Apprendere da Raffaello
Modello, funzione e ricezione nelle accademie e nella teoria dell’arte
A cura di Valeria Rotili, Stefania Ventra, Francesco Moschini
Genova, Sagep editori, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
(Felici) variazioni sul tema
La questione di Raffaello come modello del fare artistico e,
in particolare, dello studio di Raffaello nelle Accademie non è inedita. Si
tratta, peraltro, di un tema di enorme vastità, tenuto conto che, più o meno,
riguarda tutte le Accademie europee (e non solo) dalla loro nascita almeno sino
al Novecento. E tuttavia questo libro, curato da Valeria Rotili, Stefania
Ventra e Francesco Moschini, piace. Piace perché offre spunti di riflessione
mettendo in luce aspetti poco noti, che meritano senz’altro di essere
approfonditi. Recensire un’opera collettanea, naturalmente, non è facile. Lo
farò nel modo che ritengo a me più congeniale, ossia soffermandomi sugli spunti
che hanno attratto la mia attenzione e stimolato il ragionamento. Mi scuso,
quindi, se non sarà esaustivo, e mi scuso in particolare per non essere in
grado di parlare del Raffaello ‘prussiano’ che è oggetto dello studio di Christoph
Glorius: non conosco il tedesco e quindi mi è impossibile farlo.
Henry Keazor
Raphael’s School of Athens in Reception and Adaptation: from the Academy of
Philosophy to the Hall of Fame
In tutta onestà, non mi ero mai chiesto come mai (al di là
del giudizio estetico), la Scuola di Atene, nella Stanza della
Segnatura, abbia avuto fortuna storicamente fortuna assai maggiore della
gemella Disputa del Sacramento, pur essendo chiaro che, nel programma
iconografico della stanza raffaellesca la prima sia una sorta di prodromo della
seconda: i filosofi che sono in cerca di saggezza e verità (la Scuola)
che vengono rivelate essere raggiungibili solo col Cristianesimo (la Disputa).
Henry Keazor nota che il motivo è banalissimo: il soggetto della Scuola è
più facilmente adattabile e riutilizzabile perché, preso a sé stante, è
sostanzialmente neutro da un punto di vista religioso (ma anche perché
consiste, di fatto, in una ‘raccolta di uomini illustri). Capita così, che il
modello sia recuperato, vuoi per la quinta architettonica vuoi per gruppi di
figure, in opere che, dal punto di vista iconografico sono associate
all’insegnamento dell’arte in ambito accademico, come l’incisione di Pietro
Testa nel Liceo della pittura e nella stampa di Nicolas Dorigny da
disegno di Maratti sull’Accademia di Pittura. Anche in ambito francese,
naturalmente, l’affresco mostra di essere attrattivo e di essere alla base di
opere come la Raccolta della manna di Nicolas Poussin o la scena
mitologica con Perseo che pietrifica Fineo e i suoi compagni con la testa
della Medusa di Jean-Marc Nattier (quest’ultimo prova di ammissione
dell’artista all’Academie Royale). Al netto di variazioni d’impianto, con
rotazioni della composizione in senso diagonale, la tesi dell’autore è che
quelle di Poussin prima e Nattier, poi, siano opere che parlano un linguaggio
raffaellesco, una sorta di lingua franca, chiaramente percepibile e
decodificabile negli ambienti dei conoscitori transalpini.
Raffaello, Scuola di Atene, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano Fonte: https://www.wga.hu/art/r/raphael/4stanze/1segnatu/1/athens.jpg |
Raffaello, Disputa del Sacramento, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano Fonte: https://www.wga.hu/art/r/raphael/4stanze/1segnatu/2/00disput.jpg |
Tijana Žakula
Emulate, Surpass, Assimilate: Raphael in the Early Modern Northern
Netherlands
L’autrice ha già scritto su Gerard de Lairesse (1641-1711),
artista campione del classicismo olandese (anche se era di origini vallone) non
solo con i suoi dipinti, ma anche con i suoi trattati, come il Groot
Schilderboeck (Il Grande Libro della Pittura), edito in due volumi nel
1707. Si veda Tijana Žakula, Reforming
Dutch Art: Gerard de Lairesse on Beauty, Morals and Class in «Simiolus.
