Valérie Naas
Anecdotes artistiques chez Pline l’Ancien
La constitution d’un discours romain sur l’art
Parigi, Sorbonne Université Presses, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
La Naturalis Historia di Plinio
Tutti abbiamo sentito nominare, almeno una volta, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.). Si tratta della prima grande enciclopedia della storia, e di un’enciclopedia della natura, completata nel 77 d.C. e divisa in 37 libri che prendono in considerazione i più vari aspetti dei fenomeni naturali: dopo un’introduzione e l’indice delle fonti (libro I), il secondo libro si occupa di cosmologia, quelli dal III al VI di geografia, il settimo è dedicato all’antropologia. E, ancora, dall’VIII all’XI Plinio si occupa di zoologia; dal XII al XIX di botanica; dal XX al XXXII l’attenzione è centrata sulla medicina; e, infine, dal XXXIII al XXXVII sulla mineralogia. Obbligatorio chiarire subito che la ‘natura’ descritta da Plinio non è il semplice dato naturale, ma anche l'insieme delle trasformazioni che l'uomo apporta basandosi su di essa. L’enciclopedia di Plinio è, dunque, relativa alla natura e all’attività umana che, a partire da essa, la trasforma per trarne beneficio. Quella di Plinio è una natura benevola, che offre all’uomo le potenzialità per migliorare il proprio stile di vita; compito dell’uomo è, quindi, quello di continuare l’opera della natura e sfruttare le potenzialità che essa offre. Il progetto enciclopedico pliniano è di chiara impronta morale. La natura va usata, ma senza eccessi e senza abusare dei mezzi che ci mette a disposizione; il vizio e il lusso sono condannati nel discorso pliniano (di ispirazione stoica). È partendo dai materiali che Plinio introduce nella sua Naturalis Historia l’ ‘arte’ (vedremo poi che il termine è improprio) nei libri che vanno dal XXXIII al XXXVII, dedicati alla mineralogia, che tratta di metalli, terre e pietre. Plinio non scrive, dunque, un trattato sull’arte; si deve parlare, piuttosto, di una serie di excursus a corollario dell’esame dei materiali, che illustrano, come detto, le modalità con cui l’uomo riesce a valorizzare le risorse che la natura gli mette a disposizione. Così, nel libro XXXIII si parla di oro e di argento, con un excursus sulla loro cesellatura; nel libro XXXIV, destinato a rame e bronzo, è tracciata una storia della scultura in bronzo, con una storia degli scultori in bronzo dal V alla metà del II secolo avanti Cristo e da metà del I secolo a.C. in poi. Il libro XXXV è dedicato alle terre, che hanno rilevanza in quanto servono ai pittori per preparare i colori; anche qui è proposta una storia della pittura; ma il libro presenta anche considerazioni sulla ‘plastica’, ossia sull’arte di modellare le materie molli (ad esempio la terracotta). Nel libro XXXVI Plinio passa, invece, a esaminare le pietre e, da un punto di vista artistico, coglie l’occasione per trattare di scultura in marmo, con una breve parte dedicata anche all’architettura e una sezione conclusiva sulle meraviglie del mondo e di Roma. In conclusione, il libro XXXVII, ultimo anche dell’opera, si occupa dei cristalli di rocca, dell’ambra, delle gemme, dei diamanti e delle pietre semipreziose.
Si è detto che il termine ‘arte’ è improprio. In realtà nel mondo greco e in quello latino non esiste un lemma che traduca ‘arte’ nel modo in cui la consideriamo oggi, ossia come creazione artistica libera da condizionamenti frutto dell’ingegno dell’artista; né esiste una netta distinzione fra artisti e artigiani. I greci parlano di téchne, i romani di ars, ma sempre nell’accezione di ‘attività’ o ‘mestiere’; tutte le discipline umane volte a far uso dei mezzi messi a disposizione dalla natura sono ‘artes’, dalla medicina alla retorica, dal giardinaggio, alla falegnameria e, quindi, anche all’ ‘arte’ intesa in senso moderno (dal Rinascimento in poi). Non a caso, pur in assenza di una distinzione netta fra ‘belle arti’ e tutto il resto sono invece prese in considerazione e oggetto di studio singole discipline, come la pittura (l’arte di usare i colori ricavati dalle terre), la plastica (l’arte di plasmare le materie molli), la ‘scultura’ (l’arte di scolpire la pietra), la ‘statuaria’ (l’arte di creare opere in bronzo), la ‘toreutica’ (l’arte di lavorare i metalli). Compito di tutte le artes è quello di imitare la natura. Non mi addentro ora in lunghe e complesse analisi su cosa si possa intendere con ‘imitazione della natura’. Basti pensare che l’espressione presenta due sostantivi che, di significato apparentemente facile, possono essere interpretati in maniera differente. Cos’è e com’è la natura? Nella Grecia arcaica la natura era vista (comunque se ne voglia interpretare l’origine) come un complesso fenomenico ordinato e da qui l’idea che per imitarla occorresse fissare dei canoni (nel caso dell’attività artistica si pensi al canone di Policleto); secoli dopo, natura la è presa in considerazione come oggetto di studio anche (o soprattutto) per le sue manifestazioni ‘straordinarie: e, del resto, non è certo un caso che Plinio sia morto nel 79 d.C. recandosi in nave a Pompei per studiare più da vicino l’eruzione del Vesuvio, fenomeno ‘straordinario’ per eccellenza.
