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giovedì 12 settembre 2024

Brill’s Companion to the Reception of Vitruvius. Parte Prima

 

Brill’s Companion to the Reception of Vitruvius
A cura di Ingrid D. Rowland e Sinclair W. Bell

Brill, Leiden-Boston, 2014

Recensione di Giovanni Mazzaferro (Parte Prima)




 

Un libro di grande importanza

L’editore Brill ha pubblicato, di recente, il suo Companion al recepimento storico di Vitruvio, a cura di Ingrid D. Rowland e Sinclair Bell. Si tratta di un’opera collettiva di grande respiro, che presenta più di venti saggi sull’argomento e a cui dedicherò un’attenzione particolare. Perché? Banalmente per il motivo che un Companion sul recepimento di Vitruvio non può che essere, informalmente, una storia della letteratura artistica in ambito architettonico dagli antichi romani al neoclassicismo. Naturalmente molti elementi sfuggono all’analisi, ma è innegabile che le cose fondamentali ci siano, in uno sforzo di sintesi e chiarezza che merita ogni elogio.

Nel De architectura Vitruvio scrisse di non essere attaccato al denaro e di aspirare, invece, a consegnare il suo nome alla storia tramite la sua opera. Mai, tuttavia, avrebbe potuto pensare che il suo nome divenisse sinonimo di ‘architetto’ per eccellenza; che un numero infinito di operatori del settore, si definisse o fosse definito da altri ‘novello Vitruvio’. Storicamente, tuttavia, Vitruvio e il suo trattato sono stati considerati, utilizzati, studiati con approcci diversi. Di fronte a una situazione di questo genere, si sentiva, oggettivamente, la necessità di un’opera che provasse a fare il punto della situazione, al netto di tutto ciò che già era stato pubblicato (si pensi, a puro titolo di esempio al famosissimo Pier Nicola Pagliara, Vitruvio da testo a canone). Qui di seguito trascrivo l’indice, Proprio nella scansione del volume in cinque parti (trasmissione, traduzione, recepimento, pratica, argomenti vitruviani) si può forse rilevare uno dei pochi aspetti meno riusciti del volume, con l’evidente difficoltà a far rientrare nelle sezioni alcuni contributi. Forse sarebbe bastato avere il coraggio di non operarne alcuna. A seguire il commento alla maggior parte dei contributi.


Part I - Transmission

  • Ingrid Rowland, Vitruvius from Manuscript to Print.


Parte II - Translation

  • Francesco P. Di Teodoro, Raphael and Fabio Calvo;
  • Alessandro Rovetta e Jessica Gritti, On the Vitruvius of Cesare Cesariano;
  • Paul Davies e David Hemsoll,  Who Was Vitruvius? a Renaissance Debate.

 

Parte III – Reception

  • Wim Verbaal, The Medieval Vitruvius;
  • Martin McLaughlin, Alberti and Vitruvius: Reception and Rejection of the Model in De re aedificatoria;
  • Paul Davies e David Hemsoll, Verona and Vitruvius;
  • Ann C. Huppert, Vitruvius in Bramante’s Rome: Recovery, Interpretation, and Use of the Ancient Text;
  • Daniel E. Harris-Mc Coy, Vitruvius’ Educational Program in Antiquity and the Renaissance;
  • Bernd Kulawik, Sangallo, Tolomei, and the Program of the Accademia de lo Studio de l’Architettura on Vitruvius and Ancient Architecture;
  • Susan Klaiber, Vitruvius and Guarino Guarini;
  • Victor Deupi, Hermosura and Belleza in Sixteenth-Century Spanish Editions of Vitruvius;
  • Vaughan Hart, Making Vitruvius Speak English: Vitruvius and English Architecture up to Vitruvius Britannicus;
  • Werner Oechslin, Vitruvius in the German-Speaking World.

