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lunedì 2 dicembre 2024

Mariaceleste Di Meo. Il cantiere delle 'Notizie'. Filippo Baldinucci e la fortuna dei primitivi

 

Mariaceleste Di Meo
Il cantiere delle Notizie
Filippo Baldinucci e la fortuna dei primitivi

Firenze, Fondazione Memofonte - S.P.E.S, 2024

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 


La riscoperta di Baldinucci

È fuori di dubbio che il nuovo millennio abbia portato con sé, fortunatamente, la rivalutazione della figura di Filippo Baldinucci (1625-1697) e, con essa, di altre fonti seicentesche come la Felsina pittrice del suo 'grande rivale’, Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) o come gli album di disegni di padre Sebastiano Resta (1635-1714). Aggiungerei che parte di questo assestamento critico è costituito dal riesame delle sezioni dedicate nelle rispettive opere (specie nel caso di Baldinucci e Malvasia) dedicate ai cosiddetti ‘primitivi’, intendendo come tali gli artisti vissuti fino alla fine del XV secolo circa. Su Baldinucci e Malvasia pendevano giudizi critici non particolarmente generosi espressi da Giovanni Previtali nel suo La fortuna dei primitivi. Restando al caso di Baldinucci, dopo la fondamentale ristampa delle Notizie nell’edizione Ranalli (1845-1847) a cui l’autrice aggiunse una Nota critica (all’inizio del volume VI) che è tuttora di riferimento, si sono aggiunte, quanto meno, l’edizione critica del sottovalutato Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame, curata da Evelina Borea nel 2013 e gli atti di una giornata di studi del 2020, curati da Elena Fumagalli, Massimiliano Rossi ed Eva Struhal (Per Filippo Baldinucci. Storiografia e collezionismo a Firenze nel secondo Seicento, Firenze, Mandragora) e ora, finalmente, il volume di Mariaceleste Di Meo sulla fortuna dei primitivi nelle Notizie baldinucciane (e in altri scritti minori, come La Veglia del 1684). 


Un libro molto atteso; un libro che non delude.

Non delude per molti motivi, cominciando dall’evidente sforzo di ricerca e contestualizzazione dell’opera sviluppato – mi pare di capire – a partire dalla sua tesi di dottorato, da cui emergono rigore e acribia non comuni; ma proseguendo per un’impostazione che ho apprezzato particolarmente nel momento in cui si cercano i punti di contatto e non di frattura fra autori diversi: ho molto apprezzato, ad esempio, l’affermazione secondo cui il tradizionale nemico fiorentino di Baldinucci, ossia Ferdinando Del Migliore «in realtà, si nutre della stessa linfa culturale di Baldinucci, sfruttando informazioni e suggerimenti degli eruditi locali, soprattutto nell’ambito archivistico, per le sue ricerche […] Previtali non riconobbe in alcun modo a Baldinucci né il compimento di una ricerca e composizione delle opere, né una effettiva comunanza d'intenti nel metodo di ricerca e composizione delle opere, dividendo fittiziamente gli autori fiorentini menzionati in due fazioni in realtà inesistenti, se non per specifiche argomentazioni e per la differente notorietà dei testi in ambito extra fiorentino. […] La vera divergenza risiedette principalmente nei risultati: gli intenti di Baldinucci, rivolti verso una «storia universale» dell’arte, non poterono non contrapporsi a quelli della storia «fiorentina del Del Migliore» e delle altre scritte in ambito locale» (p. 206). Allo stesso modo non si può non valutare in termini estremamente positivi l’obiettività dell’autrice in merito alla debolezze di Baldinucci: «L’assenza di una concreta analisi stilistica, così come di una predilezione per la visione diretta dei testi figurativi, rappresentarono il perno delle critiche rivolte al testo baldinucciano da parte di Longhi e dei filo-longhiani nel secolo scorso. Una rigorosa esaminazione delle Notizie non è in grado di ribaltare le valutazioni espresse in tal senso» (p. 328). Quando si affronta un corpo a corpo con un autore (parlo per esperienza personale) il pericolo di ‘mitizzarlo’, forzandone i meriti, è sempre dietro l’angolo. Di Meo lo evita e tutto ciò rende più autorevoli le acquisizioni a cui giunge, sempre facendo riferimento agli scritti e al contesto in cui furono prodotti. In questo senso, e al di là dei diversi pareri che non nasconde quando ne ritiene ve ne siano, è evidente che l’autrice si colloca sulla scia del magistero di Paola Barocchi e non è poco.


