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lunedì 18 marzo 2024

Apprendere da Raffaello. Modello, funzione e ricezione nelle accademie e nella teoria dell’arte. A cura di Valeria Rotili, Stefania Ventra, Francesco Moschini

 

Apprendere da Raffaello
Modello, funzione e ricezione nelle accademie e nella teoria dell’arte
A cura di Valeria Rotili, Stefania Ventra, Francesco Moschini

Genova, Sagep editori, 2023

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 


(Felici) variazioni sul tema

La questione di Raffaello come modello del fare artistico e, in particolare, dello studio di Raffaello nelle Accademie non è inedita. Si tratta, peraltro, di un tema di enorme vastità, tenuto conto che, più o meno, riguarda tutte le Accademie europee (e non solo) dalla loro nascita almeno sino al Novecento. E tuttavia questo libro, curato da Valeria Rotili, Stefania Ventra e Francesco Moschini, piace. Piace perché offre spunti di riflessione mettendo in luce aspetti poco noti, che meritano senz’altro di essere approfonditi. Recensire un’opera collettanea, naturalmente, non è facile. Lo farò nel modo che ritengo a me più congeniale, ossia soffermandomi sugli spunti che hanno attratto la mia attenzione e stimolato il ragionamento. Mi scuso, quindi, se non sarà esaustivo, e mi scuso in particolare per non essere in grado di parlare del Raffaello ‘prussiano’ che è oggetto dello studio di Christoph Glorius: non conosco il tedesco e quindi mi è impossibile farlo.

 

Henry Keazor
Raphael’s School of Athens in Reception and Adaptation: from the Academy of Philosophy to the Hall of Fame

In tutta onestà, non mi ero mai chiesto come mai (al di là del giudizio estetico), la Scuola di Atene, nella Stanza della Segnatura, abbia avuto fortuna storicamente fortuna assai maggiore della gemella Disputa del Sacramento, pur essendo chiaro che, nel programma iconografico della stanza raffaellesca la prima sia una sorta di prodromo della seconda: i filosofi che sono in cerca di saggezza e verità (la Scuola) che vengono rivelate essere raggiungibili solo col Cristianesimo (la Disputa). Henry Keazor nota che il motivo è banalissimo: il soggetto della Scuola è più facilmente adattabile e riutilizzabile perché, preso a sé stante, è sostanzialmente neutro da un punto di vista religioso (ma anche perché consiste, di fatto, in una ‘raccolta di uomini illustri). Capita così, che il modello sia recuperato, vuoi per la quinta architettonica vuoi per gruppi di figure, in opere che, dal punto di vista iconografico sono associate all’insegnamento dell’arte in ambito accademico, come l’incisione di Pietro Testa nel Liceo della pittura e nella stampa di Nicolas Dorigny da disegno di Maratti sull’Accademia di Pittura. Anche in ambito francese, naturalmente, l’affresco mostra di essere attrattivo e di essere alla base di opere come la Raccolta della manna di Nicolas Poussin o la scena mitologica con Perseo che pietrifica Fineo e i suoi compagni con la testa della Medusa di Jean-Marc Nattier (quest’ultimo prova di ammissione dell’artista all’Academie Royale). Al netto di variazioni d’impianto, con rotazioni della composizione in senso diagonale, la tesi dell’autore è che quelle di Poussin prima e Nattier, poi, siano opere che parlano un linguaggio raffaellesco, una sorta di lingua franca, chiaramente percepibile e decodificabile negli ambienti dei conoscitori transalpini.

Raffaello, Scuola di Atene, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano
Fonte: https://www.wga.hu/art/r/raphael/4stanze/1segnatu/1/athens.jpg

Raffaello, Disputa del Sacramento, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano
Fonte: https://www.wga.hu/art/r/raphael/4stanze/1segnatu/2/00disput.jpg

 

Tijana Žakula
Emulate, Surpass, Assimilate: Raphael in the Early Modern Northern Netherlands

