Brill’s Companion to the Reception of Vitruvius
A cura di Ingrid D. Rowland e Sinclair W. Bell
Brill, Leiden-Boston, 2014
Recensione di Giovanni Mazzaferro (Parte Seconda)
Una pagina del codice Harleianus 2767, il più antico esemplare del De architectura giunto sino ai nostri giorni Fonte: https://www.historyofinformation.com/detail.php?id=1841 |
Per leggere la Parte Prima cliccare su questo link
Wim Verbaal indaga, anche attraverso casi concreti, le
modalità con cui il De architectura di Vitruvio fu recepito in anni
medievali: stiamo parlando fra testimoni integrali ed estratti, di circa un
centinaio di esemplari, di cui grosso modo la metà è precedente al XV secolo. È
molto interessante come, al netto di casi specifici, possano essere ricavate
delle tendenze di massima nel recepimento dell’opera: un primo periodo in cui
esso avvenne nell’ambito dei confini del Sacro romano impero, uno spostamento a
nord-ovest (Francia e Inghilterra) attorno al 1000-1200 e il vero e proprio
boom italiano nel corso del Quattrocento. Alla prima e all’ultima fase
corrisponde anche la tendenza a copiare il manoscritto nella sua integrità,
mentre nel periodo centrale, quello della scolastica, dell’opera sono
presentati quasi sempre estratti in combinazione con altri testi come il Mappae
clavicula, famoso ricettario sulle tecniche artistiche, o scritti relativi
alla musica, accomunati da un analogo interesse nei confronti delle
proporzioni. Il periodo carolingio, comunque, è segnato da una ricerca di
carattere essenzialmente lessicale, che va inquadrata in un mondo che considera
i libri come opere che mettono a contatto o comunque stabiliscono un nesso fra
mondo materiale e immateriale. In fondo un’opera come Mappae clavicula,
che già abbiamo recensito, è un ottimo esempio in questo senso: si tratta di un
testo risalente alla tradizione alchemica della tarda antichità che costituisce
una ‘piccola chiave’ per la comprensione del mondo terreno e ultraterreno. Qui,
naturalmente, non siamo in ambito alchemico, ma religioso e ciò che ci si
attende da un libro è la presenza di qualcosa che possa aiutare a comprendere
il ‘divino’; la ricerca lessicale è funzionale, quindi, alla piena comprensione
dell’opera, senza la quale tale ricerca rischia di essere compromessa. Si noti,
in proposito, una differenza di accenti rispetto a Ingrid
Rowland, per la quale il De architectura fu studiato in età
carolingia soprattutto in funzione dell’educazione che bisognava dare
all’architetto, educazione che doveva nutrire di sé le neonate scholae
carolingie. Nei secoli dall’XI al XIII il ruolo del De architectura come
opera capace di schiudere la conoscenza del mondo immateriale viene meno e il
testo assume una valenza soprattutto tecnica; ciò comporta, in piena
scolastica, l’inserimento del testo nell’ambito dell’insegnamento delle arti
meccaniche, quindi uno svilimento ‘intellettuale’ e, contemporaneamente, non significa
una maggiore influenza del trattato vitruviano nei confronti delle tecniche
costruttive coeve. Nell’età del gotico, il classicismo vitruviano trova ben
poco spazio per potersi affermare, circostanza che invece si verificherà nel XV
e nel XVI secolo in seguito agli interessi umanistici e antiquari che si
affermano in Italia (e che comunque sono precedenti alla presunta ‘scoperta’
del trattato da parte di Poggio Bracciolini nel 1416).
