Brill’s Companion to the Reception of Vitruvius
A cura di Ingrid D. Rowland e Sinclair W. Bell
Brill, Leiden-Boston, 2014
Recensione di Giovanni Mazzaferro (Parte Prima)
Un libro di grande importanza
L’editore Brill ha pubblicato, di recente, il suo Companion
al recepimento storico di Vitruvio, a cura di Ingrid D. Rowland e Sinclair
Bell. Si tratta di un’opera collettiva di grande respiro, che presenta più di
venti saggi sull’argomento e a cui dedicherò un’attenzione particolare. Perché?
Banalmente per il motivo che un Companion sul recepimento di Vitruvio
non può che essere, informalmente, una storia della letteratura artistica in
ambito architettonico dagli antichi romani al neoclassicismo. Naturalmente
molti elementi sfuggono all’analisi, ma è innegabile che le cose fondamentali
ci siano, in uno sforzo di sintesi e chiarezza che merita ogni elogio.
Nel De architectura Vitruvio scrisse di non essere
attaccato al denaro e di aspirare, invece, a consegnare il suo nome alla storia
tramite la sua opera. Mai, tuttavia, avrebbe potuto pensare che il suo nome
divenisse sinonimo di ‘architetto’ per eccellenza; che un numero infinito di
operatori del settore, si definisse o fosse definito da altri ‘novello
Vitruvio’. Storicamente, tuttavia, Vitruvio e il suo trattato sono stati
considerati, utilizzati, studiati con approcci diversi. Di fronte a una
situazione di questo genere, si sentiva, oggettivamente, la necessità di un’opera
che provasse a fare il punto della situazione, al netto di tutto ciò che già
era stato pubblicato (si pensi, a puro titolo di esempio al famosissimo Pier
Nicola Pagliara, Vitruvio da testo a canone). Qui di seguito trascrivo
l’indice, Proprio nella scansione del volume in cinque parti (trasmissione,
traduzione, recepimento, pratica, argomenti vitruviani) si può forse rilevare
uno dei pochi aspetti meno riusciti del volume, con l’evidente difficoltà a far
rientrare nelle sezioni alcuni contributi. Forse sarebbe bastato avere il
coraggio di non operarne alcuna. A seguire il commento alla maggior parte dei
contributi.
Part I - Transmission
- Ingrid Rowland, Vitruvius from Manuscript to Print.
Parte II - Translation
- Francesco P. Di Teodoro, Raphael and Fabio Calvo;
- Alessandro Rovetta e Jessica Gritti, On the Vitruvius of Cesare Cesariano;
- Paul Davies e David Hemsoll, Who Was Vitruvius? a Renaissance Debate.
Parte III – Reception
- Wim Verbaal, The Medieval Vitruvius;
- Martin McLaughlin, Alberti and Vitruvius: Reception and Rejection of the Model in De re aedificatoria;
- Paul Davies e David Hemsoll, Verona and Vitruvius;
- Ann C. Huppert, Vitruvius in Bramante’s Rome: Recovery, Interpretation, and Use of the Ancient Text;
- Daniel E. Harris-Mc Coy, Vitruvius’ Educational Program in Antiquity and the Renaissance;
- Bernd Kulawik, Sangallo, Tolomei, and the Program of the Accademia de lo Studio de l’Architettura on Vitruvius and Ancient Architecture;
- Susan Klaiber, Vitruvius and Guarino Guarini;
- Victor Deupi, Hermosura and Belleza in Sixteenth-Century Spanish Editions of Vitruvius;
- Vaughan Hart, Making Vitruvius Speak English: Vitruvius and English Architecture up to Vitruvius Britannicus;
- Werner Oechslin, Vitruvius in the German-Speaking World.
Part IV – Practice
- Rabun Taylor, Archaelogical Perspectives on Vitruvius;
- Lynne C. Lancaster, Vitruvius and Ancient Construction Method;
- Michel Paoli, How the opus francigenum Became the “Gothic” Style;
- David Karmon, Vitruvius and the Early Modern Worksite;
- Francesco Marcorin, Vitruvius and the Sangallos;
- Francesco Marcorin, Vitruvius and Palladio;
- Thomas Noble Howe, Vitruvius and the Quarrel of the Ancients and Moderns.