L’autrice ha già scritto su Gerard de Lairesse (1641-1711), artista campione del classicismo olandese (anche se era di origini vallone) non solo con i suoi dipinti, ma anche con i suoi trattati, come il Groot Schilderboeck (Il Grande Libro della Pittura), edito in due volumi nel 1707. Si veda Tijana Žakula, Reforming Dutch Art: Gerard de Lairesse on Beauty, Morals and Class in «Simiolus. Netherland quarterly for the history of art», vol. 37, 2013-2014. In quell’occasione Žakula evidenziava come il reale contributo di de Lairesse fosse quello di aver fissato regole per allargare l’uso del classicismo dalla pittura di storia a generi considerati più ‘bassi’, come la pittura di paesaggio, i ritratti etc., sempre nella convinzione, comunque, che andasse operata una netta distinzione fra l’ ‘antico’ (che è ciò che rimane nell’arte) e il ‘moderno’, che è moda effimera. Qui l’autrice focalizza l’attenzione su Raffaello, che, pur moderno, è accolto, in via straordinaria, nelle fila del classicismo per averne saputo recuperare e vivificare i canoni. L’urbinate è modello e fonte di ispirazione per i giovani artisti, ma non apice assoluto dell’arte. De Lairesse non esita a sottolinearne le incongruenze soprattutto da un punto di vista iconografico, come la presenza di papa Urbano VIII (in realtà Giulio II) nella Cacciata di Eliodoro dal tempio, scena tratta dall’Antico Testamento. L’anacronismo cronologico causa la mancanza di credibilità della vicenda. Allo stesso modo, l’artista olandese condanna l’eccesso di ornamenti, come nel caso di David che osserva la toeletta di Betsabea, in cui il sovrano è rappresentato con una corona sul capo, come se altrimenti non fosse stato possibile identificarlo. La tesi del trattatista è che la ‘nobiltà’ dei soggetti rappresentati si debba riconoscere dal loro portamento e non dal fatto di essere raffigurati (uomini o donne che siano) con gioielli e altri oggetti di particolare preziosità. Raffaello, insomma, non è solo modello da imitare, ma da emulare e potenzialmente sorpassare grazie, appunto, allo studio di questi aspetti, che solo se interpretati correttamente rendono la pittura di storia coerente e verosimile. Resta peraltro il fatto che l’artista dimostra comunque, nelle sue opere, di assimilare i temi di Raffaello senza rinunciare alle peculiarità tipiche dell’arte del suo paese, come nella sua Morte di Cleopatra, dove rappresenta in maniera meticolosa e ‘fiamminga’ le superfici metalliche, i tessuti e i vestiti e gli elementi architettonici. Quella di de Lairesse, insomma, come è giusto che sia, è una meditata assimilazione di un modello alla tradizione pittorica fiamminga. Purtroppo, nell’ambito del testo, è saltata (presumo per motivi di spazio) qualche immagine inizialmente prevista come presente (non è capitato solo in questo contributo), rendendo meno agevole la comprensione del contributo.

 

Alessandra Cosmi
Dall’Accademia di San Luca alle residenze private: la fortuna degli arazzi di Raffaello nel mecenatismo della famiglia Barberini

È fuori di dubbio che l’attenzione dei Barberini nei confronti di Raffaello sia legata anche al ruolo di protettore della romana Accademia di San Luca che il cardinal Francesco assunse dal 1627. Quella del prelato fu una partecipazione attiva (o, come si dice ora, proattiva). Inevitabile che l’interesse per Raffaello che nutriva l’Accademia, dove, non a caso, si conservava il celebre San Luca che dipinge la Vergine alla presenza di Raffaello, abbia finito per influenzare anche la committenza della famiglia, soprattutto (ma non solo) tramite la fattura di tre serie di arazzi realizzate dall’arazzeria Barberini (fondata nel 1627) e dedicati rispettivamente alle Storie di Costantino (1630-1641), ai Giochi di putti (1637-1642) e alla Vita di Cristo (1643-1656). Ma non possiamo dimenticare le copie delle opere raffaellesche in Vaticano ordinate ad Andrea Sacchi e altri pittori destinate a decorare Palazzo Barberini alle Quattro Fontane. «Alla luce di quanto detto sinora si può affermare che il programma culturale promosso dalla famiglia Barberini negli anni Trenta e Quaranta, tanto nella produzione dell’arazzeria quanto nelle commissioni per le loro residenze, appare come una precisa e coerente celebrazione delle opere di Raffaello, in particolare quelle in Vaticano, che divengono un modello d’ispirazione da seguire e da copiare» (p. 39).

