Lodovico Guicciardini
Descrittione di tutti i Paesi Bassi
A cura di Dina Aristodemo
2 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2020
Avvertenza
C’è un motivo particolare per cui la Descrittione di
tutti i Paesi Bassi di Ludovico Guicciardini (1521-1589) viene citata
frequentemente nell’ambito della letteratura artistica. In particolare,
all’interno della sua opera, è presente un’importante sezione dedicata ai «gran
maestri d’arte et d’inventione» fiamminghi che ha sempre rappresentato una
fonte di informazioni particolarmente importante per gli storici dell’arte.
Naturalmente ne parlerò anch’io. Non mi sembra, invece, che siano stati
valutati nella loro interezza i debiti reciproci fra Vasari e Lodovico nella
redazione delle loro opere. Anche di questo parlerò. Se siete interessati
esclusivamente a questi argomenti, leggete solo gli ultimi tre paragrafi della
recensione. Personalmente proverò a delineare prima l’importanza di un’opera
che ha conosciuto tre edizioni in italiano (1567, 1581 e 1588), tre in francese
(1567, 1568 e 1582) e due tedesche (1580 e 1582), vivente Guicciardini, ma poi
che è stata ristampata nella nostra lingua solo nel 2014 (a cura di Monia
Carnevali e Marco Rossi, senza indici e annotazioni) e ha visto uscire
finalmente un’edizione critica per mano di Dina Aristodemo nel 2020. Aristodemo,
in realtà, parte da lontano, ossia dal 1994, anno in cui redasse l’edizione
critica dell’opera per il suo dottorato, senza però darla alle stampe. Lì si
trova il seme di questa pubblicazione. Va peraltro detto che all’oblio italiano
è corrisposta, invece, ampia fortuna internazionale. Gli storici, specialmente
belgi e olandesi, ritengono la Descrittione una fonte importantissima,
in particolar modo per l’affidabilità delle informazioni che presenta e perché
si tratta del primo esempio di descrizione corografica dei Paesi Bassi (anche
se la curatrice segnala delle ‘anomalie’ rispetto al genere).
Lodovico Guicciardini
Prima, però, alcune note su Guicciardini, desunte
dall’Introduzione della curatrice. Guicciardini (nipote del più noto Francesco)
apparteneva a una famiglia fiorentina di grande tradizione nell’ambito della
mercatura e della vita politica cittadina. Fu avviato ben presto al commercio e
mandato a Lione nel 1538 per fare pratica; dal 1540 fu ad Anversa, la vera e
incontrastata capitale del commercio europeo dell’epoca, dove giungevano e
partivano merci per tutto il mondo e dove viveva già uno dei suoi fratelli
maggiori. Il dato che risulta più stupefacente è che non risulta essere mai più
rientrato in patria; eppure è chiaro che, culturalmente, era e restò fiorentino.
Lodovico, insomma, fu una classica figura di raccordo fra l’Italia (e Firenze
in particolare) e i Paesi Bassi: «La Descrittione è […] opera di uno
scrittore che, malgrado la lontananza, rimane profondamente legato alla cultura
del Paese d’origine e che con la cultura del Paese ospite ha un rapporto
dialogico […], per il quale la comprensione di una cultura diversa dalla
propria non implica che ci si debba immedesimare in essa né che si debba
dimenticare la propria» (vol. I, p. 42). Lodovico si dedicò alla mercatura fino
al 1555 circa, peraltro senza particolare fortuna e, anzi, con un fallimento
alle spalle, ma è chiaro che i suoi interessi si orientarono ben presto verso
gli ambienti umanistici e cosmopoliti che vivevano in città. Questo circolo fu
la reale ‘comfort zone’ del nostro e anche grazie a esso l’oriundo fiorentino
riuscì a dar vita a una serie di opere, dai Commentari (di argomento
storico) e L’hore di ricreatione a I Precetti et Sententie, sulle
quali spicca, appunto la Descrittione, suo autentico capolavoro. Della
sua vita, in realtà, sappiamo molto poco. Le testimonianze ce lo descrivono
come uomo certo non ricco, ma comunque inserito nella società civile di
Anversa, non senza qualche disavventura giudiziaria, come quando fu
imprigionato fra aprile 1569 e settembre 1570, in sostanza per aver espresso e
diffuso opinioni poco gradite al duce d’Alba, all’epoca rappresentante
(tirannico) di re Filippo II di Spagna.
