Sugerio abate
Tutti gli scritti. Parte I:
L’opera amministrativa - Scritto sulla consacrazione
A cura di Paola Magi
Milano, Archivio Dedalus Edizioni, 2023
Sugerio e 'i' Dionigi
Tutti coloro che si interessano d’arte hanno sentito parlare
almeno una volta di Sugerio (1081-1151), presunto ‘inventore’ del gotico, abate
di Saint-Denis, artefice della ristrutturazione della locale abbazia e della
chiesa negli anni che vanno dal 1140 in poi. Sugerio, di origini umili, fu uomo
di grandissima levatura, amico intimo prima di Luigi VI di Francia, poi del
figlio Luigi VII, inviato più volte in missione presso i pontefici romani per
conto del sovrano, reggente del trono di Francia quando il monarca, fra 1147 e
1149, si allontanò per partecipare alle crociate. L’abbazia di Saint-Denis, e
in particolare la sua basilica, peraltro, avevano un particolare significato
per la monarchia capetingia. In essa erano sepolti i re della dinastia (ma
anche il carolingio Pipino il breve) e, soprattutto, la chiesa accoglieva
le spoglie di san Dionigi, apostolo delle Gallie, protettore del regno franco
assieme ai suoi compagni Rustico ed Eleuterio.
Ciò che sappiamo dell’attività di Sugerio è testimoniato da due
suoi scritti, rispettivamente il Libellus alter de consecratione ecclesiae
sancti Dionysii (esteso attorno al 1144-1145 e qui chiamato semplicemente Scritto
sulla consacrazione) e il più tardo (siamo attorno al 1150) Liber de
rebus in administratione sua gestis (o, semplicemente, L’opera
amministrativa). Le due operette sono state elevate dalla critica, e
soprattutto da Erwin Panofsky nella sua edizione critica inglese dell’opera,
pubblicata nel 1946 [1], a ‘manifesto’ del gotico sulla scia del pensiero
teologico dello pseudo-Dionigi e della cosiddetta ‘metafisica della luce’. Per
non trascurare nulla ricorderò che lo pseudo-Dionigi, fu, nella vita reale, un
filosofo anonimo del VI secolo d.C, il quale, nei suoi scritti, fuse le istanze
neoplatoniche di Plotino con quelle più propriamente cristiane in una visione
che presentava il rapporto fra Dio e l’uomo non più di totale separatezza. Dio
rimaneva infinito e incomprensibile, ma al posto della dicotomia fra
incomprensibile e umano era proposta una gerarchia, in cui, ovviamente
l’essenza divina stava all’apice e quella umana in fondo. Semplificando
moltissimo, da Dio proviene la luce e questa luce si diffonde ed è presente in
tutta la gerarchia proposta dallo pseudo-Dionigi. La luce, scendendo i gradini
della scala gerarchica, si affievolisce, ma non si esaurisce: possiamo
ritrovarla in qualsiasi elemento celeste (gli angeli o i corpi celesti), ma
anche nell’uomo e financo nei vermi. Qualsiasi creatura di Dio, in quanto
esistente, partecipa della sua luce. Ne consegue che, risalendo la gerarchia
dal basso verso l’alto, l’uomo può avere un’idea, intuitiva, parziale, ma pur
sempre un’idea, dell’essenza di Dio. Ma come riuscire ad avere questa sorta di
‘illuminazione’? Tramite il cosiddetto movimento anagogico (ossia un movimento
verso l’alto che contiene ed esprime verità trascendenti) indotto dalla luce della
materia: la luce solare, naturalmente, ma anche quella dei materiali preziosi:
oro, argento, gemme e quant’altro.
