmente concentrata sulla redazione della terza edizione del Vocabolario degli Accademici: «La
realizzazione di tale impresa richiese un lungo e intenso lavoro di scavo testuale,
che coinvolse gli sforzi dei cruscanti per quarant’anni. […] Il […] compito
principale consisteva nell’esaminare un numero considerevole di fonti, sia
manoscritte sia stampate, appartenenti a un ampio range cronologico (dal XIV al
XVII secolo)» (p. 102). È esattamente ciò che Baldinucci fece, in prima battuta,
per le sue Notizie. La seconda fase, come detto, consisteva nello spoglio
archivistico e qui Di Meo delinea in maniera magistrale la situazione
fiorentina in cui, già dalla fine del XVI secolo, i Medici erano stati lungimiranti
e avevano approntato un ‘sistema’ archivistico che aveva consentito la
conservazione di documenti preziosissimi, a partire dai rogiti notarili per
passare alle deliberazioni delle magistrature pubbliche. Dell’esistenza di quel sistema (che ad
esempio non aveva un corrispettivo analogo a Bologna, motivo per cui Malvasia
non se ne poté servire in maniera altrettanto massiccia) Baldinucci trasse il
massimo giovamento, non esitando a confutare e correggere Vasari quando si
accorse di sue incongruenze, a patto che fossero suffragate dalle carte. Gli
interventi di natura stilistica sono nettamente minoritari; è evidente che
Baldinucci è incerto nel proporli e, a parte un numero molto ridotto di casi,
se ne astiene, o ricorre all’autorità di terzi (a volte in maniera generica, facendo
riferimento al parere di altri ‘intendenti’ da lui consultati). La questione
della cultura visuale di Baldinucci merita due parole: Filippo svolse per oltre
dieci anni il compito di riordinare e procurare nuovi esemplari per le raccolte
di disegni del cardinal Leopoldo de’ Medici. A parte gli aneddoti (uno dei
quali, riportato dal figlio, vuole che il cardinale lo abbia assunto dopo averlo
messo alla prova facendogli attribuire venti disegni di paternità ‘certa’,
perché firmati sul retro, e che il genitore non abbia mai sbagliato) è evidente
che la cultura dell’occhio dell’intendente Baldinucci è tarata sui disegni, in
quanto ‘primi pensieri’ e non sui dipinti. Si tratta, peraltro, di una
situazione comunissima all’epoca, se non altro perché i disegni potevano
viaggiare ed essere raccolti con facilità, mentre le pale d’altare o gli affreschi andavano viste
in loco. Quale sia stata, poi, la reale competenza di Baldinucci, in epoche in
cui la tendenza era a raggruppare densi cataloghi attorno ai nomi di pochi e
famosi artisti, è altro discorso. Certamente quella competenza era messa
particolarmente alla prova, con riferimento a due e trecentisti,
dall’esiguo numero di esemplari di disegni pervenuti e dall’assenza di stampe di
riferimento. Certamente, Baldinucci non fu un viaggiatore e non girò l’Italia
per allenare l’occhio; sappiamo che fu a Roma nel 1679 e non è escluso che
possa esservi stato in precedenza un’altra volta; abbiamo traccia di un viaggio
a Bologna, ma, in generale, è evidente che fu un intendente stanziale.
Baldinucci e Vasari
Due parole andranno pur dette sul rapporto fra Vasari e Baldinucci; credo lo si possa definire dialettico. Pur accomunati da un analogo intento celebrativo dei Medici e dell’arte toscana (come del resto e, a parti inverse, tutti gli scrittori antivasariani che scrissero prima e dopo Filippo), Baldinucci non ritiene le Vite (è certo che consultò sia la Torrentiniana del 1550 sia la Giuntina del 1568) un canone, ma una fonte da cui attingere e rispetto a cui operare verifiche e, se del caso, rettifiche, esattamente come tutti gli altri testi letterari presi in considerazione nella prima fase delle sue ricerche. Rispetto allo scrittore e artista aretino, Filippo non esitò, poi, a cambiare impostazione storica, abbandonando le tre età evolutive e scandendo il materiale che aveva raccolto per secoli e decennali, ma soprattutto (partendo dall’esperienza di catalogazione dei disegni del cardinal Leopoldo, come da lui stesso scritto nelle prime pagine dell’opera e messo puntualmente in luce da Barocchi) pensando alla redazione di un ‘albero’ che mostrasse visivamente come la pittura si fosse diffusa ovunque di maestro in allievo (il rapporto fra maestro e allievo è uno dei perni del pensiero baldinucciano). Di Meo ha il merito indubbio di ricostruire l’idea della costruzione di una genealogia collocandola nell’ambiente fiorentino coevo a Baldinucci, in cui già da decenni gli studi sulla ricostruzione dell’origine delle famiglie erano ampiamente diffusi, e non solo per dimostrare la nobiltà delle stirpi. Lo stesso potere granducale passa dalla ricostruzione dei legami con Lorenzo il Magnifico e, ancor prima, con Cosimo il vecchio. In questo senso l’albero baldinucciano non è un esito dello studio di Vasari e testimonia, anzi, che oltre alle Vite, vi furono altre influenze di cui tenere debito conto: «Baldinucci recupera e aggiorna, con le dovute sfumature, una tradizione di origine ormai secolare, non più circoscrivibile alla sola impronta vasariana. La filologia e lo studio dei testi antichi in latino e in volgare, l’interesse per i codici manoscritti, non limitato al solo contesto mediceo, e lo studio genealogico delle famiglie fiorentine, costituiscono i perni fondativi delle Notizie, evocando piuttosto il più ampio panorama culturale della seconda metà del Cinquecento (Vincenzio Borghini, Pietro Vettori, Giuliano de’ Ricci), che Baldinucci esplora e approfondisce in perfetta sintonia con le attività culturali dell’entourage mediceo di pieno Seicento» (p. 367). Tale panorama culturale è reso in maniera impeccabile.
