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lunedì 22 aprile 2024

Paola D'Alconzo. Conservazione ed esposizione dei dipinti delle collezioni reali napoletane nel XVII secolo

 

Paola D’Alconzo
Conservazione ed esposizione dei dipinti delle collezioni reali napoletane nel XVIII secolo: luoghi, uomini, opere


Firenze, Edifir, 2020

Recensione di Giovanni Mazzaferro


 

Luoghi, uomini, opere

Una storia di luoghi, di uomini, di opere: sin dal titolo Paola D’Alconzo chiarisce l’oggetto del suo studio, volto a delineare il dipanarsi delle vicende espositive e conservative delle collezioni borboniche a Napoli nel corso del XVIII secolo. Un periodo particolarmente significativo in entrambi gli ambiti di studio, in cui tradizionalmente si collocano, a livello non solo italiano, ma addirittura europeo, le nascite da un lato di un nuovo modello museale, pubblico o semi-pubblico, e, dall’altro, i primi passi verso una professionalizzazione del mestiere di restauratore, che tende a separarsi da quello del pittore. Una storia inestricabile, nonostante la scelta preventiva di non seguire le situazioni legate al patrimonio ecclesiastico, che limita il campo della ricerca, ma non la difficoltà nel riuscire a selezionare ed estrapolare i momenti salienti di una vicenda storica segnata da fughe in avanti e arretramenti. Nel caso specifico, particolarmente dolorosa è la frammentarietà delle testimonianze (fatale in questo senso la perdita di parte del materiale dell’Archivio di Stato nel 1943), ma anche essere le medesime molto spesso manifestamente di parte. Bene o male, si tratta del tratto distintivo della storia del restauro, non solo nel Settecento, in cui difficilmente veniamo a conoscere le procedure adottate (forse solo nel caso delle ‘referte’ di Pietro Edwards a Venezia, e in maniera comunque non completa), mentre i giudizi espressi, entusiastici o denigratori che siano, sono legati più che altro a ‘gruppi di potere’ (se di potere si può parlare) o comunque a cordate con chiari interessi economici. La difficoltà nel distinguere il dato oggettivo dal giudizio soggettivo è, poi, ulteriormente complicata dalla banalissima circostanza che gli interventi conservativi di cui si parla sono stati seguiti da altri successivi che hanno alterato le condizioni dei quadri, ed è dunque quasi impossibile, se non con analisi di laboratorio, avere un’idea della loro effettiva consistenza.

Un libro complesso e difficile da scrivere, insomma; certo non difficile da leggere, grazie all’acribia dell’autrice che riesce a collegare in maniera convincente labili tracce determinate da documenti a volte addirittura andati distrutti: sotto questo punto di vista, ad esempio, è magistrale (e chiaro esempio di quell’acribia di cui parlavo) il modo con cui D’Alconzo dimostra che si sbagliava Antonio Filangieri da Candida quando scriveva, nel 1902, che alla fine del 1738 si era riunita una commissione incaricata di progettare le modalità espositive delle opere provenienti dalla parmense collezione Farnese presso l’allora ancora in costruzione reggia collinare di Capodimonte, mentre è evidente che il gruppo di incaricati doveva deliberare sui lavori relativi all’esposizione dei quadri nel ‘mezzanino’ di Palazzo reale (pp. 40 ss.). Filangieri scriveva ed equivocava, all’epoca, sulla base di una relazione, che nel frattempo è andata persa; D’Alconzo restituisce la verità, oggi, servendosi di indizi frammentari contenuti in diversi documenti, fra loro incrociati.

 

Una storia di luoghi

Proverò a dipanare, impropriamente, una matassa che l’autrice riesce a tenere assieme alternando sapientemente ora questo, ora l’altro filo. I luoghi in cui la vicenda delle collezioni reali si svolge sono molto noti: palazzo reale che affaccia sull’odierna piazza del Plebiscito, Capodimonte, la ex sede dell’Università, oggi Museo archeologico. 

Napoli, Palazzo Reale
Fonte: Sordelli tramite https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Palazzo_Reale_di_Napoli_(cropped).jpg




Napoli, Reggia di Capodimonte
Fonte: Mentnafunangann tramite https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Reggia_di_Capodimonte_1.JPG


