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mercoledì 4 settembre 2024

The Codex of The Anonimo Magliabechiano

 

The Codex of The Anonimo Magliabechiano
Newly edited with a transcription faithful to the original manuscript and provided with an Introduction
A cura di Bouk Wiera, Lotte van ter Toolen e Henk Th. van Veen


Foreword, Introduction and notes to the transcription translated from the Dutch by Diane Webb

Leiden – Boston, Brill, 2024

Recensione di Giovanni Mazzaferro




La fortuna dell’Anonimo

L’Anonimo Magliabechiano è uno dei grandi misteri con cui la letteratura artistica si confronta da quando è stato riscoperto da Gaetano Milanesi attorno al 1870. Cominciamo innanzi tutto dal nome: non sappiamo chi ne fu l’autore;  per un certo periodo, ossia dopo il 1755, fu conservato nella celeberrima biblioteca di Antonio Magliabechi (1633-1714), poi confluita nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove è oggi conservato. Attenzione: Magliabechi non lo possedette mai: nel 1755 era già morto da quarant’anni e la sua biblioteca divenuta di proprietà del Granduca di Toscana. Furono i Medici, dunque, a comprare il codice (oggi segnato BNCF, Magl. XVII, 17) dalla famiglia Pitti a cui era giunto della biblioteca della famiglia Gaddi (tant’è che si parla anche di Anonimo Gaddiano). Fino a oggi sono state pubblicate tre edizioni del codice: la prima nel 1892 a opera di Carl Frey, la seconda nel 1893 per merito di Cornelius von Fabriczy (Frey e Fabriczy operarono l’uno all’insaputa dell’altro) e una terza, curata da Annamaria Ficarra nel 1968. Il numero ridotto di pubblicazioni non significa che l’Anonimo, come possibile fonte di Vasari e delle sue Vite, non sia stato oggetto di studi approfonditi. Spiccano, in merito, le pagine dedicate all’opera nei Vasaristudien di Wolfgang Kallab (1908) e quelle, ancora ottime, pubblicate da Schlosser nella sua Letteratura artistica. Ovviamente, nel corso degli anni l’argomento più discusso è stato quello della paternità dell’opera, di volta in volta attribuita ad autori diversi, da Vasari stesso a Giovanni Francesco Rustici, da Giovambattista Adriani a Miniato Pitti e Paolo Giovio. Nessuna di queste attribuzioni si è dimostrata convincente. Nel 2009 Bouk Wierda pubblicava sul n. 53/1 del 2009 di «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz» un articolo in cui sosteneva di aver identificato l’autore dell’opera e che si trattava del fiorentino, di origini patrizie, Bernardo Vecchietti (1514-1590). A quindici anni di distanza da quell’articolo, Wierda cura oggi, assieme a Lotte van ter Toolen e Henk Th. van Veen, la quarta edizione dell’opera, ribadendo che l’autore dell’Anonimo è, appunto, il Vecchietti. Non ho nessuna difficoltà a dire, che, personalmente, la tesi non mi convince e spiegherò il perché. Intanto, però, cerchiamo di conoscere meglio i contenuti del manoscritto.

 

