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lunedì 21 ottobre 2024

Antonio Manetti. Notizia di Filippo di ser Brunellesco ovvero Vita di Filippo Brunelleschi

 

Antonio Manetti
Notizia di Filippo di ser Brunellesco
ovvero
Vita di Filippo Brunelleschi

Saggio introduttivo di Antonio Natali. Trascrizioni e note di Giuseppe Giari

Firenze, Mandragora, 2021

Recensione di Giovanni Mazzaferro




Tornare a leggere la Notizia di Filippo

Sin dalla prima riga dell’introduzione di Antonio Natali, lo scopo del libro è reso manifesto: tornare a rendere fruibile al grande pubblico la Notizia di Filippo di ser Brunellesco in un momento in cui tutte le precedenti edizioni (l’ultima nel 1992) sono andate esaurite. Va detto che, facendolo, i promotori dell’iniziativa hanno operato scelte che rendono il presente libretto particolarmente piacevole e, soprattutto, non una semplice ‘replica’ di quanto già scritto in precedenza. È così, ad esempio, che è stata operata una nuova trascrizione, a partire dal testo di Manetti, ma ovviamente tenendo conto delle edizioni precedenti e, in particolare, della fondamentale edizione critica di Domenico De Robertis, con introduzione e commento di Giuliano Tanturli, edita a Milano da Il Polifilo nel 1976. L’apparato delle note è poi sobrio, ma completo, e favorisce la comprensione del testo senza travolgere il lettore con bibliografie sconfinate. Si è poi fatto riferimento a nuove acquisizioni storiche sul testo presentate da Giuliano Tanturli in Sulla vita di Filippo Brunelleschi scritta da Antonio Manetti, trentacinque anni dopo in La biografia d’artista tra arte e letteratura. Seminari di letteratura artistica, a cura di Monica Visioli, Pavia, Edizioni Santa Caterina, 2015. Anch’io, nelle note seguenti, farò riferimento a quel contributo, uno degli ultimi di Tanturli, perché mi sembra di particolare importanza. Insomma, il volumetto edito da Mandragora mi sembra un’utile occasione per fare il punto su un testo molto noto, ma, come capita spesso, ancora ricco di incognite.
 

Le testimonianze manoscritte

Il lavoro di Giuseppe Giari è stato condotto sul manoscritto II.II.325 della Biblioteca Nazionale di Firenze (d’ora in poi M). Il manoscritto, privo di autore e di titolo, è stato riconosciuto come certamente di mano di Manetti da Giuliano Tanturli (ma già Gaetano Milanesi, a fine Ottocento, lo attribuiva ad Antonio di Tuccio). Esistono altri quattro esemplari dell’opera, tutti più tardi, di cui uno è copia di quello sopra citato. Gli altri tre sono privi della parte iniziale della Notizia manettiana, ma, rispetto a essa, includono righe finali che non sono presenti in M. In ogni caso, il testo manettiano è certamente incompleto. Su questo punto torneremo. In realtà M presenta due opere separate, entrambe scritte da Manetti: la prima è la celeberrima Novella del Grasso legnaiuolo, che vede Brunelleschi protagonista e principale artefice di una beffa ordita ai danni di Manetto Ammannatini, legnaiolo e intarsiatore amico di Filippo, detto il Grasso (il body-shaming non andava ancora di moda); la seconda, appunto, è la Notizia di Filippo. Si tratta di due scritti di gestazione completamente diversa: il primo è il resoconto di una beffa nota in città da decenni e che veniva trasmessa oralmente, ma anche per iscritto, in forme fra loro diverse. La più comune, e quella letterariamente più debole, è la cosiddetta ‘redazione volgare’, mentre Manetti interviene proprio da un punto di vista letterario rendendo la novella più piacevole alla lettura. Ne parleremo in altra occasione.

Sto usando sistematicamente il termine ‘Notizia’ adeguandomi alle osservazioni di Tanturli del 2015. In realtà, dal 1812, da quando, cioè, uscì la prima edizione a stampa, si parla di ‘Vita’ di Filippo Brunelleschi. Manetti scrive, di fatto, quella che è la prima biografia d’artista a noi nota (quelle di Ghiberti nei Commentarii e di Leon Battista Alberti sono autobiografie), ma lo fa – osserva Tanturli – senza che essa abbia tutti i crismi del genere, innanzi tutto perché si appoggia, a forma di dittico, alla Novella del Grasso legnaiuolo; va poi detto che, nel suo testo Manetti parla apertamente di Notizia ed è dunque più corretto far riferimento al lemma usato ai suoi tempi.
 