 

Part IV – Practice

  • Rabun Taylor, Archaelogical Perspectives on Vitruvius;
  • Lynne C. Lancaster, Vitruvius and Ancient Construction Method;
  • Michel Paoli, How the opus francigenum Became the “Gothic” Style;
  • David Karmon, Vitruvius and the Early Modern Worksite;
  • Francesco Marcorin, Vitruvius and the Sangallos;
  • Francesco Marcorin, Vitruvius and Palladio;
  • Thomas Noble Howe, Vitruvius and the Quarrel of the Ancients and Moderns.

 

Part V – Vitruvian Topics

Robert Godman, Echeia;
Thomas Noble Howe, Scamilli Impares;
Giovanni Di Pasquale, Vitruvius’ Science of Machines: Tradition or Innovation?
Antonio Becchi, Vitruvius’s Historiae and the Love of Learning;
Francesca Fiorani, The Invention of the Vitruvian Man: Vitruvius, Leonardo da Vinci and Beyond.

 



Ingrid Rowland
Vitruvius from Manuscript to Print

A Ingrid Rowland tocca uno dei compiti più difficili: delineare la trasformazione dell’opera di Vitruvio nell’arco di più di millecinquecento anni. Cercherò di riassumere i punti principali. L’opera, in origine, fu scritta su rotoli di papiro (uno per ognuno dei dieci libri) o su codici formati da tabulae con superficie incavata in cera. Quando si parla della sua pubblicazione, ovviamente, lo si fa in termini ben diversi da quelli legati ai secoli successivi alla stampa; ‘pubblicare’ voleva dire semplicemente ‘rendere pubblico’, ossia diffondere in diversi esemplari. Il trattato, notoriamente, è dedicato a Ottaviano Augusto, ed è probabile che proprio Ottaviano ne abbia sostenuto i costi, certo non indifferenti. Esiste la possibilità, tuttavia, che un qualche ruolo sia stato giocato dalla sorella Ottavia, personaggio di grande risalto nell’ambito della vita pubblica romana di quegli anni (ed esplicitamente ricordata da Vitruvio con riconoscenza nella sua opera). Il cambiamento del supporto su cui era scritto il trattato risale alla tarda antichità, quando i papiri furono sostituiti dai codici pergamenacei (o in carta). Il primo testimone a noi giunto del De architectura risale all’800 circa, si trova alla British Library e risente già della riforma scritturale carolingia, un fatto per cui non finiremo mai di ringraziare Alcuino di York e Carlo Magno. Ci sfugge completamente tutto ciò che precede il manoscritto, ma dai testimoni che ci sono giunti possiamo dire con una certa tranquillità che essi derivano da almeno cinque tradizioni testuali differenti. È ormai una consapevolezza acquisita che la ‘riscoperta’ carolingia di Vitruvio non sia stata legata alla volontà di recuperare gli stili architettonici dell’impero romano (forse c’era, ma non ebbe sbocchi) quanto piuttosto al revival del latino come koiné, all’utilizzo di singole informazioni pratiche (materiali da costruzione, sistema di irregimentazione delle acque, macchine, realizzazione di meridiane) e, soprattutto, a una più ampia riflessione, contenuta nel primo Libro del trattato, sulla formazione culturale dell’architetto. Con Poggio Bracciolini, a lungo considerato il riscopritore del trattato nel 1416, si ha poi il passaggio dell’opera dalle comunità monastiche nel vivo della nascente riflessione umanistica, che ne riconobbe anch’essa, innanzi tutto,  una pietra miliare nell’istruzione moderna ai tempi dei cosiddetti studia humanitatis. Da lì alla presa in considerazione del trattato anche per la sua specifica valenza architettonica bisognerà attendere Leon Battista Alberti. Lo studio del De architectura nel corso dei decenni centrali del XV secolo è caratterizzato da un approccio critico che lo stesso Leon Battista rende esplicito nel suo De re aedificatoria. La prima edizione a stampa risale al 1486 o al 1487, ad opera di Giovanni Sulpicio da Veroli, ed è un portato dell’insegnamento di Pomponio Leto nello Studium Urbis romano, in cui lo studio delle rovine è abbinato a quello dei testi letterari. La princeps è dedicata al cardinal Raffaele Riario che, con ogni probabilità, sostenne le spese della pubblicazione. In questa prima edizione sono lasciati ampi spazi bianchi per annotazioni e perché ogni lettore potesse aggiungere le proprie illustrazioni alle undici originarie, andate perse nel corso dei secoli. Dopo un paio di riedizioni fiorentine si segnala l’edizione veneziana del 1511 a cura di Fra Giocondo (all’epoca già quasi ottantenne), questa volta dedicata a papa Giulio II e probabilmente finanziata dal banchiere senese Agostino Chigi. Siamo di fronte alla prima versione illustrata, non solo con le undici illustrazioni mancanti, ma con ben 136 xilografie che, da quel momento in poi, trasformano e influenzano l’opera in termini iconografici. Una cosa è certa – sottolinea l’autrice: «il modo in cui si legge Vitruvio dipende in maniera significativa dalle forme mentali del lettore. Vitruvio proveniva da una società in cui le donne potevano ricoprire incarichi sacerdotali, mentre tutti i suoi lettori successivi, cristiani, ebrei o islamici, davano per scontato che il sacerdozio fosse riservato agli uomini. Molti aspetti del bilanciamento di tipo familiare che Vitruvio osserva tra i genera – le famiglie – dell’architettura (dorico, ionico, corinzio) cedettero il passo a una reinterpretazione rinascimentale delle famiglie architettoniche come serie di ordini, un termine con connotazioni molto più astratte e assolute rispetto alle affinità affettive naturalmente implicite nell’ambito di una famiglia, con un evidente alterazione nel bilanciamento tra uomini e donne»

