Leon Battista Alberti
De statua
A cura di Marco Collareta
Livorno, Sillabe 1998
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Scolpire «uno collosso».
«Grandissima opera del pittore [n.d.r.
dipingere] non uno collosso, ma istoria; maggiore loda d’ingegno rende
l’istoria che qual sia collosso». Così scrive Leon Battista Alberti nel De
pictura (1435): l’importanza di un’opera non dipende dalle sue
dimensioni, ma dalla sua historia, ossia dalla capacità del’artista di
creare una composizione che rispetti i principi della proporzionalità, della
prospettiva e sappia trasmettere al pubblico gli affetti dei protagonisti.
Nella lettera dedicatoria del De statua (cfr. infra) invece,
Alberti scrive: «Spero che leggerai con piacere anche questa terza operetta [n.d.r.
le due precedenti erano il De pictura e gli Elementi picture] che
in gran parte riguarda l’ingegno dell’architetto non meno del pittore, perché
indaga e dimostra in che modo, con misure note e precise, si possa innalzare un
colosso» (p. 9); all’interno dell’opera giunge a scrivere che, in teoria,
questo colosso potrebbe essere alto come il monte Caucaso, come pure si
potrebbe rimpicciolire le dimensioni di una statua di parecchie volte. La
scultura può, quindi, realizzare manufatti molto piccoli o giganteschi. Ma in
realtà non bisogna essere lettori superficiali; in entrambi i casi siamo soggetti
alla legge delle proporzioni.
Ciò che conta, semmai, è capire
la diversa funzione di pittura e scultura. La pittura traduce lo spazio
tridimensionale in bidimensionale; in quest’ambito si può dipingere qualsiasi
cosa, anche un colosso, purché sia in proporzione col resto della composizione.
La scultura realizza l’opera d’arte a tutto tondo, in tre dimensioni (in questo
senso pare superata l’identificazione, soprattutto medievale, della scultura
con l’intaglio) e va valutata per il manufatto che realizza nell’ambito dello
spazio tridimensionale. Naturalmente anche, e soprattutto qui, vale la legge
delle proporzioni. La parte finale del breve trattato di Alberti presenta una
lunga tabella in cui sono presentate le misure ‘ideali’ (ne parleremo più
avanti) della figura umana maschile. Si tratta, in linea di massima, della
traduzione su tre dimensioni dell’uomo vitruviano inscritto in un cerchio e in
un quadrato; qui siamo di fronte a un uomo tridimensionale inscritto in una
sfera e in un cubo.
La fortuna dell’opera
Ma andiamo con ordine. Il De
statua, di cui stiamo recensendo l’edizione di riferimento, a cura di Marco
Collareta, è il più breve e il meno noto dei trattati albertiani sulle arti
figurative. Ci è giunto solo in latino, con cinque testimoni, nessuno dei quali
originale. In alcuni testimoni manoscritti il titolo è Breve compendium de
componenda statua. L’opera si apre con una lettera dedicatoria indirizzata
a Giovanni Andrea de’ Bussi, vescovo di Aleria, umanista e amico di Alberti.
De’ Bussi divenne vescovo nel 1466, il che ha portato a pensare che il trattato
fosse stato scritto in tarda età, dal 1466 in poi. Poi la dedica è stata
svincolata dal resto del trattato, un po’ come se riflettesse uno stadio
successivo dell’opera e si è tornati indietro addirittura al 1435, ossia
all’anno di redazione del De pictura. Non vi sono, in realtà, riscontri
interni tali da giungere a fissare una data con certezza, ma - come scrive
Collareta (p. 49) – «un ventaglio di indizi convergenti» che inducono a
guardare agli anni romani successivi all’esilio papale a Firenze». Indubbia,
peraltro, è la somiglianza di impostazione con la Descriptio
urbis Romae. In conclusione, secondo il curatore, «meglio mantenersi
larghi e pensare ad un’opera avviata dall’Alberti a Roma negli anni di Niccolo
V, ripresa negli anni di Pio II e di fatto mai portata a termine».