Anno di redazione, destinatario, incompletezza

Antonio di Tuccio Manetti nacque nel 1423 e morì nel 1497 (e conobbe personalmente Brunelleschi, stando a quanto dichiara. Certamente era molto giovane e Filippo molto anziano). Verrebbe naturale pensare che, essendo incompleta, la Notizia sia stata scritta negli ultimissimi anni della sua vita. E invece no. Tanturli individua una data che si colloca attorno al 1480 (forse anche l’anno prima) senza possibilità di andare molto oltre. Quello che piace del celebre studioso è il suo pervenire a risultati ben motivati senza mai rinunciare al beneficio del dubbio e alla consapevolezza che nuove acquisizioni potrebbero ribaltare le sue conclusioni. Va però detto che Tanturli giunge a un primo risultato osservando la calligrafia del manoscritto e come essa rifletta il periodo della maturità dell’umanista fiorentino più che quella, assai più incerta, della vecchiaia. La comparazione degli esemplari giunti sino a noi porta l’interprete a concludere, in maniera convincente, che, con ogni probabilità la redazione della Notizia non è stata interrotta per un evento ‘di causa maggiore’, come può essere la morte o una malattia invalidante, ma volontariamente abbandonata. Perché? Il destinatario dell’opera è un tale Girolamo («Tu disidiri, Girolamo, d’intendere chi questo Filippo…»). Sin da fine Ottocento, ossia sin dai tempi della redazione del testo edita a stampa a cura di Gaetano Milanesi, si è ritenuto che quel Girolamo fosse Girolamo Benivieni (1453-1542) con cui Manetti ebbe, senza dubbio alcuno, relazioni amichevoli e frequenti. Ma Tanturli, facendo riferimento ad acquisizioni archivistiche recenti, ipotizza che possa essere un altro Girolamo, anch’egli intimo di Manetti e suo interlocutore intellettuale. Si tratta di Girolamo Pasqualini. Pasqualini era vivo nel 1478, ma morì certamente prima del febbraio 1480, probabilmente per l’epidemia di peste che imperversava in città in quei tempi. Se il destinatario fosse stato, appunto, Pasqualini, abbiamo appunto una spiegazione logica (fino a un certo punto) dell’abbandono della redazione della Notizia da parte di Manetti: la morte del destinatario. ‘Fino a un certo punto’? Sì, come ammette lo stesso Tanturli, perché tutto ciò comporterebbe che lo scritto avesse una natura molto privata e personale, quasi non fosse destinato alla pubblicazione. La sua ragione di essere sarebbe dipesa dalla sola esistenza in vita di Pasqualini, mentre, in caso di un progetto più ambizioso, diretto appunto alla stampa, sarebbe bastato cambiare il nome del destinatario. Come vedete, gli interrogativi continuano a persistere.
 

La giovinezza e la prospettiva.

Di fatto una biografia, come si è detto, la Notizia tesse naturalmente le lodi di Filippo Brunelleschi, ripercorrendo alcune tappe della sua vita e le sue principali realizzazioni. In generale, a dominare è l’esaltazione dell’ingegno di Filippo, un ingegno così sottile da riuscire a realizzare cose che nessun altro sarebbe stato in grado nemmeno di pensare. Il caso della cupola del Duomo, di cui viene, peraltro, trascritto il testo della relazione presentato all’Opera del Duomo nel 1420 è, naturalmente, l’episodio centrale della biografia, ma in realtà è successivo ad alcuni passaggi altrettanto significativi. Si comincia esaltando il talento del giovane artista «rispetto al fondamento del disegnio» (p. 32), l’esordio come orefice, i lavori di smalto e niello, come pure quelli legati alla lavorazione tridimensionale delle pietre preziose. Si passa poi, senza soluzione di continuità a parlare delle prime sculture, dal crocefisso ligneo di Santa Maria Novella (ma non è proposta la contrapposizione fra questo manufatto e l’analogo di Donatello di cui parla Vasari nelle Vite) e gli esordi nei ‘muramenti’ che, pur dimostrando la sua bravura, non sono all’altezza delle opere più mature: «e quel modo che prese poi, non sapeva ancora, ché lo prese poi ch’egli ebe veduto e muramenti antichi di Roma» (p. 34). Ma è la scoperta della prospettiva la prima, vera, grande invenzione di Filippo. Stiamo parlando di prospettiva geometrica, rigidamente lineare. «E da lui è nato [sic] la regola» (p. 34), circostanza ancora più significativa perché non si sa se gli antichi la conoscessero e la praticassero: «ma se pure lo feciono con regola […] come fecie poi lui, chi lo potesse insegniare a llui era morto di centinaia d’anni, e iscritto non si truova, e se se truova non è inteso». Non (mi) è chiaro qui se Manetti faccia riferimento alla cosiddetta ‘prospettiva naturale’, quella degli Alhazen e di Witelo, per capirci. Certamente la conobbe Filippo. Scritti di prospettiva lineare sono conservati negli archivi fiorentini e Biagio Pelacani la insegnò in città sul finire del Trecento. Manetti, insomma, elimina tutto il contesto che certamente incise sulla formazione del biografato, rendendo ‘geniale’ Brunelleschi. L’espressione tangibile del suo genio sono due dipinti (l’unico riferimento a Filippo pittore nel testo) realizzati da Filippo secondo la ‘regola’ della prospettiva: uno del battistero di San Giovanni, l’altro, di dimensioni più importanti, di piazza della Signoria. Le due opere sono perdute, ma Manetti ci tiene a precisare che costituiscono l’apice della nuova scienza prospettica: «Fucci poi Pagolo Hucciello et altri pittori che lo vollono contrafare et imitare, che n’ho veduti più d’uno, e non è stato bene.» (p. 37).

