Brill’s Companion to the Reception of Vitruvius
A cura di Ingrid D. Rowland e Sinclair W. Bell
Brill, Leiden-Boston, 2014
Recensione di Giovanni Mazzaferro (Parte Terza)
Con Guarino Guarini (1624-1683) facciamo un salto in avanti di oltre cent’anni e ci spostiamo, quindi, in piena età barocca. Guarini fu autore di un trattato, L’architettura civile, pubblicato postumo nel 1737, che, di fatto, rappresenta l’unica sistemazione teorica dell’architettura italiana nel XVII secolo, se si eccettua L’idea dell’architettura universale di Vincenzo Scamozzi (1615) che, tuttavia, ha ancora, strutturalmente, impianto cinquecentesco. L’aspetto più importante da tenere presente è che nel suo trattato Guarini non sviluppa alcuna forma di condanna nei confronti di Vitruvio, che viene citato spesso, e sempre con rispetto. Vitruvio, però, non è più canone, ma un primus inter pares, una fonte a cui fare affidamento, ma non l’unica. È così, ad esempio, che «senza alcune sorpresa, Vitruvio serve come punto di riferimento per la pratica architettonica nell’antichità, anche se non è l’unico, dal momento che Guarini fa appello alle osservazioni archeologiche per aspetti come l’ordine composito.» La sua esposizione degli ordini è così organizzata in una versione ulteriormente elaborata del solito sistema tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito. È molto interessante, a tale proposito, seguire il ragionamento che lo induce a spiegare perché Vitruvio non parli dell’ordine composito. A suo avviso, la nascita di quest’ultimo è legata all’espansione dell’Impero e quindi alla necessità di accogliere elementi di culture diverse in una sorta di sincretismo di cui è simbolo l’arco di Tito, ma che soprattutto, cronologicamente, è successivo al trattato vitruviano. L’ordine composito, dunque, non poteva essere conosciuto da Vitruvio perché nato dopo di lui. Ne conseguono alcune cose: a) Guarini ripristina il senso della storia in una disciplina che, assumendo Vitruvio come canone assoluto, l’aveva cancellato; b) l’evoluzione storica spiega e rende del tutto accettabili variazioni e modifiche rispetto all’ ex-canone vitruviano. Ciò vale anche per l’architettura contemporanea, e non è certo un caso che Guarini presenti complessivamente tredici varianti degli ordini. Basandosi non sull’autorità dei predecessori, ma su ragione ed esperienza, l’architetto può arrivare a elaborare una bellezza diversa, che magari non rientra perfettamente all’interno del paradigma vitruviano, ma che ha un suo perché e che si rivela ben accetta al pubblico: si possono correggere alcune regole antiche e aggiungerne altre; in prima istanza è l’esperienza a mostrare come fare. In questo senso, nell’ambito della querelle fra antichi e moderni che contemporaneamente è in pieno svolgimento in Francia, Guarini si colloca chiaramente a favore dei moderni, ma col massimo rispetto nei confronti degli antichi. Ma l’approdo più interessante, a mio avviso, è l’atteggiamento che Susan Kleiber segnala nei confronti dell’architettura gotica. Se è vero che l’architetto può modificare i sistemi proporzionali con soluzioni che piacciano al pubblico, pur agendo con giudizio e raziocinio, ne consegue che ciò deve essere accaduto anche con riferimento al gotico. Anche l’architettura gotica deve essere piaciuta ai suoi tempi, anche se ai tempi di Guarini non è più tenuta in considerazione. Si tratta, che io sappia, di una delle primissime rivalutazioni storiche dell’arte gotica, condotta con occhio critico e un profondo senso della storia, che rende la testimonianza eccezionale: «Ed oltre questa tanto ambita sveltezza [nd.r. delle colonne e delle chiese più in generale] parve anche che afferrassero un altro fine totalmente opposto all’architettura romana. Perché là, ove quella ebbe per principale intento la fortezza, e ne fece pompa anche nella soda disposizione degli edifici, quella ebbe per iscopo di ergere molti forti sì, ma che sembrassero deboli, e che servissero di miracolo, come stessero in piedi» (p. 134 dall’editio princeps). È una valutazione di grande acume e soprattutto di totale ‘laicità’ nell’espressione di un giudizio storico. Kleiber segnala inoltre che Guarini fu un teatino, ossia appartenne a uno dei giovani ordini controriformati sorti alla fine del Cinquecento e si interroga sulla loro visione dell’architettura che, chiaramente, non si basa più, solamente, sugli ordini, ma mostra interesse per una serie di implicazioni scientifiche come la costruzione di meridiane e orologi pur trattati da Vitruvio. Quello delle meridiane, tuttavia, non è l’unico aspetto che interessa agli ‘architetti’ di questi nuovi ordini (i gesuiti primi fra tutti, ma anche i teatini): «nel XVII secolo questo spettro di interessi includeva la prospettiva (per la pittura a quadratura o gli allestimenti teatrali), la matematica applicata all’astronomia (per il calcolo della Pasqua), la fabbricazione di strumenti (meridiane, dispositivi di rilevamento) e l’architettura in senso stretto.» (p 281). Tutti aspetti che possono essere trovati nel trattato vitruviano. Si assiste, insomma, a un nuovo ‘allargamento’ nel recepimento di Vitruvio: mentre nel Cinquecento Vitruvio diventa canone, ma è preso in considerazione solo per gli ordini, nel secolo successivo ne sono rivalutati altri aspetti di natura più scientifica. Non a caso gli operatori religiosi che si occupano di architettura non possono essere definiti ‘architetti’ in senso stretto, ma architetti-matematici, scienziati-religiosi, teologi che si occupano di architettura o, più genericamente, di esperti universali. Anche Guarini, pur essendo più marcatamente architetto, risente di questi interessi scientifici tipici dell’epoca e del mondo religioso controriformato.
Per una storia del recepimento di Vitruvio in Spagna si
rimanda all’ottima scheda di Fernando Marías compilata sul sito dedicato ai
trattato di architettura dell’università di Tours: https://architectura.cesr.univ-tours.fr/Traite/Notice/Urrea1582.asp?param=.
Il saggio di Deupi prende in considerazione gli snodi fondamentali degli studi
vitruviani spagnoli nel corso del Cinquecento, dalle Medidas del Romano di
Diego de Sagredo (1526) al Libro de arquitectura di Hernán Ruiz el Joven
(1550-1560 circa), dalla traduzione manoscritta del De architectura in
castigliano di Lázaro de Velasco 1564 per Deupi, ma 1573-1583 circa per Marías)
alla prima edizione a stampa, a cura di Miguel de Urrea, probabilmente
realizzata fra 1565 e 1568, ma edita postuma solo nel 1582. La chiave di
lettura dell’autore è l’uso dei lemmi belleza o hermosura per tradurre la
venustas vitruviana. Oggi con belleza si intende una bellezza di carattere
astratto, mentre hermosura indica una bellezza concreta, percepita o
percepibile dai sensi. Nei testi cinquecenteschi beleza, in realtà, non è usato
quasi mai, mentre si assiste a una netta prevalenza di hermosura, che tuttavia ‘sconfina’
in nuovi significati, giungendo, in alcune situazioni, a tradurre quel decor
che Vitruvio aveva segnalato fra le qualità necessarie per poter parlare in
termini elogiativi dei progetti e delle realizzazioni architettoniche.
