The Codex of The Anonimo Magliabechiano
Newly edited with a transcription faithful to the original manuscript and provided with an Introduction
A cura di Bouk Wiera, Lotte van ter Toolen e Henk Th. van Veen
Foreword, Introduction and notes to the transcription translated from the Dutch by Diane Webb
Leiden – Boston, Brill, 2024
La fortuna dell’Anonimo
L’Anonimo Magliabechiano è uno dei grandi misteri con
cui la letteratura artistica si confronta da quando è stato riscoperto da
Gaetano Milanesi attorno al 1870. Cominciamo innanzi tutto dal nome: non
sappiamo chi ne fu l’autore; per un
certo periodo, ossia dopo il 1755, fu conservato nella celeberrima biblioteca
di Antonio Magliabechi (1633-1714), poi confluita nella Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze, dove è oggi conservato. Attenzione: Magliabechi non lo
possedette mai: nel 1755 era già morto da quarant’anni e la sua biblioteca
divenuta di proprietà del Granduca di Toscana. Furono i Medici, dunque, a
comprare il codice (oggi segnato BNCF, Magl. XVII, 17) dalla famiglia Pitti a
cui era giunto della biblioteca della famiglia Gaddi (tant’è che si parla anche
di Anonimo Gaddiano). Fino a oggi sono state pubblicate tre edizioni del
codice: la prima nel 1892 a opera di Carl Frey, la seconda nel 1893 per merito
di Cornelius von Fabriczy (Frey e Fabriczy operarono l’uno all’insaputa
dell’altro) e una terza, curata da Annamaria Ficarra nel 1968. Il numero
ridotto di pubblicazioni non significa che l’Anonimo, come possibile fonte di
Vasari e delle sue Vite,
non sia stato oggetto di studi approfonditi. Spiccano, in merito, le pagine
dedicate all’opera nei Vasaristudien di Wolfgang Kallab (1908) e quelle,
ancora ottime, pubblicate da Schlosser nella sua Letteratura
artistica. Ovviamente, nel corso degli anni l’argomento più discusso è
stato quello della paternità dell’opera, di volta in volta attribuita ad autori
diversi, da Vasari stesso a Giovanni Francesco Rustici, da Giovambattista
Adriani a Miniato Pitti e Paolo Giovio. Nessuna di queste attribuzioni si è
dimostrata convincente. Nel 2009 Bouk Wierda pubblicava sul n. 53/1 del 2009 di
«Mitteilungen
des Kunsthistorischen Institutes in Florenz» un articolo in cui
sosteneva di aver identificato l’autore dell’opera e che si trattava del
fiorentino, di origini patrizie, Bernardo Vecchietti (1514-1590). A quindici
anni di distanza da quell’articolo, Wierda cura oggi, assieme a Lotte van ter
Toolen e Henk Th. van Veen, la quarta edizione dell’opera, ribadendo che
l’autore dell’Anonimo è, appunto, il Vecchietti. Non ho nessuna
difficoltà a dire, che, personalmente, la tesi non mi convince e spiegherò il
perché. Intanto, però, cerchiamo di conoscere meglio i contenuti del
manoscritto.
Fra antico e moderno
In prima approssimazione, il manoscritto, composto di 128
fogli rilegati fra loro in epoca imprecisata, si divide in due parti: la prima
contiene notizie sugli artefici antichi e la seconda su quelli moderni da
Cimabue a Michelangelo. La datazione, secondo i curatori, risale agli anni fra
1540 e 1547 (pp. 24-26); nelle edizioni precedenti erano state proposte
datazioni che oscillavano fra il 1534 e il 1548. Senza scendere in particolari,
possiamo senz’altro accettare l’idea che sia stato vergato nel quinto decennio
del XVI secolo. La prima cosa da tenere presente è che siamo di fronte a un
work in progress; il manoscritto non è certamente pronto per la stampa, ammesso
che l’opera fosse destinata alla pubblicazione, ma rispecchia uno stato di
lavorazione ‘intermedio’ in cui l’autore appunta spostamenti da operare
nell’ordine degli artefici, si segna nomi di artisti lasciando ampi spazi
bianchi destinati ad accogliere le relative biografie, scrive a margine
correzioni da operare e approfondimenti da intraprendere (do per scontato,
quindi - circostanza non condivisa in tutte e tre le edizioni precedenti - che
l’autore del manoscritto sia anche chi scrive le postille a margine), Possiamo
leggere, così, notazioni marginali del tipo «Levare tutte tali fagiolate, vere,
ma dirle con brevità e allargharci in altre istorie non dette per li altri» (p.