 

Ilaria Fiumi Sermattei
Raffaello moralizzato. La censura della Loggia di Psiche alla Farnesina nelle raccolte della Calcografia Camerale

L’autrice si occupa di episodio a me, in precedenza, totalmente ignoto. Nello Stato Pontificio restaurato, già all’indomani della stagione napoleonica, emerge (o ritorna in auge) una forma d’imbarazzo nei confronti delle opere d’arte che rappresentano nudità o soggetti manifestamente licenziosi, siano esse presenti nei musei romani, e/o vendute come incisioni dalla Calcografia Camerale pontificia. Queste forme di disagio recepiscono anche commenti poco favorevoli da ambienti stranieri, specie se protestanti, in merito alla presenza (e allo sfruttamento economico) di tali opere a Roma. Non si deve, insomma, pensare che la pruderie provenga da un solo lato; è noto che nel valutare le possibili opere da comperare in Italia per la National Gallery, dal 1855 al 1865, un uomo come Charles Eastlake, direttore della National Gallery, pensò alla possibile reazione di un pubblico anglicano di fronte alla nudità. Possiamo avere un’idea di quello che accadde tenendo conto che nel 1833 la Venere Capitolina fu tolta dal percorso di visita del museo romano e spostata in una stanza ad accesso riservato. Raffaello rientra in questo discorso per via della distruzione di alcune matrici della Calcografia Camerale vaticana. Si tratta di dodici matrici incise nel 1693 dal Dorigny con la Favola di Amore e Psiche e la Galatea dipinte nella Villa Farnesina. La vicenda, ricostruita dall’autrice, si snoda fra 1820 e 1823. Ora, è abbastanza evidente che, rispetto ad altri soggetti distrutti (ma anche ad alcuni salvati) le nudità dei putti e della Galatea sono abbastanza innocue, tanto da chiedersi come mai le matrici siano state comprese in quelle da distruggere, soprattutto alla luce del riconociuto ‘primato’ raffaellesco dell’epoca. La risposta – suggerisce Fiumi Sermattei – sta più nella censura della committenza delle opere che nelle opere di per loro. Nel caso specifico si va oltre, ed è rivolta ai Farnese e Papa Paolo III in particolare, rei di aver sottratto la villa Farnesina agli eredi Chigi con metodi a dir poco non ortodossi. È molto interessante notare – e l’autrice rende l’idea benissimo – «come la condanna dell’arte profana romana di età rinascimentale e barocca fosse innescata non solo, e non semplicemente, dai soggetti raffigurati, quanto soprattutto dall’imbarazzante legame, di proprietà o committenza, con quei principi della Chiesa che in passato avevano mostrato più mondane ambizioni che aneliti spirituali» (pp. 49-50).

 

Pilar Diez del Corral Corredoira
La raccolta raffaellesca di Felipe de Castro: sulle tracce del modello didattico agli albori dell’Accademia di San Fernando a Madrid

Felipe de Castro fu professore di scultura della Junta preparatoria (una sorta di istituzione temporanea in attesa dell’inaugurazione ufficiale) e dell’Accademia Reale di San Fernando a Madrid (fondata nel 1752). Fu inoltre direttore dell’Accademia dal 1763. La sua formazione contemplò, come normale all’epoca, un’esperienza italiana, compiuta, a dire il vero, quando l’artista aveva già trent’anni (a partire dal 1732). Il soggiorno romano durò diversi anni (nel 1739 Castro vinse il premio di Prima classe del Concorso Clementino). Ciò che più importa, tuttavia, non è valutare tanto quanto Raffaello incise nell’attività artistica dello spagnolo (che peraltro fu uno scultore), quanto il fatto che «intellettualmente egli capì la grandezza del modello dell’Urbinate e dal suo ritorno in Spagna sino alla fine del 1746 tentò di inserirlo nel modello pedagogico dell’accademia con i suoi allievi» (p. 66). Castro ebbe, cioè, un ruolo finora sottovalutato nello studio dei modelli da Raffaello all’interno dell’Accademia spagnola. Ne è dimostrazione un corpus di 89 disegni, non tutti di sua mano (potrebbero esserci ad esempio prove degli allievi stessi) al cui interno si distingue un nucleo raffaellesco riferito a opere dalle Stanze vaticane (all’epoca di accesso difficilissimo) e dalla Villa Farnesina. Si tratte per lo più di studi di teste «che provano l’importanza di Raffaello nello studio delle espressioni dei volti, che servivano alle generazioni di artisti per creare un esteso campionario da utilizzare in futuri lavori» (pp. 62-63).  In molti di essi si possono ancora vedere i segni dei ganci con cui i disegni erano appesi alla parete delle sale dell’accademia per motivi di studio.  La tesi dell’autrice – in definitiva – è che se Mengs riuscì a riorientare rapidamente in senso neoclassicista l’accademia spagnola al suo arrivo a Madrid è anche perché, prima di lui, Felipe de Castro gli aveva già preparato il terreno.

