Alberto Virdis
Colors in Medieval Art.
Theories, Matter, and Light from Suger to Grosseteste (1100-1250)
Roma – Brno, Viella – Masaryyk University Press, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Un altro libro sui colori?
Un altro libro sui colori? – si domanderà qualcuno.
Permettetemi di controbattere: finalmente un libro sui colori in ambito
artistico e, soprattutto, sui colori nell’arte del pieno Medioevo, in un periodo
collocato fra il 1100 e il 1250. L’autore (che scrive un gran libro) adotta un
approccio storicistico: il significato dei colori non è, storicamente, il
medesimo in quel periodo rispetto al mondo contemporaneo e quindi il più grosso
errore che potremmo commettere sarebbe quello di leggerlo con lenti moderne. E, quindi, il primo problema è definire cosa sia il colore fra il 1100 e il 1250,
ossia fra due estremi cronologici scelti non a caso, coincidenti grosso modo
con gli scritti, famosissimi, dell’abate Sugerio e quelli, meno popolari, di
Roberto Grossatesta. Certamente il colore non è una tinta; o comunque la tinta
non è la qualità che appare determinante per ‘giudicare’ un colore e
distinguerlo da un altro; sono altri i parametri che concorrono
alla sua valutazione, da ricondursi, sostanzialmente, alla lucentezza, alla
vivacità, allo splendore, alla trasparenza. Ne deriva che un pantone dei colori
medievali (o meglio dei colori fra 1100 e 1250, perché il Medioevo in senso
largo vede cambiamenti molto marcati) sarebbe molto diverso da quello odierno. Avvicinarsi
al mondo dei colori medievali richiede, quindi, molta cautela e – come in ogni
analisi storica – la necessità di comprendere il contesto in cui sono
utilizzati.
Ma proviamo a fare ordine. Virdis divide il suo libro in tre
parti: nella prima l’autore punta a chiarire «quali funzioni fossero attribuite
ai colori dai filosofi medievali nelle loro discussioni di estetica» (p. 26), e
già qui si apre un problema, posto che a lungo si è discusso sull’esistenza di
un’estetica medievale. «Per di più, la trattazione si amplia alla teologia e a
come il colore fosse definito come un’entità sospesa a metà fra luce e materia»
(ivi). Approfondisce inoltre il problema del colore e della lingua, e della
distanza storica che ci separa da essa, aprendo un interrogativo su come
possiamo interpretare e tradurre termini legati al colore utilizzati nelle
lingue medievali. Ancora, la sezione fornisce informazioni di natura pratica sui
colori e i pigmenti che possiamo estrapolare dai trattati tecnici
medievali, dai manuali d’artista e dai ricettari giunti sino a noi. In sostanza, questo libro
esamina un intero spettro di circostanze materiali, ideali, teologiche e
pratiche che ebbero il loro impatto su quello che potremmo chiamare il
‘simbolismo’ del colore nel Medioevo.
Le due parti successive presentano due affondi legati alle figure dell’abate Sugerio e di Roberto Grossatesta e del loro modo di intendere i colori in relazione alle vetrate rispettivamente della cattedrale di Saint Denis e di quella di Lincoln, in Inghilterra.
Facciata occidentale dell'abbazia di Saint-Denis Fonte: Thomas Clouet tramite Wikimedia Commons |
Facciata occidentale dell'abbazia di Lincoln Fonte: https://www.geograph.org.uk/photo/695994 tramite Wikimedia Commons |
In entrambi i casi, ma con
modalità differenti, legate anche alle diverse modalità con cui sono giunte ai giorni nostri, Virdis ritiene di poter dimostrare che i colori
di quelle vetrate sono legate al movimento anagogico che noi troviamo
teorizzato nel corpus di scritti del cosiddetto pseudo-Dionigi (o
pseudo-Areopagita che dir si voglia). E proprio da quest’ultimo aspetto
partirò, non senza aver prima sottolineato un fatto che, in un libro dedicato
ai colori, è fondamentale: la completezza e la ricchezza dell’apparato
iconografico. Le immagini non sono grandi e il libro di Virdis non è un volume
‘da collezione’ per amanti delle illustrazioni a effetto, ma sono estremamente
puntuali e funzionali al dipanarsi del testo. Sono, cioè, di reale ausilio al
lettore per la comprensione dei contenuti e questo è, davvero, un grande
pregio.