Il frontespizio della prima edizione Fonte: https://www.abebooks.it/Descrittione-Paesi-Bassi-altrimenti-detti-Germania/31715120589/bd#&gid=1&pid=3 |
La Descrittione di tutti i Paesi Bassi
La Descrittione di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti
Germania inferiore (intesa come Germania dove le terre sono più basse),
furono pubblicati per la prima volta, in italiano, nel 1567 per i tipi di
Guglielmo Silvio (nome umanistico di Willem Verwilt). La seconda e la terza
edizione, molto accresciute, furono invece edite nel 1581 e nel 1588 nella
stamperia di Christophe Plantin. Parlare di Plantin come uno stampatore è,
semplicemente, riduttivo. Plantin fu, per Anversa, quello che era stato Manuzio
per Venezia, e fors’anche di più, come del resto testimonia lo stesso Lodovico
nella Descrittione, con toni encomiastici, ma veritieri: «non ci è forse
notitia che insino al presente si sia veduta, o vegga in tutta l’Europa cosa
pari a questa, ove siano più presse et più torcoli, più lettere et più sorte di
caratteri, più stampe et più strumenti […], et finalmente più huomini, proprii
et prestanti, condotti a gran salari per lavorare et rivedere in tutte le
lingue (io non eccettuo alcuna) litterali et vulgari che si usino tra’
christiani» (vol. 1, p. 65). Pur non essendoci alcun riscontro, mi sembrerebbe
logico che Guicciardini possa aver collaborato con Plantin nella revisione di
testi in italiano.
L’opera fornisce la descrizione di tutte le diciassette
province costituenti all’epoca i Paesi Bassi. Sin dal titolo è evidente
l’aspetto programmatico: nella loro varietà le province costituiscono una sorta
di entità statuale statuale (sotto il dominio personale degli Asburgo), con una
propria specifica fisionomia (p. 96). E quindi è del tutto logico che il libro
si apra con una descrizione generale «che compendia gli aspetti geopolitici del
Paese, le caratteristiche antropologiche degli abitanti e gli usi più comuni»
(pp. 51-52); solo dopo di essa incontriamo la narrazione ‘particolare’ e
analitica di ogni provincia al cui centro si staglia Anversa che, da sola,
occupa un quinto dello scritto. La sequenza delle province, non a caso, segue
un andamento geografico circolare attorno alla città. Collocati fra Francia e
Germania, i Paesi Bassi, come si legge sin dal titolo, sono considerati come
abitati da popolazioni di origine germanica che vivono in una società
fortemente evoluta sia in termini politici che in quelli economici. E questo
non solo in province come le Fiandre e il Brabante, dove il livello di
benessere è particolarmente alto, ma anche nelle province periferiche, come
l’Olanda. L’idea di Guicciardini è che i tedeschi dei Paesi Bassi siano
riusciti a rompere con la barbarie dei loro avi batavi [1] e abbiano sviluppato
nuove forme di convivenza civile grazie (e qui le influenze italiane, da
Macchiavelli allo zio Francesco sono evidenti) a una forma politica che si regge
sul governo misto sovrano / aristocrazia / popolo. Le parole d’ordine sono due:
‘civiltà’ e ‘politia’, intesa come buon governo. Le due cose si tengono fra
loro indissolubilmente. Il benessere economico è il risultato del loro saggio
utilizzo e proprio per questo vale la pena descriverlo in ogni sua
manifestazione. Quella di Guicciardini non è una descrizione artistica; non si
entra nelle chiese e se ne descrivono una ad una le opere d’arte, cappella per
cappella. Si tratta piuttosto di una testimonianza di ogni aspetto del vivere
civile del Paese, a partire dalla famosissima e preziosissima descrizione delle
attività mercantili che si svolgono ad Anversa per finire con la dettagliata
illustrazione delle tecniche di costruzione delle dighe nel nord del paese, che
lo proteggono dalla furia del Mare del Nord e anzi mirano a rendere coltivabili
aree altrimenti destinate a finire sott’acqua.
Un mondo incantato?