Vitruvio, De architectura, ms. Plut. 30.10, XV secolo, Biblioteca Mediceo-Laurenziana Firenze. Fonte: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/07/Vitruvius%2C_Florence%2C_Plut._30.10.jpg |
L’atteggiamento ambivalente di Leon Battista Alberti nei
confronti del De
architectura è ben noto, così come ben noto che Alberti è un
classicista moderno: recupera un mondo andato perduto senza nessun complesso di
inferiorità, ma, anzi, puntando a far meglio, grazie alla lettura delle fonti,
all’esame delle rovine e al proprio personale contributo. In questo senso, Leon
Battista non è certamente un nostalgico, come schiere di umanisti, specie nel
Trecento, erano stati prima di lui, ma un uomo propositivo, che giudica
criticamente ciò che legge e agisce di conseguenza. Certo non è un caso, ad
esempio, che decida di non tradurre il De architectura, ma di scrivere
un proprio trattato, il De re aedificatoria, con titolo diverso, ma
struttura in dieci libri identica a quella di Vitruvio. Rispetto alla scansione
vitruviana della materia (aedificatio, gnomonica, machinatio)
crea, tuttavia, un’opera dalla struttura assai più proporzionata e simmetrica
(due concetti fondamentali), scanditi su necessitas (che a volte si
fonde – o si confonde – con la firmitas), utilitas e venustas.
Il De re aedificatoria non è certo un’opera perfetta; anch’essa ha i
suoi punti deboli e le sue incongruenze, ma è indubbio il tentativo di giungere
a realizzare un trattato (senza
immagini, ma questo è un altro discorso) che permetta all’architetto
moderno di affermare il valore liberale della sua arte e di vedere riconosciuta
la nobiltà del suo agire. Il primo sforzo è di carattere lessicale; Leon
Battista cerca, ogni volta che ve ne sia occasione, di trovare un equivalente
latino, se del caso coniandolo ex novo, ai termini che Vitruvio aveva lasciato
in greco non essendo stato in grado di individuare un sinonimo. Questo aspetto,
che è fondamentale, non deve tuttavia far pensare al rigetto del mondo greco a
favore di quello romano da parte di Leon Battista. McLaughlin ben evidenzia il
centinaio di autori da cui, a volte dichiarandoli, a volte no, attinge Alberti
e molti di questi sono greci. Anche se non è detto che li abbia letti tutti in
lingua, è certo che Alberti fu uno dei primi collettori della cultura greca in
Italia. Ma il discorso, quando si prende in considerazione la lingua, è
coerente: si scrive in latino e non ci sono concessioni ad altri idiomi. È
fuori di dubbio che la numerosità delle fonti, peraltro, non risponda a
necessità di carattere prettamente tecnico, ma sia volta a garantire quella
piacevolezza di lettura che è aspirazione forte dell’umanesimo del
Quattrocento, anche quando, in una materia del genere, il rischio, segnalato
sia da Vitruvio sia da Alberti, è quello di fare un uso eccessivo di termini
tecnici. Le principali censure albertiane nei confronti della lingua albertiana
sono contenute nel proemio al Libro VI del De re aedificatoria: Leon
Battista dice del suo predecessore che scrive in un latino che sembra greco e
in un greco che sembra latino, tanto che ci si domanda se non avrebbe fatto
meglio a non scrivere proprio- E tuttavia, il suo atteggiamento nei confronti
di Vitruvio architetto è di sostanziale rispetto da un punto di vista
contenutistico, il che non gli impedisce di prendere le distanze quando è il
caso. L’esempio forse più eclatante, in questo senso, è costituito dall’educazione
che deve avere l’architetto: Vitruvio indica una serie molto variegata di
discipline che Alberti riduce drasticamente a pittura e matematica.