Part V – Vitruvian Topics
Robert Godman, Echeia;
Thomas Noble Howe, Scamilli Impares;
Giovanni Di Pasquale, Vitruvius’ Science of Machines: Tradition or Innovation?
Antonio Becchi, Vitruvius’s Historiae and the Love of Learning;
Francesca Fiorani, The Invention of the Vitruvian Man: Vitruvius, Leonardo da
Vinci and Beyond.
Ingrid Rowland
Vitruvius from Manuscript to Print
A Ingrid Rowland tocca uno dei compiti più difficili:
delineare la trasformazione dell’opera di Vitruvio nell’arco di più di millecinquecento
anni. Cercherò di riassumere i punti principali. L’opera, in origine, fu
scritta su rotoli di papiro (uno per ognuno dei dieci libri) o su codici
formati da tabulae con superficie incavata in cera. Quando si parla
della sua pubblicazione, ovviamente, lo si fa in termini ben diversi da quelli
legati ai secoli successivi alla stampa; ‘pubblicare’ voleva dire semplicemente
‘rendere pubblico’, ossia diffondere in diversi esemplari. Il trattato,
notoriamente, è dedicato a Ottaviano Augusto, ed è probabile che proprio
Ottaviano ne abbia sostenuto i costi, certo non indifferenti. Esiste la
possibilità, tuttavia, che un qualche ruolo sia stato giocato dalla sorella
Ottavia, personaggio di grande risalto nell’ambito della vita pubblica romana
di quegli anni (ed esplicitamente ricordata da Vitruvio con riconoscenza nella
sua opera). Il cambiamento del supporto su cui era scritto il trattato risale
alla tarda antichità, quando i papiri furono sostituiti dai codici pergamenacei
(o in carta). Il primo testimone a noi giunto del De architectura risale
all’800 circa, si trova alla British Library e risente già della riforma
scritturale carolingia, un fatto per cui non finiremo mai di ringraziare
Alcuino di York e Carlo Magno. Ci sfugge completamente tutto ciò che precede il
manoscritto, ma dai testimoni che ci sono giunti possiamo dire con una certa
tranquillità che essi derivano da almeno cinque tradizioni testuali differenti.
È ormai una consapevolezza acquisita che la ‘riscoperta’ carolingia di Vitruvio
non sia stata legata alla volontà di recuperare gli stili architettonici
dell’impero romano (forse c’era, ma non ebbe sbocchi) quanto piuttosto al
revival del latino come koiné, all’utilizzo di singole informazioni pratiche
(materiali da costruzione, sistema di irregimentazione delle acque, macchine,
realizzazione di meridiane) e, soprattutto, a una più ampia riflessione,
contenuta nel primo Libro del trattato, sulla formazione culturale
dell’architetto. Con Poggio Bracciolini, a lungo considerato il riscopritore
del trattato nel 1416, si ha poi il passaggio dell’opera dalle comunità
monastiche nel vivo della nascente riflessione umanistica, che ne riconobbe
anch’essa, innanzi tutto, una pietra
miliare nell’istruzione moderna ai tempi dei cosiddetti studia humanitatis. Da
lì alla presa in considerazione del trattato anche per la sua specifica valenza
architettonica bisognerà attendere Leon Battista Alberti. Lo studio del De
architectura nel corso dei decenni centrali del XV secolo è caratterizzato da
un approccio critico che lo stesso Leon Battista rende esplicito nel suo De re
aedificatoria. La prima edizione a stampa risale al 1486 o al 1487, ad opera di
Giovanni Sulpicio da Veroli, ed è un portato dell’insegnamento di Pomponio Leto
nello Studium Urbis romano, in cui lo studio delle rovine è abbinato a quello
dei testi letterari. La princeps è dedicata al cardinal Raffaele Riario che,
con ogni probabilità, sostenne le spese della pubblicazione. In questa prima
edizione sono lasciati ampi spazi bianchi per annotazioni e perché ogni lettore
potesse aggiungere le proprie illustrazioni alle undici originarie, andate
perse nel corso dei secoli. Dopo un paio di riedizioni fiorentine si segnala
l’edizione veneziana del 1511 a cura di Fra Giocondo (all’epoca già quasi
ottantenne), questa volta dedicata a papa Giulio II e probabilmente finanziata
dal banchiere senese Agostino Chigi. Siamo di fronte alla prima versione
illustrata, non solo con le undici illustrazioni mancanti, ma con ben 136
xilografie che, da quel momento in poi, trasformano e influenzano l’opera in
termini iconografici. Una cosa è certa – sottolinea l’autrice: «il modo in cui
si legge Vitruvio dipende in maniera significativa dalle forme mentali del
lettore. Vitruvio proveniva da una società in cui le donne potevano ricoprire incarichi
sacerdotali, mentre tutti i suoi lettori successivi, cristiani, ebrei o
islamici, davano per scontato che il sacerdozio fosse riservato agli uomini.