Le edizioni delle Notizie

Non mi sembra il caso di ripetere quanto scrissi ai suoi tempi in sede di recensione delle Notizie; rimandando a quel testo, mi sembra tuttavia logico richiamare alcuni elementi indispensabili. L’opera fu pubblicata in sei volumi, tre con Baldinucci in vita e altri tre postumi, a cura del figlio Francesco Saverio. Brevemente il riassunto delle date di edizione:

Volume primo: 1681: decennale 1260-1300;

Volume secondo: 1686: decennali dal 1300 al 1400;

Volume terzo (postumo): 1728: decennali dal 1400 al 1550;

Volume quarto: 1688: decennali dal 1550 al 1580;

Volume quinto (postumo): 1702: decennali dal 1580 al 1610;

Volume sesto (postumo): 1728: decennali dal 1610 al 1670.

Come è immediatamente visibile, l’ordine delle pubblicazioni non seguì quello cronologico. In particolare il volume terzo, comprensivo del secolo e mezzo che andava dal 1400 al 1550, fu pubblicato postumo, sotto la curatela di Francesco Saverio, mentre il quarto è precedente e ancora seguito in prima persona da Filippo. Appare abbastanza evidente che Filippo avesse raccolto materiali con riferimento a tutto l’arco cronologico di quella che doveva essere una vera e propria storia universale dell’arte, ma che preferì far uscire il quarto volume prima del terzo, consapevole delle lacune che in esso si presentavano.

Le Notizie hanno avuto diverse riedizioni, a volte con integrazioni, a cura di Domenico Maria Manni (1690-1788) fra 1767 e 1774; di Giuseppe Piacenza, quasi contemporanea, ma incompleta, fermandosi al 1570; della Società Tipografica de’ Classici Italiani (1808-1812); e infine a cura di Ferdinando Ranalli (cinque volumi editi fra 1845 e 1847). Proprio all’edizione Ranalli fece ricorso Paola Barocchi, quando, a metà degli anni Settanta del Novecento, decise di ristampare in anastatica l’opera, aggiungendovi poi ricchi apparati di commento. Di Meo fa però presente che la scelta fu discutibile, dal momento che Ranalli aveva stravolto i contenuti cronologici dei volumi: il suo volume primo comprendeva le decennali fino al 1500: non solo saldava fra loro i primi due tomi della princeps, ma spezzava in due il terzo, edito postumo trent’anni dopo i precedenti a cura del figlio, e assemblava il tutto senza avvisare della circostanza. L’appiattimento cronologico non era il solo problema: scomparivano apparati, come le note di commento poste a margine e che in genere citavano le fonti su cui si era basato Baldinucci, nonché parti non disprezzabili dei paratesti. A puro livello di curiosità, faccio presente che la ‘riorganizzazione’ del Ranalli trova un’esatta corrispondenza in quella operata fra 1841 e 1844 nella riedizione ottocentesca della Felsina pittrice di Carlo Cesare Malvasia con aggiunte, correzioni e note inedite dell’autore, di Giampietro Zanotti e di altri scrittori viventi, che in realtà toccarono anche l’organizzazione dei paratesti, continuando a fornire ancor oggi un’immagine distorta dell’opera, di cui non esiste altra edizione integrale moderna. Lo dico perché nessuno mi toglierà dalla mente che l’edizione Ranalli possa essere considerata, esattamente come in qualche modo avvenne in origine, come una ‘risposta’ a quella bolognese del Malvasia (e non a quella Le Monnier delle Vite di Vasari cominciata nel 1846) e perché, appunto, molti dei giudizi che vengono espressi oggi su entrambe le opere si basano su manipolazioni del XIX secolo che, per pigrizia, vengono accettate senza andare a leggere gli originali.