 

Antonella Bellin, Elena Catra
Raffaello e Tiziano, complementari e antagonisti nell’educazione di un aspirante pittore presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia

Antonella Bellin ed Elena Catra fanno il punto sull’insegnamento di Raffaello nell’Accademia di Belle Arti di Venezia nel primo Ottocento (per un quadro complessivo sull’Accademia si veda in questo blog L’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’Ottocento, a cura di Nico Stringa). All’epoca, i primi tre anni, comuni a tutti gli allievi, erano preparatori ed erano seguiti da due anni di specializzazione in Composizione e Colorito. L’esame dei disegni conservati ancor oggi in Accademia dimostra che nei tre anni propedeutici i soggetti più copiati erano proprio quelli dell’urbinate, dalla Trasfigurazione alla Madonna della Seggiola, dall’Incendio di Borgo alla Scuola di Atene. I motivi sono facilmente intuibili e risiedono nella varietà delle teste e delle espressioni. Il primato raffaellesco non riguarda solo l’insegnamento del disegno, ma si allargava alla scuola di Incisione e a quella di Ornato. Diverso il discorso quando si passa a esaminare l’insegnamento nelle classi superiori, ossia quelle di Colorito e Composizione. Qui, come è logico che sia, Raffaello lascia il passo al ‘colore’ veneziano e l’opera di riferimento diventa l’Assunta di Tiziano, che in quegli anni, peraltro, era custodita proprio presso l’Accademia. Le cose cambiano a metà Ottocento con la nomina a Segretario facente funzione di Presidente di Pietro Selvatico Estense (si vedano in merito gli atti del convegno del 2016). La scuola di Estetica diventa un corso obbligatorio di Storia dell’arte e gli allievi sono introdotti allo studio di Tre e Quattrocentisti. Il solo Raffaello resta immutato paradigma dell’insegnamento, mentre l’attenzione sul colorito veneziano viene a calare.

 

Marco Pupillo
Raffaello
«pittore della verità»? Percorsi critici all’inizio dell’Ottocento

Il mito di Raffaello ha radici antiche, ma l’autore lo analizza alla luce di scritti di fine Sette e inizio Ottocento. In questo senso ha particolare rilevanza la definizione dell’urbinate come ‘pittore della verità’ che già Mengs aveva fornito in una sua lettera a un corrispondente nel 1768 e che fu stampata nelle Opere del pittore nel 1787. Le ragioni a sostegno della tesi sono chiare: «ogni espressione – scrive Mengs -  è adatta al carattere della persona […] Non ci è stato pittore che abbia tanto variato le proporzioni, le forme, le fisionomie, gli andamenti, e tutte le circostanze, come Raffaello» (p. 91). L’argomento è ripreso da Quatremère de Quincy che nel 1824 pubblicò una monografia di grande successo dedicata al Sanzio: in particolare, parlando della Madonna di Foligno, possiamo leggere «non sapremmo lodare meglio il S. Giovanni Battista di questo quadro, che servendoci delle parole dello stesso Vasari» (che riporta immediatamente dopo nella versione del 1550). Il riferimento al S. Giovanni Battista non è casuale. In un contesto di scritti altamente elogiativi, che prim’ancora di Quatremére vide coinvolto l’inglese Richard Duppa (1816)  e poi Melchior Missirini (1821), spicca, stonata, l’opinione di Giuseppe Antonio Guattani, segretario dell’Accademia di San Luca negli ultimi anni della dominazione francese e nei primi della Restaurazione. Nella sua Pittura comparata del 1816, in cui pone a confronto fra loro dipinti di scuole ed epoche diverse, oltre a tanti elogi, Guattani muove una critica a Raffaello e quella critica riguarda proprio il Battista (oltre al S. Francesco) nella Madonna di Foligno: «Dall’altro lato stassi egualmente genuflesso S. Francesco con una piccola croce in mano di un aria [sic] piuttosto ignobile, ma molto espressiva: e all’indietro di lui vi è ritto S. Gio. Battista coperto di pelli. Egli è a dir vero di troppo rustico aspetto, che che ne dicano il Vasari e il Bellori che cercano di scusare il Pittore con attribuire quella rozzezza ai digiuni e patimenti del Santo» (p. 89). Si tratta, probabilmente di una critica espressa per puro spirito di polemica; di certo è di consistenza risibile. Ma le parole di Guattani sollevarono, evidentemente, un polverone, se prima gli rispose Missirini (senza citarlo, ma in maniera equivoca) e poi Quatremére. Raffaello era mito e il mito non si poteva discutere.