Molti aspetti del bilanciamento di tipo familiare che Vitruvio osserva tra i genera
– le famiglie – dell’architettura (dorico, ionico, corinzio) cedettero il passo
a una reinterpretazione rinascimentale delle famiglie architettoniche come
serie di ordini, un termine con connotazioni molto più astratte e assolute
rispetto alle affinità affettive naturalmente implicite nell’ambito di una famiglia,
con un evidente alterazione nel bilanciamento tra uomini e donne»
Francesco P. Di Teodoro,
Raphael and Fabio Calvo
La traduzione del ravennate Fabio Calvo al De architectura di Vitruvio è conservata manoscritta in due codici oggi a Monaco, in versioni fra loro non identiche e in cui la seconda è considerata essere basata sulla prima. Mentre la prima versione (Cod. It. 37) è completa, la seconda arriva solo al primo capitolo del quinto Libro vitruviano. La formula conclusiva del primo codice non lascia dubbi e reca la dicitura: «Fine del libro di Victru[v]io architecto tradocto di latino i(n) lingua et sermone proprio et volgare da M(e)s(er) Fabio Calvo ravenatem i(n) Roma, i(n) casa di Raphaello […] et a sua i(n)stantia» (p. 37). Esiste già un’edizione a stampa dei due manoscritti, curata da Vincenzo Fontana e Paolo Morachiello nel 1975 [1], nei cui confronti l’autore, che sta curando l’edizione critica dell’opera, è, sinceramente, un po’ troppo ingeneroso. Non sembra che la calligrafia di chi stese il testo sia quella di Fabio Calvo; oggi si propende per quella di Angelo Colocci, segretario di papa Leone X e tesoriere della curia pontificia. In tutta evidenza, la traduzione, condotta sull’edizione del 1511 di Fra Giocondo, fu realizzata perché Raffaello, nell’ambito dei suoi interessi e della sua attività architettonica, non era in grado di leggere dal latino. I due esemplari testimoniano, da parte loro, il tipico metodo di lavoro di Raffaello, ossia la realizzazione di un’operazione collettiva, in maniera non molto diversa dall’organizzazione della sua bottega artistica. Così, e qui si fa riferimento soprattutto al primo codice, quello integrale, compaiono nel testo numerose annotazioni, di natura diversa, che testimoniano certamente un dibattito in merito ad alcuni dei punti più oscuri dell’opera. Le annotazioni, inoltre, «danno conto dell’approccio al compito intrapreso, basato sulla pluralità delle fonti consultate (seguendo una sorta di censimento e di collazione dei codici originali, sia pur in numero limitato)» (p. 49). Nell’esemplare in questione Di Teodoro ha individuato trentatré annotazioni che ritiene originali di Raffaello e che testimoniano l’attenzione con cui l’artista lesse la traduzione di Fabio Calvo, a volte evidenziando le parti ritenute più importanti, a volte correggendo anche semplici refusi, a volte, ancora, aggiungendo ulteriori chiarimenti mutuati dalla sua esperienza di architetto. In tutta sincerità, mi sembra argomento più debole quello che Di Teodoro sostiene a p. 50: «Non solo le note autografe possono essere ricondotte a Raffaello, ma è mia convinzione che alcuni commenti e alcune correzioni tecniche, sia pur vergate dallo scriba, debbano essere ascritte al maestro». Per quanto ci si sforzi a fare un esempio, oserei dire che si tratta di un’ipotesi indimostrabile e che mal si concilia con la lavorazione dell’opera: si è detto che in qualche modo si tratta di una realizzazione frutta di un lavoro collettivo ed è evidente che, nella maggior parte dei casi, le note rappresentano idee condivise, senza che per questo si debba supporre un’egemonia raffaellesca.
