Paola D’Alconzo
Conservazione ed esposizione dei dipinti delle collezioni reali napoletane nel XVIII secolo: luoghi, uomini, opere
Firenze, Edifir, 2020
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Luoghi, uomini, opere
Una storia di luoghi, di uomini, di opere: sin dal titolo Paola
D’Alconzo chiarisce l’oggetto del suo studio, volto a delineare il dipanarsi
delle vicende espositive e conservative delle collezioni borboniche a Napoli
nel corso del XVIII secolo. Un periodo particolarmente significativo in
entrambi gli ambiti di studio, in cui tradizionalmente si collocano, a livello
non solo italiano, ma addirittura europeo, le nascite da un lato di un nuovo
modello museale, pubblico o semi-pubblico, e, dall’altro, i primi passi verso
una professionalizzazione del mestiere di restauratore, che tende a separarsi
da quello del pittore. Una storia inestricabile, nonostante la scelta
preventiva di non seguire le situazioni legate al patrimonio ecclesiastico, che
limita il campo della ricerca, ma non la difficoltà nel riuscire a selezionare
ed estrapolare i momenti salienti di una vicenda storica segnata da fughe in
avanti e arretramenti. Nel caso specifico, particolarmente dolorosa è la
frammentarietà delle testimonianze (fatale in questo senso la perdita di parte
del materiale dell’Archivio di Stato nel 1943), ma anche essere le medesime
molto spesso manifestamente di parte. Bene o male, si tratta del tratto
distintivo della storia del restauro, non solo nel Settecento, in cui
difficilmente veniamo a conoscere le procedure adottate (forse solo nel caso
delle ‘referte’ di Pietro
Edwards a Venezia, e in maniera comunque non completa), mentre i giudizi
espressi, entusiastici o denigratori che siano, sono legati più che altro a
‘gruppi di potere’ (se di potere si può parlare) o comunque a cordate con
chiari interessi economici. La difficoltà nel distinguere il dato oggettivo dal
giudizio soggettivo è, poi, ulteriormente complicata dalla banalissima
circostanza che gli interventi conservativi di cui si parla sono stati seguiti
da altri successivi che hanno alterato le condizioni dei quadri, ed è dunque quasi impossibile,
se non con analisi di laboratorio, avere un’idea della loro effettiva consistenza.
Un libro complesso e difficile da scrivere, insomma; certo non
difficile da leggere, grazie all’acribia dell’autrice che riesce a collegare in
maniera convincente labili tracce determinate da documenti a volte addirittura
andati distrutti: sotto questo punto di vista, ad esempio, è magistrale (e
chiaro esempio di quell’acribia di cui parlavo) il modo con cui D’Alconzo
dimostra che si sbagliava Antonio Filangieri da Candida quando scriveva, nel 1902,
che alla fine del 1738 si era riunita una commissione incaricata di progettare
le modalità espositive delle opere provenienti dalla parmense collezione
Farnese presso l’allora ancora in costruzione reggia collinare di Capodimonte,
mentre è evidente che il gruppo di incaricati doveva deliberare sui lavori
relativi all’esposizione dei quadri nel ‘mezzanino’ di Palazzo reale (pp. 40
ss.). Filangieri scriveva ed equivocava, all’epoca, sulla base di una relazione,
che nel frattempo è andata persa; D’Alconzo restituisce la verità, oggi, servendosi di indizi frammentari contenuti in diversi documenti, fra loro incrociati.
Una storia di luoghi
Proverò a dipanare, impropriamente, una matassa che l’autrice riesce a tenere assieme alternando sapientemente ora questo, ora l’altro filo. I luoghi in cui la vicenda delle collezioni reali si svolge sono molto noti: palazzo reale che affaccia sull’odierna piazza del Plebiscito, Capodimonte, la ex sede dell’Università, oggi Museo archeologico.