147) – con riferimento ad alcuni aneddoti relativi a Buonamico Buffalmacco -, «Vedere
l’originale» (p. 195), «Dire meglio et vedere che cose è» (p. 211), «Metterlo
dopo Masaccio e Masolino» (p. 212), «Domandarne Giorgio [n.d.r. Vasari] o
Jacopo da Pontormo» (p. 239). Oltre a rendere conto della provvisorietà della
situazione, a mio avviso, ma mi pare anche dei curatori, tali notazioni esprimono
l’intenzione di giungere a una ‘pubblicazione’: è da capire se a stampa o se a
una versione manoscritta da distribuire ad amici e/o a committenti. In realtà,
peraltro, il codice mantiene una sua coerenza strutturale fino alla biografia
di Andrea del Sarto. Successivamente cominciano a comparire doppie o triple
versioni di uno stesso artista, fogli sparsi, appunti di lavoro rilegati,
comunque, insieme all’opera vera e propria. Da notare, inoltre, la presenza di
alcuni fogli, di dimensioni diverse e più piccole rispetto all’originale, che
presentano una rassegna di opere d’arte viste a Roma; fortunatamente, in questo
caso, abbiamo anche una data, quella dell’ottobre 1544 («ridotto nella forma
che si trova hoggi d’ottobre 1544»), seguita, tre righe dopo, dall’indicazione
che Antonio da Sangallo «morì nel 1546 a Aquapendente» (p. 257). Anche qui, do
per acquisito che la calligrafia delle note su Roma sia lo stessa di quella sulle
notizie sugli artefici antichi e moderni. Diversa, invece – e i curatori lo
dicono subito – è la mano di un altro resoconto romano (probabilmente quella di
un pellegrino) datato 14 marzo 1543; si tratta, chiaramente, di materiale
collazionato come fonte documentaria e poi legato all’opera vera e propria.
Di tutto il manoscritto, meritoriamente, Wierda, Van ter
Toolen e Van Veen forniscono un’edizione diplomatica, puntando a rendere con la
massima fedeltà l’aspetto del codice e, astenendosi, ad esempio dallo spostare
voci relative a singoli artisti come era intenzione dell’autore, a giudicare
dalle sue annotazioni laterali. Nella parte bassa di ogni pagina sono
presentate note che segnalano le interpretazioni o le diverse letture fornite
da Frey, Fabriczy e Ficarra, oltre a quelle degli attuali curatori. Seguono le
appendici, fra cui si segnala in particolare quella dedicata alla
individuazione delle opere citate nel manoscritto. Di scarsa utilità, a mio
avviso, - alla luce anche di quanto dirò più avanti – le 62 tavole a colori che
propongono immagini di alcune di queste opere: perché quelle e non altre? Che
cosa aggiunge la loro presenza alla comprensione dell’opera? Come sappiamo
bene, anche l’occhio vuole la sua parte e probabilmente si è pensato che non si
poteva rinunciare a mostrare al lettore qualche bella figura.
Le fonti
Si è detto delle due parti di cui si compone l’opera: quella
dedicata agli artefici antichi è fortemente debitrice della
Naturalis historia di Plinio, che, all’epoca, era già disponibile in
italiano grazie alla traduzione operata da Cristoforo Landino (1476, con
riedizioni nel 1481 e nel 1534). L’Anonimo cita anche i Chronici Canones
di Eusebio di Cesarea, risalenti al III secolo d.C.; opera di inquadramento
storico che era stata stampata modernamente a Venezia nel 1475 e più volte riedita
successivamente. Sempre del Landino, l’autore non mancò di consultare il proemio
al suo commentario alla Divina Commedia, in cui compariva una sezione concisa,
ma chiara, sull’arte nell’antichità. Ma, come detto, la parte del leone la fa
Plinio, anche se si assiste a una complessiva ridistribuzione del materiale. Come
noto, l’autore romano aveva proposto varie ‘storie’ di artefici fra loro
parallele e quasi non intersecantisi; prima i pittori, poi gli statuari, poi
gli scultori e così via. L’Anonimo cerca, invece, di proporre una cronologia e,
dunque un intreccio, che siano unici e presentino lo sviluppo complessivo delle
arti nell’antichità. Il risultato forse non è brillantissimo, ma s’apprezza lo
sforzo di chiarezza e anche una certa ‘autonomia nella fedeltà alla fonte’,
ovvero la capacità di rielaborare in senso narrativo un testo organizzato in
origine diversamente. È appena evidente che le pagine dedicate all’arte antica
vanno inserite in un contesto di enorme interesse per i manufatti romani e
greci che, ormai da due secoli – se si pensa a Petrarca – attraversa
trasversalmente le corti, i governi, i circoli umanistici degli stati italiani.