Rapidamente bisognerà ricordare che nel 1734 Carlo I di Borbone poneva fine alla breve esperienza del vicereame austriaco (preceduto da quella assai più lunga di matrice spagnola) per ripristinare il regno. Portava con sé, da Parma, la famosa collezione che gli apparteneva per eredità della madre, nata Farnese. La storia delle collezioni borboniche è quindi, soprattutto, la storia di quella collezione, anche se, naturalmente, col tempo, vi furono acquisizioni successive. Alla reggia arrivarono dipinti, arazzi, libri, medaglie e cammei; alcuni di questi manufatti, ad esempio gli arazzi, furono immediatamente utilizzati nell’ambito della risistemazione di un palazzo che, per prima cosa, doveva essere ‘risemantizzato’ alla luce dei cambiamenti politici, dopo il viceregno austriaco. Fu questa, in sostanza, la prima preoccupazione dell’amministrazione. Il grosso dei dipinti, invece, rimase chiuso nelle casse, in ambienti che le fonti ci hanno tramandato come particolarmente umidi e che, certamente, non furono felici per la conservazione delle opere. Solo nel 1738, concretamente, si cominciò a pensare alla creazione di una galleria, all’interno del palazzo, in cui esporre i materiali: lo spazio fu individuato nell’ambito dell’appartamento dell’ex-maggiordomo maggiore di corte, tornato in Spagna. Nel novembre del 1739 Charles de Brosses visita quegli spazi (ancora in allestimento) e ci consegna un quadro impietoso della situazione, definendo i Borbone come 'goti moderni' per aver lasciato le opere nelle casse per anni; solo una parte dei dipinti, peraltro, era stata tolta dagli imballaggi ed esposta. A Palazzo Reale i dipinti rimasero per diverso tempo, perché nel frattempo la progettata costruzione del palazzo di Capodimonte (è incerto se pensato sin dall’inizio come sede espositiva) andò per le lunghe: «L’intoppo dei lavori della reggia collinare dovette […] cronicizzare una decisione – l’esposizione nel palazzo di Napoli – presa in condizioni poco meno che di emergenza e forse fin dall’inizio considerata non risolutiva, se non altro per l’angustia degli spazi» (p. 54). Solo nel 1754 si deliberò, infatti, il trasferimento dei dipinti nella reggia collinare, che, peraltro, fu sempre reggia ‘virtuale’ e mai effettiva, posto che l’edificio era ben lungi dall’essere completato; l’inaugurazione (informale) di Capodimonte risale, infatti, al 1759. Una collezione di fruizione fino ad allora praticamente privata, diventava in questo modo semi-pubblica, se non altro perché i sovrani mai vi si trasferirono. Logisticamente difficile da raggiungere, fu tuttavia visitata soprattutto da viaggiatori ed eruditi stranieri (che a volte potevano addirittura passarvi la notte). I resoconti che ci sono giunti, da Winckelmann in poi, alternano giudizi sulle opere più famose della collezione a considerazioni sul loro precario stato di conservazione e allo squallore generale di una sistemazione di opere – la maggior parte senza cornice – in un palazzo semi abbandonato che di fatto era una ‘cattedrale nel deserto’. In realtà, le fonti segnalano, nel corso dei decenni, un flusso continuo di opere fra palazzo reale a Napoli e la reggia di Capodimonte, se non altro perché, quando si cominciò a restaurarle, l’operazione veniva eseguita ancora in città. Quello che è certo è che continua a prevalere l’idea che i dipinti siano, innanzi tutto, proprietà privata del sovrano e, solo secondariamente, patrimonio culturale della città: non ci si stupisca, così, del progetto del principe di San Nicandro, responsabile della reggia cittadina, che, a metà anni Sessanta, pianificò di risistemare alcuni ambienti del palazzo oggi in piazza del Plebiscito facendo tornare alcuni capolavori da Capodimonte, esponendoli secondo criteri puramente estetici, coordinati con arredi appositamente pensati e ipotizzando, per amor di simmetria, di allargare (o, cosa ben più grave) tagliare le opere in maniera tale da uniformarne le dimensioni.