Nel suo saggio Ann Huppert tocca, di fatto, il nocciolo della questione relativa al recepimento di Vitruvio nella prima metà del Cinquecento, ossia – per dirla con Pagliara – la trasformazione della sua opera da testo a canone. Una trasformazione che ha il suo epicentro a Roma e che richiede la ricostruzione della presenza del trattato nella città che, per il fatto stesso di ospitare un enorme quantità di rovine di edifici antichi, si poneva come naturale controcanto alla lettura del De architectura. Si è visto come la princeps dell’opera sia stata pubblicata proprio a Roma da Giovanni Sulpizio per i tipi dello stampatore tedesco Eucharius Silber, trasferitosi in città prima della primavera del 1480. La stampa risale al 1486 o 1487 e coincide di fatto con la costruzione ‘all’antica’ (che, nel caso specifico e senza alcuna contraddizione vuol dire anche alla maniera moderna) del palazzo del Cardinal Riario (o palazzo della Cancelleria). Riario è il dedicatario dell’opera e probabilmente colui che sostenne i costi di una pubblicazione in folio, con ampi margini lasciati bianchi perché, come esplicitamente indicato, gli studiosi potessero apporvi annotazioni, ma soprattutto disegni, che continuavano a mancare.
Vitruvio, De architectura nell'edizione Sulpicio (1486-1487) Fonte: https://www.historyofinformation.com/image.php?id=3903 |
A parte due riedizioni che se ne discostano poco, una a Firenze nel 1496 e una a Venezia nel 1497, quella di Sulpizio, in latino, rimase l’edizione di riferimento fino al 1511. Nel frattempo, a Roma, papa Giulio II aveva ripreso le antiche aspirazioni di suoi predecessori di ristrutturare o abbattere e ricostruire l’antica basilica di San Pietro; l’incarico fu affidato a Donato Bramente, architetto classicista giunto a Roma nel 1500 e che aveva introdotto in città nuove forme edificative basate sull’antichità. Certamente Bramante lesse e studiò Vitruvio, ma, pur avendolo a riferimento, lo considerò come una delle fonti a cui attingere per sviluppare nuove soluzioni architettoniche. In qualche modo l’atteggiamento di Bramante può essere considerato come quello di Alberti nei confronti del De architectura: recupero e reinterpretazione della tradizione per elaborare progetti migliori di quelli che avevano prodotto i romani.
Nel 1511 Fra Giovanni Giocondo pubblicò a Venezia una nuova edizione in latino dell’opera vitruviana, questa volta arricchita da 136
disegni che rendevano l’opera più accessibile sia ad architetti che non
conoscevano bene il latino, ma che potevano guardare le figure, sia a letterati
che conoscevano la lingua, ma non la materia. L’intera traduzione era poi
oggetto di una sistematica revisione legata alla cultura dell’autore, che era
contemporaneamente buon conoscitore delle lettere e architetto (o, più
riduttivamente, ingegnere). L’edizione giocondina era dedicata a papa Giulio II.
Non fu certo un caso se, a fine 1513, l’ottantenne autore dell’opera si
trasferì a Roma, dove, alla morte di Bramante, nel 1514, fu nominato architetto
di San Pietro assieme a Raffaello Sanzio e Giuliano da Sangallo.
Vitruvio, De architectura nell'edizione di Fra Giocondo, 1511 Fonte: http://architectura.cesr.univ-tours.fr/Traite/Images/CESR_2994Index.asp |
Pur ampiamente illustrata, l’edizione giocondina aveva il
difetto di essere in latino e quindi di scarsa comprensibilità per il ‘ceto
medio’ degli architetti, che non conoscevano la lingua. Da qui l’esigenza di
tentare l’impresa della traduzione in italiano (impresa che era già stata
perseguita nel secolo precedente, ad esempio da Ghiberti e da Francesco di
Giorgio Martini) o in proprio o avvalendosi di collaborazioni. È in
quest’ambito che dobbiamo collocare la traduzione di Fabio Calvo ravennate a
vantaggio di Raffaello, di cui si è già detto, e quella di Cesare Cesariano: per
Huppert, l’autore della prima traduzione a stampa fu certamente a Roma nel 1507
(mentre Rovetta e Gritti – vedi supra – non sono così certi della cosa).