Non si può, a tal proposito, non richiamare il primo dei tre Commentari
di Lorenzo Ghiberti, scritto grosso modo a metà Quattrocento e anch’esso
rifacentesi a Plinio (ma anche a Vitruvio).
Ai Commentari di Ghiberti è bene fare riferimento anche
per la seconda parte dell’opera dell’Anonimo. Qui, esattamente come nel caso del
secondo Commentario dello scultore fiorentino, l’oggetto della
trattazione sono gli artisti moderni. Ed è certo, non tanto perché sia citato,
ma perché i calchi sono evidenti, che l’Anonimo abbia avuto il secondo Commentario
ghibertiano come fonte, a volte sintetizzando (come nell’autobiografia
dell’artista), a volte scartando (come nel caso dei giudizi artisticamente di merito
proposti da Lorenzo), a volte integrando. Il caso più famoso è quello del
Maestro di Colonia, descritto da Ghiberti e a cui l’Anonimo attribuisce un
nome, Gusmin, che, a oggi, non ci dice nulla e che non sappiamo come sia stato ‘inventato’
o, più probabilmente, ‘recuperato’ dall’autore da qualche fonte o dalla
tradizione orale. La questione delle fonti della sezione moderna è, comunque,
di gran lunga la più complicata. Innanzi tutto, con riferimento a Ghiberti, c’è
chi ha scritto che consultò una versione dei Commentari diversa rispetto
all’unico esemplare che è giunto sino a noi (qui l’Anonimo potrebbe aver
trovato il nome Gusmin). Il problema, in realtà, è a monte e ha a che fare con
le diverse posizioni proprio sul codice ghibertiano: Lorenzo Bartoli, ad
esempio, che ne ha curato tempo fa l’edizione critica, oggi
è propenso a pensare che ci sia giunto l’originale scritto (o dettato a uno
scriba) da Ghiberti. È chiaro che stabilire il debito dell’Anonimo rispetto
a Ghiberti vuol dire sbilanciarsi anche su questo punto.
Analogo discorso vale per il cosiddetto Libro di Antonio
Billi, più volte richiamato nelle note a margine a riscontro del testo. Anche
in questo caso siamo di fronte a un testo anonimo, dalla natura spiccata di
‘zibaldone’ o ‘selva di notizie’ che dir si voglia; per meglio dire: sappiamo
chi fu Antonio Billi, mercante fiorentino di famiglia facoltosa; è più
probabile che Billi fosse il proprietario dell’opera piuttosto che colui che la
scrisse. Certamente siamo di fronte a un testo cronologicamente precedente
(collocabile fra i primi del Cinquecento e il 1530), di natura meno letteraria
e più frammentaria rispetto all’Anonimo Magliabechiano, almeno per
quanto ne sappiamo. Ce ne sono giunti due esemplari, entrambi incompleti (il Codice
Strozziano e il Codice Petrei) e sono stati identificati come
testimoni dell’opera proprio grazie alle annotazioni dell’Anonimo Magliabechiano
che, con ogni verosimiglianza, ebbe modo di vedere l’originale o, comunque,
una copia più completa. Già questo aspetto crea un problema: se l’Anonimo vide
pagine che non ci sono arrivate, noi non possiamo sapere cosa, del suo testo, è
trascrizione e cosa è apporto personale. Qui siamo veramente di fronte al
nocciolo del problema, in una rete intricatissima che è, a mio avviso,
impossibile dipanare se non dando una lettura orientata, e quindi non
oggettiva, dei testi. Cercherò di essere essenziale. Appare possibile, e forse
anche probabile, che Girolamo da Gavina, pittore fiorentino, che ebbe
consuetudine con Leonardo e con la cerchia michelangiolesca possa aver fornito
informazioni all’Anonimo; appare possibile perché, in un supplemento alle righe
su Leonardo fu lo stesso Anonimo a scrivere «Dal Gav» (p. 300); e perché in
quel supplemento compaiono proprio aneddoti sul rapporto, non idilliaco, fra
Leonardo e Michelangelo (aneddoti poco noti, non le ‘fagiolate’ su Buffalmacco su
cui l’Anonimo vuole sorvolare). Allo stesso modo, quando si legge nelle
postille che è sua intenzione chiedere a Vasari, a Pontormo o che conosce il
Bandinelli è del tutto legittimo ritenere che parte delle sue informazioni
possa giungere oralmente da costoro. Ma molto oltre, a mio giudizio, non si può
andare.