A questo punto non posso non affrontare una questione
delicata, relativa all’effettiva rispondenza della descrizione di Guicciardini alla
realtà. È necessario aprire una parentesi sull’intricata situazione politica
dell’area nella seconda metà del Cinquecento. I Paesi Bassi, ripartiti
‘ufficialmente’ in diciassette province e noti in tutta Europa come Fiandre, erano
possedimento personale della famiglia imperiale degli Asburgo già dalla fine
del Quattrocento. Dopo l’abdicazione di Carlo V (1556), passarono in mano del
figlio Filippo II. Già nei primi anni del regno di Filippo vennero al pettine
due problemi fondamentali: le pretese fiscali di Filippo rispetto ai suoi
possedimenti, vissute come un’imposizione e un danno da gran parte della
popolazione (Guicciardini compreso, che proprio per questo finì in prigione) e
la questione religiosa: alcune province settentrionali, la principale delle
quali era l’Olanda, avevano ormai aderito al protestantesimo, in confessioni
diverse, ma con prevalenza del calvinismo. Il 1566 è l’anno della cosiddetta
‘furia iconoclasta’, in cui si verificano celebri episodi di fanatismo
religioso con la distruzione di chiese, dipinti, sculture, soprattutto a Gand.
È anche l’anno in cui Filippo invia nei Paesi Bassi il duca d’Alba che non
esitò a ricorrere a forme durissime di repressione delle rivolte, in cui si
erano saldate istanze sociali e religiose. Per quanto possano valere queste
cose, si fissa al 1568 lo scoppio della cosiddetta ‘Guerra degli ottanta anni’,
che ebbe varie fasi e si risolse solo nel 1648 con il riconoscimento
dell’indipendenza delle cosiddette Province unite del Nord. Senza scendere in
particolari, Anversa conobbe situazioni difficilissime, come quelle del sacco
del 1576, passando sotto il controllo spagnolo o del fronte avverso in più di
un’occasione. Ora, se è vero che la prima edizione della Descrittione,
pubblicata nel 1567, fa idealmente il punto della situazione al 1560, e quindi
ancora in una fase di non belligeranza, ciò che più si addebita a Guicciardini
è di non aver tenuto conto, nella seconda e nella terza, della guerra civile e,
quindi, di aver continuato a rappresentare un mondo idilliaco, che però era
fuori dal tempo e non esisteva più.
Aristodemo nega la circostanza, o, meglio, la nega nella sua
drasticità. Certamente molte parti dell’opera non sono aggiornate, ma è
altrettanto indiscutibile che «una lettura, per poco attenta che sia, evidenzia
subito nella terza edizione [n.d.r. quella presentata dalla curatrice, con
indicazione delle varianti rispetto alle precedenti] tutta una disseminazione
di aggiunte che mostrano da parte dello scrittore i segni e la consapevolezza
di una situazione mutata». (p. 46). In fondo alla descrizione di Anversa, ad
esempio, l’autore scrive che le cose sono ben cambiate rispetto alla prima
edizione in termini di prosperità e felicità e rimanda alla redazione di una
nuova edizione dei Commentari per trattarne nello specifico. Che poi
questa nuova edizione non sia mai uscita è altro discorso (Francesco morì
l’anno dopo), ma è chiaro che Francesco non vuole ‘coprire’ nessuno. Semmai
desidera fare della storia e non della cronaca, e quindi storicizzare
avvenimenti i cui esiti non sono ancora per nulla chiari. Certamente
Guicciardini continua a credere nell’unità dei Paesi Bassi, dichiarando
‘contumaci’ le province del Nord, a partire da Olanda e Zelanda, che non
riconoscono la monarchia di Filippo e stigmatizzando le «pestifere heresie»; percontemporaneamente
emerge il disgusto le «incivilissime
guerre civili» che hanno portato distruzione in quello che, fino a pochi anni
prima, era uno Stato politicamente ed economicamente esemplare. Lodovico,
dunque, fa una scelta di campo, come del resto risulta dalle dediche al re
cattolico, ma contemporaneamente non mostra di essere un estremista e di
sperare, ancora, in una conciliazione sotto lo scettro spagnolo che consenta di
superare distruzioni e morti.
