Tiziano Casola
“We Romans”. Le comunità di artisti anglo-romani tra XVIII e XIX secolo
Roma, Ginevra Bentivoglio EditoriA, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
In copertina, Charles Eastlake, Il campione, 1824, Birmingham Museum. |
We Romans
We Romans di Tiziano Casola è un libro coraggioso, che
indaga le reti sociali delle comunità di artisti britannici viventi a Roma
essenzialmente nell’ultimo decennio del Settecento e nel secondo e terzo
dell’Ottocento. ‘Le’ e non ‘la’ comunità perché l’autore ritiene che per
composizione, aspirazioni, composizione sociale non si possa evidenziare una
particolare continuità fra due gruppi di fatto separati fra loro da circa 15
anni di esperienza napoleonica che avevano reso impossibile il ‘viaggio a Roma’
degli artisti. Il coraggio dell’autore consiste nel fare scelte
preventive di per loro non facili. Degli artefici, ad esempio, non è presa in
considerazione l’attività mercantile di invio in patria (con metodi più o meno
legali) di antichità, stampe e Old Masters, che pure costituì, in molti casi,
la fonte di reddito principale della maggior parte di essi (si pensi, a puro
titolo di esempio, ad
Alexander Day e al suo sodalizio con Pietro Camuccini indagato da Pier Ludovico
Puddu). Sono piuttosto oggetto di ricerca la ‘riconoscibilità sociale’
degli anglo-romani come gruppo, le dinamiche interne e la produzione
autonoma, originale, dei singoli artisti. In particolare, si cerca di capire
fino a che punto tale produzione si differenziò rispetto alle coeve romane o,
piuttosto, ne fu influenzata; e, ancora, se ebbe, a sua volta, un qualche
riflesso in patria. Casola, grazie alla consultazione di una serie
impressionante di fonti di natura fra loro diverse (parte delle quali è proposta
in appendice documentaria) comincia con lo sfatare in maniera convincente
alcuni luoghi comuni. Il principale fra essi è, probabilmente, che gli artefici
anglosassoni nell’Urbe fossero soprattutto giovani che stavano compiendo il
loro Grand Tour e che vedevano la stanzialità romana come l’avvio di una
carriera in patria. Allo stesso modo l’autore contesta che l’apice del fenomeno
si sia avuto negli anni Ottanta del Settecento. In realtà, per quanto riguarda la
fine del Settecento si possono riscontrare varie tipologie di presenze (Casola
ne individua quattro) ed è fuori discussione che le situazioni più
significative, non solo in termini qualitativi, ma anche quantitativi, fossero
di artisti ormai stanziali in città da più di dieci anni, indipendentemente dal
fatto che intendessero tornare o meno in patria. La caduta di Napoleone, poi,
vede nel decennio fra 1815 e 1825 l’arrivo di una nuova generazione di
artefici, questa volta sì per la maggior parte giovani, che numericamente
sovrasta di gran lunga la situazione di fine Settecento. Da segnalare, infine,
che nella sua ricerca Casola esclude di fatto gli architetti, per un motivo
banale: i motivi del loro soggiorno non consistono nella produzione di opere
autonome ‘a Roma’.
La comunità di fine Settecento
In una situazione oggettivamente variegata, Casola va in
cerca di eventuali momenti ‘comunitari’ di autorappresentazione degli artisti
anglosassoni, ossia di momenti in cui i singoli (pur non dando vita a strutture
corporative) riconoscono la presenza di interessi comuni e si muovono per tutelarli.
Si è detto che la situazione è variegata; lo si deve, banalmente, a questioni
cronologiche e anagrafiche: nell’ultimo decennio del Settecento (che, di fatto,
si concluderà col rimpatrio della maggior parte dei protagonisti attorno al
1797 in seguito all’arrivo dei francesi) convivono varie generazioni di artisti
britannici, alcuni (più della metà) giunti a Roma almeno dal 1775 e altri appena
arrivati. In qualche modo la colonia inglese di fine Settecento chiude un
ciclo, proprio perché i sommovimenti politici di fine secolo interrompono il
periodico arrivo di artisti in città e, anzi, innescano un movimento in senso
contrario, peraltro in qualche modo pianificato da anni in previsione del
precipitare degli eventi. Si veda in proposito anche Tiziano Casola, Le
corrispondenze familiari degli artisti in viaggio: le lettere romane di Joseph
Michael Gandy nel Gandy Green Book in Lettere
d’artista. Per una storia transnazionale dell’arte (XVIII-XIX secolo).