Netherland quarterly for the history of art», vol. 37, 2013-2014. In
quell’occasione Žakula evidenziava come il reale contributo di de
Lairesse fosse quello di aver fissato regole per allargare l’uso del
classicismo dalla pittura di storia a generi considerati più ‘bassi’, come la
pittura di paesaggio, i ritratti etc., sempre nella convinzione, comunque, che
andasse operata una netta distinzione fra l’ ‘antico’ (che è ciò che rimane
nell’arte) e il ‘moderno’, che è moda effimera. Qui l’autrice focalizza
l’attenzione su Raffaello, che, pur moderno, è accolto, in via straordinaria,
nelle fila del classicismo per averne saputo recuperare e vivificare i canoni.
L’urbinate è modello e fonte di ispirazione per i giovani artisti, ma non apice
assoluto dell’arte. De Lairesse non esita a sottolinearne le incongruenze
soprattutto da un punto di vista iconografico, come la presenza di papa Urbano
VIII (in realtà Giulio II) nella Cacciata di Eliodoro dal tempio, scena
tratta dall’Antico Testamento. L’anacronismo cronologico causa la mancanza di
credibilità della vicenda. Allo stesso modo, l’artista olandese condanna
l’eccesso di ornamenti, come nel caso di David che osserva la toeletta di
Betsabea, in cui il sovrano è rappresentato con una corona sul capo, come
se altrimenti non fosse stato possibile identificarlo. La tesi del trattatista
è che la ‘nobiltà’ dei soggetti rappresentati si debba riconoscere dal loro
portamento e non dal fatto di essere raffigurati (uomini o donne che siano) con
gioielli e altri oggetti di particolare preziosità. Raffaello, insomma, non è
solo modello da imitare, ma da emulare e potenzialmente sorpassare grazie,
appunto, allo studio di questi aspetti, che solo se interpretati correttamente rendono
la pittura di storia coerente e verosimile. Resta peraltro il fatto che
l’artista dimostra comunque, nelle sue opere, di assimilare i temi di Raffaello
senza rinunciare alle peculiarità tipiche dell’arte del suo paese, come nella
sua Morte di Cleopatra, dove rappresenta in maniera meticolosa e
‘fiamminga’ le superfici metalliche, i tessuti e i vestiti e gli elementi
architettonici. Quella di de Lairesse, insomma, come è giusto che sia, è una
meditata assimilazione di un modello alla tradizione pittorica fiamminga. Purtroppo,
nell’ambito del testo, è saltata (presumo per motivi di spazio) qualche
immagine inizialmente prevista come presente (non è capitato solo in questo
contributo), rendendo meno agevole la comprensione del contributo.
Alessandra Cosmi
Dall’Accademia di San Luca alle residenze private: la fortuna degli arazzi
di Raffaello nel mecenatismo della famiglia Barberini
È fuori di dubbio che l’attenzione dei Barberini nei confronti di
Raffaello sia legata anche al ruolo di protettore della romana Accademia di San
Luca che il cardinal Francesco assunse dal 1627. Quella del prelato fu una
partecipazione attiva (o, come si dice ora, proattiva). Inevitabile che l’interesse
per Raffaello che nutriva l’Accademia, dove, non a caso, si conservava il
celebre San Luca che dipinge la Vergine alla presenza di Raffaello,
abbia finito per influenzare anche la committenza della famiglia, soprattutto
(ma non solo) tramite la fattura di tre serie di arazzi realizzate dall’arazzeria
Barberini (fondata nel 1627) e dedicati rispettivamente alle Storie di
Costantino (1630-1641), ai Giochi di putti (1637-1642) e alla Vita
di Cristo (1643-1656). Ma non possiamo dimenticare le copie delle opere
raffaellesche in Vaticano ordinate ad Andrea Sacchi e altri pittori destinate a
decorare Palazzo Barberini alle Quattro Fontane. «Alla luce di quanto detto
sinora si può affermare che il programma culturale promosso dalla famiglia
Barberini negli anni Trenta e Quaranta, tanto nella produzione dell’arazzeria
quanto nelle commissioni per le loro residenze, appare come una precisa e
coerente celebrazione delle opere di Raffaello, in particolare quelle in
Vaticano, che divengono un modello d’ispirazione da seguire e da copiare» (p.
