Antonio Manetti
Notizia di Filippo di ser Brunellesco
ovvero
Vita di Filippo Brunelleschi
Saggio introduttivo di Antonio Natali. Trascrizioni e note di Giuseppe Giari
Firenze, Mandragora, 2021
Tornare a leggere la Notizia di Filippo
Sin dalla prima riga dell’introduzione di Antonio Natali, lo
scopo del libro è reso manifesto: tornare a rendere fruibile al grande pubblico
la Notizia di Filippo di ser Brunellesco in un momento in cui tutte le
precedenti edizioni (l’ultima nel 1992) sono andate esaurite. Va detto che,
facendolo, i promotori dell’iniziativa hanno operato scelte che rendono il presente
libretto particolarmente piacevole e, soprattutto, non una semplice ‘replica’
di quanto già scritto in precedenza. È così, ad esempio, che è stata operata una
nuova trascrizione, a partire dal testo di Manetti, ma ovviamente tenendo conto
delle edizioni precedenti e, in particolare, della fondamentale edizione
critica di Domenico De Robertis, con introduzione e commento di Giuliano
Tanturli, edita a Milano da Il Polifilo nel 1976. L’apparato delle note è poi
sobrio, ma completo, e favorisce la comprensione del testo senza travolgere il
lettore con bibliografie sconfinate. Si è poi fatto riferimento a nuove
acquisizioni storiche sul testo presentate da Giuliano Tanturli in Sulla
vita di Filippo Brunelleschi scritta da Antonio Manetti, trentacinque anni dopo
in La biografia d’artista tra arte e letteratura. Seminari di letteratura
artistica, a cura di Monica Visioli, Pavia, Edizioni Santa Caterina, 2015.
Anch’io, nelle note seguenti, farò riferimento a quel contributo, uno degli
ultimi di Tanturli, perché mi sembra di particolare importanza. Insomma, il
volumetto edito da Mandragora mi sembra un’utile occasione per fare il punto su
un testo molto noto, ma, come capita spesso, ancora ricco di incognite.
Le testimonianze manoscritte
Il lavoro di Giuseppe Giari è stato condotto sul manoscritto
II.II.325 della
Biblioteca Nazionale di Firenze (d’ora in poi M). Il manoscritto, privo di
autore e di titolo, è stato riconosciuto come certamente di mano di Manetti da
Giuliano Tanturli (ma già Gaetano Milanesi, a fine Ottocento, lo attribuiva ad
Antonio di Tuccio). Esistono altri quattro esemplari dell’opera, tutti più
tardi, di cui uno è copia di quello sopra citato. Gli altri tre sono privi
della parte iniziale della Notizia manettiana, ma, rispetto a essa, includono
righe finali che non sono presenti in M. In ogni caso, il testo manettiano è
certamente incompleto. Su questo punto torneremo. In realtà M presenta due opere
separate, entrambe scritte da Manetti: la prima è la celeberrima Novella del
Grasso legnaiuolo, che vede Brunelleschi protagonista e principale artefice
di una beffa ordita ai danni di Manetto Ammannatini, legnaiolo
e intarsiatore amico di Filippo, detto il Grasso (il body-shaming non andava ancora di moda); la seconda, appunto, è la Notizia di
Filippo. Si tratta di due scritti di gestazione completamente diversa: il
primo è il resoconto di una beffa nota in città da decenni e che veniva trasmessa
oralmente, ma anche per iscritto, in forme fra loro diverse. La più comune, e
quella letterariamente più debole, è la cosiddetta ‘redazione volgare’, mentre
Manetti interviene proprio da un punto di vista letterario rendendo la novella
più piacevole alla lettura. Ne parleremo in altra occasione.
Sto usando sistematicamente il termine ‘Notizia’ adeguandomi
alle osservazioni di Tanturli del 2015. In realtà, dal 1812, da quando, cioè,
uscì la prima edizione a stampa, si parla di ‘Vita’ di Filippo Brunelleschi. Manetti
scrive, di fatto, quella che è la prima biografia d’artista a noi nota (quelle
di Ghiberti nei Commentarii e di Leon Battista Alberti sono autobiografie), ma lo fa – osserva Tanturli – senza che essa abbia tutti i
crismi del genere, innanzi tutto perché si appoggia, a forma di dittico, alla Novella
del Grasso legnaiuolo; va poi detto che, nel suo testo Manetti parla
apertamente di Notizia ed è dunque più corretto far riferimento al lemma
usato ai suoi tempi.