La fortuna del De statua
fu certamente inferiore a quella del De pictura e del De re
aedificatoria. Per quanto riguarda le edizioni a stampa, la prima fu
quella, offerta in traduzione italiana, da
Cosimo Bartoli negli Opuscoli morali del 1568 (con l’aggiunta di
immagini). Lo scritto compare anche nella
princeps del 1651 del Trattato della pittura di Leonardo. Da
notare la presenza del De statua in una serie di antologie inglesi sui
trattati di architettura [sic] fra 1600 e 1700 in Inghilterra. Fra le edizioni
moderne, oltre alla presente, si veda anche quella a cura di Mariarosa
Spinetti, Napoli, Liguori 1999 (più debole rispetto alla presente).
I contenuti
Alberti comincia il suo trattato
riprendendo distinzioni ben note fra scultori che operano per mezzo di
‘togliere’ e di ‘aggiungere’, ossia i modellatori in cera e creta; artisti che
procedono solo per mezzo di levare, e qui si richiamano i marmisti; e artefici
che aggiungono solamente, facendo riferimento ai cesellatori. E qui c’è una
prima grande sorpresa: il classicista moderno non prende in nessuna
considerazione la parte storicamente più famosa della scultura non solo antica,
ma anche del Quattrocento, ossia quella bronzea. Marco Collareta fa notare che
il trattato di Alberti mira a ‘misurare razionalmente’ una statua nello spazio,
ossia un oggetto stante realizzato a tutto tondo. Sotto questo punto di vista,
la tecnica di realizzazione di quell’oggetto potrebbe non essere di particolare
interesse, e comunque rivelarsi comune coi modellatori, perché prima di fondere
una statua vanno realizzati modelli in cera o creta.
Come ogni arte figurativa, lo
scopo ultimo di uno scultore è l’imitazione della natura e il raggiungimento
della somiglianza col reale. Esistono, a dire il vero, due tipi di somiglianze:
una, generica, della statua al genere del suo soggetto (la statua di un uomo in
generale); l’altra, quella a una persona particolare. Alberti scarta
immediatamente la seconda, come pure chiarisce che quanto da lui esposto non
permette di ‘riprodurre’ gli affetti dei volti; il suo è un discorso
esclusivamente ‘meccanico’, è una ‘topografia della scultura’: il De statua
è dedicato all’esatta riproduzione di un’altra scultura grazie a un sistema di
misure basate sulla razionalità e il principio della proporzione. In linea di
massima, ciò che viene proposto allo scultore, e che poi lo scultore potrà
applicare alla natura e non più a un modello precedente di statua, è il
rilevamento di un sistema di coordinate che permettono di rilevare «in quale
punto preciso dello spazio si trovi la gemma che porti al dito, o l’angolo del
tuo gomito, o qualcosa di simile» (p. 7), di copiare una statua di forma umana
anche a distanza di anni e senza più averla di fronte, di scolpire secondo
precise indicazioni una statua una metà a Paro e l’altra a Luni, riuscendo a
unirla perfettamente. Il sistema di rilevamento di Alberti si basa su misure
relative (quindi su proporzioni, rapporti, comparazioni), non su valori
assoluti ed è costituito da un semplicissimo regolo e da due squadre mobili fra
loro sovrapposte. Cos’è un regolo? Sarebbe errato chiamarlo un ‘metro’ moderno;
per regolo si intende un asse di legno che, inizialmente, non contiene misure.
Il regolo deve essere alto come la statua di un uomo; va poi suddiviso in sei
parti uguali (da qui il neologismo di Alberti, che gli attribuisce il nome di
‘exempeda’); ogni parte prenderà il nome di piede, a sua volta divisa in dieci
pollici, a loro volta divisi in dieci ‘minuti’. La relatività della misurazione
è evidente: se la statua è alta un metro (odierno), piedi, pollici e minuti
avranno lunghezza diversa rispetto a una scultura alta due. La vera unità di
misura è, dunque, l’uomo (la statua a forma di uomo, in questo caso) nel suo
complesso, da cui derivano le varie suddivisioni. L’uomo è misura di tutte le
cose, e usando il regolo potremo studiare le proporzioni fra le varie parti del
suo corpo.