In realtà nulla successe di tutto ciò. La situazione di Capodimonte, sia pur gradatamente, migliorò, fors’anche perché venne meno l’intenzione (ventilata da più parti) di trasferire la collezione a Caserta, una volta ultimata la reggia. D’Alconzo registra puntualmente il gradato miglioramento della situazione espositiva a Capodimonte (che in precedenza sembrava assegnata più che altro al caso), proprio mentre, a partire dal 1777, si cominciava a parlare di una nuova collocazione, nell’ambito della creazione di una grande istituzione museale che raccogliesse tutte le collezioni reali, collocandola nell’edificio che fino a poco prima era stato sede dell’Università. Si trattava di concentrare in un unico edificio tre accademie (pittura, scultura e architettura; scienze; belle lettere), due biblioteche (Farnesiana e Palatina), tre musei (Musei Reali, Farnesiano, Ercolanese) e dotare il tutto anche di un museo di storia naturale, un orto botanico e un laboratorio chimico. D’Alconzo sottolinea che il progetto era «espressione di una politica culturale forse non in anticipo sui tempi [n.d.r. si pensi a Brera], ma senz’altro allineata alle soluzioni adottate dai sovrani dei maggiori stati italiani ed europei. Il nesso strettissimo tra museo e laboratori […] in questa occasione viene ribadito e ampliato, in termini che non lasciano dubbi sul carattere che la nuova istituzione doveva assumere […]. Espressioni che parrebbero configurare un notevole salto in avanti rispetto alle vigenti modalità di accesso al museo napoletano, nel senso del passaggio da un’apertura al pubblico soggetta ad autorizzazione a una destinazione d’uso che, almeno in teoria, faceva del pubblico stesso – visitatori, studiosi, soprattutto studenti – il proprio principale referente.» (p. 83). Ricordo incidentalmente che è nell’ambito di questo progetto che si colloca cronologicamente lo spostamento da Roma a Napoli delle statue farnesiane ancora custodite, all’epoca, nella città pontificia. Emerso concretamente attorno al 1784, il progetto fu eseguito solo parzialmente da lì a fine secolo, con una brusca interruzione legata alla rivoluzione del 1799. Si coglie, comunque, nell’arco di sessant’anni, l’evolvere dell’idea di museo, anzi, a essere corretti, la trasformazione da un’idea di galleria reale a uso principalmente dinastico a quello di una collezione pubblica che, peraltro, doveva legare l’arte del passato con quella contemporanea, negli anni del grande affermarsi del neoclassicismo.

 

Una storia di persone

Impossibile, in questa sede, ricordarle tutte, ma può essere utile, come fa l’autrice, ricorrere a De Dominici e alle sue Vite, dove, nell’ambito dell’affermazione di una tradizione artistica napoletana, compare anche la rivalutazione degli addetti al ‘restauro’. Il termine (che sto volutamente usando fra virgolette) non è ancora ben connotato fra operazioni meccaniche e altre di natura mimetica, con ridipinture e rifacimenti veri e propri. Sembra, allora, che «De Dominici sia disposto ad accettare la totale trasformazione degli originali in opere da essi ormai lontane – anche senza motivate necessità conservative, ma per il solo desiderio di ammodernamento -, purché l’incarico si affidi ad autori la cui qualità esecutiva, auspicabilmente associata al rispetto degli originari aspetti compositivi, non ne faccia rimpiangere la sostanziale obliterazione» (p. 14). Tuttavia il biografo napoletano non manca di far riferimento a questioni tecniche, ricordando (o rivendicando) la napoletanità della scoperta dei procedimenti di trasporto dei dipinti su muro o su tavola su nuovo supporto; si tratta, come si diceva, di un fenomeno che si inquadra nella rivalutazione complessiva dell’arte napoletana, dove, appunto, trovano posto anche restauratori la cui principale qualità deve comunque essere – e questa sarà una costante di tutto il secolo, non solo a Napoli – la conoscenza delle maniere degli antichi pittori.

Dopo l’arrivo dei quadri farnesiani di Parma, il quadro non si mostra incoraggiante. La necessità del restauro dei quadri, le cui condizioni sono definite pessime, non sembra trovare un riscontro concreto, almeno non fino a quando a esserne incaricato è il pittore di camera del re Antonio Sebastiani, licenziato nel 1741, di cui le fonti narrano più che altro la scarsa propensione a lavorare. In sostanza non si hanno notizie di restauri se non in vista dei trasferimenti a Capodimonte (anche se un paio di indizi compaiono); in tale circostanza l’incarico fu affidato a Clemente Ruta e Andrea Liani; sembra che la suddivisione del lavoro prevedesse che quest’ultimo avesse l’incombenza degli interventi ‘meccanico-strutturali’ (dalle rinfoderature in poi: cfr. p. 50), mentre la parte squisitamente meccanica spettasse al Ruta. Ruta era pittore; di Liani sappiamo che si andò affermando, quale privato, come imprimitore di tele di quadri, una professionalità che stava assumendo una sua riconoscibilità proprio in quegli anni: «siamo dinanzi a una divisione del lavoro che consentiva di sfruttare al meglio la costosa opera degli artisti più quotati; al contempo questo processo apriva il varco alla formazione di figure professionali in qualche modo inedite nella loro indipendenza, che si incaricavano su commissione di provvedere a tele, telai, montaggio finale e financo all’imprimitura; il che lascia quantomeno immaginare una standardizzazione dei fondi dei dipinti, ben diversa rispetto all’attenzione dedicata dagli artisti del secolo precedente alla preparazione di mestiche e imprimiture variamente colorate, in funzione del soggetto che esse erano destinate ad ospitare» (p. 52). Nel concreto, Ruta lasciò Napoli nel 1759; non è ben chiaro quando Liani si fece carico di entrambe le fasi; in alcuni documenti è citato ad esempio l’intervento del pittore di camera Giuseppe Bonito (p. 67). Cert’è che, nel 1768, lo ritroviamo «dipintore e conservatore della Real Quadreria» e tale rimase fino al 1780, quando abbandonò l’incarico, vecchissimo.