Fra antico e moderno

In prima approssimazione, il manoscritto, composto di 128 fogli rilegati fra loro in epoca imprecisata, si divide in due parti: la prima contiene notizie sugli artefici antichi e la seconda su quelli moderni da Cimabue a Michelangelo. La datazione, secondo i curatori, risale agli anni fra 1540 e 1547 (pp. 24-26); nelle edizioni precedenti erano state proposte datazioni che oscillavano fra il 1534 e il 1548. Senza scendere in particolari, possiamo senz’altro accettare l’idea che sia stato vergato nel quinto decennio del XVI secolo. La prima cosa da tenere presente è che siamo di fronte a un work in progress; il manoscritto non è certamente pronto per la stampa, ammesso che l’opera fosse destinata alla pubblicazione, ma rispecchia uno stato di lavorazione ‘intermedio’ in cui l’autore appunta spostamenti da operare nell’ordine degli artefici, si segna nomi di artisti lasciando ampi spazi bianchi destinati ad accogliere le relative biografie, scrive a margine correzioni da operare e approfondimenti da intraprendere (do per scontato, quindi - circostanza non condivisa in tutte e tre le edizioni precedenti - che l’autore del manoscritto sia anche chi scrive le postille a margine), Possiamo leggere, così, notazioni marginali del tipo «Levare tutte tali fagiolate, vere, ma dirle con brevità e allargharci in altre istorie non dette per li altri» (p. 147) – con riferimento ad alcuni aneddoti relativi a Buonamico Buffalmacco -, «Vedere l’originale» (p. 195), «Dire meglio et vedere che cose è» (p. 211), «Metterlo dopo Masaccio e Masolino» (p. 212), «Domandarne Giorgio [n.d.r. Vasari] o Jacopo da Pontormo» (p. 239). Oltre a rendere conto della provvisorietà della situazione, a mio avviso, ma mi pare anche dei curatori, tali notazioni esprimono l’intenzione di giungere a una ‘pubblicazione’: è da capire se a stampa o se a una versione manoscritta da distribuire ad amici e/o a committenti. In realtà, peraltro, il codice mantiene una sua coerenza strutturale fino alla biografia di Andrea del Sarto. Successivamente cominciano a comparire doppie o triple versioni di uno stesso artista, fogli sparsi, appunti di lavoro rilegati, comunque, insieme all’opera vera e propria. Da notare, inoltre, la presenza di alcuni fogli, di dimensioni diverse e più piccole rispetto all’originale, che presentano una rassegna di opere d’arte viste a Roma; fortunatamente, in questo caso, abbiamo anche una data, quella dell’ottobre 1544 («ridotto nella forma che si trova hoggi d’ottobre 1544»), seguita, tre righe dopo, dall’indicazione che Antonio da Sangallo «morì nel 1546 a Aquapendente» (p. 257). Anche qui, do per acquisito che la calligrafia delle note su Roma sia lo stessa di quella sulle notizie sugli artefici antichi e moderni. Diversa, invece – e i curatori lo dicono subito – è la mano di un altro resoconto romano (probabilmente quella di un pellegrino) datato 14 marzo 1543; si tratta, chiaramente, di materiale collazionato come fonte documentaria e poi legato all’opera vera e propria.

Di tutto il manoscritto, meritoriamente, Wierda, Van ter Toolen e Van Veen forniscono un’edizione diplomatica, puntando a rendere con la massima fedeltà l’aspetto del codice e, astenendosi, ad esempio dallo spostare voci relative a singoli artisti come era intenzione dell’autore, a giudicare dalle sue annotazioni laterali. Nella parte bassa di ogni pagina sono presentate note che segnalano le interpretazioni o le diverse letture fornite da Frey, Fabriczy e Ficarra, oltre a quelle degli attuali curatori. Seguono le appendici, fra cui si segnala in particolare quella dedicata alla individuazione delle opere citate nel manoscritto. Di scarsa utilità, a mio avviso, - alla luce anche di quanto dirò più avanti – le 62 tavole a colori che propongono immagini di alcune di queste opere: perché quelle e non altre? Che cosa aggiunge la loro presenza alla comprensione dell’opera? Come sappiamo bene, anche l’occhio vuole la sua parte e probabilmente si è pensato che non si poteva rinunciare a mostrare al lettore qualche bella figura.

 

Le fonti

Si è detto delle due parti di cui si compone l’opera: quella dedicata agli artefici antichi è fortemente debitrice della Naturalis historia di Plinio, che, all’epoca, era già disponibile in italiano grazie alla traduzione operata da Cristoforo Landino (1476, con riedizioni nel 1481 e nel 1534). L’Anonimo cita anche i Chronici Canones di Eusebio di Cesarea, risalenti al III secolo d.C.; opera di inquadramento storico che era stata stampata modernamente a Venezia nel 1475 e più volte riedita successivamente. Sempre del Landino, l’autore non mancò di consultare il proemio al suo commentario alla Divina Commedia, in cui compariva una sezione concisa, ma chiara, sull’arte nell’antichità. Ma, come detto, la parte del leone la fa Plinio, anche se si assiste a una complessiva ridistribuzione del materiale. Come noto, l’autore romano aveva proposto varie ‘storie’ di artefici fra loro parallele e quasi non intersecantisi; prima i pittori, poi gli statuari, poi gli scultori e così via. L’Anonimo cerca, invece, di proporre una cronologia e, dunque un intreccio, che siano unici e presentino lo sviluppo complessivo delle arti nell’antichità. Il risultato forse non è brillantissimo, ma s’apprezza lo sforzo di chiarezza e anche una certa ‘autonomia nella fedeltà alla fonte’, ovvero la capacità di rielaborare in senso narrativo un testo organizzato in origine diversamente. È appena evidente che le pagine dedicate all’arte antica vanno inserite in un contesto di enorme interesse per i manufatti romani e greci che, ormai da due secoli – se si pensa a Petrarca – attraversa trasversalmente le corti, i governi, i circoli umanistici degli stati italiani. Non si può, a tal proposito, non richiamare il primo dei tre Commentari di Lorenzo Ghiberti, scritto grosso modo a metà Quattrocento e anch’esso rifacentesi a Plinio (ma anche a Vitruvio).