Antonio Baratta, Ritratto di Filippo Baldinucci, incisione, Amsterdam, Rijksmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/en/collection/RP-P-1907-187

 

Baldinucci e i primitivi

In linea di massima, mentre gli ultimi volumi delle Notizie sono stati i più apprezzati, perché riguardanti artisti che l’autore conobbe o di cui si procurò notizie tramite i suoi celebri questionari, la censura è caduta sui primitivi, in relazione ai quali si è registrato un eccesso di informazioni di natura letteraria, scarsa affidabilità e poca comprensione degli stili. Proprio di questa sezione, ossia dei contenuti di quelli che, in origine, erano i primi due libri e mezzo si occupa Di Meo, facendo notare anzitutto che la lettura delle opere riferita all’arte medievale e primo-Rinascimentale non era prioritaria per Baldinucci. Quella che l'autore si propose era, piuttosto, la ricostruzione di una ‘fortuna critica’ degli artisti basata fondamentalmente su due momenti ben distinti: in primo luogo la ricognizione della letteratura precedente e, in una seconda fase, il riscontro del quadro che ne risultava sulle fonti di archivio: «prove voglion’essere contro l’autorità degli scrittori e non parole» (cap. II) e quelle prove potevano trovarsi solo nelle antiche carte. Alle due fasi l’autrice dedica i primi, corposi capitoli del suo libro, prendendo in esame innanzi tutta la situazione delle biblioteche pubbliche e private fiorentine e concentrandosi, di volta in volta, sulle figure che le gestivano e che certamente aiutarono lo scrittore nella sua immane impresa. Nel ‘pubblico’ emergono personaggi come Francesco Rondinelli, Carlo Roberto Dati e, soprattutto, Antonio Magliabechi e la particolare importanza della consultazione di biblioteche come l’odierna Mediceo Laurenziana (all’epoca Libreria di San Lorenzo), dove Filippo trovò manoscritti di importanza capitale non solo (e non tanto) per la compilazione della sua opera, ma, più in generale, per la storia della letteratura artistica. A tal proposito basterà citare il manoscritto mediceo-laurenziano che testimonia la copia più antica (1437) del Libro dell’arte di Cennino Cennini, ma chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la letteratura artistica è cosciente di quale sia stato il contributo di Filippo nella riscoperta di opere manoscritte precedentemente andate disperse. La rete di conoscenze che consente a Baldinucci di entrare in possesso di informazioni a riscontro o a confutazione delle fonti precedenti (in particolar modo di Vasari) è straordinariamente ampia e trova minimi comun denominatori nelle Accademie della Crusca e in quella, di matrice scientifica, del Cimento. Poco importa, in questo senso, che Filippo sia accolto nella Crusca nel 1681, più grazie alla pubblicazione del suo Vocabolario toscano dell’arte del disegno, uscito lo stesso anno del primo volume delle Notizie. Sono documentati aiuti dati a Baldinucci da membri dell’Accademia prima della sua cooptazione e, del resto, il modus operandi è il medesimo. Scavallata la metà del secolo la Crusca è totalmente concentrata sulla redazione della terza edizione del Vocabolario degli Accademici: «La realizzazione di tale impresa richiese un lungo e intenso lavoro di scavo testuale, che coinvolse gli sforzi dei cruscanti per quarant’anni. […] Il […] compito principale consisteva nell’esaminare un numero considerevole di fonti, sia manoscritte sia stampate, appartenenti a un ampio range cronologico (dal XIV al XVII secolo)» (p. 102). È esattamente ciò che Baldinucci fece, in prima battuta, per le sue Notizie. La seconda fase, come detto, consisteva nello spoglio archivistico e qui Di Meo delinea in maniera magistrale la situazione fiorentina in cui, già dalla fine del XVI secolo, i Medici erano stati lungimiranti e avevano approntato un ‘sistema’ archivistico che aveva consentito la conservazione di documenti preziosissimi, a partire dai rogiti notarili per passare alle deliberazioni delle magistrature pubbliche. Dell’esistenza di quel sistema (che ad esempio non aveva un corrispettivo analogo a Bologna, motivo per cui Malvasia non se ne poté servire in maniera altrettanto massiccia) Baldinucci trasse il massimo giovamento, non esitando a confutare e correggere Vasari quando si accorse di sue incongruenze, a patto che fossero suffragate dalle carte. Gli interventi di natura stilistica sono nettamente minoritari; è evidente che Baldinucci è incerto nel proporli e, a parte un numero molto ridotto di casi, se ne astiene, o ricorre all’autorità di terzi (a volte in maniera generica, facendo riferimento al parere di altri ‘intendenti’ da lui consultati). La questione della cultura visuale di Baldinucci merita due parole: Filippo svolse per oltre dieci anni il compito di riordinare e procurare nuovi esemplari per le raccolte di disegni del cardinal Leopoldo de’ Medici. A parte gli aneddoti (uno dei quali, riportato dal figlio, vuole che il cardinale lo abbia assunto dopo averlo messo alla prova facendogli attribuire venti disegni di paternità ‘certa’, perché firmati sul retro, e che il genitore non abbia mai sbagliato) è evidente che la cultura dell’occhio dell’intendente Baldinucci è tarata sui disegni, in quanto ‘primi pensieri’ e non sui dipinti. Si tratta, peraltro, di una situazione comunissima all’epoca, se non altro perché i disegni potevano viaggiare ed essere raccolti con facilità, mentre le pale d’altare o gli affreschi andavano viste in loco. Quale sia stata, poi, la reale competenza di Baldinucci, in epoche in cui la tendenza era a raggruppare densi cataloghi attorno ai nomi di pochi e famosi artisti, è altro discorso. Certamente quella competenza era messa particolarmente alla prova, con riferimento a due e trecentisti, dall’esiguo numero di esemplari di disegni pervenuti e dall’assenza di stampe di riferimento. Certamente, Baldinucci non fu un viaggiatore e non girò l’Italia per allenare l’occhio; sappiamo che fu a Roma nel 1679 e non è escluso che possa esservi stato in precedenza un’altra volta; abbiamo traccia di un viaggio a Bologna, ma, in generale, è evidente che fu un intendente stanziale.