 

Francesco P. Di Teodoro,
Raphael and Fabio Calvo

La traduzione del ravennate Fabio Calvo al De architectura di Vitruvio è conservata manoscritta  in due codici oggi a Monaco, in versioni fra loro non identiche e in cui la seconda è considerata essere basata sulla prima. Mentre la prima versione (Cod. It. 37) è completa, la seconda arriva solo al primo capitolo del quinto Libro vitruviano. La formula conclusiva del primo codice non lascia dubbi e reca la dicitura: «Fine del libro di Victru[v]io  architecto tradocto di latino i(n) lingua et sermone proprio et volgare da M(e)s(er) Fabio Calvo ravenatem i(n) Roma, i(n) casa di Raphaello […] et a sua i(n)stantia» (p. 37). Esiste già un’edizione a stampa dei due manoscritti, curata da Vincenzo Fontana e Paolo Morachiello nel 1975 [1], nei cui confronti l’autore, che sta curando l’edizione critica dell’opera, è, sinceramente, un po’ troppo ingeneroso. Non sembra che la calligrafia di chi stese il testo sia quella di Fabio Calvo; oggi si propende per quella di Angelo Colocci, segretario di papa Leone X e tesoriere della curia pontificia. In tutta evidenza, la traduzione, condotta sull’edizione del 1511 di Fra Giocondo, fu realizzata perché Raffaello, nell’ambito dei suoi interessi e della sua attività architettonica, non era in grado di leggere dal latino. I due esemplari testimoniano, da parte loro, il tipico metodo di lavoro di Raffaello, ossia la realizzazione di un’operazione collettiva, in maniera non molto diversa dall’organizzazione della sua bottega artistica. Così, e qui si fa riferimento soprattutto al primo codice, quello integrale, compaiono nel testo numerose annotazioni, di natura diversa, che testimoniano certamente un dibattito in merito ad alcuni dei punti più oscuri dell’opera. Le annotazioni, inoltre, «danno conto dell’approccio al compito intrapreso, basato sulla pluralità delle fonti consultate (seguendo una sorta di censimento e di collazione dei codici originali, sia pur in numero limitato)» (p. 49). Nell’esemplare in questione Di Teodoro ha individuato trentatré annotazioni che ritiene originali di Raffaello e che testimoniano l’attenzione con cui l’artista lesse la traduzione di Fabio Calvo, a volte evidenziando le parti ritenute più importanti, a volte correggendo anche semplici refusi, a volte, ancora, aggiungendo ulteriori chiarimenti mutuati dalla sua esperienza di architetto. In tutta sincerità, mi sembra argomento più debole quello che Di Teodoro sostiene a p. 50: «Non solo le note autografe possono essere ricondotte a Raffaello, ma è mia convinzione che alcuni commenti e alcune correzioni tecniche, sia pur vergate dallo scriba, debbano essere ascritte al maestro». Per quanto ci si sforzi a fare un esempio, oserei dire che si tratta di un’ipotesi indimostrabile e che mal si concilia con la lavorazione dell’opera: si è detto che in qualche modo si tratta di una realizzazione frutta di un lavoro collettivo ed è evidente che, nella maggior parte dei casi, le note rappresentano idee condivise, senza che per questo si debba supporre un’egemonia raffaellesca. 