Resta la questione inversa: l’Anonimo Magliabechiano fu
una fonte per Vasari? È molto probabile che Vasari conoscesse il progetto
dell’Anonimo ed è possibile che si siano scambiati delle informazioni. Del
resto, come risulta dalle postille, i due si conoscevano. Ciò detto, e al netto
di singole voci discordanti (ad esempio Lorenzo Bartoli) l’Anonimo, scrivendo
più o meno nello stesso periodo, non fu fonte per Giorgio, così come non lo
furono altre opere come le Vite di Giovan Battista Gelli, di cui mi
limito a segnalare il titolo. Lo faccio perché secondo Wolfgang Kallab (e siamo
quindi a inizio Novecento) sia l’Anonimo Magliabechiano sia Vasari sia
le Vite di Gelli dipendono da un’unica fonte, simile ma più estesa
rispetto al Libro di Antonio Billi. Si tratta di un’ipotesi che si regge
sul confronto filologico fra i testi, ma che non può essere confermata, dal
momento che questo archetipo (chiamato convenzionalmente Fonte K) non è
mai stato trovato.
L’attribuzione a Bernardo Vecchietti
Tendenzialmente, scrivono i curatori, l’impostazione di ogni
voce dedicata agli artefici moderni nel codice magliabechiano ha una sua
struttura biografica, con l’indicazione del maestro dell’artista in esame, la
presenza iniziale di uno o più aneddoti, un elenco di opere realizzate, prima
fiorentine e poi fuori Firenze e, nel caso, un elenco di discepoli. L’Anonimo
si differenzia, quindi, rispetto a Ghiberti, che rinuncia agli aneddoti ed
esprime giudizi critici. Gli artisti presi in considerazione sono tutti
fiorentini, senesi, pisani, a parte il caso di Gusmin, di derivazione
ghibertiana. Più o meno tutti coloro che storicamente hanno avuto a che fare
con l’opera dicono che l’autore ebbe capacità letterarie, che riconoscono in
maniera più o meno evidente, mentre quelle artistiche furono più ridotte. Sulla
misura di tale riduzione le valutazioni sono diverse e dipendono, di fatto, da come
si considerano le affermazioni presenti nel codice e non riscontrate da fonti a
noi note: se, cioè, come abbiamo visto, si ritiene che siano valutazioni tratte
da altre fonti o se si tratti di apporti personali. In questo senso la più severa
è stata Annamaria Ficarra, per la quale l’Anonimo è, di fatto, un mero
compilatore. Meno severi i curatori della presente edizione, per i quali
l’Autore fornisce informazioni che dimostrano conoscenze di base non
disprezzabili.
Ma a questo punto non si può continuare se non affrontando
la questione dell’attribuzione che, come detto, già nel 2009 Wierda aveva indicato
in Bernardo Vecchietti. A spingerla in tal senso sono vari fattori: a) la
calligrafia del manoscritto, molto simile (si parla di «considerable
similarities» - p. 39) a quella che lo stesso Vecchietti mostra in alcune sue
lettere autografe al Duca Cosimo; b) l’appartenenza di Vecchietti al patriziato
fiorentino e la sua vicinanza ai Medici, in particolare, negli anni Quaranta, a
Ottaviano Medici (patrono anche di Vasari), di cui era parente acquisito;
questo aspetto spiegherebbe la presenza di informazioni nel codice che
dimostrano una buona conoscenza delle proprietà medicee; c) le sue conoscenze in ambito artistico, con
una preferenza per le arti suntuarie, e il fatto che, in anni ben più avanzati,
Vecchietti fu patrono di artisti come il Giambologna; d) la consuetudine con
luoghi, come Santa Maria Novella, e artisti (Vasari, Pontormo, Bandinelli) che
sono richiamati più volte nel codice; e) la sua attività collezionistica; f) il
fatto stesso che nel 1584, ne Il Riposo di Raffaello Borghini, ambientato
nell’omonima villa di proprietà proprio di Vecchietti, quest’ultimo sia
tratteggiato, appunto, come letterato ed erudito non particolarmente ferrato
riguardo aspetti artistici; g) la constatazione che, fra il materiale citato
nel codice e non presente nelle fonti a noi note vi siano indicazioni che dimostrano
la conoscenza e la loro visione diretta da parte di Bernardo.