Alessandro Rovetta e Jessica Gritti,
On the Vitruvius of Cesare Cesariano
Il saggio firmato da Rovetta e Gritti è così denso che, da
solo, potrebbe dar vita a un libro [2]. Le travagliate vicende che portarono
alla pubblicazione, nel 1521, della prima traduzione italiana del De
architectura vitruviano sono note. L’opera uscì il 5 luglio 1521 a Como,
per i tipi di Gottardo da Ponte. La prima cosa che non si può fare a meno di
notare è che il nome del Cesariano compare soltanto dopo sette fogli non
numerati, utilizzati per dediche, privilegi, e prefazioni. All’epoca i rapporti
fra il Cesariano ed il comitato editoriale che si era fatto carico di portare a
termine la pubblicazione (Agostino Gallo ed il nobile milanese Alvisio
Pirovano, con l’aiuto di Benedetto Giovio e del bergamasco Bono Mauro) si erano
definitivamente deteriorati. Non conosciamo con esattezza i motivi del
contendere; probabilmente le pressioni degli editori si scontravano con gli
eccessivi ritardi nelle consegne del Cesariano. Fatto sta che ad un certo punto
Cesariano decise di sospendere il lavoro e di rivalersi nei confronti degli
editori, intentando una causa nei confronti degli stessi, causa che avrebbe poi
avuto un esito favorevole, ma solo nel 1523, ed il cui dispositivo sarebbe
stato effettivamente applicato solo dopo otto anni. E tuttavia gli ex soci
erano riusciti a farsi consegnare dal Cesariano l’intero materiale preparatorio,
a parte gli ultimi capitoli del Libro IX e tutto il X. Gli editori, comunque,
non si fecero troppi scrupoli: consegnarono il materiale a Benedetto Giovio e
Bono Mauro e fecero stilare loro le parti mancanti e andarono in stampa,
citando Cesariano il meno possibile e attribuendo i meriti dell’impresa a Giovio
e Mauro, allo stesso Pirovano e a un’équipe di generici pittori. E furono
dunque Giovio e Mauro a risultare gli autori di tali parti nell’edizione
comasca del 1521. Solo di recente la parte finale dell’opera, di pugno di Cesariano,
è stata ritrovata a Madrid ed è stata trascritta integralmente a cura di
Barbara Agosti, dandoci modo di cogliere le differenze fra la versione di
Cesariano e quella allestita da Giovio e Mauro. [3] Al di là delle vicende
editoriali Rovetta e Gritti inquadrano la figura di Cesare Cesariano, pittore e
uomo di cultura (e non architetto, per quanto ne sappiamo) operante fra Milano,
Ferrara, Reggio Emilia e Piacenza all’interno di un humus che, impropriamente,
definisco qui padano e che a Milano affonda le sue radici nel primo periodo
bramantesco, se non addirittura nel trattato di architettura di Filarete. Appare
chiaramente, insomma, che non ci troviamo di fronte a un fenomeno eccezionale e
isolato, ma a un esito quasi logico, inevitabile, di anni e anni di interesse nei
confronti dell’opera vitruviana. La traduzione di Cesariano è condotta
anch’essa, come quella contemporanea, ma indipendente, di Fabio Calvo,
sull’edizione di Fra Giocondo e presenta un ricco commentario che è il primo
edito in proposito. Probabilmente non si tratta di una novità assoluta, se lo
stesso Cesariano cita le affermazioni del piacentino (ma residente a Venezia) Giorgio
Valla che, nel 1492, si vanta di avere prodotto un apparato iconografico di
natura matematica volto a chiarire l’opera e afferma che anche il novarese Bernardino
Merula aveva cercato di scrivere un commentario sul De architectura. Da non
dimenticare, poi, che Cesariano fu a Ferrara e che proprio nella città estense,
a cavallo fra Quattro e Cinquecento era stato approntato un codice (il
cosiddetto Vitruvio ferrarese) la cui trascrizione è attribuita (ma la
circostanza è incerta) a Pellegrino Prisciani e che presenta, per quanto ne
sappiamo, il primo apparato iconografico relativo all’opera. Quel manoscritto,
a sua volta, pare risentire dell’influsso degli studi del già
citato Giorgio Valla [4].