 

Alessandro Rovetta e Jessica Gritti,
On the Vitruvius of Cesare Cesariano

Il saggio firmato da Rovetta e Gritti è così denso che, da solo, potrebbe dar vita a un libro [2]. Le travagliate vicende che portarono alla pubblicazione, nel 1521, della prima traduzione italiana del De architectura vitruviano sono note. L’opera uscì il 5 luglio 1521 a Como, per i tipi di Gottardo da Ponte. La prima cosa che non si può fare a meno di notare è che il nome del Cesariano compare soltanto dopo sette fogli non numerati, utilizzati per dediche, privilegi, e prefazioni. All’epoca i rapporti fra il Cesariano ed il comitato editoriale che si era fatto carico di portare a termine la pubblicazione (Agostino Gallo ed il nobile milanese Alvisio Pirovano, con l’aiuto di Benedetto Giovio e del bergamasco Bono Mauro) si erano definitivamente deteriorati. Non conosciamo con esattezza i motivi del contendere; probabilmente le pressioni degli editori si scontravano con gli eccessivi ritardi nelle consegne del Cesariano. Fatto sta che ad un certo punto Cesariano decise di sospendere il lavoro e di rivalersi nei confronti degli editori, intentando una causa nei confronti degli stessi, causa che avrebbe poi avuto un esito favorevole, ma solo nel 1523, ed il cui dispositivo sarebbe stato effettivamente applicato solo dopo otto anni. E tuttavia gli ex soci erano riusciti a farsi consegnare dal Cesariano l’intero materiale preparatorio, a parte gli ultimi capitoli del Libro IX e tutto il X. Gli editori, comunque, non si fecero troppi scrupoli: consegnarono il materiale a Benedetto Giovio e Bono Mauro e fecero stilare loro le parti mancanti e andarono in stampa, citando Cesariano il meno possibile e attribuendo i meriti dell’impresa a Giovio e Mauro, allo stesso Pirovano e a un’équipe di generici pittori. E furono dunque Giovio e Mauro a risultare gli autori di tali parti nell’edizione comasca del 1521. Solo di recente la parte finale dell’opera, di pugno di Cesariano, è stata ritrovata a Madrid ed è stata trascritta integralmente a cura di Barbara Agosti, dandoci modo di cogliere le differenze fra la versione di Cesariano e quella allestita da Giovio e Mauro. [3] Al di là delle vicende editoriali Rovetta e Gritti inquadrano la figura di Cesare Cesariano, pittore e uomo di cultura (e non architetto, per quanto ne sappiamo) operante fra Milano, Ferrara, Reggio Emilia e Piacenza all’interno di un humus che, impropriamente, definisco qui padano e che a Milano affonda le sue radici nel primo periodo bramantesco, se non addirittura nel trattato di architettura di Filarete. Appare chiaramente, insomma, che non ci troviamo di fronte a un fenomeno eccezionale e isolato, ma a un esito quasi logico, inevitabile, di anni e anni di interesse nei confronti dell’opera vitruviana. La traduzione di Cesariano è condotta anch’essa, come quella contemporanea, ma indipendente, di Fabio Calvo, sull’edizione di Fra Giocondo e presenta un ricco commentario che è il primo edito in proposito. Probabilmente non si tratta di una novità assoluta, se lo stesso Cesariano cita le affermazioni del piacentino (ma residente a Venezia) Giorgio Valla che, nel 1492, si vanta di avere prodotto un apparato iconografico di natura matematica volto a chiarire l’opera e afferma che anche il novarese Bernardino Merula aveva cercato di scrivere un commentario sul De architectura. Da non dimenticare, poi, che Cesariano fu a Ferrara e che proprio nella città estense, a cavallo fra Quattro e Cinquecento era stato approntato un codice (il cosiddetto Vitruvio ferrarese) la cui trascrizione è attribuita (ma la circostanza è incerta) a Pellegrino Prisciani e che presenta, per quanto ne sappiamo, il primo apparato iconografico relativo all’opera. Quel manoscritto, a sua volta, pare risentire dell’influsso degli studi del già citato Giorgio Valla [4].