La traduzione di Cesariano, pur utile, aveva un grosso limite: era molto
letterale e soprattutto si avvaleva di un apparato iconografico di impianto
lombardo: per chi viveva a Roma, aveva poco senso vedere come esempio di
icnografia, ortografia e scenografia il duomo di Milano, che oltre tutto, era
di forme gotiche. Fra i vari tentativi di traduzione si segnalano anche quelli
dei fiorentini Antonio e Giovanni Battista da Sangallo, nipoti di Giuliano,
trasferitisi a Roma anni prima e accaniti studiosi dell’antichità (nel 1516,
morti Giuliano e Giocondo, Antonio fu nominato secondo architetto di San Pietro
dopo Raffaello). Di Giovanni Battista ci è giunta una traduzione completa
dell’opera, più versioni incomplete; di Antonio solo il Proemio di una sua
traduzione che, evidentemente, non compì mai. Sappiamo, inoltre, che Antonio possedette
quattro esemplari dell’opera vitruviana (di edizioni diverse, le cui note sono
state di recente messe in relazione con il corpus dei suoi disegni conservato
agli Uffizi [6]; nel
suo esemplare del trattato nella versione edita da Sulpizio Giovanni
Battista inserì una ricchissima serie di postille e magnifici disegni che lo
rendono, di fatto, un unicum. Siamo così arrivati a un punto fondamentale: i
grandi architetti del primo Cinquecento (e non solo quelli: si pensi al codice
Mellon, a lungo attribuito a Domenico Antonio de Chairellis detto Menicantonio
e oggi Domenico Aino da Varignana) non si basano esclusivamente sul trattato
vitruviano, ma rilevano anche i resti delle rovine romane e li disegnano
assieme ai loro progetti. Ricchissima, in tal senso, è la produzione dei due
Sangallo e di Baldassarre Peruzzi, i primi due basandosi inizialmente sia sull’osservazione
diretta delle rovine sia su Vitruvio per ricostruire la forma originale dei
templi, mentre Peruzzi fa leva molto meno su Vitruvio e attribuisce un valore
molto maggiore alle emergenze concrete per le sue ricostruzioni.
Tuttavia, nel terzo decennio del 1500, si avverte, prima
latente, poi forte, una tendenza all’ortodossia vitruviana; il trattato è
considerato come dispensatore di regole, prima fra tutte quelle relative ai genera,
divenuti ordini ormai da un po’, e quando i resti archeologici lo smentiscono
non si è indotti a pensare che quella vitruviana non rappresentasse l’unica
soluzione architettonica possibile, o a inquadrare il fenomeno in senso
storico, tenendo conto che anche gli stili edilizi ebbero una loro evoluzione
anche in età romana, quanto, piuttosto, a considerare le deviazioni come
contrarie alle regole dell’architettura: devianze, come tali da non perseguire
e da non imitare. In questo senso il fenomeno si manifestò in termini
editoriali con la pubblicazione del Libro IV (ma in realtà il primo di quelli
da lui scritti)
del trattato di architettura di Sebastiano Serlio, ossia le Regole
generali di architetura sopra le cinque maniere de gli edifici, stampate da
Francesco Marcolini a Venezia nel 1537. Il luogo di pubblicazione non inganni;
Serlio era stato a lungo a Roma negli anni Venti, allievo di Baldassarre
Peruzzi e lì si era formato al linguaggio classico. Probabilmente l’idea di un
‘nuovo’ trattato, che recepisse e chiarisse in termini ortodossi gli
insegnamenti vitruviani era sorta già nel 1531. Contemporaneamente e negli anni
successivi si assiste, nelle loro prese di posizione pubbliche relative a
progetti architettonici altrui, ad analogo spostamento verso l’ortodossia dei
due fratelli Sangallo. Nel 1539, poi, Claudio Tolomei, umanista senese, apre a
Roma l’Accademia della Virtù che, inizialmente pensata per promuovere la
riforma della lingua volgare, ben presto approda a un programma di
