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lunedì 20 maggio 2024

Riscoperto da Elisa Spataro il trattato sulla pittura del padre gesuita Giuseppe Valeriano (1593-1596 circa)

 

Elisa Spataro
«Di gratia, dichiararsi di ogni soggetto la sua particolarità».
Il perduto trattato sulla pittura di Giuseppe Valeriano e il ms. Ges.688 della Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma

In

Storia della critica d’arte
Annuario della S.I.S.C.A. 2023, pp. 39-73

Recensione di Giovanni Mazzaferro

Giuseppe Valeriano, Sant'Agostino, 1592, Roma, Chiesa di Santo Spirito in Sassia
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons

 

Un manoscritto ritrovato

Ritrovare un manoscritto inedito sulla pittura, oggi, non è cosa comunissima. Lo ha fatto Elisa Spataro, a cui vanno subito i miei complimenti, rinvenendo all’interno del Fondo Gesuitico della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, un manoscritto anonimo segnato Ges.688. Spataro lo presenta sull’ultimo numero, appena pubblicato, di Storia della critica d’arte. Annuario della S.I.S.C.A., in attesa dell’edizione integrale commentata, a cui sta già lavorando. Più che recensire un’opera, quindi, in questa circostanza mi limiterò a riassumere in breve i contenuti del saggio (che potete leggere a questo link: http://www.siscaonline.it/joomla/2019/2019/02/27/annuario-della-s-i-s-c-a), augurandomi che il Della pittura possa essere presto dato alle stampe.

Nell’indice topografico del Catalogo dei manoscritti gesuitici della B.N.C. di Roma il manoscritto è indicato come risalente al XVIII secolo, elemento che, assieme all’assenza del nome dell’autore, alla fitta presenza di note a margine e al fatto che i fascicoli che lo compongono rispecchiano diversi stati di lavorazione, ha comportato grande difficoltà a interpretarlo in maniera corretta. Una serie di tracce tutte coincidenti (dalle filigrane a evidenze interne) ha portato Spataro a rivedere il periodo in cui l’opera fu estesa, che l’autrice circoscrive, in sostanza, all’ultimo decennio del Cinquecento; altre tracce, inconfutabili, hanno condotto all’identificazione del suo autore in Giuseppe Valeriano (1542-1596). Valeriano fu, probabilmente, la figura di maggior spicco dell’arte dei gesuiti italiani sul finire del Cinquecento (un ordine 'giovane', nato solo nel 1534); è più noto come architetto che come pittore, per il numero degli interventi edilizi che condusse non solo a Roma (ad esempio l’allargamento del Collegio Romano), ma in tutta la penisola al servizio dell’ordine. La memoria di un trattato scritto dal padre gesuita è giunta sino ai nostri giorni, ma, forse perché la fama dell’artista è stata legata soprattutto all’attività architettonica, si è pensato che l’opera si occupasse proprio di questi temi. Così, ad esempio, Nicola Aricò nella sua edizione commentata del Libro di Architettura del gesuita Alfio Vinci. Sia chiaro: non è affatto escluso che il religioso di origini aquilane abbia scritto anche un trattato di architettura.

Quello che è certo è che ne scrisse uno di pittura. Così testimonia Gaspare Celio, nelle sue Vite, anch’esse perdute, ritrovate e pubblicate da Riccardo Gandolfi solo nel 2021 (pp. 305-306): «Componeva [Valeriano] un libro della qualità, e quantità delle tinte, secondo le usava Raffaello Sanzio, e il Correggio, et Tiziano, dal quale ne haveva hauto notizia, vi trattava anco del modo di comporre le storie. Per il che fece disegnare al Celio [n.d.r. cioè allo scrivente] molte storie di Sanzio, e di altri, per farle intagliare in esso libro». Celio continuava indicando che alla morte di Valeriano il manoscritto era passato in mano a un suo confratello, anch’egli pittore e che poi non se ne seppe più nulla, se non che i disegni erano stati dispersi. Che Celio, con riferimento a Valeriano, sia fonte attendibile è dimostrato dal fatto che attorno al 1590 i due lavorarono insieme per la cappella della Passione nella Chiesa del Gesù. Nelle Vite, poi, Celio scrisse della sua amicizia con Valeriano e a questo punto non c’è da stupirsi che il manoscritto (che è incompleto) contenga un Dialogo tra ms. Gasparo Celio e l’Auttore che non fa che confermare come lo scrivente sia Valeriano.