Cominciamo da quest’ultimo punto, che, francamente, appare
poco consistente. Sono citati alcuni esempi: Palazzo Dei: Andrea del Sarto
«dipinse, quando era giovane, il palazzo de’ Dei in sulla piazza di santo
Spirito». Non capisco come si possa dire che la breve frase dimostri l’osservazione
diretta delle opere; a dire il vero non capisco nemmeno di quali opere si
parli; se si allude al palazzo, qualsiasi fiorentino che passava per strada
poteva vederlo; se ai dipinti di Andrea nessuno di essi è citato e, semmai, ci
sarebbe da chiedersi perché, avendoli visti, l’Anonimo non l’abbia fatto. È
vero (altro esempio) che le collocazioni delle opere pubbliche sono indicate (in
genere) correttamente, ma non credo – ancora una volta – che tale circostanza possa
essere assunta come prova della paternità di Bernardo: nel Libro di Antonio
Billi, ad esempio, si legge che il Crocifisso di Donatello a Santa Croce si
trovava più o meno a metà della navata, mentre nel Magliabechiano si specifica
che era più o meno a metà, «vicino alla porta che dà al cimitero,
lateralmente». (pp 32-33). Lo sapeva solo Vecchietti o chiunque entrasse in
Santa Croce? Un altro caso assunto apoditticamente come prova della
‘connoisseurship’ di Vecchietti; nella Certosa del Galluzzo, «di mano di
Mariotto, dipintore fiorentino, nella cappella dove è la sepoltura di monsignor
Buonafè di mano di maestro Francesco da Sangallo, scultore et archietetto, un
crucifisso dipinto […] nella tavola di detta cappella, di mano di detto
Mariotto». Ancora una volta, un’opera che potevano vedere tutti e che tuttavia
non è una tavola, ma un affresco (e dell’errore si accorgono gli stessi
curatori, non traendone però le dovute conseguenze – cfr. p. 32 n. 148). Per
consolidare una tesi che appare oggettivamente debole si passa allora a
considerare le poche pagine dedicate a Roma, dove, effettivamente le
informazioni sono molto più precise e attendibili. Si segnala peraltro
l’importanza della testimonianza; a parte l’Opusculum
de mirabilibus novae et veteris urbis Romae di Francesco Albertini
siamo di fronte a una delle primissime guide dedicate esclusivamente alla città
‘moderna’. Il problema è che la guida è troppo perfetta per essere il risultato
di un taccuino di viaggio: un taccuino di viaggio non illustra la storia di San
Pietro dicendo che prima vi aveva lavorato Bramante, poi Fra Giocondo e
Raffaello con Antonio da Sangallo, poi ancora Antonio con Baldassarre Peruzzi. Si
considera la presenza di Bramante e Raffaello nel resoconto come volontà di
Vecchietti di aprire la sua indagine sugli artisti anche a non fiorentini, ma
non si tiene conto di un fatto semplicissimo: perché non lo fece nel codice
fiorentino? Perché nel Magliabechiano non ci sono Raffaello e molti altri
ancora? La realtà è un’altra: quel resoconto di viaggio non è un taccuino, ma
un testo scritto a Roma da un romano e distribuito a visitatori altolocati
della città. Ne conosciamo testimonianze analoghe sin dai tempi di Carlo Magno. Che poi
la calligrafia sia dell’Anonimo (fatto da dimostrare) non toglie nulla alla
validità del discorso: semplicemente l’Anonimo lo trascrisse nel suo codice.