Un’enciclopedia romana
Quella di Plinio è un’enciclopedia intrinsecamente romana. Plinio fu alto funzionario sotto vari imperatori, dai Claudi ai Flavi, da Tiberio a Vespasiano, e pur, con grandi riserve nei confronti di alcuni di essi, fu uomo d’apparato, pienamente convinto della necessità e dell’utilità della politica imperialistica romana. La natura di Plinio è una natura che può essere studiata in tutta la sua complessità solo perché Roma ha conquistato il mondo; natura e impero sono, di fatto, la stessa cosa. Compito degli imperatori è quella di amministrare saggiamente l’impero, ossia la natura. In questo senso, è evidente che la Naturalis Historia ha una chiara valenza politica. Del resto fenomeni come l’asportazione delle opere greche come bottino di guerra e il loro trasferimento a Roma non conoscono alcuna censura di carattere etico. Si tratta di diritto di guerra, e peraltro le statue greche a Roma conosceranno una vita nuova e diversa (romana, appunto) venendo esposte nei luoghi pubblici della città e ridefinendone il carattere, anche urbanistico. Con tutte le cautele del caso, è chiaro che Plinio descrive un fenomeno analogo a quanto successo in Francia in anni napoleonici, con le requisizioni delle opere d’arte e il loro trasferimento a Parigi, dove avrebbero potuto finalmente ritrovare la loro libertà, una libertà francese fondata sull’uso delle armi.
Un’enciclopedia culturalmente orientata
E veniamo al libro di Valerie Naas. La tesi di Naas è molto chiara. Quella di Plinio non fu un’enciclopedia ‘neutra’; non può essere considerata, insomma, uno strumento asettico attraverso cui la tradizione greca viene consegnata ai posteri, e in particolare a tutti coloro che leggeranno Plinio già nel Medioevo, ma soprattutto dall’Umanesimo in poi (ricordo che l’editio princeps dell’opera fu pubblicata per i tipi di Giovanni da Spira a Venezia nel 1469). Si tratta, piuttosto, di un’opera (e qui si fa riferimento fondamentalmente alla sezione mineralogica, ma il discorso sarebbe analogo per tutto il resto) in cui è possibile leggere in controluce la formazione di un discorso romano sull’arte. Il che implica sostanzialmente due cose: che in un mondo in cui, come detto, le ‘artes’ sono attività e non sembrano avere una impalcatura teorica che le supporti, ve ne sia, in realtà, una; e, soprattutto, che Plinio (il quale pure si dichiara poco esperto in materia, richiamandosi in più occasioni ai ‘peritiores’, ossia a chi ne sa più di lui) sia in grado di elaborarne una. Il discorso sull’arte pliniano non è di natura prettamente estetica, ma – come detto – morale e deriva da quello greco, ma è possibile, innegabilmente, riconoscervi un’attitudine romana e anche, se vogliamo, aspetti campanilistici. Non è certo un caso che l’autore tenda a evitare discorsi sulla nascita dell’attività artistica, probabilmente rendendosi conto che non avrebbe potuto rivendicare una superiorità romana. Ciò detto, Plinio rivendica comunque l’esistenza di un’arte romana indipendente da quella greca, già prima di parlare della pittura greca in età classica ed ellenistica. Sostiene così (p. 247) che in Italia la pittura aveva raggiunto un alto livello di perfezione e cita esempi visibili ad Ardea, Lanuvio e Caere. Si richiama alla tradizione del ritratto di figure in cera a protezione delle abitazioni domestiche, ricorda la tradizione della pittura trionfale, ossia l’abitudine di celebrare le vittorie in battaglia con dipinti commemorativi; rivendica come tipicamente romana la fruizione delle opere in aree pubbliche, in maniera tale come possano divenire patrimonio condiviso della cittadinanza. Non a caso, quando affronta la questione dell’arrivo delle opere d’arte greche come bottino di guerra lamenta non tanto il saccheggio in sé, ma la cupidigia personale che fa sì che finiscano nelle ville di campagna di una élite e non nell’area pubblica urbana. Implicitamente, dunque, considera l’arte greca esposta al pubblico come perfetta prosecuzione di una tradizione romana e