Anno di redazione, destinatario, incompletezza
Antonio di Tuccio Manetti nacque nel 1423 e morì nel 1497 (e
conobbe personalmente Brunelleschi, stando a quanto dichiara. Certamente era
molto giovane e Filippo molto anziano). Verrebbe naturale pensare che, essendo
incompleta, la Notizia sia stata scritta negli ultimissimi anni della
sua vita. E invece no. Tanturli individua una data che si colloca attorno al
1480 (forse anche l’anno prima) senza possibilità di andare molto oltre. Quello
che piace del celebre studioso è il suo pervenire a risultati ben motivati
senza mai rinunciare al beneficio del dubbio e alla consapevolezza che nuove
acquisizioni potrebbero ribaltare le sue conclusioni. Va però detto che
Tanturli giunge a un primo risultato osservando la calligrafia del manoscritto
e come essa rifletta il periodo della maturità dell’umanista fiorentino più che
quella, assai più incerta, della vecchiaia. La comparazione degli esemplari
giunti sino a noi porta l’interprete a concludere, in maniera convincente, che,
con ogni probabilità la redazione della Notizia non è stata interrotta
per un evento ‘di causa maggiore’, come può essere la morte o una malattia
invalidante, ma volontariamente abbandonata. Perché? Il destinatario dell’opera
è un tale Girolamo («Tu disidiri, Girolamo, d’intendere chi questo Filippo…»).
Sin da fine Ottocento, ossia sin dai tempi della redazione del testo edita a
stampa a cura di Gaetano Milanesi, si è ritenuto che quel Girolamo fosse
Girolamo Benivieni (1453-1542) con cui Manetti ebbe, senza dubbio alcuno,
relazioni amichevoli e frequenti. Ma Tanturli, facendo riferimento ad
acquisizioni archivistiche recenti, ipotizza che possa essere un altro
Girolamo, anch’egli intimo di Manetti e suo interlocutore intellettuale. Si
tratta di Girolamo Pasqualini. Pasqualini era vivo nel 1478, ma morì certamente
prima del febbraio 1480, probabilmente per l’epidemia di peste che imperversava
in città in quei tempi. Se il destinatario fosse stato, appunto, Pasqualini,
abbiamo appunto una spiegazione logica (fino a un certo punto) dell’abbandono
della redazione della Notizia da parte di Manetti: la morte del
destinatario. ‘Fino a un certo punto’? Sì, come ammette lo stesso Tanturli,
perché tutto ciò comporterebbe che lo scritto avesse una natura molto privata e
personale, quasi non fosse destinato alla pubblicazione. La sua ragione di essere
sarebbe dipesa dalla sola esistenza in vita di Pasqualini, mentre, in caso di
un progetto più ambizioso, diretto appunto alla stampa, sarebbe bastato
cambiare il nome del destinatario. Come vedete, gli interrogativi continuano a
persistere.
La giovinezza e la prospettiva.
Di fatto una biografia, come si è detto, la Notizia
tesse naturalmente le lodi di Filippo Brunelleschi, ripercorrendo alcune tappe
della sua vita e le sue principali realizzazioni. In generale, a dominare è
l’esaltazione dell’ingegno di Filippo, un ingegno così sottile da riuscire a
realizzare cose che nessun altro sarebbe stato in grado nemmeno di pensare. Il
caso della cupola del Duomo, di cui viene, peraltro, trascritto il testo della
relazione presentato all’Opera del Duomo nel 1420 è, naturalmente, l’episodio
centrale della biografia, ma in realtà è successivo ad alcuni passaggi
altrettanto significativi. Si comincia esaltando il talento del giovane artista
«rispetto al fondamento del disegnio» (p. 32), l’esordio come orefice, i lavori
di smalto e niello, come pure quelli legati alla lavorazione tridimensionale
delle pietre preziose. Si passa poi, senza soluzione di continuità a parlare
delle prime sculture, dal crocefisso ligneo di Santa Maria Novella (ma non è
proposta la contrapposizione fra questo manufatto e l’analogo di Donatello di
cui parla Vasari nelle Vite)
e gli esordi nei ‘muramenti’ che, pur dimostrando la sua bravura, non sono
all’altezza delle opere più mature: «e quel modo che prese poi, non sapeva
ancora, ché lo prese poi ch’egli ebe veduto e muramenti antichi di Roma» (p.