Lo pseudo-Dionigi
Nell’827 d.C. alcuni emissari dell’imperatore romano
d’Oriente Michele II raggiungevano Lodovico il Pio, imperatore del Sacro romano
impero e gli donavano, per conto del loro sovrano, un codice in greco con gli
scritti di ‘Dionigi l’Areopagita’. In termini politici, si trattava di un
incontro importante. I rapporti fra carolingi e Bisanzio era stato a lungo
pessimo: Carlo Magno si era fatto incoronare imperatore dal Papa nell’800,
quando, tecnicamente, un imperatore di tutti i ‘romani’ esisteva già, e sedeva a Costantinopoli.
Ma, in termini culturali, l’impatto degli scritti di Dionigi eclissò totalmente
la contingenza politica. Dionigi era, secondo gli Atti degli Apostoli, un
membro dell’areopago ateniese vissuto poco dopo la morte di Cristo, che si
convertì al cristianesimo grazie alla predicazione di san Paolo. Nel VI secolo
d.C. era comparso, sotto il nome di Dionigi, un corpus di scritti che fondeva
felicemente aspetti tratti dal neoplatonismo e dal cristianesimo e che ragionava
di Dio in termini di luce (si badi bene, di luce, non di colore). In realtà, il
Corpus Areopagyiticum non era stato scritto da Dionigi, ma da un
ignoto filosofo del VI secolo (d’ora in poi lo pseudo-Dionigi) che lo aveva
falsamente attribuito al più illustre predecessore. Anzi, a dirla tutta, oggi
si ritiene che, addirittura, il corpus possa essere un gruppo di scritti
elaborati da filosofi diversi, a Costantinopoli, ai tempi di Giustiniano. Il
tentativo di retrodatare gli scritti al I secolo d.C. non aveva nulla di
straordinario. In quel periodo, ad esempio in ambito di immagini, si tentava di
ripristinare un contatto diretto del cristianesimo con gli anni coincidenti o
immediatamente successivi alla vita di Gesù tramite la ‘scoperta’ di immagini
acheropite (non disegnate da mano umana): i falsi, insomma, erano all’ordine
del giorno. Il corpus pseudo-dionisiaco, peraltro, ebbe subito una sua
circolazione, sia pure frammentaria, e fu citato, ad esempio, da Gregorio
Magno.
Semplificando molto (e quindi rischiando di non rendere
omaggio alla completezza di Virdis) lo pseudo-Dionigi sostituiva all’Uno neoplatonico il Dio
uno e trino del cristianesimo e introduceva concetti, come la salvezza e la
redenzione, che erano totalmente estranei al neoplatonismo. In particolare,
fissava poi un assunto fondamentale: Dio, nella sua essenza, è infinito e
incomprensibile all’uomo, ma non è qualcosa di totalmente ‘diverso’ dall’uomo
stesso. Quella che Platone viveva come una dicotomia fra idee e natura, per lo
pseudo-Dionigi era una gerarchia dove, in alto, naturalmente, stava Dio e infinitamente in basso (dopo una serie di gradini intermedi) l’uomo e la materia. Dio è bello ed
emana luce. La luce, scendendo i gradini della scala gerarchica, si
affievolisce, ma non si esaurisce: possiamo ritrovarla in qualsiasi elemento
della materia, anche il più infimo, anche il più brutto o insignificante. Ne
consegue che, risalendo la catena in senso opposto, l’uomo può avere un’idea,
intuitiva, parziale, ma pur sempre un’idea, della bellezza di Dio anche a
partire dalle cose ‘brutte’ e materiali. L’intero universo è una grande luce (lux) composta di
innumerevoli piccole luci (lumina), come tante lucerne; tramite queste luci la
mente è guidata verso l’alto; questa ascesa dal mondo materiale all’immateriale
prende il nome di movimento anagogico: si tratta, in sostanza, di
un’interpretazione spirituale delle Sacre Scritture che avvicina all’essenza
divina tramite lo slancio verso l’alto.