Si passa poi all’episodio, anch’esso famosissimo del concorso per la realizzazione della porta settentrionale del Battistero, che vide in competizione Brunelleschi con Ghiberti e altri nel 1401. Della vicenda, naturalmente, è offerta tutt’altra ricostruzione rispetto a quella che Ghiberti stesso propone nella sua autobiografia. Là è Lorenzo a sbaragliare la concorrenza, qui è Filippo a essere vincitore morale della competizione, il cui esito formale, in realtà, è un pareggio solo per il brigare dei partigiani du Ghiberti. Nel resoconto di Antonio, Filippo si rifiuta di lavorare insieme a Lorenzo a metà del manufatto «e andossene a Roma» (p. 40).
 

L’esperienza di Roma

L’esperienza di Roma è fondamentale per la vicenda biografica di Brunelleschi, nonostante i successi già ottenuti sul piano professionale, perché gli permette di studiare e misurare le rovine della città Inizialmente l’interesse di Brunelleschi sembra indirizzato soprattutto alle sculture (dice Filippo: «Egli è buono andare veggiendo dove le scolture sono buone»), ma si converte presto all’architettura: «E nel ghuardare le scolture, come quello che aveva buono occhio […] aveduto in tutte le chose, vide el modo di murare degli antichi et le loro simetrie e parvegli conoscere un certo ordine di membri et d’ossa [n.d.r di strutture] molto evidentemente» (p. 40). Vale la pena soffermarsi sul periodo romano, che è poi quello su cui Manetti fa più confusione, perché è esemplare di come l’autore costruisca il mito di Brunelleschi. Stando a quanto scritto, lo spostamento nella città eterna deve essere stato molto precoce, ossia nei primissimi anni del Quattrocento, un buon momento, poiché «in quel tempo v’era che si potevano vedere in publico assai delle cose buone, e di quelle che vi sono ancora, benché non molte, et di quelle che da diversi pontefici et signori cardinali, et romani et d’altre nazioni, sono state trafugate et portate et mandate via.» (p. 40). In realtà il fenomeno della spoliazione delle rovine antiche di Roma è molto più antico di quanto non scriva Manetti (basti pensare all’abate Sugerio che, a un certo punto, pensa di far venire da Roma colonne marmoree per l’edificazione della cattedrale di Saint Denis a Parigi). Brunelleschi, invece, che, almeno per un periodo, è a Roma con Donatello non è un predatore, ma decide di riscoprire le antiche pratiche architettoniche romane studiando le rovine, promuovendo campagne di scavi e inventando nuovi strumenti che permettano di arrivare a misurazioni più precise. A ben vedere è quello che faranno Leon Battista Alberti (si pensi alla Descriptio urbis Romae), Poggio Bracciolini o Flavio Biondo qualche decennio dopo. Anche in questo, dunque, Brunelleschi sarebbe pioniere e inventore di un nuovo modo di vedere Roma; un modo diverso anche rispetto ad altri eruditi a lui coevi, come si può notare mettendo a confronto le parole di Manetti con quelle scritte dall’umanista Manuele Crisolora nelle sue lettere all’imperatore di Bisanzio. Crisolora fu a Roma nel 1411, cioè, più o meno, negli stessi anni di Brunelleschi. È indicativo che il suo interesse per le rovine sia soprattutto ‘antropologico’ e non legato alla riscoperta di un modo di edificare. Così, descrivendo l’Arco di Costantino: «Tutte queste cose [n.d.r. i costumi dei popoli] è possibile vedere come fossero reali e tutte possono essere identificate attraverso le iscrizioni. Perciò possono essere distinti chiaramente gli abiti e le armi usati dagli antichi, le insegne dei magistrati, l’ordine delle truppe, gli usi di combattimento, i modi d’assedio, gli accampamenti; e ancora come si comportavano e come si vestivano, in pace e in guerra, nelle assemblee, in senato, nel foro, in viaggio e in navigazione» [1]. Del resto Manetti dichiara esplicitamente che non vi erano altri che si prendessero cura di rilevare e disegnare le rovine della città: «E la cagione del none stimare el perché, era perché in quel tenpo non era chi atendessi, né era stato di centinaia d’anni innanzi chi avesse atteso al modo dello edificare antico; del quale, se per alcuno autore nel tenpo de’ Gentili s’è dato precetto, come ne’ nostri dì fecie Battista degli Alberti, poco si può altro che delle cose generali.» (p. 43). L’autore ‘del tempo dei Gentili’ è, ovviamente, Vitruvio; del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti bisogna ricordare che fu edito a stampa solo nel 1485 e dunque Manetti (e Brunelleschi?) dovevano conoscerne una versione manoscritta. L’affermazione che i trattati dicono poco, anche quando li si capisce, e solo su aspetti generali suona come esaltazione dell’ingegno di ogni artefice (e, naturalmente, di Brunelleschi in particolare): «Ma le invenzioni, che sono propie del maestro, bisognia che nella magiore parte sieno date dalla natura o dalla industria sua propia» (p. 43). Se l’esperienza di Roma è fondamentale, resta il fatto che Brunelleschi usa l’ingegno per creare e costruire cose mai viste e che sembrano impossibili.

