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mercoledì 21 febbraio 2024

Giovanni Baglione. Le vite de’ pittori, scultori et architetti (Roma 1642)



Giovanni Baglione
Le vite de’ pittori, scultori et architetti
(Roma 1642)
con commento e apparati critici
A cura di Barbara Agosti e Patrizia Tosini


2 voll., Roma, Officina Libraria, 2023

Recensione di Giovanni Mazzaferro 




Elogio di un’edizione

È un momento quasi magico per gli studi sulla letteratura artistica romana a cavallo fra fine Cinquecento e primi decenni del Seicento: nel 2021 Riccardo Gandolfi ha pubblicato le Vite degli artisti di Gaspare Celio, di cui ha ritrovato il manoscritto, e ora Barbara Agosti e Patrizia Tosini curano la prima edizione commentata integrale delle Vite di Giovanni Baglione (nell’editio princeps del 1642). Ho scritto Barbara Agosti e Patrizia Tosini, ma in realtà si tratta di un’opera collettiva (e ho molto apprezzato, al riguardo, che le curatrici non facciano comparire il loro nome in copertina, a rimarcare il fatto); a loro, ovviamente, il merito di aver coordinato l’opera (oltre a scrivere due introduzioni e seguire in prima persona alcune biografie). Sappiamo che delle Vite di Baglione era già uscita un’edizione commentata, già recensita in questo blog, rimasta tuttavia ampiamente incompleta; la curarono prima Jacob Hess e poi, alla sua scomparsa, Herwarth Röttgen. Potete leggere cliccando sul link qui sopra tutte le vicissitudini che portarono a pubblicare nel 1995 tre volumi come risultato parziale di un progetto partito addirittura nel 1934. Qui mi pare doveroso sottolineare che il lavoro (del tutto benemerito) di Hess e Röttgen aveva nel gigantismo il suo peccato originale: registrare le varianti testuali fra stesure manoscritte prima e a stampa poi, nonché trascrivere le postille di diversi esemplari apposte da studiosi vari, si rivelò una scelta poco felice, che portò al commento di meno della metà del testo di Baglione [1]. Nel caso della presente edizione, proposta in due volumi da Officina Libraria, la scelta è molto chiara: essere misurati e realistici; commentare quindi tutte le oltre 200 biografie proposte da Baglione, facendole precedere da una breve presentazione in cui si segnala lo ‘stato dell’arte’ degli studi in merito a ogni singolo artista, dal più noto al meno conosciuto. Il primo tomo presenta il testo commentato; il secondo la bibliografia generale, l’indice topografico delle opere citate e l’indice dei nomi (nel complesso più di 300 pagine), apparati fondamentali per la fruizione di un testo che, per sua stessa natura, sarà molto più consultato che letto tutto di un fiato. Il risultato è molto buono. Mi si permetta, in proposito, di sottolineare un aspetto che può sembrare del tutto marginale, ma che, invece, si rivela indicativo: il numero dei refusi è minimo, il che dimostra un’applicazione, sia in fase di stesura dei testi che di lavorazione redazionale, davvero fuori dal comune.

 