La traduzione di Cesariano, al contrario di quella di Fabio Calvo, che però ricordo non essere mai stata pubblicata in epoca cinquecentesca, è letterale, dimostrandosi ostica, ma trovando proprio nel commentario un utile strumento di decodifica, un legame fra passato e presente nel cui ambito trova spazio anche una breve autobiografia dell’autore. Di particolare rilevanza l’apparato iconografico dell'opera, in cui Cesariano mostra di essere più pittore che architetto, e che fa ricorso a modelli locali come il duomo di Milano, per spiegare cosa siano l’ichnographia, l’orthographia e la scaenographia. Non è chiaro se Cesariano sia mai stato a Roma; forse sì, ma lo stesso apparato iconografico mostra come egli persegua una via alternativa, rispetto allo studio delle rovine romane, per la comprensione dell’opera.


Paul Davies e David Hemsoll
Who Was Vitruvius? a Renaissance Debate.

All’inizio di questo scritto ho parlato di qualche debolezza nella scansione dell’opera; è evidente, ad esempio, che il saggio di Davies e Hemsoll, di per sé interessantissimo, rientri nella sezione dedicata alle traduzioni solo in maniera molto lasca e un po’ forzata. Il tema che i due autori affrontano è quello del nome di Vitruvio. Oggi si dà per scontato che si chiamasse Marco Vitruvio Pollione, ma così scontato, in realtà, non è. Partiamo dai dati di fatto: sul trattato possiamo leggere solo ‘Vitruvio’. Nel corso di buona parte del Quattrocento la maggior parte degli interpreti ha ritenuto che il nome completo fosse ‘Lucio Vitruvio Cerdo’ sulla base dell’iscrizione «L. VITRVVIVS. L.L. CERDO ARCHITECTVS’  che ancora oggi si può leggere sull’Arco dei Gavi di Verona. Da qui la credenza che si fosse davanti all’autore del De architectura, che egli fosse veronese e che addirittura fosse stato autore anche dell’Arena cittadina, come scrive Ciriaco d’Ancona nei suoi diari in un’occasione di una visita alla città del 1433. Sono diversi i manoscritti quattrocenteschi giunti sino a noi in cui compare, appunto, la dicitura Lucio Vitruvio Cerdo. Seguendo questa ipotesi, nel 1492, ad esempio, sulla Loggia del Consiglio cittadino erano erette cinque statue di veronesi illustri, fra cui quella di Lucio Vitruvio Cerdo. Ampiamente accolta in ambito veneto (a Venezia, come a Mantova, dove nella Cappella Ovetari Mantegna dipinse un arco trionfale con la dicitura in questione), la denominazione di Vitruvio si scontrava, tuttavia, con quella di Faventino, autore di un’epitome del De architectura in cui dichiarava la sua gratitudine a «Vitruvius Pollio». Nella prima edizione a stampa del 1486 Giovanni Sulpicio adotta, in proposito, una forma sincretica e chiama l’autore «Lucio Vitruvius Pollio». Bisognerà attendere l’edizione giocondina del 1511 perché le cose cambino: Fra Giocondo parla, semplicemente, di «Marcus Vitruvius». Cosa lo spinse a farlo? Nel 1485 si diffuse nel regno di Napoli la notizia che a Gaeta era stata ritrovata la tomba di Marco Tullio Cicerone In realtà, da esami autoptici successivi, si capì che l’epigrafe recitava «M. Vitruvii» e si cominciò a pensare