39).
Ilaria Fiumi Sermattei
Raffaello moralizzato. La censura della Loggia di Psiche alla Farnesina
nelle raccolte della Calcografia Camerale
L’autrice si occupa di episodio a me, in precedenza, totalmente
ignoto. Nello Stato Pontificio restaurato, già all’indomani della stagione
napoleonica, emerge (o ritorna in auge) una forma d’imbarazzo nei confronti
delle opere d’arte che rappresentano nudità o soggetti manifestamente
licenziosi, siano esse presenti nei musei romani, e/o vendute come incisioni dalla
Calcografia Camerale pontificia. Queste forme di disagio recepiscono anche
commenti poco favorevoli da ambienti stranieri, specie se protestanti, in
merito alla presenza (e allo sfruttamento economico) di tali opere a Roma. Non
si deve, insomma, pensare che la pruderie provenga da un solo lato; è noto che
nel valutare le possibili opere da comperare in Italia per la National Gallery,
dal 1855 al 1865, un uomo come Charles
Eastlake, direttore della National Gallery, pensò alla possibile reazione
di un pubblico anglicano di fronte alla nudità. Possiamo avere un’idea di
quello che accadde tenendo conto che nel 1833 la Venere Capitolina fu
tolta dal percorso di visita del museo romano e spostata in una stanza ad
accesso riservato. Raffaello rientra in questo discorso per via della
distruzione di alcune matrici della Calcografia Camerale vaticana. Si tratta di
dodici matrici incise nel 1693 dal Dorigny con la Favola di Amore e Psiche
e la Galatea dipinte nella Villa Farnesina. La vicenda, ricostruita
dall’autrice, si snoda fra 1820 e 1823. Ora, è abbastanza evidente che,
rispetto ad altri soggetti distrutti (ma anche ad alcuni salvati) le nudità dei
putti e della Galatea sono abbastanza innocue, tanto da chiedersi come mai le
matrici siano state comprese in quelle da distruggere, soprattutto alla luce
del riconociuto ‘primato’ raffaellesco dell’epoca. La risposta – suggerisce
Fiumi Sermattei – sta più nella censura della committenza delle opere che nelle
opere di per loro. Nel caso specifico si va oltre, ed è rivolta ai Farnese e
Papa Paolo III in particolare, rei di aver sottratto la villa Farnesina agli
eredi Chigi con metodi a dir poco non ortodossi. È molto interessante notare –
e l’autrice rende l’idea benissimo – «come la condanna dell’arte profana romana
di età rinascimentale e barocca fosse innescata non solo, e non semplicemente,
dai soggetti raffigurati, quanto soprattutto dall’imbarazzante legame, di
proprietà o committenza, con quei principi della Chiesa che in passato avevano
mostrato più mondane ambizioni che aneliti spirituali» (pp. 49-50).