Fanno parte della colonia artisti di assoluta rilevanza nell’ambito del mondo
anglosassone e romano, come John Flaxman (autore di famosissime illustrazioni a
contorno di Omero, Dante ed Eschilo, cruciali «per lo sviluppo di molti di quelli
che saranno i linguaggi figurativi del primo Ottocento europeo» - cfr- p. 111),
William Young Ottley, Alexander Day, Robert Fagan, Christopher Hewetson e John
Deare. Il livello di integrazione sociale a Roma era altrettanto differenziato
e vedeva da un lato chi si era convertito al cattolicesimo, magari sposando una
moglie italiana e chi, invece, sembrava più legato alle proprie radici anglosassoni.
Naturalmente diverse erano anche le condizioni e gli ambienti in cui era
realizzato il lavoro; a fronte di artisti che possedevano un loro atelier (normalmente
unito alla propria abitazione) o che ne avevano aperto uno presso protettori,
vi era chi lavorava presso terzi, a volte in maniera continuativa, a volte no.
Casola presume – e mi sembra sia credibile - che «le botteghe di Deare e Hewetson,
di fatto gli unici scultori stabili e dunque proprietari di un loro spazio commerciale
e di lavoro, dovessero già corrispondere a quel modello di produzione scultorea
di tipo proto-manufatturiero che sarà tipico della Roma ottocentesca» (p.
46), in cui la produzione massiva (specie per i turisti) affiancava quella di
commissioni originali.
John Flaxman (da), Dante e Virgilio nel bosco dei suicidi Fonte: https://www.amazon.it/John-Flaxman-Virgil-Suicidal-Artistica/dp/B00PM8DFG6 |
L’aspetto più interessante, tuttavia, è che le fonti dell’epoca, soprattutto gli epistolari, descrivono una colonia divisa in (almeno) due fazioni: una prima, facente riferimento a John Deare, dipinta come di artisti colti, studiosi dell’antico e frequentatori del disegno; la seconda, ricondotta a James Durno, di mestieranti della professione. Si tratta di situazioni segnalate in particolare da George Cumberland in almeno due situazioni fra loro differenti (cfr. 68) e non v’è dubbio che i giudizi si reggano su simpatie e antipatie del singolo nei confronti di questo o quel gruppo. Ma, al di là di giustizi estetici e dei rapporti personali, pare possibile che la suddivisione risponda, piuttosto, al diverso atteggiamento degli artisti nei confronti della loro madrepatria; in sostanza, al loro diverso livello di ‘romanizzazione’; Cumberland, lasciando cogliere le sue preferenze, inserisce nell’ambito degli artisti colti proprio i più ‘romanizzati’ (come John Deare, che nelle sue lettere usa esplicitamente l’appellativo «We Romans»), mentre colloca fra i mestieranti coloro che, di fatto, hanno mantenuto legami più stabili con l’Inghilterra. A questa divisione, peraltro, corrisponderebbero diverse tipologie di committenza in ambito di opere originali: da un lato John Penn of Stoke, vicino ai romanizzati, dall’altro Georgiana Hare-Naylor e il marito che si sarebbero dimostrati vicini, più che nell’ordinare, nel promozionare il lavoro del partito ‘anglofilo’.