 

Baldinucci e Vasari

Due parole andranno pur dette sul rapporto fra Vasari e Baldinucci; credo lo si possa definire dialettico. Pur accomunati da un analogo intento celebrativo dei Medici e dell’arte toscana (come del resto e, a parti inverse, tutti gli scrittori antivasariani che scrissero prima e dopo Filippo), Baldinucci non ritiene le Vite (è certo che consultò sia la Torrentiniana del 1550 sia la Giuntina del 1568) un canone, ma una fonte da cui attingere e rispetto a cui operare verifiche e, se del caso, rettifiche, esattamente come tutti gli altri testi letterari presi in considerazione nella prima fase delle sue ricerche. Rispetto allo scrittore e artista aretino, Filippo non esitò, poi, a cambiare impostazione storica, abbandonando le tre età evolutive e scandendo il materiale che aveva raccolto per secoli e decennali, ma soprattutto (partendo dall’esperienza di catalogazione dei disegni del cardinal Leopoldo, come da lui stesso scritto nelle prime pagine dell’opera e messo puntualmente in luce da Barocchi) pensando alla redazione di un ‘albero’ che mostrasse visivamente come la pittura si fosse diffusa ovunque di maestro in allievo (il rapporto fra maestro e allievo è uno dei perni del pensiero baldinucciano). Di Meo ha il merito indubbio di ricostruire l’idea della costruzione di una genealogia collocandola nell’ambiente fiorentino coevo a Baldinucci, in cui già da decenni gli studi sulla ricostruzione dell’origine delle famiglie erano ampiamente diffusi, e non solo per dimostrare la nobiltà delle stirpi. Lo stesso potere granducale passa dalla ricostruzione dei legami con Lorenzo il Magnifico e, ancor prima, con Cosimo il vecchio. In questo senso l’albero baldinucciano non è un esito dello studio di Vasari e testimonia, anzi, che oltre alle Vite, vi furono altre influenze di cui tenere debito conto: «Baldinucci recupera e aggiorna, con le dovute sfumature, una tradizione di origine ormai secolare, non più circoscrivibile alla sola impronta vasariana. La filologia e lo studio dei testi antichi in latino e in volgare, l’interesse per i codici manoscritti, non limitato al solo contesto mediceo, e lo studio genealogico delle famiglie fiorentine, costituiscono i perni fondativi delle Notizie, evocando piuttosto il più ampio panorama culturale della seconda metà del Cinquecento (Vincenzio Borghini, Pietro Vettori, Giuliano de’ Ricci), che Baldinucci esplora e approfondisce in perfetta sintonia con le attività culturali dell’entourage mediceo di pieno Seicento» (p. 367). Tale panorama culturale è reso in maniera impeccabile.