Facile comprendere come l’arrivo in Francia del manoscritto
col corpus degli scritti di Dionigi fosse accolto come fatto di estrema
importanza: non solo tornava alla luce un insieme di testi che risalivano ai
tempi del Cristo, ma quei testi portavano il nome di Dionigi. E un altro Dionigi,
primo vescovo di Lutetia (Parigi), era protettore delle Gallie. L’idea che l’ateniese
convertito potesse essere l’autore del corpus e, contemporaneamente, anche il
vescovo martire a cui il regno dei Franchi doveva il patrocinio funse da scintilla.
Una prima, lacunosa traduzione dal greco in latino fu immediatamente ordinata
dall’imperatore Lodovico ed eseguita da Ilduino di Saint-Denis, ma in realtà si
giunse a portare a termine l’impresa soltanto nell’860, grazie a Giovanni Scoto
Eriùgena, nel cui commento al De Caelesti Ierarchia, facente parte del corpus
dello pseudo-Dionigi, si può leggere che le forme visibili, sia in natura sia
nei sacramenti, non sono fatte per sé stesse, ma sono immagini della bellezza
invisibile; ma soprattutto è con Scoto Eriùgena che la saldatura fra i tre
Dionigi in uno solo è definitivamente compiuta. La caduta dell’impero
carolingio scalfì solo momentaneamente la fortuna degli scritti di ‘Dionigi’,
anche perché quegli scritti avevano un grande vantaggio, che sarebbe tornato
particolarmente utile quando movimenti di riforma interni alla Chiesa avrebbero
rischiato di destabilizzarla su uno dei punti più dolenti del suo magistero:
l’utilizzo del lusso. Lo pseudo-Dionigi, di fatto, - non esplicitamente –
finiva per giustificare l’impiego di materiali particolarmente ricchi, dalle
gemme all’oro e all’argento, profusamente utilizzati nei reliquiari e nelle
suppellettili liturgiche perché luminose e splendenti. La luce innescava il
moto anagogico che avvicinava alla percezione divina.
In realtà – e questo è aspetto da tenere ben presente – lo
pseudo-Dionigi, mentre stabiliva una metafisica della luce, non scriveva
praticamente nulla di colori. E tuttavia, avvisa Virdis, nel corso di tutto il
Medioevo, quando si trattò di parlare di colori, i teorici fecero riferimento
alle tesi dionisiache sulla luce. Di fatto, dove c’era luce c’erano colori, e
dove c’erano colori si poteva provare a risalire alla Luce archetipica. Spero
che suoni più chiaro, ora, perché l’estetica del Medioevo – perché quello che
lo pseudo-Dionigi implicitamente descrive è, di fatto, un sistema estetico –
valutasse i colori in termini di brillantezza più che di tinta. I colori più
brillanti, trasparenti, luminosi avevano importanza perché erano più puri, meno
contaminati con la materia rispetto a quelli opachi o scuri. Il colore, dunque,
pur non avendo natura divina, compartecipa in qualche modo di quella natura;
con accenti diversi, è in uno strano ibrido fra materia e luce che noi troviamo
la ragion d’essere del colore.
Tendenze storiche a proposito di colori
L’estetica dello pseudo-Dionigi, come detto, basa la
bellezza sulla luce e, sia pur indirettamente, quasi come acquisizione
successiva e involontaria, sui colori brillanti, trasparenti, luminosi. Si
tratta di uno spostamento molto importante in termini di estetica, come Virdis
non manca di sottolineare; quella greco-romana si fondeva, invece, sul numero,
la simmetria, la proporzione derivante dal canone di Policleto o da variazioni
del medesimo; la bellezza di un corpo e quella di un edificio dipendevano dalle
proporzioni fra le parti e fra le parti e il tutto. Il vero criterio di
giudizio è ora basato sulla luce. Rispetto a quanto scritto da Virdis vorrei
provare a aggiungere un’osservazione che mi pare si concili bene con questo
quadro complessivo. Gli storici dell’architettura hanno studiato la fortuna
manoscritta del De architectura di Vitruvio e hanno visto che essa è
legata alla riforma scritturale carolingia; hanno notato, poi, che i primi
esemplari manoscritti a noi giunti sono di provenienza nord-europea, ma,
contemporaneamente, oggi sono inclini a ritenere che Vitruvio venisse
utilizzato come testo per l’apprendimento del latino, non come trattato per la
comprensione dell’architettura sulla base di principi di proporzionalità,
numero, ritmo (si veda Wim Verbaal, The Medieval Vitruvius). Tutto ciò mi sembra acquisire un senso nuovo alla luce delle
considerazioni sull’estetica medievale che, a quei valori, preferisce la luce
(e i colori).