Pilar Diez del Corral Corredoira
La raccolta raffaellesca di Felipe de Castro: sulle tracce del modello
didattico agli albori dell’Accademia di San Fernando a Madrid
Felipe de Castro fu professore di scultura della Junta
preparatoria (una sorta di istituzione temporanea in attesa
dell’inaugurazione ufficiale) e dell’Accademia Reale di San Fernando a Madrid
(fondata nel 1752). Fu inoltre direttore dell’Accademia dal 1763. La sua
formazione contemplò, come normale all’epoca, un’esperienza italiana, compiuta,
a dire il vero, quando l’artista aveva già trent’anni (a partire dal 1732). Il
soggiorno romano durò diversi anni (nel 1739 Castro vinse il premio di Prima
classe del Concorso Clementino). Ciò che più importa, tuttavia, non è valutare
tanto quanto Raffaello incise nell’attività artistica dello spagnolo (che
peraltro fu uno scultore), quanto il fatto che «intellettualmente egli capì la
grandezza del modello dell’Urbinate e dal suo ritorno in Spagna sino alla fine
del 1746 tentò di inserirlo nel modello pedagogico dell’accademia con i suoi
allievi»
(p. 66). Castro ebbe, cioè, un ruolo finora sottovalutato nello studio dei
modelli da Raffaello all’interno dell’Accademia spagnola. Ne è dimostrazione un
corpus di 89 disegni, non tutti di sua mano (potrebbero esserci ad esempio
prove degli allievi stessi) al cui interno si distingue un nucleo raffaellesco
riferito a opere dalle Stanze vaticane (all’epoca di accesso difficilissimo) e
dalla Villa Farnesina. Si tratte per lo più di studi di teste «che
provano l’importanza di Raffaello nello studio delle espressioni dei volti, che
servivano alle generazioni di artisti per creare un esteso campionario da
utilizzare in futuri lavori» (pp. 62-63). In molti di essi si possono ancora vedere i
segni dei ganci con cui i disegni erano appesi alla parete delle sale
dell’accademia per motivi di studio. La
tesi dell’autrice – in definitiva – è che se Mengs riuscì a riorientare rapidamente
in senso neoclassicista l’accademia spagnola al suo arrivo a Madrid è anche
perché, prima di lui, Felipe de Castro gli aveva già preparato il terreno.
Antonella Bellin, Elena Catra
Raffaello e Tiziano, complementari e antagonisti nell’educazione di un
aspirante pittore presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia
Antonella Bellin ed Elena Catra fanno il punto
sull’insegnamento di Raffaello nell’Accademia di Belle Arti di Venezia nel
primo Ottocento (per un quadro complessivo sull’Accademia si veda in questo
blog L’Accademia
di Belle Arti di Venezia. L’Ottocento, a cura di Nico Stringa). All’epoca,
i primi tre anni, comuni a tutti gli allievi, erano preparatori ed erano
seguiti da due anni di specializzazione in Composizione e Colorito. L’esame dei
disegni conservati ancor oggi in Accademia dimostra che nei tre anni
propedeutici i soggetti più copiati erano proprio quelli dell’urbinate, dalla Trasfigurazione
alla Madonna della Seggiola, dall’Incendio di Borgo alla Scuola
di Atene. I motivi sono facilmente intuibili e risiedono nella varietà
delle teste e delle espressioni. Il primato raffaellesco non riguarda solo
l’insegnamento del disegno, ma si allargava alla scuola di Incisione e a quella
di Ornato. Diverso il discorso quando si passa a esaminare l’insegnamento nelle
classi superiori, ossia quelle di Colorito e Composizione. Qui, come è logico
che sia, Raffaello lascia il passo al ‘colore’ veneziano e l’opera di
riferimento diventa l’Assunta di Tiziano, che in quegli anni, peraltro,
era custodita proprio presso l’Accademia. Le cose cambiano a metà Ottocento con
la nomina a Segretario facente funzione di Presidente di Pietro Selvatico
Estense (si
vedano in merito gli atti del convegno del 2016). La scuola di Estetica
diventa un corso obbligatorio di Storia dell’arte e gli allievi sono introdotti
allo studio di Tre e Quattrocentisti. Il solo Raffaello resta immutato
paradigma dell’insegnamento, mentre l’attenzione sul colorito veneziano viene a
calare.