Gli artisti moderni
La sezione dedicata agli artisti è compresa all’interno
della descrizione di Anversa. Giunge dopo un lungo rendiconto dedicato al
commercio che si esercita in città; rendiconto ritenuto fondamentale dagli
storici dell’economia. Anche gli artisti, pur nella loro specificità, sono
considerati nell’ottica della mercatura. Guicciardini non presenta discorsi
legati alla nobiltà della professione o rivendicazioni sulla specificità del
fare artistico, ma sfodera una lista di artisti di eccellenza (morti o viventi),
perché la pittura è un mestiere che ha ruolo importante nel ruolo dell’economia
cittadina e che rende Anversa famosa nel mondo: «Ma perché l’arte della
pittura, et per utilità et per honore, è cosa di momento non solamente in
Anversa et in Malines, ove è mestiere d’importanza, ma arte importante ancora
per tutto il Paese, par conveniente et a proposito di nominare alcuni di quegli
che in queste bande l’hanno più ampliata et più illustrata, vivi et morti»
(vol. II, p. 145). La trattazione si conclude in termini analoghi: «L’opere de’
quali pittori sono sparse non solamente per tutti questi Paesi [n.d.r. i Paesi
Bassi], ma sparse ancora per la maggior parte del mondo, perché se ne fa
mercantia di non piccola importanza» (p. 149).
Quali sono le conoscenze di Lodovico nei confronti dell’arte? Lascerei da parte, per il momento, le pagine dedicate ai morti, per riferirmi ai ‘moderni’, ossia ai viventi. Probabile che Guicciardini conoscesse molti dei nomi che stava citando; in fondo quasi tutti vivevano ad Anversa ed una frequentazione è tutt’altro che improbabile. Così, ad esempio, potrebbe aver conosciuto e frequentato Frans Floris, di cui elogia non solo la bravura, ma anche il carattere: «di natura è huomo molto gentile et cortese» (vol. II p. 147). Correttamente ne individua lo stile michelangiolesco appreso in Italia: «a costui s’attribuisce la palma d’haver portato d’Italia la maestra [n.d.r. sic; presumo per la ‘maestria’, oppure la ‘strada maestra’] del far muscoli et scorci naturali et maravigliosi. Personalmente mi inducono a pensare a una conoscenza personale diretta anche le parole spese per Lambert Lombard: «costui, fra le altre sue virtù, si diletta molto delle medaglie antiche et però n’ha raccolto et va raccogliendo generosamente gran numero» (ivi). Certo, l’autore coglie una dinamica fondamentale dell’arte dell’epoca sua: «I quali dipintori, architettori et scultori mentionati sono stati quasi tutti in Italia, chi per imparare, chi per vedere cose antiche et conoscere gli huomini eccellenti della loro professione, et chi per cercar ventura et farsi conoscere, onde adempiuto il desiderio loro, ritornano il più delle volte alla patria con esperienza, con facultà et con honore. Et di qui poi si spargono maestri per l’Inghilterra, per tutta l’Alamagna, et specialmente per la Danimarca, per la Svetia, per la Norvegia, per la Pollonia et per altri Paesi settentrionali insino per la Moscovia, senza parlare di quelli che vanno per la Francia, per la Spagna et per il Portogallo, il più delle volte chiamati con gran provvisione da principi, da repubbliche et da altri potentati, cosa non meno maravigliosa che honorata» (pp. 150-151). Quello che Guicciardini descrive è un meccanismo commerciale, con un investimento iniziale (lo spostamento in Italia per imparare a dipingere) e i frutti che ne conseguono dopo il ritorno nei Paesi Bassi. L’elenco degli artisti è sostanzialmente completo; non si può escludere che Lodovico si sia fatto aiutare da qualche suo conoscente esercitante la professione: il numero degli allievi di Floris, ad esempio, è elevato. L’approccio è, comunque, ‘laico’: non esiste un genere di pittura superiore all’altro. Nella fattispecie non c’è una gerarchia che parta dalla pittura di historia e termini col ritratto. Non esiste, o, comunque, non viene esplicitata una frattura fra pittura ‘alta’ e ‘bassa’. Trovano spazio le historie («Guglielmo Cai di Breda, cittadino d’Anversa, pittore d’historie eccellente»), ma anche i ritratti (per cui Guicciardini sembra avere una passione particolare) e la pittura di paesaggio («Antonio van den Wigarde, gran pittore et perfetto nel ritrarre terre al naturale»). Particolarmente interessante è l’apprezzamento per la pittura di ‘fantasia’: «Piero Brueghel di Breda, grande imitatore della scienza et fantasie di Girolamo Bosco, onde n’ha anche acquistato il sopranome di «Secondo Girolamo Bosco»» (vol. II, p. 148). Del resto, poco prima, parlando del defunto Hieronymus Bosch, Guicciardini lo aveva tratteggiato come «inventore nobilissimo et maraviglioso di cose fantastiche e bizzarre» (vol. II p. 146). Il sospetto è che questa valutazione tenga conto anche della fortuna commerciale delle opere di Bosch all’epoca, fortuna che trova perfetto riscontro nel Comentario de la pintura y pintores antiguos di Felipe de Guevara, scritto attorno al 1560. In un’occasione, isolata, ma importante, Lodovico esprime anche un giudizio chiaramente personale, il che induce a pensare a un’attenzione non superficiale all’esame dei dipinti. Succede quando il fiorentino parla di Guglielmo Cau di Breda (Willem Key, 1515.1568), che oltre a essere pittore di storie è anche eccellente ritrattista: suo nipote, «Adriano Tommaso Cai [n.d.r. Adriaen Thomasz Key, 1544 circa – post 1589, in realtà suo cugino] è tanto eccellente nell’arte che, a mio giuditio, nel dare una certa vivacità alla sue cose trapassa il zio» (vol. II, 147), il che, ovviamente, presume una visione diretta delle opere.