che si fosse davanti al sepolcro di Vitruvio, chiamato ‘Marco’ semplicemente per assonanza con ‘Marco Tullio Cicerone’. Giocondo fu a Napoli e sicuramente conobbe quell’iscrizione, che riportò in una sua raccolta del 1489. È molto probabile, peraltro, che nutrisse molti dubbi sull’identità fra Lucio Vitruvio Cerdo e l’autore del De architectura per via di quel ‘L.L’ che vi si trovava e che non poteva che significare, a sui avviso, ‘liberto di Lucio’. Non era possibile, a suo parere, che Vitruvio fosse uno schiavo liberato. Da qui la preferenza per Marco. Nonostante l’adozione di ‘Lucio Vitruvio Pollione’ nell’edizione Cesariano del 1521, le successive edizioni a stampa ripresero la soluzione giocondina, per via della sua affidabilità; contemporaneamente furono avanzati seri dubbi (da Sebastiano Serlio) che l’Arco dei Gavi potesse essere opera del Vitruvio ‘maggiore’, in quanto costruito in contrasto con quanto scritto nel De architectura. Il nome completo ‘Marco Vitruvio Pollione’ è, ancora una volta, un’operazione di sintesi fra il sepolcro di Gaeta e la testimonianza di Faventino che fu proposta per la prima volta da Guillaume Philandrier nelle sue Annotationes al De architectura del 1544 [5] e poi adottata definitivamente dall’edizione Barbaro- Palladio, fissando così, una volta per tutte, il nome completo di Vitruvio, nome che, lo si ripete ancora una volta, potrebbe essere sbagliato e che è frutto di una convenzione rinascimentale. 


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NOTE

[1] Vitruvio e Raffaello. Il De architectura di Vitruvio nella traduzione inedita di Fabio Calvo ravennate, Officina Edizioni, Roma, 1975.

[2] Del resto è recentissima la pubblicazione di Le Vitruvio de Cesare Cesariano (1521), a cura di Frédérique Lemerle, Yves Pauwels e Vasco Zara, Brepols, Turnhout, 2023.

[3] La traduzione di Cesariano è stata presentata in edizione moderna solo parzialmente. In particolare il primo volume è consultabile all’interno di Cesare Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, a cura di Maria Luisa Gatti Perer e Alessandro Rovetta, Milano, Vita e Pensiero, 1996; i libri dal II al IV sono stati pubblicati, a cura di Rovetta nel 2002: Cesare Cesariano, Vitruvio De Architectura Libri II-IV. I materiali, i templi, gli ordini, Milano, Vita e Pensiero, 2002. Il resto dell’opera non è stato pubblicato, a parte la trascrizione della parte finale del capitolo IX e di tutto il X: Cesare Cesariano, Volgarizzamento dei libri IX (capitoli 7 e 8) e X di Vitruvio, De Architectura, secondo il manoscritto 9/2790 Secciòn de Cortes della Real Academia de la Historia, Madrid, a cura di Barbara Agosti, Pisa, Scuola Normale Superiore di Pisa, 1996.

[4] Vitruvio Ferrarese. De Architectura. La prima versione illustrata, a cura di Vittorio Sgarbi, con una prefazione di Joseph Rykwert, Modena, Franco Cosimo Panini, 2004.

[5] Les Annotations de Guillaume Philandrier sur le De Architectura de Vitruve. Livres I à IV, a cura di Frédérique Lemerle, Pícard editeur, 2000.


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