Napoli, Palazzo Reale Fonte: Sordelli tramite https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Palazzo_Reale_di_Napoli_(cropped).jpg |
Napoli, Reggia di Capodimonte Fonte: Mentnafunangann tramite https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Reggia_di_Capodimonte_1.JPG |
Rapidamente bisognerà ricordare che nel
1734 Carlo I di Borbone poneva fine alla breve esperienza del vicereame
austriaco (preceduto da quella assai più lunga di matrice spagnola) per
ripristinare il regno. Portava con sé, da Parma, la famosa collezione che gli
apparteneva per eredità della madre, nata Farnese. La storia delle collezioni
borboniche è quindi, soprattutto, la storia di quella collezione, anche se,
naturalmente, col tempo, vi furono acquisizioni successive. Alla reggia arrivarono
dipinti, arazzi, libri, medaglie e cammei; alcuni di questi manufatti, ad
esempio gli arazzi, furono immediatamente utilizzati nell’ambito della
risistemazione di un palazzo che, per prima cosa, doveva essere ‘risemantizzato’
alla luce dei cambiamenti politici, dopo il viceregno austriaco. Fu questa, in
sostanza, la prima preoccupazione dell’amministrazione. Il grosso dei dipinti,
invece, rimase chiuso nelle casse, in ambienti che le fonti ci hanno tramandato
come particolarmente umidi e che, certamente, non furono felici per la
conservazione delle opere. Solo nel 1738, concretamente, si cominciò a pensare
alla creazione di una galleria, all’interno del palazzo, in cui esporre i
materiali: lo spazio fu individuato nell’ambito dell’appartamento
dell’ex-maggiordomo maggiore di corte, tornato in Spagna. Nel novembre del 1739
Charles de Brosses visita quegli spazi (ancora in allestimento) e ci consegna
un quadro impietoso della situazione, definendo i Borbone come 'goti moderni' per
aver lasciato le opere nelle casse per anni; solo una parte dei dipinti,
peraltro, era stata tolta dagli imballaggi ed esposta. A Palazzo Reale i
dipinti rimasero per diverso tempo, perché nel frattempo la progettata
costruzione del palazzo di Capodimonte (è incerto se pensato sin dall’inizio
come sede espositiva) andò per le lunghe: «L’intoppo dei lavori della reggia collinare
dovette […] cronicizzare una decisione – l’esposizione nel palazzo di Napoli –
presa in condizioni poco meno che di emergenza e forse fin dall’inizio considerata
non risolutiva, se non altro per l’angustia degli spazi» (p. 54). Solo nel 1754
si deliberò, infatti, il trasferimento dei dipinti nella reggia collinare, che,
peraltro, fu sempre reggia ‘virtuale’ e mai effettiva, posto che l’edificio era
ben lungi dall’essere completato; l’inaugurazione (informale) di Capodimonte
risale, infatti, al 1759. Una collezione di fruizione fino ad allora praticamente
privata, diventava in questo modo semi-pubblica, se non altro perché i sovrani
mai vi si trasferirono. Logisticamente difficile da raggiungere, fu tuttavia
visitata soprattutto da viaggiatori ed eruditi stranieri (che a volte potevano
addirittura passarvi la notte). I resoconti che ci sono giunti, da Winckelmann
in poi, alternano giudizi sulle opere più famose della collezione a considerazioni
sul loro precario stato di conservazione e allo squallore generale di una
sistemazione di opere – la maggior parte senza cornice – in un palazzo semi
abbandonato che di fatto era una ‘cattedrale nel deserto’. In realtà, le fonti
segnalano, nel corso dei decenni, un flusso continuo di opere fra palazzo reale
a Napoli e la reggia di Capodimonte, se non altro perché, quando si cominciò a
restaurarle, l’operazione veniva eseguita ancora in città. Quello che è certo è
che continua a prevalere l’idea che i dipinti siano, innanzi tutto, proprietà
privata del sovrano e, solo secondariamente, patrimonio culturale della città:
non ci si stupisca, così, del progetto del principe di San Nicandro,
responsabile della reggia cittadina, che, a metà anni Sessanta, pianificò di
risistemare alcuni ambienti del palazzo oggi in piazza del Plebiscito facendo
tornare alcuni capolavori da Capodimonte, esponendoli secondo criteri puramente
estetici, coordinati con arredi appositamente pensati e ipotizzando, per amor
di simmetria, di allargare (o, cosa ben più grave) tagliare le opere in maniera
tale da uniformarne le dimensioni.