Hieronymus Bosch, Trittico dell'Adorazione dei Magi, Madrid, Museo del Prado Fonte: https://www.museodelprado.es/ |
«Ho visto lui che copia lui» (semicit.)
Un discorso a parte va fatto per gli artisti antichi, o
defunti che dir si voglia. Qui Guicciardini fa ricorso (esplicitamente) all’impianto
vasariano delle Vite torrentiniane del 1550 e integra citando opere che
può aver conosciuto personalmente o che gli possono essere state segnalate da
terzi. Spiace dirlo, ma in questo punto non posso condividere il giudizio di
Dina Aristodemo. La curatrice riconduce le conoscenze artistiche di Lodovico alle
cose viste a Firenze, ma non possiamo dimenticare che il giovane Guicciardini
lasciò la città natale a diciassette anni, e tanto non doveva aver visto. Che
Vasari sia fonte di Guicciardini risulta chiaramente dalla lettura di entrambi
i testi nella loro prima edizione (Vite del 1550 e Descrittione
del 1567):
Vasari, Vite edizione torrentiniana (1550), Vol. I, Introduzione,
Cap. XXI: Del dipingere a olio in tavola e su le tele:
«Fu una bellissima invenzione et una gran commodità all’arte
della pittura il trovare il colorito a olio, di che fu primo inventore in
Fiandra Giovanni da Bruggia, il quale mandò la tavola a Napoli al re Alfonso et
al duca d’Urbino Federigo II la stufa sua, e fece un San Gironimo che Lorenzo
de’ Medici aveva, e molte altre cose lodate. Lo seguitò poi Rugieri da Bruggia
suo discipolo, et Ausse [n.d.r. Hans Memling] creato di Rugieri, che fece a’
Portinari in S. Maria Nuova di Firenza un quadro picciolo, il qual è oggi
apresso al duca Cosimo; et è di sua mano la tavola di Careggi, villa fuora di
Firenze della illustrissima casa de’ Medici. Furono similmente de’ primi
Lodovico da Luano e Pietro Crista e maestro Martino e Giusto da Guanto, che
fece la tavola della Comunione del duca d’Urbino et altre pitture, et Ugo
d’Anversa, che fe’ la tavola di S. Maria Nuova di Fiorenza. Questa arte
condusse poi in Italia Antonello da Messina…»
Guicciardini, Descrittione ed. 1567, vol. II, p. 97
(si riporta la paginazione dell’edizione Aristodemo):
«I principali et più nominati di quelli, che più
modernamente hanno terminata questa vita, sono stati Giovanni d’Eick, quello il
quale (come narra Giorgio Vasari Aretino nella sua bellissima opera de Pittori
eccellenti) fu inventore intorno all’anno 1410 del colorito a olio, cosa
importantissima et dignissima in quell’arte, perché conserva il colore quasi
perpetuamente, né mai più che s’habbia notitia, stata ritrovata alla memoria
degli huomini. Mandò costui delle sue opere in Italia al grande Alfonso Re di
Napoli, al Duca d’Urbino et ad altri Principi, che furono molto stimate, onde
il gran Lorenzo de Medici ne raccolse poi anche egli la parte sua [n.d.r. segue
descrizione delle opere di van Eyck nei Paesi Bassi, a partire dal Polittico
dell’Agnello mistico]. A pari a pari di Giovanni andava Huberto suo
fratello, il quale viveva et dipingeva continuamente sopra le medesime opere,
insieme con esso fratello [n.d.r. Huberto non è citato da Vasari]. A Giovanni
et a Huberto successe nella virtù e nella fama Rugieri vander VVeiden di
Brusseles [n.d.r descrizione delle opere]. A Ruggieri successe Hausse [n.d.r
Hans Memling] suo scolare, il quale fece un bel quadro a Portinari, che hoggi
ha il Duca di Fiorenza, et a Medici medesimi fece la bella tavola di Careggi.