dunque legittima pienamente il saccheggio. Paradossalmente, in Plinio, non è l’arte romana a essere prosecuzione di quella greca, ma quella greca che viene accolta nell’alveo di una tradizione già esistente. La lunga serie di manufatti greci citati, in maniera non sistematica, nella Naturalis Historia è costituita più che altro da opere greche trasferite a Roma; delle altre raramente sono citati autori e collocazioni. Non solo: Plinio manifesta le sue riserve sul flusso di opere provenienti dal mondo ellenico non tanto sotto un profilo giuridico, quanto perché ritiene sia causa di eccessi di lusso e cupidigia da parte dei singoli (a partire da imperatori come Nerone): «Lungi dal vedere nell’arte greca un apporto decisivo su quelle indigene romane, Plinio la rende, al contrario, responsabile della corruzione di queste ultime: ai ritratti realizzati in bronzo e in marmo da artisti externi contrappone le semplici imagines romane, queste rappresentazioni degli antenati con maschere di cera, espressione del mos maiorum [n.d.r. costume degli antenati]» (p. 252). In pittura, ad esempio, individua un’età dell’oro nel periodo dell’utilizzo della quadricromia, opponendosi al moltiplicarsi dei colori nei quadri: «La moltiplicazione dei colori – e dei materiali preziosi – è stata accompagnata dalla degradazione dell’arte e dalla cupidigia crescente da parte dei committenti e degli amatori» (p. 253). Il richiamo alla moderazione e alla tradizione romana è dunque costante.
Storia dell’arte
Nelle righe precedenti appare evidente che, per quanto discutibile, nel caso del rapporto arte romana – arte greca, Plinio delinei una storia dell’arte. Fra le pagine della sua enciclopedia si possono riconoscere, grosso modo, due approcci fra loro differenti: da un lato un discorso di tipo storico; dall’altro uno di natura biografica. Concentriamoci per un momento sulla ‘storia dell’arte’ di Plinio: la cito fra virgolette perché è evidente che non si tratta di una storia completa e organica, chiusa com’è in una serie di excursus nell’ambito di vari libri della Naturalis Historia. Fra le fonti citate da Plinio nel primo libro della sua enciclopedia (che, si badi bene, comprendono anche nomi che l’autore non lesse, ma nomina avendone rintracciate i nomi in opere intermedie) l’approccio storico ha la sua figura principale in Senocrate di Sicione, scultore in bronzo e scrittore d’arte vissuto fra il 280 e il 230 a.C. Siamo in piena età ellenistica ed è a questo periodo che gli studiosi fanno risalire la nascita della storia dell’arte; un momento importante perché una storia – qualsiasi storia – può essere pensata solo quando ha come oggetto di studio qualcosa che è percepito come distante da sé; la Grecia arcaica, del resto, è lontana da Senocrate circa 250 anni: «Senocrate applica all’arte un modello biologico ispirato da Democrito e che è ripreso nel pensiero di numerose discipline, come la storia; tutte le forme d’arte si sviluppano in fasi successive d’invenzione, perfezionamento, apogeo e declino». Si tratta – come evidente – di un aspetto fondamentale, che rende Plinio così importante per la storia dell’arte: non è certo un caso che si tratti, in sostanza, dello stesso modello adottato da Vasari nelle sue Vite.
Aneddoti
Mentre Senocrate è considerato la fonte principale di Plinio per quanto riguarda la parte storica, sugli aspetti biografici i nomi di riferimento sono Duride di Samo (340-280 a.C., quindi prima di Senocrate) e il suo allievo Antigone di Caristo. In realtà Duride (che non era un artista) avrebbe cominciato a raccogliere e pubblicare aneddoti sugli artisti [1]. Secondo la tradizione, poi, Antigone di Caristo avrebbe fuso il materiale presentato da Duride con gli aspetti storici provenienti da Senocrate, costituendo, di fatto, la fonte più importante per Plinio, molto probabilmente non per lettura diretta, ma tramite uno o più intermediari (uno di questi potrebbe essere Marco Terenzio Varrone (116 – 27 a.C.), più vecchio di Plinio di poco meno di un secolo).