Altro aspetto che Virdis mette in evidenza è la progressiva
emersione, nel corso dei secoli, di un sistema dei colori più complesso, che,
partendo da quelli tradizionalmente ritenuti fondamentali (bianco, rosso e
nero) lo arricchisce (e nel caso di Grossatesta, come vedremo, lo stravolge)
con colori intermedi. Fra questi, il blu fa la parte del leone, e, nell’ambito
del blu, in particolare, quello descritto come materia saphirorum dall’abate
Sugerio nei suoi scritti sulla (ri)costruzione dell’abbazia di Saint-Denis.
Sugerio e Saint-Denis
Le vicende, in realtà, sono note, motivo per cui mi permetto di rinviare alla mia recensione sugli scritti dell’abate, limitandomi qui all’indispensabile. Sugerio (1081-1151) fu l’anima dei lavori di ampliamento e ristrutturazione dell’edificio e lasciò due scritti in merito, uno dei quali si rivela particolarmente utile ai nostri fini. Si tratta del Liber de rebus in administratione sua gestis (o, semplicemente, L’opera amministrativa), composto, grosso modo, nel 1150. Sugerio è considerato, inoltre, l’inventore del gotico (etichetta che lascia il tempo che trova) e fu anche, in base a una valutazione forse troppo affrettata di Erwin Panofsky nel celebre saggio che gli dedicò nel 1946 (Abbott Suger on the Abbey Church of Saint-Denis and its Art Treasures), l’antagonista per eccellenza di Bernardo di Chiaravalle e dei cistercensi in merito alla questione del lusso nelle chiese e nei conventi, schierandosi ampiamente a favore delle consolidate pratiche ecclesiastiche in merito. Panofsky, questa volta in maniera più fondata, anche se non accolta neppure oggi unanimemente, sostenne che il progetto dell’edificio rispose a esigenze maturate proprio grazie alla lettura del corpus areopagitico (che, per inciso, era conservato a St. Denis); l’intera struttura era pensata per innescare il movimento anagogico verso la conoscenza della luce, e quindi di Dio. La circostanza è confermata dallo stesso Sugerio: «Per questo, distolto a volte dalle cure esterne dalla bellezza delle gemme multicolori, per amore delle decorazioni della casa di Dio, passando dalle cose materiali alle immateriali, una onesta meditazione mi persuadeva a volgermi alla varietà delle sante virtù, e mi pare quasi di vedere me stesso in qualche plaga remota dell’orbe terrestre, che non è situata del tutto nel fango delle terra, e nemmeno dimora del tutto nella purezza del cielo e, che io possa, per grazia di Dio, passare da questa inferiore a quella superiore per via anagogica.» (si cita dalla traduzione italiana di Paola Magi a cui ho già rinviato con un link). “Gemme multicolori”: si tratta di uno dei pochissimi riferimenti al colore negli scritti di Sugerio; anche l’abate discute soprattutto di luce. Fra le citazioni più intriganti Virdis ne segnala due relative alla «materia zaffirina» (materia saphirorum), di grande pregio e di grande spesa, necessaria per la realizzazione delle vetrate (p. 82 e p. 95 dell’edizione Magi).