In questo contesto, assumono particolare importanza almeno
due episodi in cui gli artisti inglesi sembrano ragionare all’unisono, dimostrando
una coscienza di sé, o, almeno, una coscienza di interessi comuni: la prima è
la creazione di un Club (di cui si sa pochissimo), nato attorno al 1791 e già defunto
nel 1794, che doveva sancire una specie di accordo anticoncorrenziale tra i
suoi membri, di fatto per dividersi la clientela e le commissioni ed evitare la
nascita di controversie che avrebbero potuto essere di danno per la reputazione
degli artisti coinvolti sia a Roma sia in patria. Al di là della concreta
operatività del patto (fra l’altro concettualmente contrario al tradizionale liberismo
inglese), Casola fa presente che il livello di maggiore conflittualità fra artisti
britannici aveva raggiunto il suo apice proprio nel 1791, con l’arrivo a Roma di
Penn e dei coniugi Hare-Naylor. È possibile, insomma, che si sia avvertita,
forte, l’esigenza di far decantare le tensioni. La seconda situazione vede
invece gli artisti inglesi ringraziare per l’ottenuto diritto di introdurre in
Inghilterra opere eseguite all’estero (e quindi a Roma) senza dover pagare
tasse alla dogana (un vero e proprio duty-free). Fra l’altro, alla concessione
riconosciuta (siamo nel 1794) se ne aggiungerà una seconda, poco dopo, (1796)
questa volta riferita a libri, stampe, calchi dall’Antico e altri materiali
artistici acquistati in Italia per fini di studio. È molto probabile che, mentre
nel primo caso l’istituzione del duty-free rispondesse a oggettive necessità di
natura economica, specie per gli scultori, che dovevano caricare i prezzi delle
loro opere non solo con le ingentissime spese di trasporto, ma anche coi dazi
doganali, nel secondo abbia avuto un peso la prospettiva, sempre più tangibile,
di un precipitoso rientro in Inghilterra, Irlanda o Scozia degli artisti, minacciati
dal pericolo francese. La vicenda è reputata importante da Casola, peraltro,
perché mostra in concreto che la Royal Academy (pur essendo stata la formale
destinataria delle esigenze degli angloromani) fu scavalcata al momento di
prendere una decisione, a dimostrazione di un rapporto tutt’altro che intenso fra
l’istituzione nazionale e i singoli artisti anglosassoni.
La colonia del secondo Ottocento
Già dal 1816 giunse a Roma, dopo il blocco imposto dai
francesi, una nuova generazione di artisti anglosassoni; la colonia andò irrobustendosi
nel corso degli anni successivi e
complessivamente, fra 1815 e 1825, si può parlare di un centinaio di pittori,
scultori e architetti che visitarono la capitale, dei quali almeno una
quarantina si trattenne almeno due anni. Casola, in fondo al volume, fornisce
un utilissimo regesto di tali artisti, di fatto presentando un’appendice a un
precedente volume di John Ingamells sui britannici che vissero in città nel
Settecento. Siamo di fronte a numeri superiori rispetto alla ‘prima’ colonia,
contrariamente a quanto si era ritenuto in passato. La domanda, naturalmente, è
quali fossero le aspirazioni dei nuovi arrivati, questa volta quasi tutti
giovani. Ovviamente il desiderio era quello di progredire nel loro fare
artistico, anche con aspirazioni di scalata sociale in un ambiente, come quello
inglese, che tradizionalmente gravitava soprattutto su Londra. Casola nota
acutamente che circa metà delle nuove leve proveniva dalla provincia e
che ciò poneva chi viveva in periferia in una precostituita situazione di
svantaggio di fronte alla quale il viaggio a Roma poteva essere considerato un
modo per by-passare un sistema delle arti poco inclusivo. Ciò detto, è fuori di
dubbio (e ne restano testimonianze) che il richiamo di Roma non era soltanto
quello esercitato da una città che aveva un patrimonio artistico
impareggiabile, ma risiedeva nel fatto che la città era percepita come la sede
ideale per studiare il disegno anatomico, una delle lacune principali nella
formazione artistica inglese. Esistevano, a tale proposito, oggettive
difficoltà, di natura fondamentalmente puritana, nello studio del nudo a Londra;
alla Royal Academy, ad esempio, non era consentito ad artisti che avessero meno
di vent’anni e non fossero sposati (p. 159). Va peraltro detto che lo studio
del nudo era chiaramente percepito come modo per confrontarsi con una pittura
più ‘alta’, ossia con la pittura di storia o monumentale, laddove l’arte
inglese era fortemente legata al genere del ritratto e del paesaggio. Col
massimo rispetto, mi permetto di suggerire – l’autore non ne parla – che un’altra
possibile motivazione, in quest’ottica, potesse essere costituita dalla volontà
di imparare le tecniche a olio degli antichi maestri, in un periodo in cui uno
dei temi principali dibattuti in Inghilterra era la rapida deperibilità dei
dipinti settecenteschi, a partire da quelli di Reynolds. La questione può
apparire secondaria, ma non dobbiamo dimenticare che fu alla base di veri e propri
scandali che, nel 1800, colpirono proprio la Royal Academy (si veda la celebre
vicenda del Venetian
Secret di Mary Ann Provis e si ricordi che una delle voci più critiche nei
confronti dell’Accademia fu quella dell’irlandese James Barry, vissuto a Roma
attorno al 1770). La Royal Academy, insomma, potrebbe essere stata percepita
come non adatta per imparare il disegno dal nudo e per apprendere le tecniche artistiche
necessarie a garantire la durevolezza di un quadro, due elementi fondamentali
per chi volesse intraprendere il mestiere. D’altro canto, per quanto riguarda gli
scultori, va ricordato che in Inghilterra la lavorazione del marmo era assai
poco praticata e certamente non esistevano quelle professionalità (dagli
scalpellini in poi) che invece a Roma erano presenti in numero abbondante e
consentivano l’organizzazione di già citate forme proto-manufatturiere di
produzione.