Marco Pupillo
Raffaello «pittore della verità»? Percorsi critici
all’inizio dell’Ottocento
Il mito di Raffaello ha radici antiche, ma l’autore lo analizza
alla luce di scritti di fine Sette e inizio Ottocento. In questo senso ha
particolare rilevanza la definizione dell’urbinate come ‘pittore della verità’
che già Mengs aveva fornito in una sua lettera a un corrispondente nel 1768 e
che fu stampata nelle Opere del pittore nel 1787. Le ragioni a sostegno
della tesi sono chiare: «ogni espressione – scrive Mengs - è adatta al carattere della persona […] Non ci
è stato pittore che abbia tanto variato le proporzioni, le forme, le
fisionomie, gli andamenti, e tutte le circostanze, come Raffaello» (p. 91).
L’argomento è ripreso da Quatremère de Quincy che nel 1824 pubblicò una
monografia di grande successo dedicata al Sanzio: in particolare, parlando
della Madonna di Foligno, possiamo leggere «non sapremmo lodare meglio
il S. Giovanni Battista di questo quadro, che servendoci delle parole dello
stesso Vasari» (che riporta immediatamente dopo nella versione del 1550). Il
riferimento al S. Giovanni Battista non è casuale. In un contesto di scritti
altamente elogiativi, che prim’ancora di Quatremére vide coinvolto l’inglese
Richard Duppa (1816) e poi Melchior
Missirini (1821), spicca, stonata, l’opinione di Giuseppe Antonio Guattani,
segretario dell’Accademia di San Luca negli ultimi anni della dominazione
francese e nei primi della Restaurazione. Nella sua Pittura comparata
del 1816, in cui pone a confronto fra loro dipinti di scuole ed epoche diverse,
oltre a tanti elogi, Guattani muove una critica a Raffaello e quella critica
riguarda proprio il Battista (oltre al S. Francesco) nella Madonna di
Foligno: «Dall’altro lato stassi egualmente genuflesso S. Francesco con una
piccola croce in mano di un aria [sic] piuttosto ignobile, ma molto espressiva:
e all’indietro di lui vi è ritto S. Gio. Battista coperto di pelli. Egli è a
dir vero di troppo rustico aspetto, che che ne dicano il Vasari e il Bellori
che cercano di scusare il Pittore con attribuire quella rozzezza ai digiuni e
patimenti del Santo» (p. 89). Si tratta, probabilmente di una critica espressa
per puro spirito di polemica; di certo è di consistenza risibile. Ma le parole
di Guattani sollevarono, evidentemente, un polverone, se prima gli rispose
Missirini (senza citarlo, ma in maniera equivoca) e poi Quatremére. Raffaello era
mito e il mito non si poteva discutere.
Francesco Lofano
Raffaello e le Lezioni pratiche circa l’imitazione
dell’antico nelle arti del disegno per uso della Reale Accademia Napolitana di
Disegno e di Pittura di Gaetano D’Ancora
Gaetano D’Ancora fu erudito (insegnava ad esempio lingua greca)
con interessi artistici e antiquari. Non sembra abbia avuto incarichi diretti
all’interno della napoletana Real Accademia del Disegno, fondata nel 1752.
Eppure, le sue Lezioni pratiche sono indirizzate agli studenti dell’Accademia
e, più che a fornire informazioni sull’attività artistica, sono strutturate
come un repertorio di errori (un po’ come se fossimo di fronte a
un novello Gilio), soprattutto o quasi esclusivamente in termini
iconografici, che l’artista non deve compiere. Sono in realtà tutto ciò che
resta in merito all’insegnamento in Accademia a Napoli nel primo sessantennio
della sua vita, a causa della perdita dell’archivio per via di un incendio.