Quello di Vaughan Hart è un magistrale riepilogo del recepimento di Vitruvio in Gran Bretagna. Magistrale da un punto di vista metodologico. Se dovessimo guardare ai meri fatti oggettivi, si potrebbe dire che tale influenza sia stata minima, dal momento che la prima traduzione completa di Vitruvio (e di Leon Battista Alberti) in inglese risale alla fine del Settecento. Sappiamo bene che non è così, per un motivo molto banale: non ci si può limitare a tener conto della diffusione del De architectura (che comunque circolò in latino o nelle versioni in italiano, francese e tedesco), ma bisogna allargare lo spettro dell’analisi alle ‘mediazioni’ vitruviane, ossia alla diffusione e alla traduzione dei trattati di tutti coloro che ne scrissero di nuovi, pur chiaramente influenzati da Vitruvio stesso; nel caso specifico stiamo parlando soprattutto di Sebastiano Serlio e di Andrea Palladio. La circolazione di idee architettoniche vitruviane, legate soprattutto alla proporzione e alla simmetria o all’educazione dell’architetto, è fenomeno complesso che va analizzato nella sua globalità (e confesso che mi sarebbe piaciuto leggere qualcosa di simile per la Spagna), senza tralasciare, naturalmente, gli apporti e la realtà specifica che fecero sì che Vitruvio ‘parlasse inglese’, come richiamato nel titolo del saggio di Hart. Così, in età elisabettiana, il focus è soprattutto sulla matematica applicata e sulla geometria e, a partire da qui, su simmetria e proporzioni, mentre il ruolo degli ordini, un’eccezione, in un quadro europeo che evolve diversamente, appare secondario. Così, John Shute, nel suo The First and Chief Groundes of Architecture Used in All the Ancients and Famous Munymntes (1563) mette in evidenza l’importanza dell’architettura in accezione vitruviana (che ha studiato direttamente a Roma vent’anni prima e sull’edizione di Guillaume Philandrier) anche per muratori, carpentieri, orefici, ricamatori, intagliatori e molti altri ancora. Nel suo trattato le origini dell’architettura sono ricondotte non al paganesimo romano, ma, con chiaro spirito puritano, alla storia biblica e in particolare alla torre di Babele. Da notare che Shute richiama le pagine di Vitruvio dedicate alla formazione dell’architetto, che però, trattandosi di figura professionale di fatto non esistente all’epoca, applica al “maister of buildings”, che deve avere buone conoscenze di geometria. In ogni caso, in Shute come in William Harrison che ne parla all’interno di The Description of Elizabethan England (1577) il focus non è su stile e ornamenti (e quindi, sugli ordini) ma sui principi di armonia e proporzione. In ogni caso, quando viene agli ordini, Shute li spiega in maniera vitruviana, ossia abbinandoli a divinità nel caso di dorico, ionico e corinzio (Ercole, Hera e Afrodite), presentando comunque un suo personale apporto in coincidenza col tuscanico e composito. Nella prima circostanza ricorre all’identificazione con Atlante, re della Mauritania, che è tuttavia presentato con una figura che ricorda un re britannico di epoca romana, e nella seconda a Pandora, apportatrice di vizi e eccessi. Si manifesta qui una delle tendenze caratteristiche in tutta la storia puritana dell’Inghilterra: alcuni ordini (il tuscanico e il dorico) sono sinonimo di saggezza e decoro, altri (il corinzio e il composito) di corruzione dei costumi, e, come tali da evitare.
John Shute, Tavola dell'ordine composito in The First and Chief Groundes of Architecture (1563) Fonte: https://fr.wikipedia.org/wiki/John_Shute_%28architecte%29#/media/ Fichier:John_shute_composita.jpg |
In senso geometrico è l’interpretazione dell’architettura proposta anche da John Dee nella sua prefazione alla traduzione inglese di Euclide realizzata da Sir Henry Billingsleley nel 1570. Dee è il primo a citare in Inghilterra l’homo bene figuratus (o uomo vitruviano che dir si voglia) e la sua interpretazione è chiaramente di impronta neoplatonica: il corpo umano è organizzato nelle sue relazioni fra parti e tutto come un microcosmo che replica la struttura del macrocosmo per volontà divina, che ci ha fatto a sua immagine e somiglianza. Sia pure filtrata da istanze religiose, fa la sua comparsa in Inghilterra la nozione che, secondo Vitruvio, la forma umana sta alla base dell’architettura (concetto ulteriormente approfondito da Richard Haydocke nella sua traduzione inglese del 1598 del Trattato dell’arte pittura scultura et architettura del Lomazzo. È il 1611, e dunque è appena iniziata l’età degli Stuart, quando compare la traduzione inglese dei libri dal I al V del trattato di Sebastiano Serlio. Il progetto è finanziato da Robert Peake (che non è detto sia stato il traduttore materiale) e parte da una versione olandese prodotta nel 1606, a sua volta frutto di una precedente edizione pirata. Rimandiamo al saggio di Vaughan Hart e Peter Hicks pubblicato all’interno di Sebastiano Serlio à Lyon. Architecture et imprimerie, già recensito. Il grande vantaggio di Serlio rispetto a Vitruvio è che è molto più chiaro, soprattutto grazie all’apparato iconografico che ne sancisce il grande successo europeo. In questo contesto, è inevitabile che assuma molta maggior rilevanza la questione degli ordini e il sistema di regole che lo regolano, anche se Peake sembra continuare ad assegnare a loro un valore strumentale e non precettivo. Resta il fatto che, anche traducendo Serlio, si manifestano chiari problemi di ordine linguistico in corrispondenza di termini questa volta non latini, ma italiani (come ‘architrave’) che non trovano un equivalente in inglese, minando o comunque rendendo assai difficile la comprensione del testo. Quasi contemporaneamente si afferma, sul piano artistico, la figura di Inigo Jones, storicamente primo architetto inglese in senso compiuto. Jones conta in quanto campione dello stile architettonico classico-vitruviano mediato tramite il palladianesimo. Non scrive trattati, ma lo conosciamo bene per le sue letture (complementari alla consueta esperienza italiana) testimoniate dalle postille che vergò sui libri. È il caso di quelle su un esemplare di Vitruvio in edizione Barbaro (1567) che testimoniano il suo interesse per l’intreccio metodologico fra architettura e altre discipline, come, ad esempio, l’oratoria, tema non affrontato dai suoi predecessori inglesi (rispetto a quanto scritto da Hart, mi si lasci semplicemente aggiungere che gli interessi architettonici di Jones sono ampiamente testimoniati anche nelle sue postille alle Vite vasariane del 1568). In The Elements of Architecture… Collected from the Best Authors and Examples, pubblicato nel 1624, Sir Henry Wotton ribadiva la scelta di campo classicista, condannando l’uso dell’arco a sesto acuto come proprio di barbari come Goti o Lombardi. Fra i ‘migliori autori', citati da Wotton compariva, naturalmente, Vitruvio, della cui opera si mettevano comunque in evidenza le incongruenze. Wotton richiamava comunque in maniera più che positiva i principi della firmitas, utilitas e venustas (‘commodity’, ‘firmness’ e ‘delight’) e il valore morale dell’architettura, tornando a ribadire il contenuto lascivo degli ordini corinzio e composito. Il dibattito fra antichi e moderni sviluppatosi