34). Ma è la scoperta della prospettiva la prima, vera, grande invenzione di
Filippo. Stiamo parlando di prospettiva geometrica, rigidamente lineare. «E da
lui è nato [sic] la regola» (p. 34), circostanza ancora più significativa
perché non si sa se gli antichi la conoscessero e la praticassero: «ma se pure
lo feciono con regola […] come fecie poi lui, chi lo potesse insegniare a llui
era morto di centinaia d’anni, e iscritto non si truova, e se se truova non è
inteso». Non (mi) è chiaro qui se Manetti faccia riferimento alla cosiddetta
‘prospettiva naturale’, quella degli Alhazen e di Witelo, per capirci.
Certamente la conobbe Filippo. Scritti di prospettiva lineare sono conservati
negli archivi fiorentini e Biagio Pelacani la insegnò in città sul finire del
Trecento. Manetti, insomma, elimina tutto il contesto che certamente incise sulla formazione del biografato, rendendo ‘geniale’
Brunelleschi. L’espressione tangibile del suo genio sono due dipinti (l’unico
riferimento a Filippo pittore nel testo) realizzati da Filippo secondo la
‘regola’ della prospettiva: uno del battistero di San Giovanni, l’altro, di
dimensioni più importanti, di piazza della Signoria. Le due opere sono perdute,
ma Manetti ci tiene a precisare che costituiscono l’apice della nuova scienza
prospettica: «Fucci poi Pagolo Hucciello et altri pittori che lo vollono
contrafare et imitare, che n’ho veduti più d’uno, e non è stato bene.» (p. 37).
Si passa poi all’episodio, anch’esso famosissimo del
concorso per la realizzazione della porta settentrionale del Battistero, che
vide in competizione Brunelleschi con Ghiberti e altri nel 1401. Della vicenda,
naturalmente, è offerta tutt’altra ricostruzione rispetto a quella che Ghiberti stesso propone nella sua autobiografia. Là è Lorenzo a sbaragliare la
concorrenza, qui è Filippo a essere vincitore morale della competizione, il cui
esito formale, in realtà, è un pareggio solo per il brigare dei partigiani du
Ghiberti. Nel resoconto di Antonio, Filippo si rifiuta di lavorare insieme a
Lorenzo a metà del manufatto «e andossene a Roma» (p. 40).
L’esperienza di Roma
L’esperienza di Roma è fondamentale per la vicenda
biografica di Brunelleschi, nonostante i successi già ottenuti sul piano
professionale, perché gli permette di studiare e misurare le rovine della città
Inizialmente l’interesse di Brunelleschi sembra indirizzato soprattutto alle
sculture (dice Filippo: «Egli è buono andare veggiendo dove le scolture sono
buone»), ma si converte presto all’architettura: «E nel ghuardare le scolture,
come quello che aveva buono occhio […] aveduto in tutte le chose, vide el modo
di murare degli antichi et le loro simetrie e parvegli conoscere un certo
ordine di membri et d’ossa [n.d.r di strutture] molto evidentemente» (p. 40). Vale
la pena soffermarsi sul periodo romano, che è poi quello su cui Manetti fa più
confusione, perché è esemplare di come l’autore costruisca il mito di
Brunelleschi. Stando a quanto scritto, lo spostamento nella città eterna deve
essere stato molto precoce, ossia nei primissimi anni del Quattrocento, un buon
momento, poiché «in quel tempo v’era che si potevano vedere in publico assai
delle cose buone, e di quelle che vi sono ancora, benché non molte, et di
quelle che da diversi pontefici et signori cardinali, et romani et d’altre
nazioni, sono state trafugate et portate et mandate via.» (p. 40). In realtà il
fenomeno della spoliazione delle rovine antiche di Roma è molto più antico di
quanto non scriva Manetti (basti
pensare all’abate Sugerio che, a un certo punto, pensa di far venire da
Roma colonne marmoree per l’edificazione della cattedrale di Saint Denis a
Parigi). Brunelleschi, invece, che, almeno per un periodo, è a Roma con
Donatello non è un predatore, ma decide di riscoprire le antiche pratiche
architettoniche romane studiando le rovine, promuovendo campagne di scavi e
inventando nuovi strumenti che permettano di arrivare a misurazioni più
precise. A ben vedere è quello che faranno Leon Battista Alberti (si pensi alla
Descriptio
urbis Romae), Poggio Bracciolini o Flavio Biondo qualche decennio dopo.