Difficile desumere degli orientamenti da un testo meramente emendativo, ma
anche solo in termini meramente quantitativi, le citazioni di Raffaello sono
superiori rispetto a quelle degli altri grandi del Rinascimento (e sempre
connotate in senso positivo).
Stefania Ventra
Tommaso Minardi e Raffaello: dai disegni inediti del «ragazzo faentino» ai
discorsi accademici della maturità
Da tempo, ormai, Stefania Ventra indaga la figura di Tommaso
Minardi. Minardi fu figura centrale per il mondo artistico romano di pieno
Ottocento; più in generale è notissimo l’impegno che dedicò all’attività
didattica, sia privatamente sia presso l’Accademia di Perugia (prima) e presso
quella romana di San Luca (per un trentennio). Qui l’autrice ne esamina le
preferenze raffaellesche anche alla luce di un taccuino di disegni recentemente
comparso a Rimini sul mercato antiquario, in cui gran parte degli studi grafici
è a lui attribuibile. Al netto della sua adesione al purismo, e quindi ai
primitivi, Ventra segnala che Raffaello rimase sempre non ‘un’ punto, ma ‘il’
punto di riferimento degli orizzonti minardiani. Pare naturale che nel Sanzio Minardi
vedesse una fonte di ispirazione pressoché infinita. Certo su incisioni da
Raffaello sono condotti disegni giovanili che compaiono nell’album sopra
citato. Da notare che sin da quel momento Minardi sembra preferire la copia
dall’incisione che dall’originale, perché la prima è priva di colore e permette
di concentrarsi meglio sul ‘concetto’. La predilezione per Raffaello si può
cogliere nell’arco di tutta la vita dell’artista. Suoi allievi in Accademia a
Roma lo ricordano mentre ««ragionava delle leggi del comporre, citando
principalmente gli esempi degli antichi maestri e, per rendere più chiare ed
efficaci le sue osservazioni, portava seco le migliori incisioni, ritraenti
opere di Raffaello […]» al fine di opporsi alla maniera praticata dalla
maggioranza degli artisti contemporanei, influenzati, nella disposizione delle
figure nello spazio, dai bassorilievi antichi» (p. 122). Quest’aspetto è di
particolare interesse: per Minardi ‘antico’ e ‘classico’ sono sinonimi di
Raffaello e non dell’antichità greco-romana. Non a caso, in un ragionamento
destinato agli allievi dell’Accademia di San Luca nel 1829 Minardi applica a
Raffaello un topos usato normalmente per i greci e i romani, scrivendo che
«perseguire la semplicità e rifuggire misteriose complessità era il solo modo per
mantenersi sulla retta via e che proprio su questo punto si imperniava la
superiorità dell’Urbinate come artista e come modello, per la semplicità e la
grazia che rendeva le sue opere prive di intellettualismi fuorvianti» (p. 123).