Il Corpus areopagyticum fu attribuito, in maniera errata, a
un Dionigi, membro dell’areopago ateniese, vissuto nel I secolo d.C. e, secondo
la vulgata, convertito da San Paolo al cristianesimo. Per questo motivo
l’anonimo estensore del corpus prende il nome di pseudo-Dionigi. Nel corso del
IX secolo d.C. una copia del corpus fu donata dall’imperatore di Bisanzio ai
carolingi; già, di per sé famoso, il corpus ebbe in Francia valore doppio,
perché consentiva un ulteriore accorpamento (così si espressero, ad esempio, i
suoi primi traduttori dal greco in latino, ossia Ilduino e Giovanni Scoto
Eriùgena, membri della corte carolingia): quello proprio con san Dionigi,
apostolo delle Gallie (che naturalmente non c’entrava nulla). Così tre persone,
vissute nell’arco di cinque secoli, si trovarono riunite in una che aveva un
valore profondo per i Franchi e che era sepolta a Saint-Denis.
Facciata odierna della basilica di Saint-Denis Fonte: Thomas Clouet tramite Wikimedia Commons |
Il lusso
Panofsky ha messo in evidenza tutti questi elementi e tutti i
brani dei due libelli che evidenziano l’approccio di Sugerio basato su
metafisica della luce (si pensi all’importanza della luce nella grandi
cattedrali gotiche francesi) e movimento anagogico. Ha inoltre sostenuto che
gli scritti di Sugerio siano stati scritti in risposta all’Apologia a
Guglielmo di Bernardo di Chiaravalle (1125). Scusandomi col lettore per la
lunghezza, devo brevemente contestualizzare anche qui. Il monachesimo europeo
era evoluto, dal momento della fondazione benedettina nel VI sec. d.C. fino al
XI secolo verso comportamenti che, in sostanza, erano molto lontani dalla
regola della povertà e dell’ora et labora e che, invece, prevedevano una
profonda intromissione nella vita temporale e l’impiego del lusso negli arredamenti
ecclesiastici. Il ‘simbolo’ di questo monachesimo ‘corrotto’ era l’abbazia di
Cluny; in contrasto con esso era gemmato il monachesimo cistercence, che mirava
a recuperare proprio quei valori di semplicità che riteneva perduti e non
lesinava critiche ai cluniacensi. Sugerio era cluniacense. Il principale (anche
se non il primo) esponente dei cistercensi fu Bernardo di Chiaravalle, il quale
non esitò a schierarsi contro i cluniacensi accusandoli, nell’Apologia a
Guglielmo di avarizia e di essersi allontanati dalla retta via. Per
Panofsky gli scritti di Sugerio furono redatti proprio in risposta a Bernardo,
che, pure, non vi è mai citato. Effettivamente molti passi sia del Libellus sia
del Liber suonano da giustificazione del ricorso al lusso, all’oro, alle
pietre, alle gemme, per rendere il giusto onore a Dio e ai martiri e
soprattutto per creare quel movimento anagogico di cui ho già parlato. Ad
esempio, sul portale d’ingresso della chiesa Sugerio fa scrivere alcuni
versi: «Chiunque tu sia che desideri innalzare la lode delle porte, / non
ammirare l’oro né il costo, ma l’impresa dell’opera, nobilmente luminosa è
l’opera, ma l’opera che nobile riluce / illumina le menti perché vadano,
attraverso le luci veritiere, / verso la vera luce, dove Cristo è la vera porta.