La prima carta del manoscritto (su cortese concessione dell'autrice)


 La struttura del manoscritto

La testimonianza di Celio, tuttavia, non è del tutto corretta, e non lo è probabilmente perché il progetto di Valeriano si andò ampliando nel corso degli anni, interrompendosi con tutta evidenza per via della sua morte, nel 1596 (se ho capito bene Spataro ritiene che la stesura di quanto giunto sino a noi sia circoscrivibile a un periodo fra il 1593 e il 1596). Dell’opera ci sono giunti quattro libri, numerati 1, 2, 4 e 5. Quest’ultimo è incompleto; manca, inoltre, il terzo. All’interno del secondo compare un elenco che, tuttavia, prefigura un vero e proprio trattato della pittura non limitato soltanto al colore, ma esteso in maniera sistematica a questioni teoriche (in misura limitata), iconografiche e pratiche, a configurare un vero e proprio manuale per i giovani che desideravano incamminarsi nella professione. Così, dopo un primo libro di natura teorica, che definisce cosa sia la pittura e che fini persegua, il secondo è dedicato allo studio delle parti che compongono il volto e la figura umana. Il progetto prefigurava una stretta relazione fra testo e immagine; più di novanta dovevano essere le figure, tratte dai disegni di Michelangelo e dalla scultura antica, a corredo della trattazione e Valeriano indica gli spazi in cui esse  dovevano essere inserite. Tutto l’insieme dei disegni (probabilmente da riferire ancora a Celio), purtroppo, è andato perso. Ma ecco l’elenco dei libri successivi proposto da Valeriano nell’ambito del secondo libro:

«Nel terzo poi si trattarà della compositione de corpi intieri, della intelligenza et movimento di quelli, et del uso di rilievo.

Nel quarto della inventione et componimento delle historie.

Nel quinto della perspettiva, et casamenti.

Nel sesto dell’arte del tingere.

Nel settimo del modo di fare et vestire i modelli, del modo di imitare i drappi di seta et d’oro, delli panni, delli cambianti et lor colori.

Nel ottavo delli paesi lontani mezzi vicini, acque, splendori et simili.

Nel nono, de gl’animali, pesci et uccelli, et delli frutti, et fiori.

Nel decimo, delli secreti da fare i colori più principali: delle vernici, et degli olii chiari.

Nel undecimo, del modo di apparecchiar le tavole, le tele et altre cose.

Nel duodecimo, del modo di lavorare a fresco, a tempera, ad olii, et quale più durabile, et più perfetto».

Come detto, ci sono giunti in realtà solo quattro libri: oltre al primo (che è indicato essere una terza bozza), il secondo (seconda bozza), il quarto, che parla appunto dell’invenzione, e un incompleto libro V, che parla Dell’arte del tingere, ossia dei colori. Il fatto che, nell’elenco sopra trascritto, dovesse essere contrassegnato come sesto libro, indica che, chiaramente, il manoscritto di Valeriano rispeocchia date e fasi di redazione fra loro differenti. Non sappiamo, relativamente al materiale scomparso, se mai sia stato scritto e poi perduto o se, come possibile, l’artista (che morì a 54 anni) non abbia avuto il tempo di mettervi mano.