Christoph Glorius
Raffael als Preussische Pflicht
Stefano Cracolici
Raffaello in Messico: Santiago Rebull nell’atelier di Nicola Consoni
Le vicende dell’Academia Nacional de San Carlos, sorta con altro
nome e ribattezzata tale nel 1821, subito dopo l’indipendenza del Paese dalla
Spagna, furono particolarmente complicate nel corso dell’Ottocento, così come
complicate furono gli accadimenti storici messicani. L’attenzione dell’autore si
sofferma sul quarantennio che va dal 1824 al 1864 (da notare che nel 1847 la
capitale fu conquistata dalle truppe statunitensi), in cui individua alcuni
momenti che lasciano presagire un’influenza raffaellesca. In primo luogo, bisogna
notare che, alla fine degli anni Venti, cominciarono ad arrivare da Roma copia
di opere italiani, fra cui anche Raffaello. Da non sottovalutare che, fra esse,
vi era anche una copia del San Luca che dipinge la Vergine, attribuito a
Raffaello, quadro simbolo della romana Accademia di San Luca. È evidente che l’Accademia
messicana cercava un legame particolare con quella italiana, non tanto (o non
solo) per preferenze stilistiche, ma per rifuggire quello con l’Accademia
madrilena: il Messico si era appena liberato dal colonialismo spagnolo e la
scelta era logica. L’insegnamento nei corsi di pittura (dal 1843) del catalano Pelegrín
Clavé, uno dei tanti allievi di Minardi, dichiaratamente purista, potrebbe
sembrare in contrasto con questa scelta; ma era, chiaramente, necessario avere
un docente che parlasse spagnolo e comunque Clavé additò sempre Raffaello ai
suoi allievi come esempio di armonia ed equilibrio, citandolo spesso nelle sue,
inedite fino al 1990, Lecciones estéticas. Da notare il tentativo di
legare Raffaello alla tradizione della pittura coloniale messicana, soprattutto
per quanto riguarda l’opera di Baltasar Echave Orio. Infine, fra i giovani
studenti messicani che, sostenuti da borse di studio, poterono fare l’esperienza
di Roma, Cracolici evidenzia la figura di Santiago Rebull, che nell’Urbe fu
allievo di Nicola Consoni, anch’egli allievo di Minardi, noto come il ‘Raffaello
dell’Ottocento’. In realtà, la fortuna di Raffaello a Città del Messico durò
almeno fino al ritorno di Clavé in Spagna, dopo una permanenza messicana di
venticinque anni.
Manuel Barrese
Roma fine Ottocento.
Interpretazioni e dibattiti intono al modello raffaellesco e all’estetica di
primitivi e preraffaelliti
Manuel Barrese si occupa di individuare segnali di crisi del ‘mito’
Raffaello nella Roma del secondo Ottocento. La circostanza coincide, in
sostanza, con l’aumentato interesse nei confronti dei primitivi da un lato e
dei preraffaelliti inglesi dall’altro. Di costoro poco si sa, inizilamente, a
Roma,, ma i loro contorni si vanno meglio definendo con l’avanzare degli anni. Intendiamoci,
Raffaello non è vittima di una valanga, ma è evidente che ampie crepe si aprono,
nel muro del suo mito, soprattutto quando ci si avvicina a fine secolo; i primi
a farne le spese sono Minardi e Consoni definiti nel 1885 «fedeli custodi del
tempio raffaellesco, adoratori convinti del loro Dio, ma incapaci di aggiungere
una pietra, una sola pietra, all’edificio eretto dal divino maestro» (p. 163),
ma poi si alzano (non solo a Roma) voci contro lo stesso urbinate, come quelle
di Diego Martelli (per il quale Raffaello è un ‘corruttore dell’arte’) o Tullio
Massarani. Il problema, come noto, era legato alla presunta supremazia spirituale
dell’arte primitiva rispetto a quella cinquecentesca. A questo proposito è
esemplare l’esposizione promotrice delle belle arti del 1885, in cui, ad
esempio, Giuseppe Cellini presentava un San Domenico dai forti accenti
bizantini. La Roma di fine secolo, insomma, era una città in cui, a fronte di resistenze
classiciste, la passione per il medioevo e le opere dei primitivi era diventata
moda, tanto che risale a questo periodo un netto incremento nella produzione di
copie di dipinti antichi, favorevolmente accolta dalla critica.