La traduzione di Cesariano, al contrario di quella di Fabio
Calvo, che però ricordo non essere mai stata pubblicata in epoca cinquecentesca, è letterale,
dimostrandosi ostica, ma trovando proprio nel commentario un utile strumento di
decodifica, un legame fra passato e presente nel cui ambito trova spazio anche
una breve autobiografia dell’autore. Di particolare rilevanza l’apparato
iconografico dell'opera, in cui Cesariano mostra di essere più pittore che
architetto, e che fa ricorso a modelli locali come il duomo di Milano, per
spiegare cosa siano l’ichnographia, l’orthographia e la scaenographia. Non è
chiaro se Cesariano sia mai stato a Roma; forse sì, ma lo stesso apparato
iconografico mostra come egli persegua una via alternativa, rispetto allo
studio delle rovine romane, per la comprensione dell’opera.
Paul Davies e David Hemsoll
Who Was Vitruvius? a Renaissance Debate.
All’inizio di questo scritto ho parlato di qualche debolezza
nella scansione dell’opera; è evidente, ad esempio, che il saggio di Davies e
Hemsoll, di per sé interessantissimo, rientri nella sezione dedicata alle
traduzioni solo in maniera molto lasca e un po’ forzata. Il tema che i due
autori affrontano è quello del nome di Vitruvio. Oggi si dà per scontato che si
chiamasse Marco Vitruvio Pollione, ma così scontato, in realtà, non è. Partiamo
dai dati di fatto: sul trattato possiamo leggere solo ‘Vitruvio’. Nel corso di
buona parte del Quattrocento la maggior parte degli interpreti ha ritenuto che
il nome completo fosse ‘Lucio Vitruvio Cerdo’ sulla base dell’iscrizione «L.
VITRVVIVS. L.L. CERDO ARCHITECTVS’ che
ancora oggi si può leggere sull’Arco dei Gavi di Verona. Da qui la credenza che
si fosse davanti all’autore del De architectura, che egli fosse veronese e che
addirittura fosse stato autore anche dell’Arena cittadina, come scrive Ciriaco d’Ancona nei suoi diari in un’occasione di una visita alla città del 1433. Sono
diversi i manoscritti quattrocenteschi giunti sino a noi in cui compare,
appunto, la dicitura Lucio Vitruvio Cerdo. Seguendo questa ipotesi, nel 1492, ad
esempio, sulla Loggia del Consiglio cittadino erano erette cinque statue di
veronesi illustri, fra cui quella di Lucio Vitruvio Cerdo. Ampiamente accolta
in ambito veneto (a Venezia, come a Mantova, dove nella Cappella Ovetari
Mantegna dipinse un arco trionfale con la dicitura in questione), la
denominazione di Vitruvio si scontrava, tuttavia, con quella di Faventino,
autore di un’epitome del De architectura in cui dichiarava la sua gratitudine a
«Vitruvius Pollio». Nella prima edizione a stampa del 1486 Giovanni Sulpicio
adotta, in proposito, una forma sincretica e chiama l’autore «Lucio Vitruvius
Pollio». Bisognerà attendere l’edizione giocondina del 1511 perché le cose
cambino: Fra Giocondo parla, semplicemente, di «Marcus Vitruvius». Cosa lo
spinse a farlo? Nel 1485 si diffuse nel regno di Napoli la notizia che a Gaeta
era stata ritrovata la tomba di Marco Tullio Cicerone In realtà, da esami autoptici successivi, si capì che l’epigrafe recitava «M. Vitruvii» e si cominciò a
pensare che si fosse davanti al sepolcro di Vitruvio, chiamato ‘Marco’
semplicemente per assonanza con ‘Marco Tullio Cicerone’. Giocondo fu a Napoli e
sicuramente conobbe quell’iscrizione, che riportò in una sua raccolta del 1489.