Un’opera ‘semplice’, ma di difficile inquadramento

Giovanni Baglione (1566-68 circa -1643) fu personaggio di spicco del mondo artistico romano. Collocabile nell’ambito del manierismo di fine Cinque e inizio Seicento, Baglione ebbe una visibilità ‘istituzionale’ che lo portò, ad esempio, a essere in più occasioni Principe della romana Accademia di San Luca. Le sue opere (oltre alle Vite, una guida della città intitolata Le nove Chiese di Roma nelle quali si contengono le Historie, Scolture, Pitture, Architetture di esse) furono pubblicate negli anni finali della sua vita, quando l’uomo sembra aver ormai ridotto, se non abbandonato, la pratica artistica: la guida è del 1639, le Vite del 1642. Lo scopo delle biografie è dichiarato programmaticamente: proseguire le Vite del Vasari (e quelle di Raffaello Borghini) dal 1568 fino ai suoi giorni, ossia fino all’uscita dell’opera. Nella lettera ‘Al virtuoso lettore’ (p. 6), Baglione delimita chiaramente i suoi obiettivi, cominciando dal giudizio di merito sulle opere: «io scrivo le vite degli artefici, e non fo il giudicio degli artificii». Ci si astiene, quindi, dall’esprimere una valutazione sulle opere (anche se la circostanza non è sempre vera). E, ancora, sono inclusi nelle biografie (molte delle quali estremamente brevi, per cui sarebbe più opportuno parlare di cenni biografici) solo gli artefici defunti. Mentre le Vite di Vasari coprono tutta l’Italia, Baglione si limita a Roma e agli artefici che vi hanno lavorato, espungendo (quasi) tutto quello che hanno fatto altrove: «E perché Roma è compendio delle meraviglie del tutto, per brevità dell’opera, ho giudicato esser bastevole che il ridir solamente l’opere che in questa città essi formarono comprenda anche l’esquisitezza di tutte le altre che per il mondo risplendono.» E, da ultimo, l’autore delimita ulteriormente il campo, prendendo in esame solo le opere pubbliche (in prima approssimazione, il patrimonio ecclesiastico) tralasciando quasi del tutto le collezioni private.

Roma, «nobilissima città», «stupore delle genti», è la vera protagonista delle Vite, il che produce un primo esito paradossale: in decenni in cui la politica antivasariana, legata al toscanocentrismo e al fiorentinismo dell’aretino, è particolarmente viva, e si misura nelle opere ma anche nelle postille manoscritte, nelle Vite di Baglione (se non sono stato cattivo lettore) non si trova una sola parola polemica nei confronti di Vasari e di quello che aveva scritto. Roma tutto fagocita e tutti trasforma: qualsiasi artista non romano, proveniente da Oltralpe o da una qualsiasi altra città italiana, arriva nella città eterna con uno stile e scopre la vera arte, studiando le opere antiche e moderne della città. Quest’ultima è un’affermazione che si può leggere decine di volte – il vero trait d’union – nell’opera; Roma permette all’artefice di ‘sprattichirsi’ e di raggiungere la buona maniera, naturalmente tramite lo studio e l’abnegazione, e fortuna permettendo. Un esempio (davvero a caso) può essere quello di Francesco Parone (p. 693): «Tra gli altri pittori ve n’è stato uno milanese che Francesco Parone nominossi, il quale fu figliuolo d’un pittore non molto eccellente. Egli a Roma se ne venne d’età giovanile, con qualche principio di pittura dal padre insegnatagli: ma poi qui si andò ingegnando di disegnare le bell’opere di Roma, e vi fece buon profitto: et ora per l’uno, ora per l’altro dipingendo, ne divenne ragionevole, e prattico pittore, nel colorire dal naturale». In questo contesto, ragionare sul colore o sul disegno, sulla scuola lombarda o su quella emiliana, non ha alcun senso: Roma – come direbbero oggi gli esperti di marketing – quelli bravi, naturalmente – è un’ ‘esperienza’ totalizzante: non conta quello che si è fatto prima, né quello che si fece dopo averla lasciata.  