In realtà nulla successe di tutto ciò. La situazione di
Capodimonte, sia pur gradatamente, migliorò, fors’anche perché venne meno
l’intenzione (ventilata da più parti) di trasferire la collezione a Caserta,
una volta ultimata la reggia. D’Alconzo registra puntualmente il gradato
miglioramento della situazione espositiva a Capodimonte (che in precedenza
sembrava assegnata più che altro al caso), proprio mentre, a partire dal
1777, si cominciava a parlare di una nuova collocazione, nell’ambito della
creazione di una grande istituzione museale che raccogliesse tutte le
collezioni reali, collocandola nell’edificio che fino a poco prima era stato
sede dell’Università. Si trattava di concentrare in un unico edificio tre
accademie (pittura, scultura e architettura; scienze; belle lettere), due
biblioteche (Farnesiana e Palatina), tre musei (Musei Reali, Farnesiano,
Ercolanese) e dotare il tutto anche di un museo di storia naturale, un orto
botanico e un laboratorio chimico. D’Alconzo sottolinea che il progetto era
«espressione di una politica culturale forse non in anticipo sui tempi [n.d.r.
si pensi a Brera], ma senz’altro allineata alle soluzioni adottate dai sovrani
dei maggiori stati italiani ed europei. Il nesso strettissimo tra museo e
laboratori […] in questa occasione viene ribadito e ampliato, in termini che
non lasciano dubbi sul carattere che la nuova istituzione doveva assumere […].
Espressioni che parrebbero configurare un notevole salto in avanti rispetto
alle vigenti modalità di accesso al museo napoletano, nel senso del passaggio
da un’apertura al pubblico soggetta ad autorizzazione a una destinazione d’uso
che, almeno in teoria, faceva del pubblico stesso – visitatori, studiosi,
soprattutto studenti – il proprio principale referente.» (p. 83). Ricordo
incidentalmente che è nell’ambito di questo progetto che si colloca
cronologicamente lo spostamento da Roma a Napoli delle statue farnesiane ancora
custodite, all’epoca, nella città pontificia. Emerso concretamente attorno al
1784, il progetto fu eseguito solo parzialmente da lì a fine secolo, con una
brusca interruzione legata alla rivoluzione del 1799. Si coglie, comunque,
nell’arco di sessant’anni, l’evolvere dell’idea di museo, anzi, a essere
corretti, la trasformazione da un’idea di galleria reale a uso principalmente
dinastico a quello di una collezione pubblica che, peraltro, doveva legare l’arte
del passato con quella contemporanea, negli anni del grande affermarsi del
neoclassicismo.