/ La mente ottusa si eleva al vero tramite le cose materiali, / e, prima
inabissata, rivolge alla luce di questa luce» (pp. 79-80). Lo stesso Sugerio
racconta quella che, in qualche modo, potremmo definire un’esperienza
mistico-spirituale: «Per questo, distolto a volte dalle cure esterne dalla
bellezza delle gemme multicolori, per amore delle decorazioni della casa di Dio,
passando dalle cose materiali alle immateriali, una onesta meditazione mi
persuadeva a volgermi alla varietà delle sante virtù, e mi pare quasi di vedere
me stesso in qualche plaga remota dell’orbe terrestre, che non è situata del
tutto nel fango delle terra, e nemmeno dimora del tutto nella purezza del cielo
e, che io possa, per grazia di Dio, passare da questa inferiore a quella
superiore per via anagogica.» (pp. 88-89). Molte altre frasi di questo genere
sono presenti negli scritti di Sugerio; di particolare interesse quelle che ci
fanno capire come il rito (qualsiasi rito) fosse in realtà una grande
esperienza ‘immersiva’ in cui tutti gli aspetti, da quelli architettonici a
quelli decorativi, dal canto alla luce, dovevano stupire i fedeli e
catapultarli, una volta varcati i portoni della chiesa, in un mondo mistico di
avvicinamento a Dio. Questo grande spettacolo immersivo non rinunciava ad
accorgimenti tecnici particolarmente audaci, a quelli che oggi chiameremmo
effetti speciali. Nel taccuino di disegni di Villard de Honnecourt, che risale
a una settantina d’anni dopo, ad esempio, è schizzato un leggio con la parte
superiore a forma di aquila. L’aquila, grazie a un particolare accorgimento,
volgeva il capo verso il sacerdote mentre costui parlava. Immaginiamo quale
dovesse essere l’effetto di questi accorgimenti sul pubblico.
Basilica di Saint-Denis. particolare del deambulatorio Fonte: Pierre Poschadel tramite Wikimedia Commons |
Tutto bene?
Tutto chiaro, dunque? Niente da aggiungere? Qualcosa, veramente,
sì. In primo luogo, i passi principali dei due scritti sono facilmente
rintracciabili in italiano in decine di antologie. Non mi pare, tuttavia, e
questo è veramente incredibile, che il Libellus e il Liber siano
mai stati tradotti integralmente in italiano e proposti al pubblico. Lo ha
fatto una minuscola casa editrice milanese (l’Archivio Dedalus edizioni) nel
2011, a cura di Tullia Angino, Onestamente, non ne sapevo nulla. Molto
curiosamente, questa prima edizione ‘clandestina’ è andata esaurita e nel 2023
ne è uscita un’altra, altrettanto rara, questa volta a cura di Paola Magi. Si
tratta della versione che sto recensendo e che, a tutti gli effetti, non è una
seconda edizione perché le traduzioni sono diverse. La cosa ancor più curiosa è
che a spingere l’editore a pubblicare il volume non è tanto il valore degli
scritti di per loro, ma il fatto che Sugerio sia stato studiato e
particolarmente apprezzato, nel XX secolo, da Marchel Duchamp. Il volume fa
infatti parte della collana Supernovae Studi Duchampiani, di cui Magi è
la direttrice, collana che si propone di editare - trascrivo dal paratesto -
«testi, di vario ambito disciplinare e diversa collocazione storica, di cui sia
stata individuata una citazione, diretta o indiretta, nell’opera di Marcel
Duchamp». Intenzione meritoria, ma che finisce per proporre il pensiero di
Sugerio in funzione di qualcos’altro.
I problemi non finiscono qui, e, a dire il vero, non riguardano
solo la presente edizione (che, a essere sinceri, è assolutamente onesta, pur
non avendo di fatto un apparato di note adeguato). Già dall’Ottocento, ma
soprattutto già dall’edizione critica di Panofsky, a essere proposta per prima
è L’opera amministrativa (ossia il Liber) e per secondo lo Scritto
sulla consacrazione (ossia il Libellus). C’è una controindicazione:
il Libellus è scritto certamente prima del Liber (del resto, vi è
esplicitamente citato). Il motivo è che il Liber sarebbe ‘più completo’
rispetto al Libellus. Ora, è senz’altro vero che il Liber è più ampio
del Libellus, ed è pure altrettanto vero che si tratta di due opere
diverse (che però parlano entrambe della chiesa), ma qualsiasi filologo
considererebbe questa operazione come poco saggia: prima si dovrebbe leggere lo
Scritto sulla consacrazione (1145 circa) e poi L’opera amministrativa
(1150 circa), che è poi quello che ho fatto io. Mi pare, in generale, che sia
importante tornare ad analizzarei testi prima di esprimere opinioni. Proviamo a
vedere cosa ne risulta.