Comunque siano andate le cose, Valérie Naas opera una complessiva rivisitazione degli aneddoti pliniani, cominciando, giustamente, dal liberarsi del problema se riflettano o meno una qualche verità storica: il fatto che, all’epoca di Plinio, fossero una conoscenza condivisa (molti degli aneddoti greci sono citati anche da Cicerone o da Valerio Massimo) li rende facenti parte del patrimonio culturale a prescindere. Ciò che Naas si domanda, piuttosto, è, in primo luogo, fino a che punto essi possano riflettere tematiche oggetto di vera discussione in ambito artistico, e, in secondo luogo, se quelle tematiche siano coeve a Plinio o vadano invece rintracciate già nei secoli d’oro della civiltà greca. Naas crea un suo repertorio degli aneddoti, li cataloga e, per quanto possibile (perché un solo aneddoto può essere relativo a due o più problematiche), li suddivide per argomento. È così che possiamo renderci conto (pp. 145 e seguenti) che Plinio affronta, in forma d’aneddoto, temi fondamentali come lo statuto dell’artista, la sua capacità di imporsi da autodidatta, il superamento del maestro, la moralità/immoralità di arte e artisti, la riconoscibilità sociale dell’artista in rapporto al pubblico in generale e ai potenti in particolare (da Alessandro Magno in giù), la rivalità fra artisti, l’imitazione della natura come oggetto dell’arte fra ‘vero’ e ‘verosimile’ o ‘ideale’, la ‘potenza delle immagini’ attraverso la loro espressività, l’ ‘inganno degli occhi’, gli espedienti tecnici degli artisti, il prezzo eccessivo delle opere e quant’altro. Naas non manca di ricordare che sul tema degli aneddoti si erano già soffermati Ernst Kris e Otto Kurz, allievi di Julius von Schlosser in un’opera fondamentale, intitolata Die Legende vom Künstler. Ein geschichtlicher e pubblicata nel 1932. In realtà, di quel volume è comparsa una traduzione inglese solo nel 1979, due francesi (rispettivamente nel 1987 e nel 2010), mentre l’edizione italiana risale al 1980 (La leggenda dell’artista: un saggio storico, Torino, Bollati Boringhieri, 1980). Già Kris e Kurz furono in grado di individuare un certo numero di aneddoti pliniani e di studiarne la tematica alla luce di analoghi, brevi esempi diffusi in altre culture (persino in Cina). Ma qui la cosa è diversa, sia in termini quantitativi che qualitativi. Kris e Kurz analizzarono una ventina di casi; Naas ne individua centosessanta (p. 130). Mette inoltre in evidenza come buona parte di essi abbiano un’ambientazione romana (e quindi non derivino da Duride, ma da fonti vicine a Plinio); anche quando siano di origine greca, Plinio tende a renderli ‘romani’, facendoli sempre seguire dall’indicazione di opere greche presenti a Roma. Esattamente come le statue trasferite dalla Grecia nel Foro, anche quella degli aneddoti è un’appropriazione, e non la semplice ripresa imparziale della civiltà greca. L’argomento è, a dir poco, affascinante. Con grande diligenza, Naas costruisce per ogni aneddoto (o gruppi di aneddoti) un duplice contesto: quello greco antico e quello romano, permettendoci di cogliere l’importanza di questa parte dell’enciclopedia pliniana nella sua pienezza.
Una precisazione, a questo punto, si impone: i temi che ho citato sopra informano di sé, in sostanza, tutta la letteratura artistica dall’Umanesimo in poi. Non c’è scrittore che, più o meno consapevolmente, non mancherà di affrontarne almeno uno, e quando non lo farà esplicitamente, è perché li darà per scontati e risolti; non c’è scrittore che, affrontandoli, non farà riferimento a Plinio. Naturalmente non lo farà avendo presente la complessità stratigrafia della Naturalis Historia. Si limiterà a scegliere da un menu i casi che più fanno al caso suo, dagli animali ingannati dall’abilità pittorica dell’artista alla selezione da vari modelli per la ricostruzione della bellezza ideale. In questo senso Plinio è stato incredibilmente influente, ma anche straordinariamente saccheggiato per millenni. Di questo aspetto (cioè sull’influenza di Plinio sul discorso artistico persino medievale e comunque rinascimentale) hanno scritto in tanti. Merito dell’autrice è, invece, aver proposto un libro che cessa di considerare Plinio come un deposito di citazioni e ne esplora l’opera nel contesto dell’epoca, fornendocene un’immagine più complessa, ma senz’altro più consapevole.
NOTE
[1] In realtà il termine ‘aneddoto’ è astorico, avvisa Naas. L’aneddoto comincia a essere chiamato così solo nella modernità. L’autrice studia approfonditamente le parentele degli ‘aneddoti’ pliniani con la tradizione dei ‘paradigma’ greci o degli ‘exempla’ latini.
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