Una storia di persone
Impossibile, in questa sede, ricordarle tutte, ma può essere
utile, come fa l’autrice, ricorrere a De Dominici e alle sue Vite, dove,
nell’ambito dell’affermazione di una tradizione artistica napoletana, compare
anche la rivalutazione degli addetti al ‘restauro’. Il termine (che sto
volutamente usando fra virgolette) non è ancora ben connotato fra operazioni
meccaniche e altre di natura mimetica, con ridipinture e rifacimenti veri e
propri. Sembra, allora, che «De Dominici sia disposto ad accettare la totale
trasformazione degli originali in opere da essi ormai lontane – anche senza
motivate necessità conservative, ma per il solo desiderio di ammodernamento -,
purché l’incarico si affidi ad autori la cui qualità esecutiva, auspicabilmente
associata al rispetto degli originari aspetti compositivi, non ne faccia
rimpiangere la sostanziale obliterazione» (p. 14). Tuttavia il biografo
napoletano non manca di far riferimento a questioni tecniche, ricordando (o
rivendicando) la napoletanità della scoperta dei procedimenti di trasporto dei
dipinti su muro o su tavola su nuovo supporto; si tratta, come si diceva, di un
fenomeno che si inquadra nella rivalutazione complessiva dell’arte napoletana,
dove, appunto, trovano posto anche restauratori la cui principale qualità deve
comunque essere – e questa sarà una costante di tutto il secolo, non solo a
Napoli – la conoscenza delle maniere degli antichi pittori.
Dopo l’arrivo dei quadri farnesiani di Parma, il quadro non si
mostra incoraggiante. La necessità del restauro dei quadri, le cui condizioni
sono definite pessime, non sembra trovare un riscontro concreto, almeno non fino
a quando a esserne incaricato è il pittore di camera del re Antonio Sebastiani,
licenziato nel 1741, di cui le fonti narrano più che altro la scarsa
propensione a lavorare. In sostanza non si hanno notizie di restauri se non in
vista dei trasferimenti a Capodimonte (anche se un paio di indizi compaiono);
in tale circostanza l’incarico fu affidato a Clemente Ruta e Andrea Liani;
sembra che la suddivisione del lavoro prevedesse che quest’ultimo avesse
l’incombenza degli interventi ‘meccanico-strutturali’ (dalle rinfoderature in poi: cfr.
p. 50), mentre la parte squisitamente meccanica spettasse al Ruta. Ruta
era pittore; di Liani sappiamo che si andò affermando, quale privato, come
imprimitore di tele di quadri, una professionalità che stava assumendo una sua riconoscibilità proprio in quegli anni: «siamo dinanzi a una divisione del lavoro che
consentiva di sfruttare al meglio la costosa opera degli artisti più quotati;
al contempo questo processo apriva il varco alla formazione di figure
professionali in qualche modo inedite nella loro indipendenza, che si
incaricavano su commissione di provvedere a tele, telai, montaggio finale e
financo all’imprimitura; il che lascia quantomeno immaginare una
standardizzazione dei fondi dei dipinti, ben diversa rispetto all’attenzione
dedicata dagli artisti del secolo precedente alla preparazione di mestiche e
imprimiture variamente colorate, in funzione del soggetto che esse erano
destinate ad ospitare» (p. 52). Nel concreto, Ruta lasciò Napoli nel 1759; non
è ben chiaro quando Liani si fece carico di entrambe le fasi; in alcuni
documenti è citato ad esempio l’intervento del pittore di camera Giuseppe
Bonito (p. 67). Cert’è che, nel 1768, lo ritroviamo «dipintore e conservatore
della Real Quadreria» e tale rimase fino al 1780, quando abbandonò l’incarico,
vecchissimo.