‘reintepretazione’ del dettato vitruviano in senso regolatorio. Lo scopo ultimo
dei membri dell’Accademia era quello di dar vita a una nuova traduzione italiana
del De architectura che non vide la luce anche perché Tolomei lasciò la
città nel 1545, ma influenzò fortemente i partecipanti. L’esito editoriale più
concreto fu comunque rappresentato dalle Annotazioni
su Vitruvio di Guillaume Philandrier, filologo ed erudito francese che,
se non propose una traduzione nuova, tuttavia presentò un commentario latino all’opera,
ristabilendone il testo in senso, ancora una volta, restrittivo. L’attenzione
era ormai giocata tutta sugli ordini, travisandone il senso, ma venendo
incontro a esigenze costruttive dell’epoca: il grande problema degli architetti
contemporanei non era la rilettura critica delle opere ma l’applicazione di
norme canoniche e l’indicazione (se possibile aiutata da illustrazioni) di
regole di proporzione. In questo senso, quando nel 1562, Jacopo Barozzi da
Vignola pubblica la sua Regola delli Cinque Ordini d’Architettura,
quello che fu, nel concreto, il testo più compulsato dagli architetti
contemporanei proprio per la sua chiarezza normativa, si completò il progetto
iniziale dell’Accademia della Virtù. Vignola, non a caso, vi aveva gravitato
attorno, assumendo l’incarico di realizzare disegni ad hoc per i membri
dell’Accademia stessa.
Fra tutti i contributi presentati nel volume, quello di
Kulawik è, senza dubbio, il più suggestivo, ma anche il più aleatorio; mi
sembra comunque giusto che abbia trovato spazio per sentire una voce fuori dal
coro e approcciare il recepimento di Vitruvio a metà Cinquecento da un diverso
punto di vista. In sostanza l’autore non ritiene che il programma di studi ‘vitruviani’
delineato da Claudio Tolomei in una celeberrima a lettera ad Agostino de’ Landi
nel 1542 sia da ricondurre all’Accademia della Virtù fondata dallo stesso
Tolomei e di cui si è detto recensendo il saggio di Huppert. Facciamo chiarezza
su quella lettera: in essa il mittente traccia una linea di ventiquattro opere
che costituivano il programma delle pubblicazioni dell’Accademia stessa. Per una
rassegna delle opere in questione rimando al sito http://www.accademia-vitruviana.net/accademia/akademie-projekt/3-das-publikationsprogramm-der-accademia
che, peraltro è gestito dallo stesso Kulawik e in cui, quindi, si possono
trovare ulteriori particolari. In sostanza, delle ventiquattro opere citate, ‘solo’
le prime undici hanno a che fare direttamente con Vitruvio, delineando peraltro
un programma filologico di estremo rigore. Ma lo studio filologico deve essere
integrato, ancora una volta, con quello delle antichità romane, aspetto a cui
sono dedicati gli altri tredici titoli. Fra essi spicca il volume tredicesimo
che avrebbe dovuto presentare una documentazione illustrata di tutte le
antichità di Roma con disegni di piani, sezioni ed elevazioni e note a commento
sulla funzione originale degli edifici e sulle circostanze storiche in cui
furono costruiti. Normalmente, della lettera di Tolomei si dice che si tratta
di una lucida analisi di ciò che bisognava fare per giungere a un approccio
filologico e archeologico moderno, ma che, in sostanza, non ebbe seguito, fatta
eccezione per le Annotationes di Philandrier di cui si è detto. Secondo Kulawik,
la lettera di Tolomei non riguarderebbe il programma dell’Accademia della
Virtù, nata con intenti filologici e poi concentratasi su quelli della lingua,
ma di un’altra e semidimenticata accademia, quello de lo studio de
l’Architettura di cui, in realtà sappiamo pochissimo. Di essa Tolomei
avrebbe fatto parte assieme ad almeno altri duecento fra eruditi, artefici,