in Francia nella seconda metà del secolo ebbe una sua eco anche oltre Manica trovando le figure simbolo dei due schieramenti rispettivamente in John Evelyn e Cristopher Wren. Nel 1664 Evelyn, che aveva auspicato una traduzione inglese di Vitruvio e cercato di aprire una ‘scuola’ per gli studi vitruviani, tradusse il Parallèle de l’architecture antique avec la moderne di Roland Fréart de Chambray, testo fondante delle argomentazioni a favore gli antichi; all’opera era unito, in appendice, An Account of Architects and Architecture. Nel 1683 Claude Perrault (già autore nel 1673, di un’importante traduzione del De architectura vitruviano.) pubblicava in Francia l’opera più significativa del partito ‘modernista’, ovvero l’Ordonnance des cinq espèces de colonnes selon la méthode des anciens. Non se ne ebbe una traduzione inglese fino al 1708, ma già nel 1690 circa Robert North scriveva un’opera, Of Building, rimasta manoscritta, che ne richiamava i principi, sostenendo che le proporzioni non dovevano la loro bellezza a qualcosa di naturale e intrinseco, ma alla conoscenza dell’uomo e all’uso che ne era fatto sulla base dell’esperienza. Era, in sostanza, quanto pensava in proposito anche Cristopher Wren, constatando che l’archeologia aveva scoperto vari tipi di architravi e cornicioni, il che confutava definitivamente l’argomento dell’immutabilità dell’architettura classica. Del celebre architetto ci restano alcuni ‘trattati’ non terminati, e quindi inediti, scritti negli anni Settanta del Seicento. L’aspetto più importante della sua analisi è il rifiuto dell’idea che gli edifici fossero costruiti secondo una replica delle proporzioni del corpo umano, e per farlo Wren usa argomenti funzionalistici: la forma degli edifici, anticamente, era semplicemente legata al fatto che, costruiti in paesi dal clima caldo, avevano forme e soluzioni architettoniche volte a limitare la presenza del sole, da cui l’uso di porticati e di tetti per fare ombra, costruiti sopra colonne. Quella messa in essere era, insomma, più un’imitazione della natura (con gli alberi che facevano ombra) che del corpo umano. Wren andava oltre e sosteneva che quella greca fosse solo una delle soluzioni architettoniche risalenti all’antichità, preceduta da quelle dei fenici, dei babilonesi e degli egizi. Se era esistito un sistema di ordini greco-romano, si doveva presumere che ve ne fossero stati anche di precedenti, basati, come detto, più sulle condizioni climatiche che altro. Siamo in anni che segnano, a livello europeo, il trionfo del barocco, ossia dell’architettura anticlassica (anche se, come abbiamo visto poco fa parlando di Guarini, ciò non vuol dire disprezzo nei confronti di Vitruvio). A questo proposito l’Inghilterra sperimenta per prima, grazie alla propria politica mercantile e agli studi geografici, l’esistenza di culture orientali praticamente sconosciute e di soluzioni architettoniche ben lontane da quelle vitruviane. A livello continentale la figura di architetto più sensibile a questo mondo esotico e ricco di suggestioni fu senza dubbio quella di Johann Bernhard Fischer von Erlach, che dal 1705 al 1712 elaborò un progetto di trattato scandito in 84 tavole illustrate in cui erano illustrati anche edifici non europei.
La Pagoda di Nanchino (tavola XII del Libro Terzo dell'Entwurff di Fischer von Erlach) |
Hart ricorda che Fischer von Erlach fu in Inghilterra nel 1704, influenzando Wren e una generazione di architetti che incominciò a sperimentare con una gamma ornamentale più larga rispetto a quella classicista. Si trattò di un momento significativo anche perché provocò una reazione ‘conservatrice’ che ebbe, da un punto di vista editoriale, il momento più significativo in una serie di traduzioni dei Quattro libri dell’architettura di Palladio. A conclusione di questa reazione si colloca il Vitruvius Britannicus di Colen Campbell, pubblicato in tre volumi fra 1715 e 1725, che crea un nuovo ‘eroe’, identificandolo in Inigo Jones e, automaticamente, tornando a rivalutare le tesi del classicismo vitruviano declinate in lingua inglese.
Il ragionamento sul Cinquecento comincia con una figura semisconosciuta, quella di Martin Waldseemüller che in una riedizione della Margarita Philosophica, un’opera di natura enciclopedia curata da Gregor Reisch nel 1503, inserisce (siamo nel 1508) una nuova sezione dedicata all’architettura, con una suddivisione interna fra «Architecture e et Perspective Rudimenta». Waldseemüller, troppo spesso è falsamente liquidato come plagiario della seconda edizione del De Artificiali Perspectiva di Jean Pelerin, meriterebbe maggior attenzione. Si muove in un contesto prettamente matematico e distingue fra ‘scenographia’ e ‘prospettiva positiva’, dove la seconda è la descrizione e imitazione delle cose che si possono vedere con la vista e la prima è la misurazione dei raggi lineari che provengono dall’occhio. Ora, è inutile sottolineare che la ‘scenografia’ è anche uno dei tre modi di rappresentare la realtà architettonica secondo Vitruvio (assieme all’icnografia e all’ortografia). Pur senza citarlo, Waldseemüller introduce quindi un concetto tipicamente vitruviano che, ipotizza Oechslin, potrebbe aver conosciuto per diffusione delle idee di Fra Giocondo, che prima di pubblicare la sua versione del trattato a Venezia, nel 1511, aveva insegnato a Parigi. La figura di riferimento degli studi vitruviani in lingua tedesca è comunque Walther Hermann Ryff (1500-1548). Tralascerò di descrivere una complessa vicenda editoriale legata a concorrenza non sempre leale fra editori diversi per segnalare che nel 1543 Ryff, un medico, e quindi un amatore (ma non dimentichiamo l’analoga presenza di medici negli studi vitruviani dell’epoca) ebbe un ruolo, ancora non ben definito, nella pubblicazione di una versione latina del De architectura vitruviano pubblicata a Strasburgo. Quel ruolo (spesso limitato dagli studiosi all’apparato iconografico) è riconosciuto nel frontespizio e ribadito in un’introduzione in cui Ryff sembra essere mosso soprattutto da motivazioni di natura sociale. È il benessere generale che deve rappresentare la preoccupazione principale di ogni governo e che non può essere perseguito tramite l’educazione; da qui quella che oggi chiameremmo ‘mission’, ossia riproporre ai lettori testi della sapienza antica che sono stati dimenticati in seguito alle millenarie vicende storiche dell’umanità. Vitruvio è uno di questi; in questo senso Ryff ‘libera’ Vitruvio dall’interesse di una stretta cerchia di eruditi e lo propone al ‘grande pubblico’ propugnando decoro e qualità dell’ornamentazione in architettura. Il testo latino con apparato iconografico non è altro che un primo passo che si completa, fra 1547 e 1548, a Norimberga. Dapprima viene pubblicata quella che Oechslin chiama una sorta di brochure pubblicitaria, Der fünf maniren der Colonen, un opuscolo con appena un frontespizio, cinque tavole (una per ogni ordine architettonico) e una pagina di testo in cui si preannuncia la stampa della traduzione tedesca del trattato vitruviano, sempre a cura di Ryff. L’anno successivo – siamo nel 1548 – la versione in tedesco dell’opera è effettivamente pubblicata; rimase l’unica fino al 1796.