Lo Scritto sulla consacrazione
Lo Scritto sulla consacrazione, dopo un’introduzione di
carattere teologico che indulge su temi classici del Medioevo, come la
conciliazione degli opposti, traccia la storia della chiesa di St. Denis e
spiega perché Sugerio, che di fatto vi aveva vissuto sin da ragazzino, avesse
deciso, una volta abate, non tanto di restaurarla, ma di ampliarla collegando
le parti vecchie con quelle nuove: perché l'edificio era troppo piccolo e
più volte l’anno, in occasioni di feste, si sfiorava o si verifica la tragedia.
La decisione, in realtà, e questa è una costante di entrambi gli scritti, è
volontà divina; è Dio che la infonde in Sugerio ed è Sugerio che la esplicita
esteriormente. Il Libellus indulge particolarmente in episodi miracolosi
che sono, appunto, la manifestazione della volontà di Dio, dal reperimento di
una cava di marmo nelle vicinanze di St. Denis quando l’abate stava pensando
addirittura di far venire le colonne da Roma a quello di alberi dal tronco così
alto dal permettere la realizzazione del tetto. Poi si passa ai riti della
consacrazione: quella dell’oratorio di S. Romano (nel 1140) e quella vera e
propria della basilica; in entrambe le occasioni sono elencati tutti i membri
delle gerarchie ecclesiastiche giunti dalla Francia e dall’estero, ed è
evidenziata la presenza del sovrano. Anche il reperimento di ingenti quantità
d’oro e di gemme è letto in via miracolosa, come volontà dei martiri per i cui
altari quei metalli e quelle pietre furono utilizzati; quando non si tratta di
miracolo, è chiamata in causa la generosità dei sovrani, dei vassalli, dei
vescovi, che donano i loro oggetti più preziosi. Il Libellus si conclude
con la consacrazione della basilica e la descrizione del rito che diventa
collettiva e polifonica, con ogni vescovo a santificare ogni altare presente
nella chiesa e un’immagine della chiesa che diventa la casa vivente di Dio,
dove la gerarchia celeste è replicata da quella ecclesiastica. Non è mai
avvertita o, comunque, non è mai esplicitata la necessità di spiegare l’uso del
lusso per innescare il moto anagogico.
L’Opera amministrativa
Il Liber, invece, si apre con Sugerio che narra come i suoi
confratelli lo abbiano pregato insistentemente – anzi, lo abbiano proprio
supplicato – di mettere per iscritto un bilancio del suo operato come abate di
St. Denis. L’autore si convince dell’utilità della cosa e provvede a farlo «perché
dopo la nostra morte la chiesa non venisse derubata delle sue rendite da parte
di chicchessia e neppure per l’inettitudine di cattivi successori, i copiosi
incrementi che la generosa munificenza di Dio aveva procurato al tempo della
nostra amministrazione venissero a mancare» (pp. 52-53). La prima parte del Liber
(più della metà dell’opera) è dunque destinata a illustrare l’attività
amministrativa dell’abate nei confronti delle terre di proprietà dell’abbazia, un’attività
volta a combattere le intrusioni e le prepotenze dei vassalli e a ripristinare
condizioni di vita accettabili per gli abitanti. Possiamo quindi leggere di
pacificazioni (a volte condotte con la forza delle armi) e di aumenti di rese
delle terre, dei censi destinati all’abbazia, ma anche dei viveri per i
contadini in una lunga elencazione autoencomiastica in cui solo qua e là si
avverte che le cose non dovevano andare poi sempre così bene. Come a
Vaucresson, dove le rese aumentano, ma aumentano anche i censi (semplificando,
le tasse) dovuti all’abbazia «a esclusione di quello del feudo del borgomastro;
il quale garantì che avrebbe messo del tutto a tacere le lagnanze dei contadini
e l’insofferenza per il mutamento di abitudini.» (p. 62). Solo al capitolo XXIV
(su XXXIV) si inizia a parlare della chiesa; questa volta, più che sui riti di
consacrazione, pure citati, l’attenzione è sulla decorazione della chiesa,
sugli ori, le pietre, le gemme, le vetrate che, ripetutamente, sono indicati
come componenti indispensabili per mettere in atto quel moto anagogico di cui
ho già parlato.