Anche in questo, dunque, Brunelleschi sarebbe pioniere e inventore di un nuovo
modo di vedere Roma; un modo diverso anche rispetto ad altri eruditi a lui
coevi, come si può notare mettendo a confronto le parole di Manetti con quelle
scritte dall’umanista Manuele Crisolora nelle sue lettere all’imperatore di
Bisanzio. Crisolora fu a Roma nel 1411, cioè, più o meno, negli stessi anni di
Brunelleschi. È indicativo che il suo interesse per le rovine sia soprattutto
‘antropologico’ e non legato alla riscoperta di un modo di edificare. Così,
descrivendo l’Arco di Costantino: «Tutte queste cose [n.d.r. i costumi dei
popoli] è possibile vedere come fossero reali e tutte possono essere
identificate attraverso le iscrizioni. Perciò possono essere distinti
chiaramente gli abiti e le armi usati dagli antichi, le insegne dei magistrati,
l’ordine delle truppe, gli usi di combattimento, i modi d’assedio, gli
accampamenti; e ancora come si comportavano e come si vestivano, in pace e in
guerra, nelle assemblee, in senato, nel foro, in viaggio e in navigazione» [1].
Del resto Manetti dichiara esplicitamente che non vi erano altri che si
prendessero cura di rilevare e disegnare le rovine della città: «E la cagione
del none stimare el perché, era perché in quel tenpo non era chi atendessi, né
era stato di centinaia d’anni innanzi chi avesse atteso al modo dello edificare
antico; del quale, se per alcuno autore nel tenpo de’ Gentili s’è dato precetto,
come ne’ nostri dì fecie Battista degli Alberti, poco si può altro che delle
cose generali.» (p. 43). L’autore ‘del tempo dei Gentili’ è, ovviamente, Vitruvio;
del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti bisogna ricordare che
fu edito a stampa solo nel 1485 e dunque Manetti (e Brunelleschi?) dovevano
conoscerne una versione manoscritta. L’affermazione che i trattati dicono poco,
anche quando li si capisce, e solo su aspetti generali suona come esaltazione
dell’ingegno di ogni artefice (e, naturalmente, di Brunelleschi in
particolare): «Ma le invenzioni, che sono propie del maestro, bisognia che
nella magiore parte sieno date dalla natura o dalla industria sua propia» (p.
43). Se l’esperienza di Roma è fondamentale, resta il fatto che Brunelleschi
usa l’ingegno per creare e costruire cose mai viste e che sembrano impossibili.
Se Manetti insiste sull’importanza degli studi romani, non
si può dire che mostri grande conoscenza sui tempi della permanenza di Filippo
in città. Quella che è prospettato è un periodo di molti anni, in cui sembra
che (almeno per i primi tempi) Brunelleschi (l’inventore della prospettiva!) e
Donatello esercitassero l’oreficeria per mantenersi: «E perché l’uno et l’altro
erano buoni maestri dell’arte dello orafo, passavano la vita loro, con quello
mestiero che era loro, tutto dì nelle botteghe degli orafi» (p. 42). Appare
evidente che si tratta di espedienti letterari, puri riempitivi per dare
coerenza a un periodo di cui, evidentemente, Antonio di Tuccio sa ben poco.
Alla stessa maniera siamo certamente di fronte a un riempitivo quando leggiamo:
«Nel tenpo ch’egli usò Roma per le cagioni dette di sopra, non fu però che non
venissi in Firenze molte volte, e fra l’altre, perché non mi dimentichi, nel
1409, quand’e’ fecie la natta [n.d.r. la beffa] al Grasso che diventò Matteo»
(p. 48), puro espediente per far tornare le date, visto che la Novella del
Grasso legnaiuolo è ambientata, appunto, nel 1409. Senonché, quando prende
piede la questione della cupola del Duomo (1417), Filippo sarebbe stato ancora
a Roma, tornando in pianta stabile in città nel 1420. È, insomma,
grossolanamente delineata una permanenza che sarebbe durata almeno quindici
anni, di cui sappiamo solo che Brunelleschi avrebbe studiato l’architettura
antica e lavorato come orefice; la circostanza non è credibile e va
doverosamente messa in luce perché non ci si fidi troppo di quello che scrive
Manetti. In ultima analisi, non va dimenticato che Brunelleschi morì quando
Manetti aveva 24 anni; è ben difficile che, fra i due, ammesso che si conoscessero,
come scrive l’ultimo, vi fosse una confidenza tale che Filippo avesse
raccontato per filo e per segno la sua vita ad Antonio.
L’architettura (e la sua storia).
La vicenda della costruzione della cupola è narrata con dovizia di particolari, appoggiandosi anche su dati documentari, come la già citata relazione presentata all’Opera del Duomo nel 1420.