L' 'homo bene figuratus' nella versione di Walter Ryff Fonte: https://de.wikipedia.org/wiki/Walther_Hermann_Ryff#/media/Datei: Fotothek_df_tg_0000110_Architektur_%5E_Proportion_%5E_Figur.jpg |
Il progetto era, peraltro, completato dalla stampa di un secondo
volume vitruviano, concepito separatamente dal primo, in cui ampio spazio era
dato ad aspetti che possiamo definire in qualche modo ‘ingegneristici’, o
comunque legati alla matematica applicata. Il commento di Ryff al testo svela
un impegno notevole da parte dell’interprete, nel tentativo di inserire il
classicismo vitruviano nella cultura tedesca. Cert’è che l’opera ebbe un suo
successo editoriale, con varie riedizioni ‘aggiornate’ fino al 1614 e il
pubblico elogio del commento da parte di Sir Henry Wotton nei suoi The Elements
of Architecture (1624), di cui abbiamo già parlato nel saggio di Vaughan Hart. Mi
sembra che molto acutamente Oechslin segnali come «il principale conseguimento
di Ryff sia stato la realizzazione sintetica di un “corpus vitruviano” che
trattava anche delle scienze collegate all’architettura all’epoca, seguendo i
precetti dello stesso Vitruvio (architectura est scientia pluribus disciplinis
et variis eruditionibus ornata)» (p. 364).
L’altro polo dello studio
dell’autore è relativo ai decenni del neoclassicismo tedesco. Si tratta di un
periodo in cui, improvvisamente, compaiono diverse nuove traduzioni tedesche
del De architectura, a partire da quella di August Rode (1796), che non è
particolarmente tenera con la precedente versione di Ryff. Rode, peraltro, nel
1800 pubblicò una versione in latino e, sempre in latino, ma nel 1801, un
volume separato, contenente le illustrazioni destinate a ‘chiarire’ il trattato.
Un’ulteriore edizione si deve alla Societas Bipontina (1807, Strasburgo) e
nello stesso anno cominciava a essere pubblicata un’edizione in tre volumi, a
Lipsia, curata da Johann Gottlob Schneider. Siamo in anni pienamente
neoclassici e il ritorno di interesse nei confronti di Vitruvio è evidente. Del
resto già nel 1790 circa Heinrich Gentz aveva tradotto brevi estratti
dell’opera in coincidenza di una sua permanenza a Roma È interessante vedere come
il fenomeno viene inquadrato dagli studiosi dell’epoca. Rode, ad esempio,
presenta la sua traduzione a gloria di Leopoldo III di Anhalt-Dessau e in uno
spirito di esaltazione dell’attività di Friedrich Wilhelm von Erdmannsorff,
figura di architetto di rilievo internazionale, al servizio proprio del
principe. Rode delinea una sorta di raggiungimento dell’età dell’oro che, in
quarant’anni, ha reso il principato una realtà in cui l’arte della guerra e
quella della caccia sono state soppiantate dalle scienze e da attività più
nobili. Si tratta di un ragionamento che, più in generale, compare anche con
riferimento all’intera confederazione, come appare nell’introduzione di un
saggio architettonico del 1797: i tedeschi non hanno colpe se si sono trovati
relegati in secondo piano in ambito architettonico, quando quell’arte era già
pienamente fiorente nelle regioni dell’Est e del Sud. Ora, però, hanno
raggiunto e superato gli altri a dispetto delle circostanze sfavorevoli e
grazie al loro talento, descrivendo uno sviluppo storico che non ha conosciuto
crisi alcuna. Il gotico, insomma, è (almeno per il momento) completamente
abbandonato. Oechslin, da ultimo, fa presente che il quadro sarebbe incompleto
se, assieme alle traduzioni e alle riedizioni del De architectura di quegli
anni, non si prendesse in considerazione anche una serie di scritti che, in
qualche modo, sono legati al classicismo. È il caso, ad esempio, di Die
Baukunst nach den Grundsätzen der Alten di Aloys Hirt, edito a Berlino nel 1809,
opera che affronta il tema dell’architettura in una prospettiva complessiva
simile a quella vitruviana e con un giudizio tutto sommato obiettivo e
bilanciato sul trattato del latino. Emerge, soprattutto, una nuova sensibilità
all’indagine: Hirt si interroga su chi fosse, nella realtà, Vitruvio, se avesse
colto il vero spirito della disciplina, quali fossero le fonti da cui aveva
attinto, che affidamento si potesse fare sulle sue prescrizioni. In fondo –
scrive Oechslin – l’approccio di Hirt è molto simile a quello di Alberti nel De
re aedificatoria; invece di una traduzione, scrive un nuovo trattato mirante a
coprire la materia nella sua integrità.