Se Manetti insiste sull’importanza degli studi romani, non si può dire che mostri grande conoscenza sui tempi della permanenza di Filippo in città. Quella che è prospettato è un periodo di molti anni, in cui sembra che (almeno per i primi tempi) Brunelleschi (l’inventore della prospettiva!) e Donatello esercitassero l’oreficeria per mantenersi: «E perché l’uno et l’altro erano buoni maestri dell’arte dello orafo, passavano la vita loro, con quello mestiero che era loro, tutto dì nelle botteghe degli orafi» (p. 42). Appare evidente che si tratta di espedienti letterari, puri riempitivi per dare coerenza a un periodo di cui, evidentemente, Antonio di Tuccio sa ben poco. Alla stessa maniera siamo certamente di fronte a un riempitivo quando leggiamo: «Nel tenpo ch’egli usò Roma per le cagioni dette di sopra, non fu però che non venissi in Firenze molte volte, e fra l’altre, perché non mi dimentichi, nel 1409, quand’e’ fecie la natta [n.d.r. la beffa] al Grasso che diventò Matteo» (p. 48), puro espediente per far tornare le date, visto che la Novella del Grasso legnaiuolo è ambientata, appunto, nel 1409. Senonché, quando prende piede la questione della cupola del Duomo (1417), Filippo sarebbe stato ancora a Roma, tornando in pianta stabile in città nel 1420. È, insomma, grossolanamente delineata una permanenza che sarebbe durata almeno quindici anni, di cui sappiamo solo che Brunelleschi avrebbe studiato l’architettura antica e lavorato come orefice; la circostanza non è credibile e va doverosamente messa in luce perché non ci si fidi troppo di quello che scrive Manetti. In ultima analisi, non va dimenticato che Brunelleschi morì quando Manetti aveva 24 anni; è ben difficile che, fra i due, ammesso che si conoscessero, come scrive l’ultimo, vi fosse una confidenza tale che Filippo avesse raccontato per filo e per segno la sua vita ad Antonio.
 

L’architettura (e la sua storia).

La vicenda della costruzione della cupola è narrata con dovizia di particolari, appoggiandosi anche su dati documentari, come la già citata relazione presentata all’Opera del Duomo nel 1420. 