Interno della basilica di Saint-Denis Fonte: http://www.parigimaipiusenza.com/it/eventi/2018/05/06/basilica-di-saint-denis |
Sulla materia saphirorum l’autore conduce un’analisi raffinatissima; il libro meriterebbe di essere letto anche solo per queste pagine. Appare abbastanza evidente (anche se non tutti sono d’accordo) che Sugerio stia facendo riferimento alle campiture blu che fungono da colore di fondo delle vetrate. Il termine saphirus, certamente, viene utilizzato (non solo da Sugerio, ma, ad esempio, anche da Teofilo) in relazione a un blu applicato su vetro (al limite su metallo), piuttosto che a una specifica tinta di blu. Qual è la caratteristica fondamentale di questo blu? La trasparenza. Tutte le fonti precedenti a Sugerio concordano nel definire lo saphirus come un blu derivante da un minerale screziato d’oro; quel minerale, che produce un blu opaco, è il lapislazzuli e non ha, quindi, nulla a che vedere col blu trasparente delle vetrate di Saint Denis e soprattutto non ha nulla a che vedere con il moderno ‘zaffiro’. Assistiamo, cioè, intorno al XII e al XIII secolo, a uno slittamento di significato di un termine che è prima abbinato a un colore e a un materiale opaco e che solo in quegli anni, progressivamente, passa a definire un blu brillante. La preziosità del materiale ribadita da Sugerio porta Virdis a supporre che egli intenda un nuovo colore, lo saffre, prodotto dal cobalto estratto da miniere sassoni e che proprio in quegli anni si va diffondendo a uso artistico. Siamo, peraltro, nel periodo che vede il blu, colore intermedio, assumere importanza sempre maggiore nella ‘gerarchia’ dei colori per motivi religiosi, legati ad esempio alla sempre maggiore diffusione del culto di Maria, il cui manto è tradizionalmente blu. Micheal Pastoreau ha messo in evidenza come, nell’ambito dell’araldica, sia proprio fra 1180 e 1250 che si diffonde l’uso del blu, legato a istanze di ordine religioso. Alla luce di tutti questi fenomeni Virdis esamina le vetrate di Saint-Denis (per meglio dire, quelle che ci sono giunte in originale) e conferma l’affermazione di Panofsky secondo cui Sugerio mira a innescare il movimento anagogico, inteso non solo come ‘moto verso l’alto’, ma anche come manifestazione della luce divina dall’alto che entra nell’edificio attraverso il blu trasparente delle vetrate. Quelle vetrate, in qualche modo, partecipano in termini materici della rivelazione perché conservano, dentro di loro, la luce di Dio. Appare, quindi, evidente come, nella mentalità di Sugerio, la materia sapphirina sia contemporaneamente luce e materia, qualcosa di molto diverso dal moderno concetto di colore.
Roberto Grossatesta
Per quanto mi riguarda, la vera rivelazione del libro di
Virdis è contenuta nella terza parte del libro, dedicata a Roberto Grossatesta
(1168-1253), del cui pensiero non ho nessuna difficoltà a confessare che
conoscevo ben poco. In termini cronologici ci collochiamo, grosso modo, circa
un secolo dopo Sugerio. Dico subito che l’autore pone in relazione Grossatesta
con le vetrate della cattedrale di Lincoln, all’epoca la più importante in
Inghilterra e, tuttavia, assegna al vescovo della località inglese (dal 1235
fino alla morte) un ruolo diverso rispetto a Sugerio. Mentre Sugerio
‘pianifica’ il movimento anagogico, Grossatesta lo ‘sperimenta’ sulla sua
persona e trae elementi teorici per la redazione dei suoi scritti (uno dei più
tardi dei quali è, non a caso, un’ulteriore traduzione del Corpus areopagyticum).
In sostanza, buona parte dell’edificio è costruita prima che Roberto sia
nominato vescovo di Lincoln (e peraltro è certificato che i rapporti fra Grossatesta e il
capitolo della cattedrale furono sempre tesi, tali da rendere improbabile
l’accettazione di un eventuale programma edificativo da parte del religioso).
Roberto vive le vetrate, insomma, in termini di ‘esperienza’, e mi rendo
perfettamente conto che sto un termine oggi del tutto abusato, utilizzato per
l’acquisto di un divano o una crociera nel mar Mediterraneo, ma mai come in
questo caso calzante.
