Janis Bell, Stefano Bruzzese, Silvio Leydi, Elisa Ruiz Garcia
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Guido Mazenta’s Plans for the Entry of Gregoria Maximiliana of Austria into Milan (1597)
With an edition of Madrid MS 2908
Wilimngton (Delaware), Vernon Press, 2023
Un manoscritto di
Guido Mazenta
La Biblioteca Nazionale di Spagna a Madrid conserva un
manoscritto (segnato MS 2908) che fino a oggi è stato oggetto di scarsa
attenzione. Si tratta del programma iconografico che nel 1597 il nobile
milanese Guido Mazenta (1561? – 1613) presentò al governatore spagnolo della
città meneghina per l’imminente passaggio in città (e conseguente entrata
trionfale) di Gregoria Massimiliana (1581-1597), cugina dell’imperatore Rodolfo
II (appartenente al ramo austriaco degli Asburgo). Gregoria andava in Spagna e
si accingeva a sposare il principe Filippo (futuro Filippo III), figlio di
Filippo II, re di Spagna. In particolare il manoscritto, di cui viene fornita
qui la prima edizione paleografica, con commento di Elisa Ruiz García,
si concentrava sul progetto dei cinque archi trionfali che avrebbero dovuto
accompagnare l’arciduchessa Gregoria dall’arrivo in città, entrando da Porta
Romana, fino al Duomo. Si tratta di un fascicolo (datato 22 luglio 1597) che
era arricchito di cinque disegni a penna con la rappresentazione degli archi
(solo della loro ‘facciata anteriore’, e non di quella posteriore). Ruiz García (ma
non Janis Bell) ritiene che i disegni, che si discostano in parte rispetto al
programma proposto da Mazenta, non possano essere attribuiti a Guido. Coloro che fino a oggi hanno studiato il manoscritto lo hanno fatto in
maniera superficiale, attribuendolo a due dei tre fratelli più giovani di
Guido, Alessandro o Giovanni Ambrogio. Il fascicolo è firmato da Guido e
stupisce, francamente, che un simile fraintendimento sia stato possibile. Nel suo intervento, la
studiosa spagnola rende conto, da un punto di vista architettonico, dello
stretto rispetto da parte di Guido delle regole degli ordini classici e del loro
programma iconografico, comprensivo di emblemi, allegorie, iscrizioni latine,
secondo una ben nota tradizione erudita che attingeva chiaramente (ma non solo)
da Andrea Alciato e Cesare Ripa. Il successo del Libro
degli Emblemi di Alciato, del resto, fu enorme in tutto il mondo; a ciò si
aggiunga un dato non trascurabile: Alciato era milanese, e quindi ispirarsi ai
suoi dettami era anche aspetto identitario.
Del progetto di Guido non si fece nulla. La giovanissima
Gregoria, dalla salute fragile, morì a settembre. La scomparsa prematura non fu
certo un problema particolare nell’ambito della politica matrimoniale degli
Asburgo d’Austria e di Spagna. Entro la fine dell’anno successivo si decise che
a sposare il futuro Filippo III sarebbe stata la sorella minore di Massimiliana,
ossia l’arciduchessa Margherita d’Austria (1584-1611). Il matrimonio avvenne
per procura a Ferrara nel novembre 1598; peraltro, quando entrò a Milano, la
quattordicenne Margherita non era nemmeno più principessa, ma già regina.
Filippo II, re di Spagna, era infatti morto nel settembre 1598 e il principe
Filippo III era divenuto re. L’ingresso di Margherita, testimoniato da diversi
testi a stampa, fra cui uno dello stesso Guido Mazenta, dovette essere
rimodulato (e con esso il progetto del nobile milanese) tenendo conto delle
mutate circostanze; dei cinque archi progettati nel 1597 due erano dedicati a
Gregoria, e uno a Filippo II. Non si pensi, peraltro, che la cosa abbia
comportato uno stravolgimento complessivo dei piani; gran parte delle
significazioni allegoriche erano in qualche modo ‘neutre’, ossia valide per
essere adottate con riferimento a chiunque. Piuttosto, gli archi divennero
sette, invece di cinque, e le celebrazioni per l’avvenuto matrimonio a distanza
furono accompagnate da quelle, ben più meste, in ricordo del re spagnolo.