La cupola brunelleschiana del duomo di Firenze
Fonte: Fczarnowski tramite Wikimedia Commons

Più in generale, la narrazione evidenzia l’incredulità di chi doveva decidere sulla vicenda di fronte alle proposte di Filippo, che viene addirittura cacciato fisicamente in malo modo dalle prime riunioni, il parziale ravvedimento degli amministratori di fronte a prove ‘in piccolo’ fornite da Brunelleschi, la coabitazione iniziale con Ghiberti, che viene risolta con l’affidamento dei lavori al solo ‘eroe’ manettiano e il trionfo finale. I toni elogiativi si prolungano per tutta una serie di altre opere poste in essere o di cui Filippo fornisce solo il progetto, la lettura delle quali è talmente semplice da apparire chiaramente partigiana: tutto ciò che di buono vi è in esse è idea del Brunelleschi, tutto quanto vi è di sbagliato è colpa di lavoranti invidiosi o semplicemente presuntuosi che pensano di poter discostarsi dalle istruzioni iniziali. È proprio parlando di una di queste situazioni, quella della chiesa di Santo Spirito, che il manoscritto termina (il curatore, naturalmente, fornisce anche le ultime righe del testo assenti in M, ma presenti in altri tre esemplari). Per molti versi, la visione di Antonio non è diversa da quella di molti altri suoi contemporanei: l’architettura è proporzione e simmetria, anche, se, come visto, l’ingegno e la capacità di giudizio dell’artefice hanno sempre un ruolo preponderante: «E perché trovò negli edifici [n.d.r. di Roma], tra lle cose belle et di gran spesa, diferenze assai nelle mazonerie [n.d.r. nella decorazioni in rilievo] e delle qualità delle colonne, et delle base et de capitelli, architravi, fregi et cornici e frontoni et corpi; e diferenze di templi e spesseze di colonne, col suo vedere sottile conobbe bene le distinzione di ciascuna spezie, come furono Ionicie, Doricie, Toscane, Corinte e Atticie, e usò ciascuna specie a’ tenpi et a’ luoghi, della magior parte, dove gli pareva meglio» (p. 43). In questo senso, Manetti può dirsi un ‘modernista’, come Leon Battista Alberti, anche se è chiaro che le tesi dell’uno e dell’altro non sono sovrapponibili (e più in generale, la teoria architettonica di Alberti ha ben altro spessore).

Alcune delle pagine più interessanti sono quelle in cui Manetti traccia una sommaria storia dell’architettura; sommaria, ma non identica alle precedenti storie delle arti, che vedevano un succedersi di fioritura (coi greci e i romani), declino e rinascimento quattrocentesco. Antonio introduce una variante. Sostiene sì che vi fu un netto declino dell’architettura romana con la caduta dell’Impero romano e le invasioni dei barbari, barbari che adottarono i metodi di murare tipici della Germania, ma individua una parentesi, un tentativo di recupero, con l’Impero carolingio. Probabilmente si tratta di una notazione che proviene dalle cronache di Giovanni Villani e dalla tradizione che vuole i carolingi edificare chiese a Firenze; quello che è certo è che per Manetti vi fu un periodo in cui Carlo cercò di tornare agli antichi splendori. Lo fece appoggiandosi agli architetti romani che avevano smarrito le regole dei loro predecessori, ma godevano di conoscenze empiriche, basate semplicemente sulla visione dei resti della loro città. Merita di essere segnalata, in conclusione, la dicotomia fra ‘disordini’ e ‘ordini’ che ricorre frequentemente in queste righe. La cattiva architettura è quella che è caratterizzata da ‘disordini’ (sempre al plurale), o, inconvenienti, che caratterizzano il murare senza regole; a essa si contrappongono gli ‘ordini’ di quella buona. Non pare esserci – e qui bisogna essere chiari – nessuna connessione fra gli ‘ordini’ manettiani, che sono regole del buon edificare, ma che sembrano riferirsi a tutto il processo architettonico, dalla progettazione alla realizzazione delle opere, e gli ordini architettonici di cui parla già Vitruvio, chiamandoli però genera, e che furono codificati come ‘ordini’, in senso prescrittivo soltanto dal 1520 circa, quando il De architectura dell’architetto latino cessò di essere un testo con cui confrontarsi criticamente e divenne un vero e proprio canone, da rispettare a prescindere.

NOTE

[1] Manuele Crisolora, Le due Rome. Confronto tra Roma e Costantinopoli, a cura di Francesco Niutta con la traduzione di Francesco Aleardi, Bologna, Pàtron, 2001, p. 66

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