Il problema si complica per via
degli ‘accidenti’ che riguardano ogni statua: l’uomo non sarà sempre (anzi,
quasi mai) semplicemente in posizione stante, ma la scultura potrà
rappresentare, ad esempio, una statua di Fidia «rappresentante un uomo che trattiene
con la mano sinistra un cavallo presso una biga» (p. 15). Non è una statua
inventata dalla fantasia del trattatista. Si tratta di uno dei due Dioscuri del
Quirinale, che, all’epoca, presentava un’iscrizione falsa che lo attribuiva a
Fidia.
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Il Dioscuro 'di Fidia' in Campidoglio Fonte: TcfkaPanairjdde tramite Wikimedia Commons |
È, cioè, estremamente probabile che Alberti abbia compiuto le sue
misurazioni proprio su quella scultura. In tal caso Alberti ricorre a un
semplicissimo strumento (il finitorium) composto da un disco graduato,
chiamato orizzonte, da un’asticella fissata al centro del disco e da un filo a
piombo che pende dal disco. Ponendo il disco orizzontalmente sulla testa della
statua e spostando l’asticella lungo il disco graduato, il misuratore può
tracciare una serie di coordinate che esprimono la distanza dei ‘bordi’ della
statua dal cilindro avente come centro proprio il capo della statua. Il
meccanismo (completato da altri accorgimenti per il rilevamento non solo dei
‘bordi’ esterni, ma anche di cavità interne) è, in realtà semplicissimo e
consente ad Alberti di lanciare una sorta di provocazione. Se quella statua di
Fidia venisse ricoperta di cera e creta tanto da farla divenire una colonna (un
cilindro), conoscendone le coordinate spaziali, potremmo ritirarla fuori senza
il minimo danno alla statua stessa.
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Esempio di Finitorium in una tavola del Trattato della pittura e della scultura di Leonbatista Alberti, Milano, dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, 1804 Fonte: https://it.m.wikisource.org/wiki/File:Alberti_-_Della_pittura_e_della_statua,_Milano,_1804_%28page_155_crop%29.jpg |
Le misure ideali dell’uomo
Il trattatello si conclude con
una lunga tabella: l’autore si è preso la briga di misurare diversi corpi di
uomini (si parla solo del sesso maschile e viene in mente Cennino,
che nella sua teoria delle proporzioni non considera la donna perché in essa
non vi è nulla di perfetto) e fornisce delle misure ‘ideali’, che sono poi
quelle che risultano dalla media delle misurazioni effettuate. Il tema delle
proporzioni del corpo umano ci è ben noto e ha attraversato la storia
dell’umanità dal canone di Policleto al Medioevo fino ad Alberti, ma qui c’è un
elemento nuovo: non esiste nessun canone da adottare pedissequamente: esiste
una verità ‘sperimentale’, basata sull’osservazione della realtà e sulla
misura. Nulla è dato per scontato. L’uomo è misura di tutte le cose e misura
tutte le cose.
Un’ultima osservazione: mentre
nel De pictura Alberti si presenta come pittore, qui non dice di essere
uno scultore, il che induce a pensare che non lo sia stato. Ma c’è un altro
aspetto a cui concedere attenzione: Alberti smette di definirsi pittore, come
se avesse cessato di praticare quell’arte che aveva intrapreso per diletto.
Particolarmente interessante è una dichiarazione che possiamo leggere nella
seconda parte del trattato: «Mio desiderio è che questa mia operetta diventi
familiare ai miei pittori e scultori, che, se mi daranno ascolto, si
feliciteranno perché io, affinché l’argomento fosse reso più chiaro con esempi
ed affinché l’opera giovasse il più possibile, mi sono addossato anche la
fatica di rilevare le misure, quelle dell’uomo in particolare.» (p. 19). I
«miei pittori e scultori»: Alberti sta parlando in generale o ha in mente un
gruppo di artisti che, con maggiore attenzione, seguono i suoi scritti e
cercano di applicarli nella realtà? Non lo sappiamo; certamente sembra
autoescludersi dal novero dei pittori, e ciò fa pensare a una datazione
decisamente successiva rispetto al De pictura.
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