Il saggio di Michel Paoli è di grande interesse; si tratta
di un ragionamento su come l’opus francigenum, lo stile edificativo sorto in
Francia nel XIII secolo prenda il nome di gotico, naturalmente in senso
spregiativo. Si tratta, in ultima analisi, del risultato delle prese di
posizione vasariane, ma già in precedenza, con Filarete
e Antonio Manetti o nella Lettera
a Leone X di Baldassar Castiglione e Raffaello sono espresse ampie riserve
nei confronti del fare artistico d’oltralpe. Ma l’oggetto della ricerca di
Paoli è diverso e si concentra su come sia stato possibile che il ‘gotico’
abbia assunto il nome di un gruppo di popolazioni barbariche che aveva invaso
l’Europa molti secoli prima e che, in ultima analisi, non aveva più nulla a che
vedere con quel mondo in cui l’opus francigenum si sviluppò. Se si preferisce,
è appena evidente che l’abate
Sugero, assunto con troppa generosità a ‘inventore’ del ‘gotico’ non era
barbaro e non era goto. Si tratta, inutile dirlo, di una delle grandi
contraddizioni della teoria architettonica rinascimentale. Quasi in forma di
‘slogan’, certamente senza nessuna scientificità, la visione storica del
classicismo rinascimentale è quella di una prima epoca, quella romana grosso
modo fino a Costantino, in cui l’architettura era retta da regole ‘vitruviane’
e dai ben noti principi della firmitas, utilitas, venustas, di una seconda,
cronologicamente molto meno chiara, in cui gli edifici classici furono
distrutti dai barbari e non si può nemmeno parlare tecnicamente di architettura,
posta l’assenza di qualsiasi regola costruttiva, e, infine, di una terza,
quella contemporanea, segnata da recupero della classicità grazie alla
riscoperta di Vitruvio. Ora, è appena evidente che l’età ‘di mezzo’ ha
durata enorme e comprende in realtà due fenomeni fra loro non collegati: la
‘morte’ dell’architettura classica, la distruzione di templi ed edifici romani
(inutile dire che in nessun caso sono chiamate in causa le distruzioni legate alla
vittoria del cristianesimo) da un lato e dall’altro, sul finire del periodo, la
nascita del ‘gotico’ (utilizziamo il termine in senso moderno anche se va
chiarito che si parla normalmente di ‘maniera dei Germani’ o, con Vasari, di
maniera dei Goti). Paoli mette in evidenza queste contraddizioni, ad esempio,
nel caso della Lettera a Leone X, che non ha, chiaramente, come suo scopo,
quello di scrivere una storia dell’architettura, ma che, dopo aver proposto una
scansione simile finisce per ammettere l’esistenza di un’architettura tedesca lontanissima
da quella romana, ma strutturata e anch’essa derivata dalla natura. In realtà,
e più ampiamente, appare evidente che negli scritti presi in considerazione,
scavando e andando oltre gli slogan, esiste anche una comprensione della
differenza fra ‘barbari’ o ‘goti’ e la successiva ‘maniera tedesca’ a cui va
ricondotto il ‘gotico’ modernamente e fors’anche un apprezzamento (ad esempio
nel Vasari del 1568) nei confronti di edifici ‘gotici’. È Vasari che per primo
parla di ‘maniera tedesca’ o maniera ‘dei goti’ in maniera indifferenziata. È
molto interessante – e io francamente non ci avevo mai pensato – pensare che la locuzione di architettura gotica possa essere un retaggio
psicologico del Sacco di Roma del 1527. Quando Vasari scrive, la memoria di
quell’episodio traumatico, che senza dubbio alcuno richiamò le distruzioni
legate secoli prima alle calate barbariche, era ancora assai viva: è proprio da
questa analogia (saccheggi dei goti, saccheggi delle truppe tedesche di Carlo
V) che, con ogni probabilità, deriva l’equiparazione dei tedeschi alle antiche
popolazioni dei goti.
Francesco Marcorin presenta ben due saggi, fra loro
fisicamente consecutivi nel volume, dedicati rispettivamente al rapporto fra Vitruvio
e la folta schiera dei Sangallo e a quello fra Vitruvio e Palladio. Esistono
delle chiare comunanze che mi inducono a parlarne contemporaneamente. Innanzi
tutto va ricordato il fatto che né i Sangallo né Palladio erano di famiglia ‘nobile’,
i primi in origine legnaiuoli, il secondo scalpellino. Lo studio di Vitruvio, consentito
dal mecenatismo dei Medici da un lato e da quello di Gian Giorgio Trissino
dall’altro, fu, chiaramente, un modo per affrancarsi da uno status sociale di
artigiani e salire nella considerazione di tutti a livello di artisti. In linea
di massima – ed è una scelta che piace – Marcorin conduce la sua analisi
mirando a tener conto sia dello studio dell’opera sia del continuo confrontarsi
con le rovine degli antichi romani. In questo senso, se è vero che i Sangallo
(specie Antonio il giovane e Giovanni Battista) sono campioni dell’ortodossia
vitruviana è anche vero che ciò non impedisce loro, quando Vitruvio non è
chiaro o si astiene dal parlare di determinati aspetti, di elaborare progetti
sulla base dell’esperienza della ricognizione visiva. Discorso analogo per Palladio, che,
pure, è già considerato normalmente meno legato a Vitruvio come ‘canone’. Lo
studio di Vitruvio da parte dei Sangallo risulta dagli esemplari che
possedettero o, comunque, consultarono, annotandoli, e dall’enorme massa di
disegni vergati da membri di una delle ‘botteghe’ più famose e prolifiche fra
Firenze e Roma dalla fine del Quattrocento a metà del Cinquecento. Siamo di
fronte a rilevamenti archeologici, a completamenti su base ipotetica di edifici
romani ridotti in rovina, di progetti per le tante e prestigiose commissioni ricevute.
Una quantità di disegni che, molto probabilmente, è solo piccola parte di
quanto realmente elaborato, ma che, nel loro complesso, possono essere valutati
come strumento di confronto e di diffusione delle idee, che in un’ultima
analisi portano a contaminazioni, imitazioni di soluzioni progettuali e risposte
diverse a problemi comuni (p. 477). Indugio su questo fatto perché è bene
mettere in evidenza la differenza dell’approccio di Marcorin da quello proposto
da Kulawik (si veda la Parte Seconda) Per quest’ultimo gli album di disegni come pure come i trattati pubblicati
dal 1540 in poi sono esito ultimo di un progetto promosso dall’Accademia de
lo Studio de l’Architettura; sono, insomma, ’fini’, tasselli di un programma
eterodiretto che è esplicitato prima nel Proemio di Antonio da Sangallo e poi
nella Lettera al Landi di Tolomei. Per Marcorin – e, sinceramente, la penso
come lui – sono, invece, normali ‘strumenti’ destinati a raccogliere le