La cupola brunelleschiana del duomo di Firenze Fonte: Fczarnowski tramite Wikimedia Commons |
Più in generale, la narrazione evidenzia l’incredulità di chi doveva decidere sulla vicenda di fronte alle proposte di Filippo, che viene addirittura cacciato fisicamente in malo modo dalle prime riunioni, il parziale ravvedimento degli amministratori di fronte a prove ‘in piccolo’ fornite da Brunelleschi, la coabitazione iniziale con Ghiberti, che viene risolta con l’affidamento dei lavori al solo ‘eroe’ manettiano e il trionfo finale. I toni elogiativi si prolungano per tutta una serie di altre opere poste in essere o di cui Filippo fornisce solo il progetto, la lettura delle quali è talmente semplice da apparire chiaramente partigiana: tutto ciò che di buono vi è in esse è idea del Brunelleschi, tutto quanto vi è di sbagliato è colpa di lavoranti invidiosi o semplicemente presuntuosi che pensano di poter discostarsi dalle istruzioni iniziali. È proprio parlando di una di queste situazioni, quella della chiesa di Santo Spirito, che il manoscritto termina (il curatore, naturalmente, fornisce anche le ultime righe del testo assenti in M, ma presenti in altri tre esemplari). Per molti versi, la visione di Antonio non è diversa da quella di molti altri suoi contemporanei: l’architettura è proporzione e simmetria, anche, se, come visto, l’ingegno e la capacità di giudizio dell’artefice hanno sempre un ruolo preponderante: «E perché trovò negli edifici [n.d.r. di Roma], tra lle cose belle et di gran spesa, diferenze assai nelle mazonerie [n.d.r. nella decorazioni in rilievo] e delle qualità delle colonne, et delle base et de capitelli, architravi, fregi et cornici e frontoni et corpi; e diferenze di templi e spesseze di colonne, col suo vedere sottile conobbe bene le distinzione di ciascuna spezie, come furono Ionicie, Doricie, Toscane, Corinte e Atticie, e usò ciascuna specie a’ tenpi et a’ luoghi, della magior parte, dove gli pareva meglio» (p. 43). In questo senso, Manetti può dirsi un ‘modernista’, come Leon Battista Alberti, anche se è chiaro che le tesi dell’uno e dell’altro non sono sovrapponibili (e più in generale, la teoria architettonica di Alberti ha ben altro spessore).
Alcune delle pagine più interessanti sono quelle in cui
Manetti traccia una sommaria storia dell’architettura; sommaria, ma non
identica alle precedenti storie delle arti, che vedevano un succedersi di
fioritura (coi greci e i romani), declino e rinascimento quattrocentesco. Antonio
introduce una variante. Sostiene sì che vi fu un netto declino
dell’architettura romana con la caduta dell’Impero romano e le invasioni dei
barbari, barbari che adottarono i metodi di murare tipici della Germania, ma
individua una parentesi, un tentativo di recupero, con l’Impero carolingio. Probabilmente
si tratta di una notazione che proviene dalle cronache di Giovanni Villani e
dalla tradizione che vuole i carolingi edificare chiese a Firenze; quello che è
certo è che per Manetti vi fu un periodo in cui Carlo cercò di tornare agli
antichi splendori. Lo fece appoggiandosi agli architetti romani che avevano
smarrito le regole dei loro predecessori, ma godevano di conoscenze empiriche,
basate semplicemente sulla visione dei resti della loro città. Merita di essere
segnalata, in conclusione, la dicotomia fra ‘disordini’ e ‘ordini’ che ricorre
frequentemente in queste righe. La cattiva architettura è quella che è caratterizzata
da ‘disordini’ (sempre al plurale), o, inconvenienti, che caratterizzano il
murare senza regole; a essa si contrappongono gli ‘ordini’ di quella buona. Non
pare esserci – e qui bisogna essere chiari – nessuna connessione fra gli
‘ordini’ manettiani, che sono regole del buon edificare, ma che sembrano
riferirsi a tutto il processo architettonico, dalla progettazione alla realizzazione
delle opere, e gli ordini architettonici di cui parla già Vitruvio, chiamandoli
però genera, e che furono codificati come ‘ordini’, in senso
prescrittivo soltanto dal 1520 circa, quando il De architectura
dell’architetto latino cessò di essere un testo con cui confrontarsi
criticamente e divenne un vero e proprio canone, da rispettare a prescindere.
NOTE
[1] Manuele Crisolora, Le due Rome. Confronto tra Roma e
Costantinopoli, a cura di Francesco Niutta con la traduzione di Francesco
Aleardi, Bologna, Pàtron, 2001, p. 66
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