Vecchietti, nato nel 1514, tenendo conto della datazione del
codice fornita dai curatori (1540-1547), avrebbe scritto l’opera fra i 26 e i
33 anni. Troppo presto? Sinceramente non mi pare; mi sembra tuttavia sbagliato cercare
di dimostrare che ne fu il redattore sulla base di quello che fece negli anni
Settanta e Ottanta, come, purtroppo, leggiamo nel libro. Le persone, nell’arco
di trent’anni, cambiano e la consuetudine coi Medici – questa sì, documentata
anche da giovane – non aggiunge niente alla dimostrazione dell’autografia del
codice. Men che meno si può usare come argomentazione a favore
dell’attribuzione la figura letteraria di Vecchietti come proposta nel 1584 dal
Borghini nel Riposo (i curatori se ne rendono conto e invitano a essere
cauti sul punto). Ci sono poi situazioni, a dire il vero, a limite del
paradosso, come quando si sostiene che Vecchietti avrebbe scritto dell’attività
di Andrea del Sarto come pittore di impiccati (p. 32) ricordandosi
spontaneamente di aver visto in piazza della Condotta le effigi di Cecchino
Orsini e di un altro personaggio di cui gli sfugge il nome. L’episodio dell’
‘impiccagione virtuale’, molto comune a Firenze, risale al 1529 e gli affreschi
furono cancellati l’anno dopo, motivo per cui Bernardo non avrebbe più potuto verificare
l’identità del secondo condannato in contumacia: ma fra 1529 e 1530 Vecchietti
aveva 15-16 anni! Davvero di tutta la sua adolescenza ricordò solo questo
episodio o forse non è più facile pensare che l’abbia desunto da una fonte o
sentito dire da qualcun altro?
Le interpretazioni orientate tutte alla lettura di dati in
senso univoco sono particolarmente pericolose; mi sembra che sia proprio ciò a
cui siamo di fronte in questo libro. Eppure, un metodo per sostanziare
l’attribuzione a Vecchietti c’era: presentare uno studio rigoroso sulla
calligrafia del codice rispetto a quella delle lettere. Quindi, esame di
specialisti e responso finale. E qui c’è un fatto curioso: nel suo saggio del
2009 Wierda questo confronto, in sintesi estrema, comincia a farlo, pubblicando
alcune foto al riguardo. Qui no. Qui le foto sono riferite a 62 dipinti che
nulla aggiungono alla tesi della paternità di Vecchietti. Perché? Francamente
non lo so. Sorge spontaneo, tuttavia, pensare che la coincidenza fra le due
calligrafie, nell’arco di quindici anni, non abbia dato riscontri certi.
Un infortunio grave
Poi ci sono gli infortuni, francamente inspiegabili. A p. 35,
parlando delle varie ipotesi avanzate storicamente nei confronti della
paternità del codice, i curatori citano il nome di Giovambattista Adriani,
avanzato da Gaetano Milanesi e di recente riproposto da Eliana Carrara (nota 163).
Correttamente segnalano la fonte dello scritto di quest’ultima: Pliny
and the Art of the Ancients and the Moderns. Reading Naturalis Historia (Books
xxxiv-xxxvi) in Florence in the Sixteenth Century (from the Anonimo
Magliabechiano to Vasari’s Lives in De l’autorité à la référence,
a cura di I. Diu e R. Mouren, Paris, pp. 115-128. Il nome di Eliana Carrara è
pesante; per acribia, preparazione, cultura la considero una delle tre maggiori
esperte di Vasari e Cinquecento fiorentino nel mondo e quindi, preso da
curiosità, vado a leggere l’articolo. Il saggio, naturalmente, parla
soprattutto di Plinio e ricorda, fra gli altri, come esempio di recepimento
della Naturalis historia, l’Anonimo Magliabechiano e,
separatamente, Giovambattista Adriani, autore della celebre Lettera
pubblicata nella seconda edizione delle Vite vasariane. In merito
all’Anonimo si legge: «One might ask who the author of the manuscript was: I
have no answer» (p. 118): sulla Lettera dell’Adriani pubblicata nelle Vite,
invece, Carrara sostiene di essere convinta di aver trovato un esemplare
manoscritto della medesima con diverse correzioni operate dall’Adriani stesso e
rafforza la sua tesi facendo riferimento a confronti calligrafici con altri
documenti sicuramente dell’Adriani (p. 123). In sostanza, Carrara non ha mai
scritto né sostenuto che Adriani fosse l’autore dell’Anonimo Magliabechiano,
ma ha detto tutt’altra cosa. È chiaro che siamo di fronte a un clamoroso
infortunio. La domanda che sorge spontanea, tuttavia, è: che credibilità dare a
tutte le altre considerazioni presentate nel volume, quando ci si accorge di un
errore simile? Non lo so, ma, a scanso di equivoci, continuerò a chiamarlo
Anonimo Magliabechiano.
La recensione fa il punto su una delle principali fonti della letteratura artistica italiana
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