Seguirono a mano a mano Lodovico da Lovano, Pietro Crista, Martino d’Holanda et
Giusto da Guanto, che fece quella nobil pittura della comunione al Duca
d’Urbino, et dietro lui venne Ugo d’Anversa, che fece la bellissima tavola, che
si vede a Firenze in Santa Maria Nuova.»
In particolare, sbaglia la curatrice quando scrive (vol I,
p. 68): «E nell’elenco non poteva mancare la celebre pala d’altare
commissionata da Tommaso Portinari a Hugo van der Goes, arrivata a Firenze nel
1483, e che lui stesso doveva avere ammirato, come si può dedurre da un «si
vede», usato solo per questo dipinto». In realtà per tutte le opere fiamminghe
presenti in Italia il fiorentino Guicciardini attinge dalle Vite di
Vasari, completando le informazioni sugli artisti con altre opere fiamminghe.
Fu aiutato da terzi nell’indicazione delle opere dei Paesi Bassi? Non si può
affatto escludere, come non si può escludere che da terzi Lodovico abbia saputo
che re Filippo desiderava ardentemente portare con sé in Spagna il Polittico
dell’Agnello mistico; non osando prelevarlo, ne fece realizzare una copia
per la quale pagò duemila ducati (il mercante fa sempre capolino) o forse anche
più.
Jan e Hubert van Eyck, Polittico dell'agnello mistico, 1430-32 circa, Cattedrale di San Bavone, Gand Fonte: Wikimedia Commons |
«Ho visto lui che copia lui, che copia lui» (semicit.)
Se Vasari (con la versione torrentiniana del 1550) fu fonte
di Guicciardini (1567), si può dire che Guicciardini (1567) fu fonte di Vasari
per le Vite giuntine del 1568?. Non solo si può: si deve. È chiaro che Giorgio
lesse la Descrittione e gli esempi sottoindicati lo dimostrano. La prima
parte della sezione dedicata ai fiamminghi risulta essere frutto, stando a
Vasari, delle testimonianze di Giovanni Stradano e del Giambologna, artisti
fiamminghi all’epoca entrambi a Firenze. Giudicate voi:
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 857): «Giovanni Eick da
Bruggia […]lasciò molte opere di sua mano in Guanto, in Ipri et in Bruggia,
dove visse e morì onoratamente…».
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 147): «il quale [Van der Weyden]
fra le altre cose fece le quattro degnissime tavole d’ammiranda historia a
proposito et esemplo del far giustitia, che si veggono in detta terra di
Brussels al palazzo de’ signori»
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 857): «dico che dopo
costoro seguitò Ruggieri Vander Vveiden di Bruselles, il quale fece molte opere
in più luoghi, ma principalmente nella sua patria, e nel palazzo de’ Signori
quattro tavole a olio bellissime di cose pertinenti alla Iustizia.»
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 147): narra la vicenda della
copia del Trionfo dell’Agnus Dei (o Polittico dell’agnello mistico) realizzata
da Michele Coksien per conto di Filippo II di Spagna e inviata a Madrid.
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 858(: «conobbi nel 1532 in
Roma un Michele Cockisien, il quale attese assai alla maniera italiana e
condusse in quella città molte opere a fresco, e particolarmente in Santa Maria
de Anima due cappelle. Tornato poi al paese e fattosi conoscere per
valent’uomo, odo che fra l’altre opere ritrasse al re Filippo di Spagna una
tavola da una di Giovanni Eick sudetto, che è in Guanto; nella quale ritratta,
che fu portata in Ispagna, è il trionfo dell’Agnus Dei.