Baldinucci e Malvasia
Da ultime, ancora un paio di considerazioni sul rapporto fra
Baldinucci e Malvasia. Un giorno mi piacerebbe leggere un libro che mettesse in
evidenza cosa i due ebbero in comune fra loro, più che ciò che li divise;
vorrei tanto, cioè, che si desistesse dal dover per forza dare un giudizio su
chi fu più bravo dell’altro per concentrarsi sulle analogie. Probabilmente – ne
sono quasi convinto – scopriremmo che i due, al netto delle rivalità e delle antipatie
personali, erano più vicini fra loro di quanto non siano stati Baldinucci e
Vasari. Lo certifica, per prima cosa, un banalissimo riscontro anagrafico; lo testimonia, poi, il fatto che entrambi furono uomini di religione, probabilmente con una predisposizione
al recupero del fatto storico ‘primitivo’ derivante da una matrice controriformata.
Mi spiego meglio: mentre è certo che le visioni del mondo sull’arte a loro
contemporanea divergevano – uno nel partito tosco-romano l’altro in quello bolognese - è da tener conto che entrambi (al netto di alcune riserve esposte da Massimiliano Rossi) furono classicisti; io non sono poi così sicuro che tale
divergenza fosse così netta con riferimento ai primitivi. Elizabeth Cropper ha
scritto che Malvasia non poteva tollerare la visione storica di Vasari e
Baldinucci, basata su ‘fratture’ rispetto al continuum della tradizione. È vero, e, tuttavia, il vero problema mi pare legato a cosa Filippo considerasse ‘arte’. Nemmeno Baldinucci
riteneva che Cimabue fosse stato il primo pittore della storia e lo scrisse, se
ricordo bene, ne La Veglia, ma pensava che fosse stato il primo pittore per cui
valesse la pena parlare di ‘arte’ (un po’ come coloro che ritengono che la
banana di Cattelan venduta a 6 milioni di euro non lo sia). Al netto di questa premessa,
anche Baldinucci lavora in uno spazio continuo che, semmai (e questo è un
limite) finisce per frammentare artificialmente in una serie di decennali. Ancora un esempio:
Di Meo parla di un’inaspettata sensibilità baldinucciana (pp. 339-347) nei confronti
dell’antico (dei ‘primitivi’, in particolare) che si esplica nella condanna dei
cattivi restauri e nello scialbo di opere vecchie di secoli. Sono temi
affrontati in più di un’occasione anche da Malvasia nella sezione relativa ai
primitivi. Cito, a caso, dagli Scritti originali trascritti da Lorenzo Pericolo
nel primo volume dell’edizione critica della Felsina: «Furono poi buttate a
terra e tutto il giorno sono buttate opere di Christoforo, di Lippo, di Simone,
di Pier di Matteo e simili, per farne delle nuove, facendole fare alli Francia.
Né di ciò contenti, quelli di Francia habbiam levato e postovi delle moderne,
come nella compagnia di San Girolamo, e a Miramonte […]. Così in Roma furono
buttate a terra l’opre di Pietro della Francesca, Luca da Cortona, Abbate di
San Clemente, Bramantino, perché le ridipingesse Raffelle» (p. 309). Se poi non
bastasse mi limiterò a ricordare la comune conoscenza di Antonio Magliabechi e
a ricordare che Angelico Aprosio, a cui Baldinucci indirizza diverse lettere,
fu pur sempre maestro di Malvasia. Insomma, a me sembra giunto il momento di
uscire dai cliché. Non solo Di Meo non vi cade, astenendosi saggiamente dall’affrontare
la questione, ma (come direbbe Montalbano), leggendola, mi sono fatto persuaso
che lei potrebbe essere la persona giusta per farlo. Glielo (e me lo) auguro.
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