Baglione organizza la sua narrazione su più livello. C’è una prima cornice generale – molto debole – che è costituita dal dialogo fra un forestiero e un gentiluomo romano che si offre di illustrare al primo le bellezze della città e di parlargli degli artisti che l’hanno resa regina dell’arte; poi vi è una scansione successiva in pontificati. L’autore opera una suddivisione cronologica delimitata dagli anni in cui governarono cinque Papi (tralasciandone alcuni il cui pontificato fu particolarmente breve): Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585), Sisto V Peretti di Montalto (1585-1590), Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605), Paolo V Borghese (1605-1621) e Urbano VIII Barberini, salito sul soglio pontificio nel 1623 e ancora pontefice al momento della pubblicazione delle Vite. L’esposizione è divisa in cinque giornate, una per ogni pontefice, in cui il gentiluomo romano illustra al forestiero dapprima le principali realizzazioni (soprattutto architettoniche e urbanistiche) dei pontefici e poi passa in rassegna la lista degli artefici, organizzata per data di morte. Per chiarire, a titolo di esempio, Federico Zuccari (1539-1609) si trova nella quarta giornata, indipendentemente dal fatto che abbia lavorato anche sotto Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII [2]. La rigidità e l’arbitrarietà del sistema sono evidenti; del resto lo erano già anche nelle Vite di Vasari, che pure non ricorse alla sovrastruttura delle ‘giornate’. Qui di più soprattutto perché le biografie sono moltissime e spesso estremamente brevi, impedendo di fatto di cogliere una qualsiasi idea di sviluppo artistico che, peraltro, non era obiettivo di Baglione mettere in evidenza. Forzando le cose, potremmo dire che Baglione, in qualche modo, anticipa – senza saperlo - il genere degli ‘abecedari’ di primo Settecento. Al netto della totale inaffidabilità di questi ultimi (mentre Baglione è fonte informata), a Pellegrino Orlandi o chi per lui bastò mettere in ordine alfabetico gli artefici per raggiungere un’organizzazione più coerente. Patrizia Tosini scrive, non a caso: «A metà strada tra descrizione periegetica e trattazione monografica, tra spigolature erudite e disinvolta – talora anche corriva – narrazione, tra questioni di stile e giudizi morali e fisici sugli artisti, al lettore sembra di trovarsi di fronte a un autore che non ha scelto fino in fondo il registro della sua opera, rimanendo indeciso sulla strada da percorrere» (p. XXX). Barbara Agosti, da parte sua, ricorda come Roberto Longhi, quasi un secolo fa, ritenne che originariamente la silloge delle Vite di Baglione fosse stata organizzata come una guida alla Roma moderna, progetto di cui le Nove chiese di Roma del 1639 sarebbero state un primo risultato (p. XXIII). E qui si entra su un terreno particolarmente scivoloso, che è quello della genesi dell’opera.


Ottavio Leoni, Ritratto di Giovanni Baglione, 1625
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/nl/collectie/RP-P-1907-235


La genesi dell’opera

Le Vite sono precedute da due componimenti poetici a carattere laudativo; il primo è del letterato Ottavio Tronsarelli (di cui avremo modo di parlare) e il secondo una canzone Alla Pittura, scritta da un giovane Giovan Pietro Bellori (in cui, sia detto per inciso, le lodi si estendono anche a Caravaggio). Decenni dopo Bellori annotò una celeberrima postilla sulla sua copia personale delle Vite di Baglione: «Canzone da me fatta ne gli anni più giovanili, che hora non mi piace niente; mandata in stampa, più tosto a persuasione [n.d.r. per essere stato convinto dal] del Tronsarelli che per mia volontà» (p. XXII). Poi aggiungeva: «Queste Vite furono scritte dal Baglione per vendetta contro Gaspare Celio, il quale nelle Chiese di Roma non nominò mai il Baglione, per essere tra loro nimicitia onde il Baglione ha occasione di scrivere di se stesso, et lodarsi, et di mostrare gli errori et li biasimi del Celio suo nimico: però l’opera non è buona a nulla non essendo stata fatta con fine di virtù, ma per privata passione et malevolenza» (p. XXII). In effetti è noto che Baglione e Celio (1571-1640), altra figura ingombrante e importante del mondo artistico romano, si odiavano per motivi personali; non stupiamocene: il rancore reciproco è tipico di ogni consesso sociale. In quei tempi, veniva spesso risolto a colpi di coltello o, comunque, con aggressioni fisiche. Nel caso dei due pare che la cosa si sia risolta in una sorta di competizione per legittimarsi come i veri interpreti, in termini documentari, del mondo artistico romano di quell’epoca. Fu così che Celio pubblicò, nel 1638, un anno prima di Baglione la ‘sua’ guida di Roma (ossia la Memoria delli nomi dell’artefici delle pitture, che sono in alcune chiese, facciate, e palazzi di Roma), in cui effettivamente non citò mai Baglione, destinandolo nelle intenzioni a eterno oblio. Ma ciò che più mi stupisce, nella postilla di Bellori, è che egli giustifichi la stesura delle Vite come reazione alla guida di Celio, come se non avesse saputo che, contemporaneamente, lo stesso Celio stava scrivendo le ‘sue’ Vite, o, meglio, il Compendio delle Vite di Vasari con alcune altre aggiunte, riportato alla luce da Riccardo Gandolfi nel 2021. Non poteva non saperlo, per un banalissimo motivo: nelle sue postille, Bellori attinse a piene mani proprio dall’opera di Celio. Se invidia e rivalità vi furono (e vi furono), a me sembrerebbe molto più logico che Baglione abbia scritto le Vite per anticipare (o comunque competere) con quelle del Celio. Su questo punto mi sembra che Agosti sia molto prudente, mentre si sbilancia di più Gandolfi: «l’impostazione del volume di Celio è in gran parte diversa da quella delle Vite del rivale, tuttavia non è difficile immaginare come tra i due si fosse innescata una feroce competizione per arrivare alla stampa, corsa alla pubblicazione vinta – con tutte le conseguenze sulla percezione dei meriti di Celio – da Baglione» (p. 786).