 

Baldinucci e Malvasia

Da ultime, ancora un paio di considerazioni sul rapporto fra Baldinucci e Malvasia. Un giorno mi piacerebbe leggere un libro che mettesse in evidenza cosa i due ebbero in comune fra loro, più che ciò che li divise; vorrei tanto, cioè, che si desistesse dal dover per forza dare un giudizio su chi fu più bravo dell’altro per concentrarsi sulle analogie. Probabilmente – ne sono quasi convinto – scopriremmo che i due, al netto delle rivalità e delle antipatie personali, erano più vicini fra loro di quanto non siano stati Baldinucci e Vasari. Lo certifica, per prima cosa, un banalissimo riscontro anagrafico; lo testimonia, poi, il fatto che entrambi furono uomini di religione, probabilmente con una predisposizione al recupero del fatto storico ‘primitivo’ derivante da una matrice controriformata. Mi spiego meglio: mentre è certo che le visioni del mondo sull’arte a loro contemporanea divergevano – uno nel partito tosco-romano l’altro in quello bolognese - è da tener conto che entrambi (al netto di alcune riserve esposte da Massimiliano Rossi) furono classicisti; io non sono poi così sicuro che tale divergenza fosse così netta con riferimento ai primitivi. Elizabeth Cropper ha scritto che Malvasia non poteva tollerare la visione storica di Vasari e Baldinucci, basata su ‘fratture’ rispetto al continuum della tradizione. È vero, e, tuttavia, il vero problema mi pare legato a cosa Filippo considerasse ‘arte’. Nemmeno Baldinucci riteneva che Cimabue fosse stato il primo pittore della storia e lo scrisse, se ricordo bene, ne La Veglia, ma pensava che fosse stato il primo pittore per cui valesse la pena parlare di ‘arte’ (un po’ come coloro che ritengono che la banana di Cattelan venduta a 6 milioni di euro non lo sia). Al netto di questa premessa, anche Baldinucci lavora in uno spazio continuo che, semmai (e questo è un limite) finisce per frammentare artificialmente in una serie di decennali. Ancora un esempio: Di Meo parla di un’inaspettata sensibilità baldinucciana (pp. 339-347) nei confronti dell’antico (dei ‘primitivi’, in particolare) che si esplica nella condanna dei cattivi restauri e nello scialbo di opere vecchie di secoli. Sono temi affrontati in più di un’occasione anche da Malvasia nella sezione relativa ai primitivi. Cito, a caso, dagli Scritti originali trascritti da Lorenzo Pericolo nel primo volume dell’edizione critica della Felsina: «Furono poi buttate a terra e tutto il giorno sono buttate opere di Christoforo, di Lippo, di Simone, di Pier di Matteo e simili, per farne delle nuove, facendole fare alli Francia. Né di ciò contenti, quelli di Francia habbiam levato e postovi delle moderne, come nella compagnia di San Girolamo, e a Miramonte […]. Così in Roma furono buttate a terra l’opre di Pietro della Francesca, Luca da Cortona, Abbate di San Clemente, Bramantino, perché le ridipingesse Raffelle» (p. 309). Se poi non bastasse mi limiterò a ricordare la comune conoscenza di Antonio Magliabechi e a ricordare che Angelico Aprosio, a cui Baldinucci indirizza diverse lettere, fu pur sempre maestro di Malvasia. Insomma, a me sembra giunto il momento di uscire dai cliché. Non solo Di Meo non vi cade, astenendosi saggiamente dall’affrontare la questione, ma (come direbbe Montalbano), leggendola, mi sono fatto persuaso che lei potrebbe essere la persona giusta per farlo. Glielo (e me lo) auguro.


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