Ai Commentari di Ghiberti è bene fare riferimento anche per la seconda parte dell’opera dell’Anonimo. Qui, esattamente come nel caso del secondo Commentario dello scultore fiorentino, l’oggetto della trattazione sono gli artisti moderni. Ed è certo, non tanto perché sia citato, ma perché i calchi sono evidenti, che l’Anonimo abbia avuto il secondo Commentario ghibertiano come fonte, a volte sintetizzando (come nell’autobiografia dell’artista), a volte scartando (come nel caso dei giudizi artisticamente di merito proposti da Lorenzo), a volte integrando. Il caso più famoso è quello del Maestro di Colonia, descritto da Ghiberti e a cui l’Anonimo attribuisce un nome, Gusmin, che, a oggi, non ci dice nulla e che non sappiamo come sia stato ‘inventato’ o, più probabilmente, ‘recuperato’ dall’autore da qualche fonte o dalla tradizione orale. La questione delle fonti della sezione moderna è, comunque, di gran lunga la più complicata. Innanzi tutto, con riferimento a Ghiberti, c’è chi ha scritto che consultò una versione dei Commentari diversa rispetto all’unico esemplare che è giunto sino a noi (qui l’Anonimo potrebbe aver trovato il nome Gusmin). Il problema, in realtà, è a monte e ha a che fare con le diverse posizioni proprio sul codice ghibertiano: Lorenzo Bartoli, ad esempio, che ne ha curato tempo fa l’edizione critica, oggi è propenso a pensare che ci sia giunto l’originale scritto (o dettato a uno scriba) da Ghiberti. È chiaro che stabilire il debito dell’Anonimo rispetto a Ghiberti vuol dire sbilanciarsi anche su questo punto.

Analogo discorso vale per il cosiddetto Libro di Antonio Billi, più volte richiamato nelle note a margine a riscontro del testo. Anche in questo caso siamo di fronte a un testo anonimo, dalla natura spiccata di ‘zibaldone’ o ‘selva di notizie’ che dir si voglia; per meglio dire: sappiamo chi fu Antonio Billi, mercante fiorentino di famiglia facoltosa; è più probabile che Billi fosse il proprietario dell’opera piuttosto che colui che la scrisse. Certamente siamo di fronte a un testo cronologicamente precedente (collocabile fra i primi del Cinquecento e il 1530), di natura meno letteraria e più frammentaria rispetto all’Anonimo Magliabechiano, almeno per quanto ne sappiamo. Ce ne sono giunti due esemplari, entrambi incompleti (il Codice Strozziano e il Codice Petrei) e sono stati identificati come testimoni dell’opera proprio grazie alle annotazioni dell’Anonimo Magliabechiano che, con ogni verosimiglianza, ebbe modo di vedere l’originale o, comunque, una copia più completa. Già questo aspetto crea un problema: se l’Anonimo vide pagine che non ci sono arrivate, noi non possiamo sapere cosa, del suo testo, è trascrizione e cosa è apporto personale. Qui siamo veramente di fronte al nocciolo del problema, in una rete intricatissima che è, a mio avviso, impossibile dipanare se non dando una lettura orientata, e quindi non oggettiva, dei testi. Cercherò di essere essenziale. Appare possibile, e forse anche probabile, che Girolamo da Gavina, pittore fiorentino, che ebbe consuetudine con Leonardo e con la cerchia michelangiolesca possa aver fornito informazioni all’Anonimo; appare possibile perché, in un supplemento alle righe su Leonardo fu lo stesso Anonimo a scrivere «Dal Gav» (p. 300); e perché in quel supplemento compaiono proprio aneddoti sul rapporto, non idilliaco, fra Leonardo e Michelangelo (aneddoti poco noti, non le ‘fagiolate’ su Buffalmacco su cui l’Anonimo vuole sorvolare). Allo stesso modo, quando si legge nelle postille che è sua intenzione chiedere a Vasari, a Pontormo o che conosce il Bandinelli è del tutto legittimo ritenere che parte delle sue informazioni possa giungere oralmente da costoro. Ma molto oltre, a mio giudizio, non si può andare.