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 146): «Dirick da Lovanio,
grandissimo artefice; Quintino, della medesima terra, gran maestro di far
figure […]; Gios di Cleve, cittadino d’Anversa, rarissimo nel colorire et tanto
eccellente nel ritrarre dal naturale che, havendo il re Francesco primo mandati
qua huomini a posta per condurre alla corte qualche maestro egregio, costui fu
l’eletto et, condotto in Francia, ritrasse il re et la regina et altri
principi, con somma laude e premi grandissimi»
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 858): «fu molto in pregio
Divik da Lovano, in quella maniera buon maestro, e Quintino della medesima
terra, il quale nelle sue figure osservò sempre più che poté il naturale, come
anche fece un suo figliuolo chiamato Giovanni. Similmente Gios di Cleves fu
gran coloritore e raro in far ritratti di naturale; nel che servì assai il re
Francesco di Francia in far molti ritratti di diversi signori e dame.
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 146): «Giovanni Scorle,
canonico d’Utrecht, maestro degnissimo non meno nell’architettura che nella
pittura, il quale portò d’Italia molte inventioni et nuovi modi di dipingere»
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 858): «Giovanni Scorle
canonico di Utrecht, il quale portò in Fiandra molti nuovi modi di pitture
cavati d’Italia.»
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 146): «Giovanni Bellagamba di
Duoai, Dirick d’Harlem et Francesco Mostaert della medesima terra, raro ne’
paesaggi a olio.
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 858): «Oltre questi,
Giovanni Bella Gamba di Douai, Dirik d’Harlem della medesima, e Francesco
Mostaret, che valse assai in fare paesi a olio, fantasticherie, bizzarrie,
sogni et imaginazioni.
Guicciardini 1567 (vol. II pp. 146-147): Piero Couck d’Alost,
gran pittore et gran inventore di patroni da tappezzerie, a cui si dà laude
d’haver portato d’Italia la maestra dell’architettura, traducendo inoltre
l’egregia opera di Sebastiano Serlio bolognese in questa lingua teutonica, che
dicono haver fatto gran servigio al Paese»
Vasari Giuntina 1568 (tomo III, p. 858): «Piero Coueck ha
avuto molta invenzione nelle storie e fatto bellissimi cartoni per tapezzerie e
panni d’arazzo, e buona maniera e pratica nelle cose d’architettura; onde ha
tradotto in lingua teutonica l’opere d’architettura di Sebastiano Serlio
bolognese. [2]
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 146): «Giovanni di Mabuge, il
quale fu il primo che portò d’Italia in questi Paesi l’arte del dipingere
historie et poesie con figure nude: fece costui fra le altre sue opere quella
eccellente tavola che si vede nella gran badia di Middelborgo in Silanda»
Vasari Giuntina 1568 (tomo III p. 858): «E Giovanni di
Malengt fu quasi il primo che portasse d’Italia in Fiandra il vero modo di fare
storie piene di figure ignude e di poesie, e di sua mano in Silanda è una gran
tribuna nella badia di Midelborgo.».
Nelle righe successive Vasari si allontana dal dettato di
Guicciardini con apporti che, certamente non si devono a Francesco, ma, stando
all’aretino a Domenico
Lampsonio, che proprio per questo è considerato (a ragione) una fonte per
la sezione dei fiamminghi. Ma il richiamo di Guicciardini è inesorabile, e Giorgio
torna ad aderire al dettato di Lodovico affrontando il tema delle pittrici ed
elencando insieme prima quelle morte e poi quelle vive:
Guicciardini 1567 (vol. II, p. 147): «Et anco ci sono state
nella pittura donne eccellenti, delle quali nomineremo solamente tre: l’una fu
Susanna, sorella di Luca Hurembout prenominato, la quale fu eccellente nella
pittura, massime nel fare opere minutissime oltre ogni credere, et
eccellentissima nell’alluminare, in tanto che il grande re Henrico ottavo con
grandi doni et gran provvisione la tirò in Inghilterra, dove visse molti anni
in gran favore et gratia di tutta la corte, et ivi finalmente si morì ricca et
honorata. La seconda fu Clara ‘s-Keysers, medesimamente di Guanto, gran
pittrice et grande illuminatrice, la quale visse severamente ottanta anni
vergine. La terza fu Anna, figliuola di maestro Segher già nominato, fisico
eccellente, nativo di Breda et cittadino di Anversa: la qual Anna. Molto
virtuosa et divota, servando anche essa virginità, finì poco fa i giorni suoi.»