riflessioni degli artisti. Nessuna sorpresa, dunque, se Marcorin non cita
nemmeno l’Accademia de lo Studio de l’Architettura, e torna alla
tradizionale visione dell’Accademia della Virtù, fondata da Tolomei, di
cui i Sangallo non avrebbero nemmeno fatto parte, mentre un qualche ruolo di
sociabilità avrebbero avuto nella quasi omonima, ma ben diversa, Accademia dei
Virtuosi del Pantheon. Uno degli esempi su cui Marcorin più si sofferma,
parlando dei Sangallo, è quello dei disegni e dei progetti relativi ai palazzi
pubblici, tema che comportava, per i classicisti dell’epoca, lo studio
dell’organizzazione della domus romana. Studio tutt’altro che facile, anche se
si era animati da spirito filologico, perché, in realtà, Vitruvio non è chiaro
su tale organizzazione e non doveva certo essere facile trovare un equivalente
alla successione ‘vestibolo’, ‘atrio’ e ‘peristilio’ di cui si legge nel De
architectura. Altro aspetto da non dimenticare, e di cui gli architetti
rinascimentali erano consci, era che la casa romana si sviluppava su un solo
piano, mentre loro erano alle prese con edifici che potevano averne tre o
quattro, il che obbligava a cercare altrove, nel trattato vitruviano (nelle
pagine dedicate ai teatri, agli anfiteatri e alle basiliche), le proporzioni da
rispettare nelle altezze e la sovrapposizione fra gli ordini architettonici. Non
si può, a questo proposito, non ricordare che la ricerca di un ‘modello classico’
per i palazzi contemporanei è segnata dalle ricerche di Giuliano da Sangallo
(zio di Giovanbattista e Antonio il Giovane) per la costruzione di Villa Medici
a Poggio a Caiano, un compito che fu assegnato all’allora giovane Giuliano da
Lorenzo de’ Medici e che vide l’architetto ispirarsi probabilmente anche al De
re aedificatoria di Leon Battista Alberti. È molto probabile che, decenni dopo,
quando i due nipoti divennero, di fatto, le massime autorità in ambito
architettonico a Roma e si fecero carico di progetti come Palazzo Farnese,
abbiano avuto modo di consultare i progetti dello zio oltre a basarsi sul
sistematico rilevamento delle antichità romane. Ciò che, in ultima analisi, pare
il caso di sottolineare è che anche per i campioni del vitruvianesimo
progettare alla moderna non voleva dire copiare, e il motivo era banale: anche
se avessero voluto, non avrebbero potuto, essendo la tipologia degli edifici
cambiata totalmente rispetto ai tempi dei romani: una chiesa non era un tempio
e, semmai, mostrava maggiori affinità con le antiche baisiliche; gli stessi ordini (e
ancora una volta si ricorda che per Vitruvio si trattava di genera) erano
diversi. Alberti aveva introdotto il composito, che in Vitruvio non è mai
citato, facendoli diventare cinque. La sua fu una scelta fondamentalmente
utilitaristica, in cui finiva, come gruppo residuale, tutto ciò che, nella
realtà, non trovava perfetto riscontro col dettato vitruviano. Ma progettare in
composito voleva dire, in sostanza, godere di libertà di interpretazione
all’interno di un canone, una libertà a cui Vitruvio stesso faceva riferimento
nel suo De architectura ammettendo deroghe alle buone norme dell’edificare
determinate dagli specifici contesti di costruzione. Se, come noto, i Sangallo
non riuscirono ad affidare nulla alle stampe, diverso è il caso di Palladio che
nel 1556 e nel 1567 si occupò dell’apparato iconografico delle due versioni del
De architectura di Vitruvio curate da Daniele Barbaro e nel 1570 pubblicò i suoi
Quattro libri dell’architettura. L’opera si occupava di antiche case private,
delle basiliche e dei templi. Nella sua prefazione Palladio prometteva altri
libri dedicati a teatri, anfiteatri, terme, fortificazioni militari, ma nulla
se ne fece e fu forse la vera fortuna del trattato che rinunciava, così, di
fatto, all’universalità della disciplina per concentrarsi sui temi più chiari
al lettore, con un apparato iconografico di livello decisamente alto. Anche nel
caso palladiano, tuttavia, Marcorin mette in evidenza, basandosi sulle
effettive realizzazioni, la sua capacità di rielaborare il dettato vitruviano: «quando
Palladio fece riferimento a Vitruvio, lo fece con un approccio critico, non
cercando soluzioni generiche per problemi specifici, ma tentando di apprendere
un metodo progettuale. Verificò costantemente il trattato di Vitruvio sui
monumenti del passato e mise a confronto i propri disegni con quelli di altri
architetti, come Pirro Ligorio, Falconetto, Giocondo, Sanmicheli e Serlio.
Tutto ciò lo condusse a riconoscere nell’ambito degli antichi edifici una
moltitudine di elementi che non seguiva necessariamente le regole descritte nel
De architectura. […] Le alternative possibili erano molteplici. Di conseguenza,
Palladio costruì la sua idea di architettura classica considerando attentamente
la gamma di opzioni fornite da Vitruvio e dagli altri architetti dell’antichità
e scegliendo quelle che funzionavano meglio per lui» (pp. 539-540).
Thomas Noble Howe richiama i termini di quella che è
normalmente nota come Querelle fra gli antichi e i moderni e subito bisogna chiarire
alcune cose. In senso stretto, la querelle ebbe a che fare con l’architettura, L’autore tuttavia esamina i presupposti che
ad essa portarono e chiarisce che vi fu anche un fronte letterario relativo
alla vicenda. La disputa, peraltro, non fu inedita, nel senso che un fronte dei
‘modernisti, si può chiaramente riconoscere, ad esempio, nelle pagine di Leon
Battista Alberti così come i sostenitori dell’antico, come abbiamo visto, in
precedenza, non chiusero mai, anche se mossi da piena ortodossia vitruviana, a
eventuali rielaborazioni del dettato del De architectura. Nel caso francese, ad
esempio, già Roland Fréart de Chambray aveva pubblicato, nel 1650, il Parallèle
de l’architecture antique avec la moderne in cui, nell’ambito di un
discorso in cui gli architetti antichi avevano la meglio su quelli moderni, comparivano
affermazioni all’epoca passate sotto traccia: «la mente è libera e non
prigioniera, e noi abbiamo pieno diritto di seguire il nostro Genio e di
inventare come gli antichi, senza trasformarci in loro schiavi» (p. 547). Nel
1671 era fondata a Parigi l’Académie d’Architecture; la nascita delle accademie
francesi nella seconda metà del Seicento meriterebbe un discorso a parte e va
comunque letta nell’ambito del fenomeno dell’assolutismo monarchico.