Resta la questione inversa: l’Anonimo Magliabechiano fu una fonte per Vasari? È molto probabile che Vasari conoscesse il progetto dell’Anonimo ed è possibile che si siano scambiati delle informazioni. Del resto, come risulta dalle postille, i due si conoscevano. Ciò detto, e al netto di singole voci discordanti (ad esempio Lorenzo Bartoli) l’Anonimo, scrivendo più o meno nello stesso periodo, non fu fonte per Giorgio, così come non lo furono altre opere come le Vite di Giovan Battista Gelli, di cui mi limito a segnalare il titolo. Lo faccio perché secondo Wolfgang Kallab (e siamo quindi a inizio Novecento) sia l’Anonimo Magliabechiano sia Vasari sia le Vite di Gelli dipendono da un’unica fonte, simile ma più estesa rispetto al Libro di Antonio Billi. Si tratta di un’ipotesi che si regge sul confronto filologico fra i testi, ma che non può essere confermata, dal momento che questo archetipo (chiamato convenzionalmente Fonte K) non è mai stato trovato.

 

L’attribuzione a Bernardo Vecchietti

Tendenzialmente, scrivono i curatori, l’impostazione di ogni voce dedicata agli artefici moderni nel codice magliabechiano ha una sua struttura biografica, con l’indicazione del maestro dell’artista in esame, la presenza iniziale di uno o più aneddoti, un elenco di opere realizzate, prima fiorentine e poi fuori Firenze e, nel caso, un elenco di discepoli. L’Anonimo si differenzia, quindi, rispetto a Ghiberti, che rinuncia agli aneddoti ed esprime giudizi critici. Gli artisti presi in considerazione sono tutti fiorentini, senesi, pisani, a parte il caso di Gusmin, di derivazione ghibertiana. Più o meno tutti coloro che storicamente hanno avuto a che fare con l’opera dicono che l’autore ebbe capacità letterarie, che riconoscono in maniera più o meno evidente, mentre quelle artistiche furono più ridotte. Sulla misura di tale riduzione le valutazioni sono diverse e dipendono, di fatto, da come si considerano le affermazioni presenti nel codice e non riscontrate da fonti a noi note: se, cioè, come abbiamo visto, si ritiene che siano valutazioni tratte da altre fonti o se si tratti di apporti personali. In questo senso la più severa è stata Annamaria Ficarra, per la quale l’Anonimo è, di fatto, un mero compilatore. Meno severi i curatori della presente edizione, per i quali l’Autore fornisce informazioni che dimostrano conoscenze di base non disprezzabili.

Ma a questo punto non si può continuare se non affrontando la questione dell’attribuzione che, come detto, già nel 2009 Wierda aveva indicato in Bernardo Vecchietti. A spingerla in tal senso sono vari fattori: a) la calligrafia del manoscritto, molto simile (si parla di «considerable similarities» - p. 39) a quella che lo stesso Vecchietti mostra in alcune sue lettere autografe al Duca Cosimo; b) l’appartenenza di Vecchietti al patriziato fiorentino e la sua vicinanza ai Medici, in particolare, negli anni Quaranta, a Ottaviano Medici (patrono anche di Vasari), di cui era parente acquisito; questo aspetto spiegherebbe la presenza di informazioni nel codice che dimostrano una buona conoscenza delle proprietà medicee;  c) le sue conoscenze in ambito artistico, con una preferenza per le arti suntuarie, e il fatto che, in anni ben più avanzati, Vecchietti fu patrono di artisti come il Giambologna; d) la consuetudine con luoghi, come Santa Maria Novella, e artisti (Vasari, Pontormo, Bandinelli) che sono richiamati più volte nel codice; e) la sua attività collezionistica; f) il fatto stesso che nel 1584, ne Il Riposo di Raffaello Borghini, ambientato nell’omonima villa di proprietà proprio di Vecchietti, quest’ultimo sia tratteggiato, appunto, come letterato ed erudito non particolarmente ferrato riguardo aspetti artistici; g) la constatazione che, fra il materiale citato nel codice e non presente nelle fonti a noi note vi siano indicazioni che dimostrano la conoscenza e la loro visione diretta da parte di Bernardo.