Agosti segnala la possibilità, piuttosto, che «un determinante incentivo alla vera e propria stesura [n.d.r. delle Vite] sia stato l’incarico ricevuto nel febbraio 1633 da Baglione insieme ad altri eminenti soci dell’Accademia di San Luca, tra cui Gian Lorenzo Bernini, di redigere un elenco di tutti i pittori, scultori, indoratori e architetti appartenuti o appartenenti alla Compagnia, con lo scopo di descriverli in un libro» (p. XXVI). L’una cosa non esclude l’altra, naturalmente.  Agosti aggiunge poi note importanti su Ottavio Tronsarelli. Bellori, infatti, aveva scritto, in un’altra postilla, che l’opera era stata scritta proprio da Tronsarelli e non da Baglione. La tesi appare viziata da eccesso di malignità. È certo che Tronsarelli, letterato, ebbe anche un’educazione artistica (cfr. p. XXVII), ma sembra che più altro esercitasse (non solo per le Vite) un ruolo da ‘editor’ ante litteram, occupandosi anche di rilasciare gli imprimatur della Santa Sede necessari per la pubblicazione di qualsiasi opera. Non si può certo escludere, quindi, un ruolo di revisione, che mi sembra più probabile negli incipit di alcune biografie in cui più forti sono gli accenti eruditi e retorici (si veda, a titolo di esempio, la vita di Ippolito Buzzi a p. 689); né si può scartare l’ipotesi – aggiunge Agosti – che Tronsarelli possa aver in qualche modo impedito la pubblicazione delle Vite di Celio che, nel manoscritto ritrovato da Gandolfi, appaiono di fatto pronte per la stampa (va comunque ricordato che Celio morì nel 1640 e che quindi il tutto potrebbe spiegarsi col suo decesso).


Giovanni Baglione, Allegoria di Carità e Giustizia, Royal Collection Trust
Fonte: https://www.rct.uk/collection/407156/an-allegory-of-charity-and-justice-reconciled


Le fonti

Tutto ciò chiarito, si tratta di indagare le fonti di Baglione: Vasari e Borghini sono fra queste senza dubbio alcuno (e lo scrive lo stesso autore); per il resto sono evidenti i debiti, mai dichiarati, con le manoscritte (ma diffusissime) Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini, opera fondamentale, di cui mi limito a dire che è urgente una nuova edizione commentata dopo quella del 1957; altra opera sicuramente consultata fu il Ritratto di Roma moderna di Pompilio Totti (1638). Il vero dilemma, ancora una volta, però, sono le vite del Celio. Ancora una volta prudentemente, Agosti accoglie l’idea che Baglione possa averle lette, con ogni probabilità dopo la morte di Celio, riuscendo ad averle in mano (lui o Tronsarelli) in qualche modo. La maggior parte dei commentatori delle singole vite, del resto, fa notare le somiglianze fra l’una e l’altra opera che, peraltro, potrebbe spiegarsi anche col fatto che sia Baglione sia Celio stavano scrivendo dello stesso argomento nello stesso momento. Ciò che è evidente, tuttavia, è che Baglione non copia, ma rielabora. Semmai è difficile comprendere il perché dell’inclusione o dell’esclusione di determinate opere (comunque e sempre a Roma), richiamate anche nelle Nove chiese dello stesso Baglione tre anni prima Problemi di spazio? Incertezza nelle attribuzioni? Selezione soggettiva su base qualitativa? Onestamente non mi è chiaro. Naturalmente un ruolo certo non secondario è rivestito dai ricordi personali. Baglione scrive di persone che in molti casi ha conosciuto, frequentato, avversato o avuto come amici, con cui ha lavorato insieme o ha condiviso l’esperienza istituzionale dell’Accademia.