John Partridge, Ritratto di Charles Eastlake, 1825, National Portrait Gallery, London Fonte: https://www.npg.org.uk/collections/search/portrait/mw02005/Sir-Charles-Lock-Eastlake? |
Il fatto più eclatante della colonia artistica anglosassone agli inizi dell’Ottocento fu, senza dubbio, la fondazione, nel 1823, della British Academy, ovvero di una vera e propria istituzione artistica nazionale nell’Urbe. Fuori di dubbio che l’idea sia stata quella di creare una sorta di succursale della Royal Academy a Roma, un po’ come capitava, ad esempio, per i francesi. E tuttavia va detto che della storia di quest’istituzione, in seguito alla perdita della documentazione nella prima metà del Novecento, sappiamo pochissimo (tant’è che nemmeno la data di fondazione è stata storicamente indicata in maniera unanime). Ne fu segretario Charles Eastlake (a Roma dal 1816 al 1830) e vi aderirono artisti del calibro di John Gibson, Joseph Severn. Richard Westmacott. La presenza di Seymour Kirkup nel gruppo testimonia degli esordi artistici di un uomo i cui interessi si indirizzarono poi verso la letteratura e Dante in particolare. Non va dimenticato che troveremo i nomi di molti dei componenti la British Academy anche fra la Società Amatori e Cultori costituita da Tommaso Minardi nel 1829. In totale assenza di una storia, si è ritenuto che, sia pur informalmente, la British Academy (in cui pare logico pensare si esercitasse lo studio del nudo) dipendesse dalla Royal Academy. In realtà, a giudicare dalla documentazione raccolta da Casola, così pare non essere stato. La British Academy chiese un finanziamento e una copertura ‘politica’ all’istituzione londinese. Ebbe il denaro (sia pur in via eccezionale), ma non il sostegno, circostanza che, fondamentalmente, si può comprendere solo in due modi: da un lato la convinzione ‘ideologica’ che la creazione di istituzioni pubbliche d’indirizzo dell’arte portassero alla lesione di quel liberismo che, fonte di ricchezza e benessere, era considerato anche il metodo migliore per il progresso delle arti nazionali (spingendo il discorso al paradossale, per questo motivo la Royal Academy avrebbe dovuto sciogliersi); dall’altro il timore che l’invio di artisti a Roma li avrebbe esposti a una contaminazione stilistica in senso europeo che avrebbe inevitabilmente sviato la propensione ‘naturale’ dei britannici verso ritratto e paesaggio. Non solo: la Royal Academy cercò anche di complicare la vita ai componenti della colonia italiana, statuendo, ad esempio, di precludere a chiunque avesse fatto parte della British Academy la cooptazione nell’istituto londinese. Ora, è verissimo che, nei fatti, tale disposizione fu fatta rispettare solo saltuariamente, regolandosi di caso in caso, ma è proprio quest’aspetto, quello della discrezionalità, che toglieva certezze e prospettive di carriera in patria. Una cosa va comunque sottolineata: fra i principali oppositori all’apertura all’arte europea vi furono artisti come William Turner e Francis Chantrey. Sul piano personale i rapporti fra Eastlake e, ad esempio, Turner, appaiono essere stati molto buoni, basati sulla stima del più giovane segretario della British Academy nei confronti del secondo, ricambiata dal rispetto di Turner [1]; la questione, insomma, era puramente ‘ideologica’. Tiziano Casola, piuttosto, segnala la vicinanza dei membri della British Academy a Sir George Beaumont, famoso collezionista, pittore dilettante, ma soprattutto all’epoca direttore della British Institution, società espositiva londinese che organizzava almeno una mostra all’anno di pittori inglesi contemporanei. Fu più presso la British Institution che alla Royal Academy che gli angloromani di inizio Ottocento trovarono accoglienza e disponibilità, avendo la possibilità di esporre le loro opere realizzate in Italia.