Cominciamo da quest’ultimo punto, che, francamente, appare poco consistente. Sono citati alcuni esempi: Palazzo Dei: Andrea del Sarto «dipinse, quando era giovane, il palazzo de’ Dei in sulla piazza di santo Spirito». Non capisco come si possa dire che la breve frase dimostri l’osservazione diretta delle opere; a dire il vero non capisco nemmeno di quali opere si parli; se si allude al palazzo, qualsiasi fiorentino che passava per strada poteva vederlo; se ai dipinti di Andrea nessuno di essi è citato e, semmai, ci sarebbe da chiedersi perché, avendoli visti, l’Anonimo non l’abbia fatto. È vero (altro esempio) che le collocazioni delle opere pubbliche sono indicate (in genere) correttamente, ma non credo – ancora una volta – che tale circostanza possa essere assunta come prova della paternità di Bernardo: nel Libro di Antonio Billi, ad esempio, si legge che il Crocifisso di Donatello a Santa Croce si trovava più o meno a metà della navata, mentre nel Magliabechiano si specifica che era più o meno a metà, «vicino alla porta che dà al cimitero, lateralmente». (pp 32-33). Lo sapeva solo Vecchietti o chiunque entrasse in Santa Croce? Un altro caso assunto apoditticamente come prova della ‘connoisseurship’ di Vecchietti; nella Certosa del Galluzzo, «di mano di Mariotto, dipintore fiorentino, nella cappella dove è la sepoltura di monsignor Buonafè di mano di maestro Francesco da Sangallo, scultore et archietetto, un crucifisso dipinto […] nella tavola di detta cappella, di mano di detto Mariotto». Ancora una volta, un’opera che potevano vedere tutti e che tuttavia non è una tavola, ma un affresco (e dell’errore si accorgono gli stessi curatori, non traendone però le dovute conseguenze – cfr. p. 32 n. 148). Per consolidare una tesi che appare oggettivamente debole si passa allora a considerare le poche pagine dedicate a Roma, dove, effettivamente le informazioni sono molto più precise e attendibili. Si segnala peraltro l’importanza della testimonianza; a parte l’Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae di Francesco Albertini siamo di fronte a una delle primissime guide dedicate esclusivamente alla città ‘moderna’. Il problema è che la guida è troppo perfetta per essere il risultato di un taccuino di viaggio: un taccuino di viaggio non illustra la storia di San Pietro dicendo che prima vi aveva lavorato Bramante, poi Fra Giocondo e Raffaello con Antonio da Sangallo, poi ancora Antonio con Baldassarre Peruzzi. Si considera la presenza di Bramante e Raffaello nel resoconto come volontà di Vecchietti di aprire la sua indagine sugli artisti anche a non fiorentini, ma non si tiene conto di un fatto semplicissimo: perché non lo fece nel codice fiorentino? Perché nel Magliabechiano non ci sono Raffaello e molti altri ancora? La realtà è un’altra: quel resoconto di viaggio non è un taccuino, ma un testo scritto a Roma da un romano e distribuito a visitatori altolocati della città. Ne conosciamo testimonianze analoghe sin dai tempi di Carlo Magno. Che poi la calligrafia sia dell’Anonimo (fatto da dimostrare) non toglie nulla alla validità del discorso: semplicemente l’Anonimo lo trascrisse nel suo codice.