 

L’importanza delle Vite di Baglione

Cert’è che le debolezze di Baglione appaiono evidenti: non fu storiografo e non propose una qualsiasi visione dell’evoluzione artistica (anche se le sue preferenze per determinati artisti sono chiaramente percepibili). Contemporaneamente, non fu teorico: l’autore insiste, come del tutto naturale, sull’importanza del disegno e su quella dell’Accademia, ma lo fa più perché parte integrante di quel mondo che per ‘convinzione filosofica’. Per farsi un’idea in proposito: dei trattati teorici di Federico Zuccari scrive che si trattava di «alcune sue bizzerrie, e pensieri circa la nostra professione» (p. 365). Ciò non toglie che si possa seguire dei fili rossi nella lettura che permettono di farsi un’opinione su molte cose: ad esempio sull’importanza del restauro di statue antiche per gli scultori del Cinquecento, sul ruolo dello studio contrapposto alla mera ‘pratica’, sulle figure dei principali committenti romani (cfr. Tosini p. XXXIV) e molto altro ancora. Tutto interessante, ma il rischio è quello di dare un giudizio limitativo come, in fondo, fece Röttgen, che tanto studiò l’opera: «Che cosa sono, dunque, le Vite di Baglione? Sono i ricordi di un pittore romano, vissuto come membro fedele dell’Accademia di San Luca, nel mezzo della produzione artistica della sua città, ricordi che si cristallizzano nelle figure degli artisti suoi contemporanei. Egli era legato a questa Accademia, cosa che si avverte sempre con chiarezza. Certamente vi si dedicò spinto da un bisogno personale e non rimase estraneo alla consueta esperienza di dispute e di offese. All’epoca in cui scriveva la sua opera, cioè fra il 1635 e il 1640, Baglione era già indietro di trent’anni sui suoi contemporanei. Anche per questo motivo non gli fu più possibile descrivere il percorso di una evoluzione che ormai aveva scavalcato la sua generazione. Intorno al 1640 Raffaello era tornato ad essere, già da molto tempo, la norma suprema e si tendeva a considerare sempre più come una fase di decadenza quel tardo XVI secolo, cui Baglione apparteneva. Le Vite non sono perciò né storia né idealizzazione teorico-artistica di una norma; esse sono, piuttosto, memorie dedicate agli artisti, già morti della stessa generazione dell’autore; sono la giustificazione di un’epoca, nella quale alcuni artisti già correvano il pericolo di cadere in dimenticanza.»

La verità è che, mai come in questo caso, le Vite di Baglione vanno apprezzate per l’enorme massa di informazioni che egli riuscì a tramandare ai posteri. Informazioni quasi sempre affidabili (specie nel caso delle ultime ‘giornate’, a lui anagraficamente più vicine) con attribuzioni che, a verifica oculare, il più delle volte reggono il passare del tempo.

Non va poi dimenticato il fatto costituisce la prima fonte a stampa relativa alle biografie di artisti di fine Cinque e inizio Seicento. Le opere di Mancini e Celio (con diffusioni diverse) rimasero manoscritte. Le sue Vite, insomma, ebbero importanza storica notevole, A esse attinsero, fra gli altri, Ridolfi e Boschini, Martinelli, Bellori e Titi, Soprani, Scaramuccia e Malvasia, Baldinucci, susinno e Pascoli, Mongitore, Zaist, per restare nel solo ambito italiano (cfr. p. XXI).