Un altro tema che è ineludibile è quello del rapporto con
gli altri artisti forestieri all’epoca di stanza a Roma. Il caso
più eclatante è proprio quello di Eastlake, che fu fortemente attratto dal
mondo nazareno e più in generale non solo dagli artisti, ma anche dalle nuove
metodologie di indagine nella storia dell’arte provenienti dalla Germania. Sono
del resto frequenti i riferimenti ai Nazareni un po’ in tutte le corrispondenze
degli artisti inglesi. È anche, ma non esclusivamente, per merito loro se
Eastlake o William Dyce maturarono interessi per la tecnica dell’affresco che
tornarono particolarmente utili quando, anni dopo, in seguito all’incendio di
Westminster, si decise di ricostruirlo decorandolo appunto usando l’affresco. Non
dobbiamo tuttavia pensare a delle camere stagne. Basti ricordare qui,
rapidamente, le frequentazioni con Minardi e che nel 1821 Giuseppe
Tambroni pubblicava l’editio princeps del Libro dell’Arte di
Cennino Cennini (che Eastlake lesse sicuramente, avendo un’ottima conoscenza
dell’italiano).
Fra gli artisti inglesi giunti a Roma, come logico, vi fu chi
rimase poco (ad esempio George Hayter), chi a lungo (ad esempio Eastlake, che
tornò a Londra nel 1830 perché nominato membro della Royal Academy, dopo esserne
divenuto associato in assenza nel 1827, a dimostrazione che il divieto sopra
richiamato era flessibile), chi vi restò tutta la vita (come gli scultori John
Gibson, amico fraterno di Eastlake, e Richard Wyatt)). Gibson rimase legato a
un tipo di scultura ideale, tuttavia contemperata da un’acuta osservazione dal
vero: «La ricerca di ispirazione nell’osservazione degli abitanti di Roma è,
non a caso, una tematica ricorrente negli appunti di Gibson, in contrasto solo
apparente con la pedissequa osservazione dei precetti winckelmaniani, perché
coscientemente fondata sull’idea secondo cui i popoli del sud sarebbero rimasti
incorrotti negli atteggiamenti del corpo e, di conseguenza, adatti a una
rielaborazione statuaria in senso classico» (p. 241). Per ciò che concerne la
pittura, è fuori discussione che il successo commerciale degli artisti inglesi
di primo Ottocento sia legato al genere dei «banditti», ossia ai ritratti in
costume di briganti (e soprattutto delle loro mogli). «Si potrebbe ipotizzare –
scrivere Casola – (…) che, vista la comune ambizione a un registro grandioso,
dipingere scene ‘di costume’ fosse per alcuni anche un modo di esercitarsi in
composizioni narrative con vari personaggi, senza però correre il rischio di
giudizi troppo severi, proprio per via delle minori aspettative riservate ai
temi più bassi nella gerarchia dei generi artistici» (p. 225). Verissimo, anche
se l’aspetto economico non va trascurato e non c’è nulla di male che, grazie a
una produzione facilmente smerciabile, si potesse lavorare poi con la
tranquillità necessaria per dipinti di storia. Al di là degli esiti finali, mi
paiono molto interessanti le osservazioni dell’autore che segnala come, probabilmente,
«nel circolo della nuova British Academy fosse comune l’esercizio della sfida
collettiva nell’interpretazione di un soggetto dato» (p. 222). Se non ne
abbiamo la certezza, è senz’altro riscontrabile, un reciproco gioco di rimandi di
natura compositiva, ad esempio in opere come Uma and the Redcrosse Knight in
the Case of Despair di Eastlake (1830) e l’Apocalisse di Giovanni di
Joseoh Severn (1827-1831). In conclusione, appare abbastanza evidente l’esistenza
di una maggiore propensione allo scambio di esperienze in prospettiva
collettiva nel gruppo degli artisti inglesi di primo Ottocento rispetto a
quelli di fine Settecento.
NOTE
[1] Si veda Susanna Avery-Quash e Julie Sheldon, Art
for the Nation, The Eastlakes and the Victorian Art World, pp. 21-22.
Nessun commento:
Posta un commento