Vecchietti, nato nel 1514, tenendo conto della datazione del codice fornita dai curatori (1540-1547), avrebbe scritto l’opera fra i 26 e i 33 anni. Troppo presto? Sinceramente non mi pare; mi sembra tuttavia sbagliato cercare di dimostrare che ne fu il redattore sulla base di quello che fece negli anni Settanta e Ottanta, come, purtroppo, leggiamo nel libro. Le persone, nell’arco di trent’anni, cambiano e la consuetudine coi Medici – questa sì, documentata anche da giovane – non aggiunge niente alla dimostrazione dell’autografia del codice. Men che meno si può usare come argomentazione a favore dell’attribuzione la figura letteraria di Vecchietti come proposta nel 1584 dal Borghini nel Riposo (i curatori se ne rendono conto e invitano a essere cauti sul punto). Ci sono poi situazioni, a dire il vero, a limite del paradosso, come quando si sostiene che Vecchietti avrebbe scritto dell’attività di Andrea del Sarto come pittore di impiccati (p. 32) ricordandosi spontaneamente di aver visto in piazza della Condotta le effigi di Cecchino Orsini e di un altro personaggio di cui gli sfugge il nome. L’episodio dell’ ‘impiccagione virtuale’, molto comune a Firenze, risale al 1529 e gli affreschi furono cancellati l’anno dopo, motivo per cui Bernardo non avrebbe più potuto verificare l’identità del secondo condannato in contumacia: ma fra 1529 e 1530 Vecchietti aveva 15-16 anni! Davvero di tutta la sua adolescenza ricordò solo questo episodio o forse non è più facile pensare che l’abbia desunto da una fonte o sentito dire da qualcun altro?

Le interpretazioni orientate tutte alla lettura di dati in senso univoco sono particolarmente pericolose; mi sembra che sia proprio ciò a cui siamo di fronte in questo libro. Eppure, un metodo per sostanziare l’attribuzione a Vecchietti c’era: presentare uno studio rigoroso sulla calligrafia del codice rispetto a quella delle lettere. Quindi, esame di specialisti e responso finale. E qui c’è un fatto curioso: nel suo saggio del 2009 Wierda questo confronto, in sintesi estrema, comincia a farlo, pubblicando alcune foto al riguardo. Qui no. Qui le foto sono riferite a 62 dipinti che nulla aggiungono alla tesi della paternità di Vecchietti. Perché? Francamente non lo so. Sorge spontaneo, tuttavia, pensare che la coincidenza fra le due calligrafie, nell’arco di quindici anni, non abbia dato riscontri certi.

 

Un infortunio grave

Poi ci sono gli infortuni, francamente inspiegabili. A p. 35, parlando delle varie ipotesi avanzate storicamente nei confronti della paternità del codice, i curatori citano il nome di Giovambattista Adriani, avanzato da Gaetano Milanesi e di recente riproposto da Eliana Carrara (nota 163). Correttamente segnalano la fonte dello scritto di quest’ultima: Pliny and the Art of the Ancients and the Moderns. Reading Naturalis Historia (Books xxxiv-xxxvi) in Florence in the Sixteenth Century (from the Anonimo Magliabechiano to Vasari’s Lives in De l’autorité à la référence, a cura di I. Diu e R. Mouren, Paris, pp. 115-128. Il nome di Eliana Carrara è pesante; per acribia, preparazione, cultura la considero una delle tre maggiori esperte di Vasari e Cinquecento fiorentino nel mondo e quindi, preso da curiosità, vado a leggere l’articolo. Il saggio, naturalmente, parla soprattutto di Plinio e ricorda, fra gli altri, come esempio di recepimento della Naturalis historia, l’Anonimo Magliabechiano e, separatamente, Giovambattista Adriani, autore della celebre Lettera pubblicata nella seconda edizione delle Vite vasariane. In merito all’Anonimo si legge: «One might ask who the author of the manuscript was: I have no answer» (p. 118): sulla Lettera dell’Adriani pubblicata nelle Vite, invece, Carrara sostiene di essere convinta di aver trovato un esemplare manoscritto della medesima con diverse correzioni operate dall’Adriani stesso e rafforza la sua tesi facendo riferimento a confronti calligrafici con altri documenti sicuramente dell’Adriani (p. 123). In sostanza, Carrara non ha mai scritto né sostenuto che Adriani fosse l’autore dell’Anonimo Magliabechiano, ma ha detto tutt’altra cosa. È chiaro che siamo di fronte a un clamoroso infortunio. La domanda che sorge spontanea, tuttavia, è: che credibilità dare a tutte le altre considerazioni presentate nel volume, quando ci si accorge di un errore simile? Non lo so, ma, a scanso di equivoci, continuerò a chiamarlo Anonimo Magliabechiano.  

1 commento:

  1. La recensione fa il punto su una delle principali fonti della letteratura artistica italiana

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