 

Francesco Lofano
Raffaello e le
Lezioni pratiche circa l’imitazione dell’antico nelle arti del disegno per uso della Reale Accademia Napolitana di Disegno e di Pittura di Gaetano D’Ancora

Gaetano D’Ancora fu erudito (insegnava ad esempio lingua greca) con interessi artistici e antiquari. Non sembra abbia avuto incarichi diretti all’interno della napoletana Real Accademia del Disegno, fondata nel 1752. Eppure, le sue Lezioni pratiche sono indirizzate agli studenti dell’Accademia e, più che a fornire informazioni sull’attività artistica, sono strutturate come un repertorio di errori (un po’ come se fossimo di fronte a un novello Gilio), soprattutto o quasi esclusivamente in termini iconografici, che l’artista non deve compiere. Sono in realtà tutto ciò che resta in merito all’insegnamento in Accademia a Napoli nel primo sessantennio della sua vita, a causa della perdita dell’archivio per via di un incendio. Difficile desumere degli orientamenti da un testo meramente emendativo, ma anche solo in termini meramente quantitativi, le citazioni di Raffaello sono superiori rispetto a quelle degli altri grandi del Rinascimento (e sempre connotate in senso positivo).

 

Stefania Ventra
Tommaso Minardi e Raffaello: dai disegni inediti del «ragazzo faentino» ai discorsi accademici della maturità

Da tempo, ormai, Stefania Ventra indaga la figura di Tommaso Minardi. Minardi fu figura centrale per il mondo artistico romano di pieno Ottocento; più in generale è notissimo l’impegno che dedicò all’attività didattica, sia privatamente sia presso l’Accademia di Perugia (prima) e presso quella romana di San Luca (per un trentennio). Qui l’autrice ne esamina le preferenze raffaellesche anche alla luce di un taccuino di disegni recentemente comparso a Rimini sul mercato antiquario, in cui gran parte degli studi grafici è a lui attribuibile. Al netto della sua adesione al purismo, e quindi ai primitivi, Ventra segnala che Raffaello rimase sempre non ‘un’ punto, ma ‘il’ punto di riferimento degli orizzonti minardiani. Pare naturale che nel Sanzio Minardi vedesse una fonte di ispirazione pressoché infinita. Certo su incisioni da Raffaello sono condotti disegni giovanili che compaiono nell’album sopra citato. Da notare che sin da quel momento Minardi sembra preferire la copia dall’incisione che dall’originale, perché la prima è priva di colore e permette di concentrarsi meglio sul ‘concetto’. La predilezione per Raffaello si può cogliere nell’arco di tutta la vita dell’artista. Suoi allievi in Accademia a Roma lo ricordano mentre ««ragionava delle leggi del comporre, citando principalmente gli esempi degli antichi maestri e, per rendere più chiare ed efficaci le sue osservazioni, portava seco le migliori incisioni, ritraenti opere di Raffaello […]» al fine di opporsi alla maniera praticata dalla maggioranza degli artisti contemporanei, influenzati, nella disposizione delle figure nello spazio, dai bassorilievi antichi» (p. 122). Quest’aspetto è di particolare interesse: per Minardi ‘antico’ e ‘classico’ sono sinonimi di Raffaello e non dell’antichità greco-romana. Non a caso, in un ragionamento destinato agli allievi dell’Accademia di San Luca nel 1829 Minardi applica a Raffaello un topos usato normalmente per i greci e i romani, scrivendo che «perseguire la semplicità e rifuggire misteriose complessità era il solo modo per mantenersi sulla retta via e che proprio su questo punto si imperniava la superiorità dell’Urbinate come artista e come modello, per la semplicità e la grazia che rendeva le sue opere prive di intellettualismi fuorvianti» (p. 123).