 

Un progetto ambizioso

Naturalmente rimando al saggio per i dettagli. Quanto mi preme qui sottolineare è che il progetto di Valeriano fu, evidentemente, ambizioso, perché delinea un vero e proprio programma didattico da proporre a giovani allievi. Se ne possono riconoscere sezioni che hanno corrispettivi in produzioni coeve: ad esempio, lo studio delle parti del corpo umano ricorda quello dei cosiddetti Essemplari che furono editi a stampa agli inizi del Seicento, come la Scuola perfetta per imparare a disegnare tutto il corpo humano dei Carracci (1600), Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano di Odoardo Fialetti, l’Essemplario della nobile arte del dissegno di Francesco Cavazzoni (rimasto inedito e risalente grosso modo al 1612). Tuttavia, il disegno di mani, piedi etc. si combina (o doveva farlo) con quello della figura intera e con lo studio del movimento del corpo umano, legato a quello della forza di gravità, secondo criteri che puntano a insegnare il concetto di baricentro e di distribuzione dei pesi che non possono non ricordare gli studi di Leonardo. Sappiamo benissimo, in merito, che a Roma circolavano apografi incompleti del trattato leonardiano (stampato solo nel 1651). Molto importante, naturalmente, anche lo studio della composizione vera e propria, di cui Raffaello, senza alcuna sorpresa è proclamato massimo artefice. Tutt’altro che trascurabile, poi, la parte finale destinata ai colori. Nel dialogo finale, Celio invita l’autore a spiegare il colorire come se lo stesse facendo a viva voce (cioè in maniera chiara e didascalica), ma senza nulla tralasciare: «Di gratia dichiararsi di ogni soggetto la sua particolarità» (ed ecco quindi spiegato il titolo del presente saggio); non è trascurabile che, implicitamente, Valeriano bocci il meccanismo dei ‘segreti’, ossia della trasmissione in ambito di bottega da maestro a discepolo di quei “segreti” che, di fatto, costituivano, in termini economici, l’avviamento d’impresa.

La questione porta ad affrontare un altro aspetto (questa è una mia considerazione personale e non coinvolge quindi le tesi dell’autrice): pur nella sua incompletezza il trattato di Valeriano è, chiaramente, un manuale di insegnamento ‘accademico’. Scrivo ‘accademico’ fra virgolette perché non è affatto detto che fosse destinato a costituire il ‘programma di studi’ dell’appena ricostituita Accademia di San Luca. Semmai potrebbe essere stato, nelle intenzioni, un testo da proporre nell’ambito dell’insegnamento dei gesuiti. La connotazione controriformata e gesuitica del manoscritto è evidente. Il fatto che Valeriano scriva, grosso modo, fra il 1593 e il 1596 e che l’Accademia di San Luca si ricostituisca nel 1593 è una coincidenza troppo grande per pensare che due progetti didattici sostanzialmente simili viaggiassero, di fatto, all’insaputa l’uno dell’altra. Furono progetti paralleli, complementari o in concorrenza fra loro? Sarebbe bello capire quali furono i rapporti di Valeriano con i membri dell’Accademia, a partire, ovviamente, dal suo primo Principe, ossia Federico Zuccari, ma anche con Romano Alberti. Basti qui ricordare che nel 1599 raccolse in un volume i discorsi accademici di Zuccari sotto l’estenuante titolo di Origine e Progresso dell’Accademia del disegno de’ Pittori, Scultori e Architetti in Roma, dove si contengono molti utilissimi discorsi e filosofici ragionamenti appartenenti alle suddette Professioni, ed in particolare ad alcune nuove definizioni del Disegno, della Pittura, Scultura ed Architettura, ed al modo d’incamminare i giovani e perfezionar i provetti etc… Se era questo – teorico e filosofico – il tenore dei discorsi che Zuccari pronunciava in Accademia, possibile che Valeriano volesse rispondere scrivendo «nell’istesso modo che con parole et con colori s’insegnano [n.d.r. le cose della pittura] con viva voce»?

Non ci resta che attendere la pubblicazione dell’edizione commentata, sperando di avere risposta.


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