Vetrate della cattedrale di Lincoln Fonte: Tilman2007 tramite Wikimedia Commons |
Grossatesta, della cui vita conosciamo pochissimo (ma
sappiamo che insegnò a Oxford almeno dal 1229), è autore del primo trattato
medievale dedicato espressamente ai colori (il De colore) – a p. 229 del libro di Virdis una
lista molto utile delle sue opere scientifiche. Grossatesta, al contrario di
Sugerio, uomo di amministrazione, fu teologo e scienziato della natura. Scrive
in merito Virdis che uno «studio non preconcetto della metodologia di pensiero
e di ricerca di Grossatesta ha contribuito a rimodulare le nostre nozioni sulla
scienza medievale» (p. 230). Non conosciamo esattamente le date della sua
produzione scientifica, probabilmente da ricondurre agli anni dell’insegnamento
universitario, ma, da evidenze interne, si è cercato di ricostruire una
cronologia che vede la composizione in sequenza del De sphaera (studi di
carattere astronomico sulla sfericità dell’Universo presupposta da Euclide), De
impressionibus elementorum, De cometis, Computus correctorius,
De fluxu et refluxu maris (di incerta attribuzione), De motu
supercaelestium – De motu corporali et luce, De lineis, angulis
et figuris – De natura locorum (sulla geometria), De luce, De
colore e, infine, De iride. Nel De luce il teologo inglese
ribadisce, di fatto, le teorie del Corpus areopagyticum (che,
evidentemente, conosceva anche prima di tradurlo), proponendo, tuttavia, un’estetica
che, concettualmente, si differenzia da quella della pura luce in
contrapposizione a quella greco-romana del numero e della proporzione. Per
Grossatesta, infatti, la proporzione non presume una relazione fra almeno due
‘oggetti’ o due ‘parti’ fra loro, ma si realizza già nell’unità: la luce è
forma di bellezza di per sé, in quanto omogenea e proporzionale rispetto a se
stessa. Il vescovo di Lincoln, in sostanza, riunisce fra loro due tradizioni
estetiche potenzialmente divergenti: quella di Policleto basata su proporzione
e simmetria e quella medievale fondata sulla luce. A noi, tuttavia, interessa
soprattutto il De colore, primo trattato medievale esplicitamente
dedicato ai colori. Si tratta, in realtà, di un testo brevissimo (di appena
quarantun righe) in cui però lo scienziato delinea un ‘sistema’ dei colori che
non è concettualmente fondato su una scala cromatica lineare dal bianco al
nero. Per Grossatesta, lo spettro dei colori è uno spazio tridimensionale (mi
verrebbe da pensare a una sfera) i cui due poli vanno da un minimo a un massimo
di luce (dal nero al bianco). «In questo modello, i colori cambiano secondo il
variare di tre qualità che sono peculiari alla luce stessa e a un medium
trasparente (semplificherò – cosa che l’autore giustamente non fa: l’aria). I parametri in questione sono la qualità, la quantità della luce e la purezza del
medium trasparente. «Si possono prendere in considerazione tutte le possibili
combinazioni matematiche fra queste tre varianti, di modo che il numero dei
colori, potenzialmente, è infinito» (p. 238). L’idea – mutuata probabilmente da
Averroè – riscrive l’intera impalcatura del sistema colore, portando a un
numero illimitato di colori ‘intermedi’ che dipendono dalla maggiore o minore
quantità di luce (‘lux pauca’, ‘lux multa’), dalla qualità della medesima (‘lux
clara’, ‘lux multa) e dal livello di trasparenza del medium (trasparente al
massimo o al minimo livello di purezza). Una prima serie di permutazioni fra
queste tre variabili porta poi a serie successive e successive ancora formando
uno spazio che è quello del colore: «l’estrema “modernità” del ragionamento di
Grossatesta è evidente, specialmente nella sua idea di uno spazio
tridimensionale in cui i colori esistono in un continuum piuttosto che
essere organizzati in una progressione lineare” (p. 242). Per farla breve, la
tesi dell’autore è che questo spazio tridimensionale sia stato immaginato da
Grossatesta alla luce dei suoi radicamenti religiosi, delle sue conoscenze
scientifiche, ma anche dai fenomeni di iridescenza visibili all’interno della cattedrale
di Lincoln osservando la luce che filtrava dalle vetrate (anch’esse di un blu
trasparente), e quindi, dell’esperienza dell’arte. Virdis non ha una ‘pistola
fumante’ a cui fare ricorso, ma pazientemente, e tenendo conto che l’assetto
complessivo di quelle vetrate è stato completamente stravolto da un punto di
vista iconografico per vicende storiche, ricostruisce un quadro in cui l’occhio
spirituale del fedele (un organo mentale e non fisico che è l’unico a
permetterci di arrivare alla contemplazione di Dio) è sollecitato dalle vetrate
della cattedrale all’incontro con la manifestazione terrena del sovrannaturale.
Le sue tesi sono ben argomentate e, con ogni evidenza, rendono giustizia a un
pensatore che troppi (compreso il sottoscritto) hanno colpevolmente trascurato
perché tradizionalmente collocato all’ombra di Sugerio.
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