Raffaello, Madonna di Foligno, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:MadonnaDiFoligno.jpg |
Valeria Rotili
Copie dipinte dall’Isaia: note sulla fortuna e sfortuna del profeta di
Raffaello
L’autrice prende in considerazione una
serie di copie dipinte a olio su tela dell’affresco col Profeta Isaia di
Raffello nella chiesa di Sant’Agostino e nota come esse (in generale meno
numerose di altre opere del Sanzio) siano espressione il più delle volte di una
cultura accademica, ma soprattutto di una fortuna che cambia col passare degli
anni. Il Profeta Isaia, infatti, sin da Vasari, è considerato il lavoro
più michelangiolesco di Raffaello, quello in cui l’urbinate più guarda ai
lavori del Buonarroti nella Cappella Sistina, in virtù, in particolare, della
sua monumentalità. A dire il vero, nel caso della copia eseguita da Antonio
Mariani da Corgna tra 1621 e 1624 e destinata a Federico Borromeo (oggi in
Ambrosiana), sembra aver inciso soprattutto la consapevolezza del cattivo stato
di conservazione dell’opera. Sappiamo, del resto, che nel suo Musaeum il
cardinale si espresse decisamente a favore del valore documentario delle copie
proprio per questo motivo: “Vorrei anzitutto far presente che fin troppo
instabili sono le umane cose e che in un troppo breve istante si corrompono
tutte e si dissolvono. Per questo sarebbe stato auspicabile, a vantaggio di
tutti gli uomini, che, come ci sono giunte le trascrizioni degli antichi libri,
così ci fossero potute pervenire anche le copie dei quadri celebri e che il
diligente lavoro degli antenati consentisse la trasmissione di tali opere alle
età successive” (Musaeum,
a cura di Piero Cigada, Caludio Gallone editore, 1997, pp. 19-21).
È certo, tuttavia, che l’Isaia fu particolarmente apprezzato da Annibale
Carracci, proprio per il suo valore compendiario (non userò il termine ‘eclettico’
perché abusato), tant’è che una seconda copia, oggi a Vienna, proprio ad Annibale
è attribuita (senza essere tesi particolarmente convincente, chiarisce Rotili).
Una terza replica spetta a Giovanni Battista Casanova che con sé la portò a
Dresda. Le vicende di Casanova sono note; ebbe legami molto stretti con la
colonia di artisti e eruditi di stanza a Roma a metà Settecento, in particolare
con Mengs e Winckelmann, salvo rompere i ponti con quest’ultimo nel 1764 per
una vicenda che abbiamo analizzato altrove. In quell’anno decise di
trasferirsi a Dresda, dove insegnò per decenni nella locale Accademia. Con sé
portò proprio la copia dell’Isaia, realizzata precedentemente, ma utilizzata
come ‘biglietto da visita’ per l’occasione: «Con quest’opera, infatti, Casanova
poteva dimostrare la capacità nella resa anatomica e nel panneggio e dimostrare
lo studio sugli antichi maestri, temi essenziali della didattica artistica» (p.
176). La fortuna dell’Isaia subì peraltro una battuta d’arresto a
partire dall’Ottocento, quando l’affresco non fu più letto come momento
compendiario e di avanzamento nello stile raffaellesco, ma come battuta d’arresto
e abbandono del ‘naturale’ nella parabola artistica dell’urbinate.
Raffaello, Profeta Isaia, Chiesa di Sant'Agostino, Roma Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Raffaello,_profeta_isaia.jpg |
Maria Beltramini, Maurizio Ricci
Prima dell’Accademia. La recezione dei modelli di Raffaello nell’architettura
del Cinquecento
Sergio Bettini
Forme architettoniche della sprezzatura
Letizia Tedeschi
Archeologie raffaellesche nel sogno dell’antico di Caterina II la Grande
Ornella Selvafolta
Ispirandosi a Raffaello: Neorinascimento e arti decorative nel XIX secolo
Francesco Moschini
Le combinazioni di elementi antichi come novità e profezia del moderno in
Raffaello architetto. Note conclusive
L’ultima parte del volume presenta un’ampia
sezione dedicata a Raffaello come modello nell’architettura e nella
decorazione. Su questa parte sarò sincero: ritengo che si possano scrivere buone
recensioni di cose che si conoscono bene. La mia conoscenza di Raffaello
architetto è praticamente nulla, e non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo
piuttosto che scrivere note in cui rischierei di snaturare lo spirito dei
saggi. Me ne scuso con autori e lettori.
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