L’Accademia d’architettura aveva fondamentalmente tre compiti: mettere in
evidenza i veri principi su cui si basava l’architettura, insegnarli agli
studenti e fungere da braccio operativo (una sorta di soprintendenza) del
potere di Luigi XIV e Colbert, assolvendo gli incarichi che le erano affidati
di volta in volta. Si veda, incidentalmente, a tal proposito, l’esempio di André Félibien, che dell’Accademia d’architettura fece parte e che nel 1678 si
fece carico, su richiesta di Colbert, di visitare tutte le chiese più antiche di
Parigi e dintorni (quindi le cattedrali gotiche) per rilevarne lo stato di
conservazione e i tipi di pietre che erano stati impiegati nella loro
costruzione [8]. Noble Howe non manca di mettere in evidenza una contraddizione
interna all’Accademia stessa, ossia il fatto che, a livello astratto
propugnasse il nuovo metodo cartesiano, basato sulla ragione, ma nel concreto
pretendesse obbedienza all’antichità: «ogni cosa deve essere dimostrata dalla
ragione e, tuttavia “grandezza e perfezione potevano essere raggiunte solo
imitando l’antichità”. I nemici erano l’architettura medievale (compresa quella
francese) e gli eccessi di libertà di Michelangelo e del barocco italiano. La
missione dell’Accademia era salvare l’architettura francese da essi» (p. 549). E
tuttavia, ancora una volta, va ribadito che quest’approccio non era totalmente
ortodosso rispetto a Vitruvio. Secondo François Blondel, che la presiedette
dalla nascita, era da sollecitare e perseguire la nascita di uno stile (o,
meglio, di un ordine) autenticamente francese, così come tuscanico e composito
erano state acquisizioni successive rispetto al dorico, ionico, corinzio di
Vitruvio. L’importante era che ogni progresso fosse inscritto all’interno di
una visione che attribuiva alla proporzione delle parti con il tutto che
costituiva l’insita e innata spiegazione della bellezza, una bellezza di
ispirazione divina, legata alle proporzioni con cui Dio aveva realizzato il
corpo umano. Gli anni immediatamente successivi alla costituzione
dell’Accademia sono caratterizzati dai progetti per la costruzione della
facciata est del Louvre, dopo
il clamoroso fallimento legato alla chiamata di Bernini a Parigi. In questo
contesto assume particolare importanza la figura di Claude Perrault, fratello
di quello Charles che era segretario di Colbert, che si vide attribuire anche
il compito di approntare una
nuova traduzione del De architectura di Vitruvio (1673). La traduzione,
redatta a uso e consumo del programma didattico dell’Accademia, fu inizialmente
recepita positivamente anche da Blondel. Tuttavia conteneva, nelle note,
aspetti pericolosi: in un quadro di riferimento che – sia chiaro – era sempre
il classicismo. da un lato Perrault manifestava dubbi che le proporzioni in
architettura non fossero una verità innata, ma una creazione dell’uomo,
dall’altro manifestava una qualche forma di apprezzamento del gotico: «Il gusto
del nostro secolo, o almeno della nostra nazione, è differente da quello degli
antichi e forse ha in sé qualcosa del Gotico, perché noi amiamo l’aria, la luce
del giorno e il senso di apertura negli edifici» (p. 552) Dieci anni dopo, questi
passi furono alla base della querelle fra gli antichi e i moderni consumatasi
fra Blondel e Perrault. L’unico aspetto che non convince del tutto nel saggio è
che l’autore non riesce a spiegare i motivi per i quali essa si consumò e che,
a mio avviso, non furono solo ideologici. È chiaro che per Blondel, presidente
dell’Accademia, l’ascesa di Perrault, fratello del segretario di Colbert,
diveniva scomoda; è probabile, inoltre, che uno stato assoluto come era la
monarchia francese mirasse a rivalutare la storia architettonica del paese in
senso identitario (e si spiegherebbe in questo modo l’incarico dato a Félibien nel
1678 di censire le cattedrali) e i fratelli Perrault, per convinzione o
calcolo, furono abili ad assecondare questa tendenza. Cert’è che lo scoppio
della querelle è chiaramente la manifestazione eclatante di un disagio che
doveva essere andato crescendo negli anni. In termini editoriali la vicenda si concretizzò
nella pubblicazione, nel 1683, del secondo volume del Cours d’architecture di Blondel,
un manuale per gli studenti dell’Accademia, e, da parte di Perrault, di un
volumetto intitolato Ordonnances des cinques espèces de colonnes (1683) e della
seconda edizione della traduzione di Vitruvio (1684). Questa sembra essere la
sequenza cronologica, e tuttavia va chiarito che, nel Cours, Blondel dimostra
di aver già avuto modo di leggere le bozze dell’Ordonnances, elaborando una
risposta alle tesi di Perrault. Da queste, dunque, partiremo. Nelle Ordonnances
è definitivamente enunciato il principio della natura umana (e non ‘naturale’ o
‘divina’) delle proporzioni; per meglio spiegare, è rotto il collegamento
automatico fra bellezza e rispetto del sistema innato delle proporzioni. A tal
scopo Perrault sostiene che esistono due forme di bellezza, una ‘positiva’ e
l’altra ‘arbitraria’. La positiva è basata su aspetti evidenti a tutti come la
ricchezza dei materiali, la magnificenza del sito su cui sorge l’edificio, le
sue dimensioni, la precisione con cui è progettato e la simmetria. Il termine
‘simmetria’ è inteso non nell’originale significato greco di esistenza di
rapporti proporzionali, ma in quello moderno di sviluppo bilaterale attorno a
un asse. La bellezza arbitraria è quella che dipende dalle scelte del
progettista e in essa rientrano le forme dell’edificio e i rapporti
proporzionali fra tutto e sue parti: una scelta arbitraria, che peraltro esalta
la bravura dell’architetto, ma che è soggettiva e, come tale, modificabile. Nel
secondo volume del suo Cours Blondel rigettò completamente queste tesi, che di
fatto legavano la bellezza al genio e all’esperienza dell’artefice senza un
substrato proporzionale riflettente la regolarità della natura. In merito non
ebbe alcuna difficoltà a sparare a zero contro la facciata est del Louvre,
finita di costruire nel 1680 ispirandosi al progetto di Perrault e altri; a
queste accuse aggiunse la condanna delle posizioni dell’avversario,
simpatizzante del gotico e dei suoi capricci. L’ulteriore replica giunse l’anno
dopo, come detto, con la seconda edizione della traduzione del trattato
vitruviano sancendo una rottura definitiva che continuò a far sentire i suoi
effetti per i decenni successivi. L’aspetto che va comunque chiarito è che la
querelle fra antichi e moderni si consumò all’interno di una visione comunque
classicista e vitruviana dell’architettura; non è un dissidio fra classico e
barocco, né fra classico e rococò, che prese l’avvento di lì a pochi decenni. Comporta
semmai un diverso giudizio nei confronti del gotico, che in questo volume
abbiamo incontrato anche parlando di Guarino Guarini.
Un tema del De architectura vitruviano di cui si tende a
parlare poco è quello degli aneddoti, o, meglio, delle historiae presentate
all’interno del trattato. Il motivo è banale: quando si parla di aneddoti, in
genere, si fa riferimento a Plinio il Vecchio e alla sua Naturalis historia,
mentre si sorvola su quelli proposti nell’opera vitruviana, anche se alcuni di
essi, primo fra tutti l’'Eureka!' esclamato da Archimede, hanno avuto,
storicamente, successo enorme e sono presentati per la prima volta proprio da Vitruvio.
Valerie
Naas, parlando degli aneddoti pliniani, ha evidenziato come essi ‘segnalino’
aspetti molto frequentati, nei millenni seguenti, nell’ambito della letteratura
artistica: temi fondamentali come lo statuto dell’artista, la sua capacità di
imporsi da autodidatta, il superamento del maestro, la moralità/immoralità di
arte e artisti, la riconoscibilità sociale dell’artista in rapporto al pubblico
in generale e ai potenti in particolare (da Alessandro Magno in giù), la
rivalità fra artisti, l’imitazione della natura come oggetto dell’arte fra
‘vero’ e ‘verosimile’ o ‘ideale’, la ‘potenza delle immagini’ attraverso la
loro espressività, l’ ‘inganno degli occhi’, gli espedienti tecnici degli
artisti, il prezzo eccessivo delle opere. Nel caso di Vitruvio, Antonio Becchi
ritiene che essi rispondano, innanzi tutto, all’esigenza di rendere la lettura
dell’opera meno arida, introducendo elementi di narrazione che permettano al
lettore di ‘riposarsi’ momentaneamente (uso analogo ne fece l’Alberti nel De re
aedificatoria). E, tuttavia, anche quando sembrano allontanarsi da argomenti di
carattere architettonico, come nel caso del bagno di Archimede, «gli episodi non
sono mai meri strumenti esplicativi o aneddoti raccontati per il gusto di farlo;
spesso diventano pretesto per riflessioni di natura etica e autobiografica che formano
una costante nel corso di tutto il trattato. Le historiae, considerate nel loro
complesso, formano una rete narrativa che rende possibile memorizzare alcuni
temi chiave, adottati come punti di partenza verso considerazioni di respiro
più ampio» (p. 629).
Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_vitruviano#/media/File:Da_Vinci_Vitruve_Luc_Viatour.jpg |
Ultimo, ma – come si dice in questi casi – non di minore importanza giunge il saggio di Francesca Fiorani sull’invenzione dell’uomo vitruviano. E subito un dato appare chiaro: l’espressione «uomo vitruviano» è una fortunatissima invenzione del 1956 quando Kenneth Clark la usò per il suo libro The Nude. A Study to Ideal Form. Nel De architectura Vitruvio usa l’espressione ‘homo bene figuratus’ dove ‘homo’ sta per ‘essere umano’ e non maschio. Sappiamo che uno degli undici disegni che erano a corredo dell’opera era dedicato, appunto, alla rappresentazione delle proporzioni di un essere umano inscritto (come recita il testo) in un quadrato e in un cerchio aventi il loro centro nell’ombelico. Vitruvio non scrive mai che quello che espone sia l’unico sistema proporzionale valido per la rappresentazione della figura umana e, anzi, sembra implicitamente ammettere che ve ne possano essere altri in virtù della varietà del genere umano legata alla varietà dei climi in natura. La natura – per Vitruvio, ma anche per Plinio successivamente – coincide coi possedimenti romani. È così che, in maniera del tutto logica, la rappresentazione dell’homo bene figuratus è una rappresentazione ‘imperialista’, aspetto destinato a essere sottovalutato per millenni (le ultime pagine del contributo di Fiorani e la copertina del volume presentano una rielaborazione moderna dell’opera eseguita nel 1992 da un’artista nativo americana, Jaune Quick-To-See Smith, che contesta l’impostazione vitruviana).
Fiorani segnala alcuni casi di rielaborazioni dell’homo bene figuratus come nel caso di Ghiberti o di Francesco di Giorgio. Ce ne sarebbero decine, ma è evidente che il caso più eclatante è proprio l’uomo vitruviano di Leonardo, oggi conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Quando nel 1822 l’abate Alvise Celotti concludeva con l’Accademia di Venezia l’accordo per un cambio fra i disegni leonardiani posseduti in precedenza dall’ex-segretario di Brera Giuseppe Bossi e alcune ‘classiche opere’ di artisti veneti, le polemiche furono infinite. Uno dei giudizi più duri (e poco noto) fu espresso da Giovanni Edwards O’Kelles (figlio di Pietro Edwards, e – me lo si lasci dire, visto che me ne sono occupato – chiaro mitomane) il quale nel Repertorio generale delle Venete Belle Arti così liquidava i disegni del vinciano: «Gli oggetti, difatti proposti in acquisizione erano alquanto bozze a penna predicate siccome preziosi originali dell’Urbinate e del Vinci; dal prima possedute dal Bossi in Milano; offerte già inutilmente a quella R. Accademia; e riconosciute, dai più tra intelligenti, dilettanti, e trafficatori di tali cose, siccome apocrifi ed adulterati disegni, eseguiti da artisti noti per siffatte falsificazioni» [9]. Insomma, la fama del disegno dell’uomo vitruviano è assolutamente recente, e, nel caso italiano, è stata senza dubbio amplificata dalla sua rappresentazione sulle monete da 1 euro. Ciò che più conta è che quel disegno ci mette in contatto con uno dei grandi problemi di Leonardo, ossia lo studio di Vitruvio, testo particolarmente ostico per chi, come lui, si definiva «omo sanza lettere». Il disegno dell’uomo vitruviano risale, probabilmente, al 1490 circa ed era destinato, molto probabilmente, a far parte del progettato Libro de pictura e movimenti umani, che, secondo la testimonianza di Luca Pacioli, sarebbe stato concluso entro il 1498 (da non confondere col Libro di pittura scritto da Francesco Melzi). Cert’è nell’esemplare veneziano Leonardo scrisse una sorta di parafrasi del dettato vitruviano, aggiungendo sue considerazioni sulle proporzioni; probabilmente dubbi o diverse misurazioni rintracciate nelle copie dei manoscritti. Ma quello che rende speciale questo specifico ‘uomo vitruviano’ e che solo in parte è richiamato da quello disegnato da Carlo Urbino nel codice Huygens, è che esso, in sostanza, risulta dalla sovrapposizione di due corpi (certamente maschili): i due corpi corrispondono per quanto riguarda la testa; mentre uno ha le braccia e le gambe aperte a toccare la circonferenza del cerchio in cui è inscritto, l’altro braccia e gambe che toccano il perimetro del quadrato. Il risultato finale, totalmente ignoto a ogni altra forma di ‘uomo vitruviano’ a noi nota è quello di un’immagine che suggerisce l’idea del movimento, uno dei temi più cari alla ricerca leonardesca. Il disegno di Leonardo – ricorda giustamente Fiorani – è un’immagine che risulta da una sintesi. Dietro di essa sta «uno dei concetti fondanti del mondo fisico aristotelico, quello di infinita divisibilità. Esso statuiva che lo spazio, il tempo e il moto fossero quantità continue divisibili in parti più piccole, che a loro volta potevano essere ulteriormente divise in un processo che non finiva mai in qualcosa di indivisibile. […] Per Leonardo la divisibilità all’infinito fornì il quadro di riferimento al cui interno i movimenti del corpo, le ombre, le luci, i colori, le distanze, l’aria come piccole unità e catturare nella sua arte quei movimenti transitori e quasi impercettibili che rivelavano anche i più minuti cambiamenti delle emozioni umane» (p. 701). L’uomo vitruviano, quindi, partecipa di una ricerca che è scientifica e artistica allo stesso momento e che nelle altre versioni grafiche del soggetto a noi giunte è mera illustrazione dei rapporti proporzionali e non personale introiezione e rielaborazione di concetti ben più profondi.
NOTE:
[7] Per una storia degli scritti architettonici in lingua tedesca è fondamentale la consultazione di Werner Oechslin, Tobias Büchi, Martin Pozsgai, Architekturtheorie im deutschesprachigen Kulturraum 1486-1684, Basel, Edition Bibliothek Werner Oechslin – Colmena, 2018.
[8] Su questo punto si veda Stefan Germer, Art – Pouvoir – Discours. La carrière intellectuelle d’André Félibien dans la France de Louis XIV, pp. 355 ss.
[9] Si veda Giovanni
Mazzaferro, Le Belle Arti a Venezia nei manoscritti di
Pietro e Giovanni Edwards con l’edizione critica del Repertorio Générale delle
Venete Belle Arti,
Firenze, GoWare, 2015.
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