archeologi, umanisti. E, in sostanza, l’autore finisce per ricondurre
direttamente o indirettamente tutta la produzione editoriale e grafica del
Cinquecento a Roma (e non solo) a quest’Accademia, di cui avrebbero fatto
parte, naturalmente, anche i Sangallo. A tal proposito Kulawik segnala che il
Proemio al De architectura di Vitruvio scritto da Giovanni Battista e
risalente al quarto decennio del secolo non è un proemio a un’opera che doveva
essere scritta o che lo fu e venne persa, ma un’altra versione (in nuce,
pare di capire) di quello per esteso di cui Tolomei parla nella sua lettera a
Landi. Io non trovo modo migliore di spiegarmi che fare riferimento a un
esempio moderno: a metà degli anni Sessanta del Novecento la
milanese casa editrice Labor pianificò la nascita di una collana intitolata Gli
storici della letteratura artistica italiana. Si trattava di
pubblicare, in facsimile, ma con indici e un commento iniziale, i venticinque
principali titoli della letteratura artistica italiana. In realtà l’impresa non
ebbe successo. Dopo averne pubblicati cinque, la casa editrice Labor fallì. Ma
molte opere erano già state messe in lavorazione e, bene o male, riuscirono a
trovare uno sbocco editoriale o grazie a finanziamenti bancari o con altri
editori. Ecco, l’Accademia de lo studio de l’Architettura avrebbe svolto
un ruolo simile, ma ovviamente assai più importante, posto che da essa sarebbe
dipesa la pubblicazione della traduzione dell’opera vitruviana curata da
Barbaro e Palladio o il trattato di Vignola, oltre che, si diceva, tutti o
quasi gli album con disegni architettonici dell’epoca. Ho semplificato
eccessivamente e rimando al saggio. Personalmente ritengo che, per quanto
suggestive, le tesi dell’autore risentano di una lettura eccessivamente
orientata: perché, se così andò, gli autori degli scritti individuati da Kulawik
avrebbero dovuto tacere nei proemi, nelle dediche, nei commenti? Perché della
vita reale dell’Accademia, che avrebbe dovuto coinvolgere in pratica tutta la
Roma erudita, non sappiamo praticamente nulla? C’è un aspetto, tuttavia, che
desidero segnalare perché mi sembra interessante. Nel 1544 Giovanni Garimberto,
vescovo con interessi antiquari, pubblicò a Venezia il De regimenti publici
de la Citta, un’opera di contenuto giuridico. Nell’introduzione riportò una
discussione svoltasi anni prima a casa Tolomei: l’oggetto era se un edificio
antico potesse essere costruito quando ne era rimaste solo le fondamenta. Nella
discussione interviene Antonio da Sangallo il Giovane che ritiene di poter
rispondere in maniera affermativa, a patto che gli architetti antichi avessero
costruito quell’edificio attenendosi alla lettera alle regole dell’architettura
vitruviana. Allo stesso modo un altro architetto, Jacopo Meleghino, risponde in
maniera negativa riguardo al Palazzo Vaticano e il motivo è che le mura erano
medievali e quindi non seguivano quelle regole. In sostanza, in Garimberto
possiamo ritrovare quella ascesa di Vitruvio a canone assoluto di cui abbiamo
già parlato e che è tipica di quei decenni; così tipica da poter pensare di
poter risarcire le rovine una volta trovata la chiave di volta dell’antica
architettura romana. In fondo è quanto fanno i Sangallo nei loro rilevamenti
grafici degli edifici antichi.
Fine della Parte Seconda
Vai alla Parte Terza
NOTE:
[5] Les Annotations de Guillaume Philandrier sur le De
Architectura de Vitruve. Livres I à IV, a cura di Frédérique Lemerle,
Pícard editeur, 2000.
[6] Francesco Benelli, «Dicie Vitruvio». Antonio da Sangallo il Giovane e il De Architectura, Roma, Officina Libraria, 2024.
Nessun commento:
Posta un commento