Baglione scrisse, insomma, il libro che qualsiasi storico dell’arte vorrebbe poter leggere: una sorta di ‘enciclopedia’, relativa a decenni fondamentali nel mondo romano, da cui attingere informazioni da sottoporre a puntuale verifica e integrare con esame stilistico delle opere e documenti di altro tipo. È, in fondo, quello che ha fatto il gruppo degli studiosi che è stato coordinato da Agosti e Tosini in quella che, davvero, sembra un’impresa d’altri tempi e che, qui di seguito, scusandomi per la lunghezza, vorrei ricordare uno per uno, semplicemente per dire grazie.

 

Grazie a…

Un grazie, quindi, a Barbara Agosti, Alessia Alberti, Anna Maria Ambrosini Massari, Luca Annibali, Aloisio Antinori, Gloria Antoni, Andrea Bacchi, Valentina Balzarotti, Novella Barbolani di Montauto, Maria Beltramini, Anna Bisceglia, Marco Simone Bolzoni, Eva Bracchi, Alessandro Brodini, Alessandro Brogi, Giovanna Capitelli, Eliana Carrara, Patrizia Cavazzini, Miles L. Chappell, Roberto Cobianchi, Alice Collavin, Camilla Colzani, Michela Corso, Alessandra Cosmi, Francesca Curti, Giulia Daniele, Gennaro De Luca, Valeria Di Giuseppe Di Paolo, Harula Economopoulos, Grégoire Extermann, Tancredi Farina, Camilla Fiore, Mauro Vincenzo Fontana, Massimo Francucci, Fiorella Frisoni, Giulia Fusconi, Marco Gallo, Riccardo Gandolfi, Alessandra Giannotti, Silvia Ginzburg, Maria Barbara Guerrieri Borsoi, Antonio Iommelli, Emmanuel Lamouche, Fernando Loffredo, Chiara Marin, Pedro Manuel Martinez Lara, Giulia Marzani, Daniele Minutoli, Raffaella Morselli, Michele Nicolaci, Fausto Nicolai, Maria Felicia Nicoletti, Livia Nocchi, Carmelo Occhipinti, Enrico Parlato, Francesca Parrilla, Tommaso Pasquali, Stefano Pierguidi, Ivana Porcini, Giuseppe Porzio, Cecilia Prete, Matteo Procaccini, Marco Pupillo, Serena Quagliaroli, Francesca Parrilla, Tommaso Pasquali, Giuseppe Porzio, Yuri Primarosa, Matteo Procaccini, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Marco Pupillo, Fiorenza Rangoni Gàl, Maurizio Ricci, Augusto Roca De Amicis, Maria Teresa Sambin De Norcen, Giovanni Santucci, Lothar Sickel, Lucia Simonato, Gelsomina Spione, Giulia Spoltore, Jacopo Stoppa, Yuri Strozzieri, Emilia Anna Talamo, Maria Cristina Terzaghi, Laura Teza, Ludovica Tiberti, Patrizia Tosini, Alessia Ulisse, Antonio Vannugli, Chiara Violini, Susanna Zanuso, Andrea Zezza, Moira Zuccaro (sperando di non aver dimenticato nessuno).

 

 

NOTE

[1] Si pensi che le sole postille di padre Sebastiano Resta sono state oggetto, di recente, di un volume intero, ossia Le postille di padre Resta alle Vite del Baglione, a cura di Barbara Agosti, Francesco Grisolia e Maria Rosa Pizzoni.

[2] Da ricordare, peraltro, una sezione finale di una dozzina di pagine con biografie di intagliatori. Le note riguardano anche artisti (come Agostino Carracci) di cui era stata stesa una biografia nelle ‘cinque giornate’ dell’opera. La sola sezione sugli intagliatori – naturalmente commentata in questa sede – è stata oggetto nel 2016 di un’edizione commentata da parte di Giovanni Maria Fara.

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