Un vero punto di svolta è marcato, piuttosto, dall’arrivo da Roma come
restauratore delle collezioni (prima in prova) delle collezioni del tedesco Friedrich
Anders, su sollecitazione del connazionale Philipp Hackert. È appena evidente
che l’endorsement di Hackert nei confronti di Anders rientra in un patto strategico di solidarietà e promozione fra artisti che parlano la stessa lingua (la stessa della regina), ma è fuori
di dubbio che Anders aveva già dato prova, a Roma, di essere artista versatile
e duttile, dedito però, in maniera principale, proprio a quel restauro che,
secondo le aspettative dell’epoca, vedeva nella versatilità e nella
capacità di immedesimarsi nello stile altrui un criterio di giudizio
fondamentale. L’approccio di Anders, peraltro, pare perfettamente allineato a
quello di Hackert: liberarsi dei vecchi stereotipi dei ‘segreti’ del
restauratore (anche se, ad esempio sulle puliture, non fu mai particolarmente
loquace, almeno a giudicare dalla documentazione che ci è giunta) e far entrare
il restauro come disciplina «nelle conversazioni di corte, auspicabilmente
allargate alla società colta napoletana, assegnandogli dunque un ruolo che fino
a quel momento sarebbe stato del tutto impensabile» (p. 99). Molto indicativa,
in proposito, è l’esposizione dei quadri restaurati da Anders a Palazzo Reale
prima del loro ritorno a Capodimonte, una specie di mostra temporanea ante
litteram che certamente permetteva di vedere i capolavori, ma anche come erano
stati recuperati. Se il restauro divenne effettivamente argomento di
conservazione è aspetto discutibile, come discutibile è la statura del gruppo
di allievi che Anders cercò di creare durante il suo incarico (aspetto che
l’autrice tratta nell’ultima parte del volume).
Lettera sull’uso della vernice mastice
Ciò che, invece, è chiaro è che il progetto ‘tedesco’ di dare una
svolta alla pratica del restauro a Napoli ebbe un suo momento apicale nella
pubblicazione della Lettera sull’uso della vernice di Philipp Hackert (dicembre
1787), in cui l’autore si esprimeva a favore delle tecniche di Anders, e in
particolare dell’applicazione a tutti i dipinti della vernice mastice, a uso
protettivo, ma anche per restituire la freschezza e la brillantezza
‘originaria’ ai colori. Nel sostenere l’adozione della vernice, Hackert,
contemporaneamente polemizzava con la scuola locale napoletana, colpevole di
far ricorso al bianco d’uovo come finitura superficiale o a non meglio
specificati ‘segreti’. La lettera comparve sulla stampa romana (probabilmente
per le molte conoscenze che lì avevano sia Hackert sia Anders) e lì si
dipanò, con risposte piccate e controrisposte pungenti. È chiaro l’intento di
sostenere una supremazia tedesca nel settore, ma ragionando più in generale è
altrettanto evidente che Hackert sentiva matura l’esigenza, non solo sua, ma di
un pubblico di intenditori (forse non quelli napoletani) di ragionare in
maniera franca, ma scientifica, di restauro, uscendo dal misterioso e
dall’esoterico. Per capire quanto il concetto di restauro come ‘segreto’ fosse
ancora incardinato nelle discussioni, basterà ricordare il celebre acquisto, a
caro prezzo, del manoscritto (falso) che
svelava il Venetian Secret di Tiziano operato all’Accademia di Belle
Arti a Londra a fine 1795. Il dibattito, come detto, si svolse
soprattutto sulla stampa romana, e fu l’occasione per ragionare di patine, o
dell’opportunità di trovare un nuovo accordo cromatico su dipinti danneggiati,
trovando un nuovo equilibrio; per una discussione, insomma, di carattere
estetico. Così, ad esempio, scriveva Giovan Gherardo De Rossi nel 1788,
schierandosi apertamente a favore del duo Hackert/Anders: «Per essere perfetto
un restauratore, non deve essere solamente in istato di togliere da una tela o da una tavola il sudiciume, e di fermar la pittura se è cadente; ma anche di
rimetterla in armonia» (p. 136). A fronte degli argomenti a favore della
vernice, la risposta del partito ‘tradizionalista’ napoletano appare debole, ad
esempio equivocando sull’uso della vernice come agente pulente e non come
protezione della pellicola pittorica. Ma, lo si ripete, più che le conseguenze
del dibattito in sé l’aspetto più importante pare proprio essere che, sul
finire del secolo, esista una sensibilità nuova in tema di conservazione e che si
parli apertamente di professionalizzazione del mestiere. Resterà ancora molto
da fare per definirne meglio i termini, ma anche a Napoli il
dibattito è avviato.
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