 

Christoph Glorius
Raffael als Preussische Pflicht

Stefano Cracolici
Raffaello in Messico: Santiago Rebull nell’atelier di Nicola Consoni

Le vicende dell’Academia Nacional de San Carlos, sorta con altro nome e ribattezzata tale nel 1821, subito dopo l’indipendenza del Paese dalla Spagna, furono particolarmente complicate nel corso dell’Ottocento, così come complicate furono gli accadimenti storici messicani. L’attenzione dell’autore si sofferma sul quarantennio che va dal 1824 al 1864 (da notare che nel 1847 la capitale fu conquistata dalle truppe statunitensi), in cui individua alcuni momenti che lasciano presagire un’influenza raffaellesca. In primo luogo, bisogna notare che, alla fine degli anni Venti, cominciarono ad arrivare da Roma copia di opere italiani, fra cui anche Raffaello. Da non sottovalutare che, fra esse, vi era anche una copia del San Luca che dipinge la Vergine, attribuito a Raffaello, quadro simbolo della romana Accademia di San Luca. È evidente che l’Accademia messicana cercava un legame particolare con quella italiana, non tanto (o non solo) per preferenze stilistiche, ma per rifuggire quello con l’Accademia madrilena: il Messico si era appena liberato dal colonialismo spagnolo e la scelta era logica. L’insegnamento nei corsi di pittura (dal 1843) del catalano Pelegrín Clavé, uno dei tanti allievi di Minardi, dichiaratamente purista, potrebbe sembrare in contrasto con questa scelta; ma era, chiaramente, necessario avere un docente che parlasse spagnolo e comunque Clavé additò sempre Raffaello ai suoi allievi come esempio di armonia ed equilibrio, citandolo spesso nelle sue, inedite fino al 1990, Lecciones estéticas. Da notare il tentativo di legare Raffaello alla tradizione della pittura coloniale messicana, soprattutto per quanto riguarda l’opera di Baltasar Echave Orio. Infine, fra i giovani studenti messicani che, sostenuti da borse di studio, poterono fare l’esperienza di Roma, Cracolici evidenzia la figura di Santiago Rebull, che nell’Urbe fu allievo di Nicola Consoni, anch’egli allievo di Minardi, noto come il ‘Raffaello dell’Ottocento’. In realtà, la fortuna di Raffaello a Città del Messico durò almeno fino al ritorno di Clavé in Spagna, dopo una permanenza messicana di venticinque anni.

 

Manuel Barrese
Roma fine Ottocento.
Interpretazioni e dibattiti intono al modello raffaellesco e all’estetica di primitivi e preraffaelliti

Manuel Barrese si occupa di individuare segnali di crisi del ‘mito’ Raffaello nella Roma del secondo Ottocento. La circostanza coincide, in sostanza, con l’aumentato interesse nei confronti dei primitivi da un lato e dei preraffaelliti inglesi dall’altro. Di costoro poco si sa, inizilamente, a Roma,, ma i loro contorni si vanno meglio definendo con l’avanzare degli anni. Intendiamoci, Raffaello non è vittima di una valanga, ma è evidente che ampie crepe si aprono, nel muro del suo mito, soprattutto quando ci si avvicina a fine secolo; i primi a farne le spese sono Minardi e Consoni definiti nel 1885 «fedeli custodi del tempio raffaellesco, adoratori convinti del loro Dio, ma incapaci di aggiungere una pietra, una sola pietra, all’edificio eretto dal divino maestro» (p. 163), ma poi si alzano (non solo a Roma) voci contro lo stesso urbinate, come quelle di Diego Martelli (per il quale Raffaello è un ‘corruttore dell’arte’) o Tullio Massarani. Il problema, come noto, era legato alla presunta supremazia spirituale dell’arte primitiva rispetto a quella cinquecentesca. A questo proposito è esemplare l’esposizione promotrice delle belle arti del 1885, in cui, ad esempio, Giuseppe Cellini presentava un San Domenico dai forti accenti bizantini. La Roma di fine secolo, insomma, era una città in cui, a fronte di resistenze classiciste, la passione per il medioevo e le opere dei primitivi era diventata moda, tanto che risale a questo periodo un netto incremento nella produzione di copie di dipinti antichi, favorevolmente accolta dalla critica.