Guicciardini 1567, p. 267 (vol. II, p. 148): «Et di donne vive nomineremo quattro:
la prima è Levina, figliuola di maestro Simone da Bruggia già mentionato, la
quale nel miniare come il padre è tanto felice et eccellente che il prefato
Henrico, re d’Inghilterra, la volle con ogni premio haver a ogni modo alla sua
corte, ove fu poi maritata nobilmente; fu molto amata dalla regina Maria et
hora è amatissima dalla regina Elisabetta. La seconda è Caterina, figliuola di
maestro Giovanni d’Hemmsen già nominato, moglie di Cristiano, eccellentissimo
sonatore di buon accordo et d’altri strumenti, talché la regina d’Ungheria per
la loro virtù li condusse seco amendue in Hispagna, ove poi alla sua morte
lasciò ancor loro provvisione a vita.»
Vasari, Vite 1568 (tomo III, pp. 859-860): «E parimente alcune
donne: Susanna, sorella del detto Luca, che fu chiamata per ciò ai servigii
d’Enrico Ottavo re d’Inghilterra e vi stette onoratamente tutto il tempo di sua
vita; Clara Skeysers di Guanto, che d’ottanta anni morì, come dicono, vergine; Anna
figliuola di maestro Segher, medico; Levina figlia di maestro Simone da Bruggia
su detto, che dal detto Enrico d’Inghilterra fu maritata nobilmente, et avuta
in pregio dalla reina Maria, sì come ancora è dalla reina Lisabetta. Similmente
Caterina, figliuola di maestro Giovanni da Hemsen, andò già in Ispagna al
servigio della reina d’Ungheria con buona provisione. Et insomma molt’altre
sono state in quelle parti ecc[ellenti] miniatrici.»
Scusandomi coi lettori per la lunghezza (potrei andare avanti con i pittori di finestre, gli scultori etc), risulta evidente che la prima edizione delle Vite vasariane (1550) fu sul tavolo di lavoro di Guicciardini, che ne cavò le informazioni a lui più utili (citando l’aretino, sia pure di sfuggita); allo stesso modo, la prima edizione della Descrittione di Guicciardini (1567) fu sul tavolo di lavoro di Vasari, che fece altrettanto nella seconda edizione delle Vite (1568), questa volta attribuendo le informazioni allo Stradano e al Giambologna (ed è ben difficile che a fornirle siano stati loro). Fra le tante merci che viaggiano fra Anversa e Firenze, in quegli anni, ci sono, quindi, anche i libri e i libri fanno circolare le informazioni in un rapporto reciproco che potremmo ridurre al plagio, ma di cui va colta la fertilità dello scambio più che lo schiacciamento su quanto scritto da altri [3].
NOTE
[1] Si notino le differenze fra la descrizione corografica
di Guicciardini e quella, di poco successiva alla prima edizione, ma edita
postuma solo nel 1588 di Hadrianus Junius. La Batavia di Junius, scritta
fra 1566 e 1575, è stesa in latino, per un pubblico di umanisti, mentre
Lodovico scrive in italiano per i suoi fiorentini; la Batavia è la
descrizione di una regione geografica (facente parte dei Paesi Bassi) e non di
un’entità statuale, come nel caso di Guicciardini; per Junius esiste una
precisa e rivendicata continuità fra olandesi e batavi, circostanza che
Lodovico nega decisamente. Su Junius si veda, in questo blog, Isabel Zinman, [Dall'Ausonia
alla Batavia: una rivisitazione degli artisti di Hadrianus Junius].
[2] Per le traduzioni pirata di Pieter Coecke van Aelst si
veda, in questo blog, Sebastiano
Serlio à Lyon. Architecture et imprimerie. Volume 1. Le Traité
d’Architecture de Sebastiano Serlio. Une grande entreprise éditoriale au XVIe
siècle.
[3] Sull'argomento si vedano anche Dominique Allart e Paola Moreno, Information Exchange on Flemish and Dutch Artists. Giorgio Vasari, Hidden Plagiarist of Lodovico Guicciardini, in Lodovico Guicciardini nell'Europa del Cinquecento. Letteratura, arte e geografia tra Italia e Paesi Bassi, a cura di Dina Aristodemo e Carmelo Occhipinti, Roma, Universitalia, 2018, pp, 219-242. In tutta onestà, ho letto il saggio dopo aver pubblicato l'articolo; i risultati sono sostanzialmente analoghi.
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