È molto probabile, peraltro, che nutrisse molti dubbi sull’identità fra Lucio
Vitruvio Cerdo e l’autore del De architectura per via di quel ‘L.L’ che vi si
trovava e che non poteva che significare, a sui avviso, ‘liberto di Lucio’. Non
era possibile, a suo parere, che Vitruvio fosse uno schiavo liberato. Da qui la
preferenza per Marco. Nonostante l’adozione di ‘Lucio Vitruvio Pollione’
nell’edizione Cesariano del 1521, le successive edizioni a stampa ripresero la
soluzione giocondina, per via della sua affidabilità; contemporaneamente furono
avanzati seri dubbi (da Sebastiano Serlio) che l’Arco dei Gavi potesse essere
opera del Vitruvio ‘maggiore’, in quanto costruito in contrasto con quanto
scritto nel De architectura. Il nome completo ‘Marco Vitruvio Pollione’ è,
ancora una volta, un’operazione di sintesi fra il sepolcro di Gaeta e la
testimonianza di Faventino che fu proposta per la prima volta da Guillaume
Philandrier nelle sue Annotationes al De architectura del 1544 [5] e poi
adottata definitivamente dall’edizione Barbaro- Palladio, fissando così, una
volta per tutte, il nome completo di Vitruvio, nome che, lo si ripete ancora
una volta, potrebbe essere sbagliato e che è frutto di una convenzione
rinascimentale.
Fine Parte Prima
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[1] Vitruvio e Raffaello. Il De architectura di
Vitruvio nella traduzione inedita di Fabio Calvo ravennate, Officina
Edizioni, Roma, 1975.
[2] Del resto è recentissima la pubblicazione di Le Vitruvio
de Cesare Cesariano (1521), a cura di Frédérique Lemerle, Yves Pauwels e Vasco
Zara, Brepols, Turnhout, 2023.
[3] La traduzione di Cesariano è stata presentata in
edizione moderna solo parzialmente. In particolare il primo volume è consultabile all’interno di Cesare Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, a cura
di Maria Luisa Gatti Perer e Alessandro Rovetta, Milano, Vita e Pensiero, 1996;
i libri dal II al IV sono stati pubblicati, a cura di Rovetta nel 2002: Cesare
Cesariano, Vitruvio De Architectura Libri II-IV. I materiali, i templi, gli
ordini, Milano, Vita e Pensiero, 2002. Il resto dell’opera non è stato
pubblicato, a parte la trascrizione della parte finale del capitolo IX e di
tutto il X: Cesare Cesariano, Volgarizzamento dei libri IX (capitoli 7 e 8) e X
di Vitruvio, De Architectura, secondo
il manoscritto 9/2790 Secciòn de Cortes della Real Academia de la Historia,
Madrid, a cura di Barbara Agosti, Pisa, Scuola Normale Superiore di Pisa, 1996.
[4] Vitruvio Ferrarese. De Architectura. La prima versione
illustrata, a cura di Vittorio Sgarbi, con una prefazione di Joseph Rykwert,
Modena, Franco Cosimo Panini, 2004.
[5] Les Annotations de Guillaume Philandrier sur le De
Architectura de Vitruve. Livres I à IV, a cura di Frédérique Lemerle,
Pícard editeur, 2000.
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