Un bilancio
Si può dire – come fece Panofsky - che Scritto sulla consacrazione
e L’opera amministrativa furono redatti in risposta alle accuse di Bernardo
di Chiaravalle? È improbabile, e a parlare sono le date. L’Apologia di
Bernardo è del 1125. Nel 1131 Bernardo rischiò addirittura di essere processato
per eresia. Perché Sugerio non avrebbe dovuto rispondere in quell’occasione?
Perché lo dovrebbe aver fatto nel 1145 (Consacrazione) o nel 1150, a
distanza di venticinque anni? Su questo punto Panofsky non dice nulla. In
realtà, confrontando i due scritti di Sugerio si nota uno scarto: il secondo contiene
argomentazioni di natura giustificativa (la necessità di far ricorso al lusso
per innescare il movimento anagogico) accompagnate da altre che mirano a evidenziare
come in tutte le terre amministrate dall’abate si vivesse meglio di prima. Se
non sta rispondendo a Bernardo, a chi si sta rivolgendo l’autore? Oppure, sentendo
di essere vicino alla morte, vuol lasciare a chi lo leggerà un’immagine
migliore di sé? Tutto può essere. Certo che è stato dimostrato [2] che quelli
che sono stati considerati a lungo due blocchi contrapposti e inconciliabili,
ossia cluniacensi e cistercensi, non erano affatto così granitici come penseremmo.
Le rispettive posizioni erano molto articolate anche al loro interno. Bernardo
dovette gestire cistercensi non così convinti che le decorazioni dovessero
sparire dalle chiese; Sugerio, cluniacensi che ritenevano eccessivo lo sfarzo
che vi era esibito. La mia, personalissima ipotesi è che l’abate di St. Denis
si rivolga idealmente alla sua parte, che fiuti un pericolo, quello che dopo di
lui venga nominato abate qualcuno che non ne prosegua la politica (da qui l’allusione
all’ ‘inettitudine di cattivi successori’) e senta il bisogno di giustificarsi
da un lato e di lasciare un testamento ideale che sproni i suoi seguaci all’azione
dall’altro. Naturalmente, non lo sapremo mai, ma le valutazioni di Panofsky
sembrano semplicistiche. Un’ultima osservazione: nei suoi scritti Sugerio cita
le tesi anagogiche dello pseudo-Dionigi, che è anche il ‘suo’ Dionigi, apostolo
delle Gallie. Tuttavia, Dionigi non è mai presentato come di origini ateniesi e
facente parte dell’areopago di quella città. O l’abate dava la cosa come
scontata oppure stava deliberatamente dimenticando quelle origini orientali in
un momento in cui i rapporti fra cristiani d’oriente e d’occidente si erano
definitivamente spezzati con lo scisma del 1054. I tre Dionigi riuniti in uno
solo diventano due. Perché ognuno torni a essere separato dall’altro bisognerà
attendere ancora qualche secolo.
NOTE
[1] Erwin Panofsky, Abbott Suger on the Abbey Church of Saint-Denis
and its Art Treasures, Princeton, Princeton University Press, 1946 (consultata
2° ed. 1979 a cura di Gerda Panofsky-Soergel).
[2] Conrad Rudolph, The ‘Things of Greater Importance’: Bernard
of Clairvaux’s “Apologia” and the Medieval Attitutude Toward Art,
Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1990.
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