Raffaello, Madonna di Foligno, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:MadonnaDiFoligno.jpg


Valeria Rotili
Copie dipinte dall’Isaia: note sulla fortuna e sfortuna del profeta di Raffaello

L’autrice prende in considerazione una serie di copie dipinte a olio su tela dell’affresco col Profeta Isaia di Raffello nella chiesa di Sant’Agostino e nota come esse (in generale meno numerose di altre opere del Sanzio) siano espressione il più delle volte di una cultura accademica, ma soprattutto di una fortuna che cambia col passare degli anni. Il Profeta Isaia, infatti, sin da Vasari, è considerato il lavoro più michelangiolesco di Raffaello, quello in cui l’urbinate più guarda ai lavori del Buonarroti nella Cappella Sistina, in virtù, in particolare, della sua monumentalità. A dire il vero, nel caso della copia eseguita da Antonio Mariani da Corgna tra 1621 e 1624 e destinata a Federico Borromeo (oggi in Ambrosiana), sembra aver inciso soprattutto la consapevolezza del cattivo stato di conservazione dell’opera. Sappiamo, del resto, che nel suo Musaeum il cardinale si espresse decisamente a favore del valore documentario delle copie proprio per questo motivo: Vorrei anzitutto far presente che fin troppo instabili sono le umane cose e che in un troppo breve istante si corrompono tutte e si dissolvono. Per questo sarebbe stato auspicabile, a vantaggio di tutti gli uomini, che, come ci sono giunte le trascrizioni degli antichi libri, così ci fossero potute pervenire anche le copie dei quadri celebri e che il diligente lavoro degli antenati consentisse la trasmissione di tali opere alle età successive” (Musaeum, a cura di Piero Cigada, Caludio Gallone editore, 1997, pp. 19-21).  È certo, tuttavia, che l’Isaia fu particolarmente apprezzato da Annibale Carracci, proprio per il suo valore compendiario (non userò il termine ‘eclettico’ perché abusato), tant’è che una seconda copia, oggi a Vienna, proprio ad Annibale è attribuita (senza essere tesi particolarmente convincente, chiarisce Rotili). Una terza replica spetta a Giovanni Battista Casanova che con sé la portò a Dresda. Le vicende di Casanova sono note; ebbe legami molto stretti con la colonia di artisti e eruditi di stanza a Roma a metà Settecento, in particolare con Mengs e Winckelmann, salvo rompere i ponti con quest’ultimo nel 1764 per una vicenda che abbiamo analizzato altrove. In quell’anno decise di trasferirsi a Dresda, dove insegnò per decenni nella locale Accademia. Con sé portò proprio la copia dell’Isaia, realizzata precedentemente, ma utilizzata come ‘biglietto da visita’ per l’occasione: «Con quest’opera, infatti, Casanova poteva dimostrare la capacità nella resa anatomica e nel panneggio e dimostrare lo studio sugli antichi maestri, temi essenziali della didattica artistica» (p. 176). La fortuna dell’Isaia subì peraltro una battuta d’arresto a partire dall’Ottocento, quando l’affresco non fu più letto come momento compendiario e di avanzamento nello stile raffaellesco, ma come battuta d’arresto e abbandono del ‘naturale’ nella parabola artistica dell’urbinate.

 

Raffaello, Profeta Isaia, Chiesa di Sant'Agostino, Roma
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Raffaello,_profeta_isaia.jpg

Maria Beltramini, Maurizio Ricci
Prima dell’Accademia. La recezione dei modelli di Raffaello nell’architettura del Cinquecento

Sergio Bettini
Forme architettoniche della sprezzatura

Letizia Tedeschi
Archeologie raffaellesche nel sogno dell’antico di Caterina II la Grande

Ornella Selvafolta
Ispirandosi a Raffaello: Neorinascimento e arti decorative nel XIX secolo

Francesco Moschini
Le combinazioni di elementi antichi come novità e profezia del moderno in Raffaello architetto. Note conclusive

L’ultima parte del volume presenta un’ampia sezione dedicata a Raffaello come modello nell’architettura e nella decorazione. Su questa parte sarò sincero: ritengo che si possano scrivere buone recensioni di cose che si conoscono bene. La mia conoscenza di Raffaello architetto è praticamente nulla, e non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo piuttosto che scrivere note in cui rischierei di snaturare lo spirito dei saggi. Me ne scuso con autori e lettori.


1 commento:

  1. Gratitudine per aver fornito una nuova prospettiva su un argomento familiare. Accedi alle migliori risorse su Aviator attraverso il nostro blog.

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