Un vero punto di svolta è marcato, piuttosto, dall’arrivo da Roma come restauratore delle collezioni (prima in prova) delle collezioni del tedesco Friedrich Anders, su sollecitazione del connazionale Philipp Hackert. È appena evidente che l’endorsement di Hackert nei confronti di Anders rientra in un patto strategico di solidarietà e promozione fra artisti che parlano la stessa lingua (la stessa della regina), ma è fuori di dubbio che Anders aveva già dato prova, a Roma, di essere artista versatile e duttile, dedito però, in maniera principale, proprio a quel restauro che, secondo le aspettative dell’epoca, vedeva nella versatilità e nella capacità di immedesimarsi nello stile altrui un criterio di giudizio fondamentale. L’approccio di Anders, peraltro, pare perfettamente allineato a quello di Hackert: liberarsi dei vecchi stereotipi dei ‘segreti’ del restauratore (anche se, ad esempio sulle puliture, non fu mai particolarmente loquace, almeno a giudicare dalla documentazione che ci è giunta) e far entrare il restauro come disciplina «nelle conversazioni di corte, auspicabilmente allargate alla società colta napoletana, assegnandogli dunque un ruolo che fino a quel momento sarebbe stato del tutto impensabile» (p. 99). Molto indicativa, in proposito, è l’esposizione dei quadri restaurati da Anders a Palazzo Reale prima del loro ritorno a Capodimonte, una specie di mostra temporanea ante litteram che certamente permetteva di vedere i capolavori, ma anche come erano stati recuperati. Se il restauro divenne effettivamente argomento di conservazione è aspetto discutibile, come discutibile è la statura del gruppo di allievi che Anders cercò di creare durante il suo incarico (aspetto che l’autrice tratta nell’ultima parte del volume).

 

Lettera sull’uso della vernice mastice

Ciò che, invece, è chiaro è che il progetto ‘tedesco’ di dare una svolta alla pratica del restauro a Napoli ebbe un suo momento apicale nella pubblicazione della Lettera sull’uso della vernice di Philipp Hackert (dicembre 1787), in cui l’autore si esprimeva a favore delle tecniche di Anders, e in particolare dell’applicazione a tutti i dipinti della vernice mastice, a uso protettivo, ma anche per restituire la freschezza e la brillantezza ‘originaria’ ai colori. Nel sostenere l’adozione della vernice, Hackert, contemporaneamente polemizzava con la scuola locale napoletana, colpevole di far ricorso al bianco d’uovo come finitura superficiale o a non meglio specificati ‘segreti’. La lettera comparve sulla stampa romana (probabilmente per le molte conoscenze che lì avevano sia Hackert sia Anders) e lì si dipanò, con risposte piccate e controrisposte pungenti. È chiaro l’intento di sostenere una supremazia tedesca nel settore, ma ragionando più in generale è altrettanto evidente che Hackert sentiva matura l’esigenza, non solo sua, ma di un pubblico di intenditori (forse non quelli napoletani) di ragionare in maniera franca, ma scientifica, di restauro, uscendo dal misterioso e dall’esoterico. Per capire quanto il concetto di restauro come ‘segreto’ fosse ancora incardinato nelle discussioni, basterà ricordare il celebre acquisto, a caro prezzo, del manoscritto (falso) che svelava il Venetian Secret di Tiziano operato all’Accademia di Belle Arti a Londra a fine 1795. Il dibattito, come detto, si svolse soprattutto sulla stampa romana, e fu l’occasione per ragionare di patine, o dell’opportunità di trovare un nuovo accordo cromatico su dipinti danneggiati, trovando un nuovo equilibrio; per una discussione, insomma, di carattere estetico. Così, ad esempio, scriveva Giovan Gherardo De Rossi nel 1788, schierandosi apertamente a favore del duo Hackert/Anders: «Per essere perfetto un restauratore, non deve essere solamente in istato di togliere da una tela o da una tavola il sudiciume, e di fermar la pittura se è cadente; ma anche di rimetterla in armonia» (p. 136). A fronte degli argomenti a favore della vernice, la risposta del partito ‘tradizionalista’ napoletano appare debole, ad esempio equivocando sull’uso della vernice come agente pulente e non come protezione della pellicola pittorica. Ma, lo si ripete, più che le conseguenze del dibattito in sé l’aspetto più importante pare proprio essere che, sul finire del secolo, esista una sensibilità nuova in tema di conservazione e che si parli apertamente di professionalizzazione del mestiere. Resterà ancora molto da fare per definirne meglio i termini, ma anche a Napoli il dibattito è avviato.


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