Da un manoscritto al contesto: la produzione suntuaria
Fin qui, i fatti. Tuttavia, il punto forte del libro è quello di
partire da un documento per sviluppare un contesto, indagando in più direzioni.
L’ingresso trionfale di Margherita non fu certo il primo che avvenne in città.
Se ne ricordano almeno cinque: quello di Cristina di Danimarca (1534), sposa
dell’ultimo Sforza e nipote di Carlo V; poi fu la volta di Carlo V (1541) e di
Filippo II nel 1548 (all’epoca ancora semplicemente principe); infine
Margherita d’Asburgo (è il caso che stiamo esaminando) e i coniugi Isabella
Clara Eugenia e l’arciduca Alberto d’Asburgo nel 1599, per cui furono riciclati
parte degli apparati effimeri del 1598. Oltre a queste, vi furono diverse altre
occasioni di transiti di Asburgo, puntualmente ricostruite da Silvio Leydi nel
suo saggio, intitolato Asburgo a Milano. Trionfi, feste, tornei, balli e fuochi
artificiati (1549-1599). Leydi, che attinge a piene mani dagli archivi, riesce
a dare un’idea della complessità degli eventi, del numero elevatissimo degli
attori che, a qualsiasi titolo, prendevano parte alla preparazione dei
festeggiamenti e dell’enormità delle spese che bisognava affrontare per
l’occasione. Un altro aspetto fondamentale è che, dai documenti, emerge
pienamente quel tessuto di ‘artisti industriosi e speculativi’ di cui parlò
Paolo Morigia nel Quinto libro della sua Nobiltà di Milano e di cui si è
occupata specificamente Rossana
Sacchi di recente. Abbiamo quindi un’idea più approfondita
della ricchezza delle produzioni suntuarie milanesi, dai cristalli di rocca
alle armature e ai ricami, che costituivano vero e proprio motivo di richiamo,
interesse e committenza soprattutto in ambienti asburgici. Rossana Sacchi,
peraltro, ha scritto la prefazione al presente volume, ricordando quello
che, da un punto di vista urbanistico, fu il risultato più evidente e duraturo
del progetto di Mazenta poi modificato l’anno dopo: la costruzione di Porta
Romana non come arco trionfale effimero, ma in muratura, nuovo ingresso
scenografico permanente alla città. Sacchi mette inoltre in evidenza come gli
ingressi trionfali di fine Cinquecento parlino ormai, e logicamente, un
linguaggio «poco incline a mettere in atto e in scena divinità dell’Olimpo o
leggendarie per privilegiare tematiche storiche, allegoriche ed encomiastiche
inneggianti alle virtù e alla fede cattolica» (p. XVIII).
Milano, L'arco di Porta Romana Fonte: Paolobon140 tramite Wikimedia Commons |
Ma torniamo al saggio di Leydi. L’autore chiarisce che le spese
che uno stato (o, nel caso specifico, il ducato di Milano) doveva sostenere in
situazioni come queste non si limitavano certo all’approntamento degli apparati
effimeri, ma andavano ben al di là, tenendo presente la necessità di far fronte
alle esigenze di centinaia di persone, dal festeggiato al più umile dei
servitori, che seguivano la corte: centinaia, a volte migliaia di persone. È
fuori di dubbio che, in termini macroeconomici, ciò comportava un aumento
dell’indebitamento delle casse statali; il fatto che fossero vuote è dimostrato
da suppliche di pagamento inoltrate non solo da artisti, ma anche da artigiani
‘di alto livello’ ad anni di distanza dalla prestazione dei propri servizi. Un
aspetto che non è chiaro – e non per certo per colpa dell’autore, ma per
assenza di documentazione – è se la prassi degli ingressi trionfali, diffusa in
tutta Italia, si risolvesse in un salasso o in maggiori ricchezze non tanto
per i singoli cittadini (do per scontato che in coincidenza di tali avvenimenti
venissero drenate risorse dal contado alla città), ma proprio per quei
ricamatori, armaioli, lavoratori di cristalli e così via che beneficiavano
degli acquisti dei signori e delle dame di corte. Ho cioè l’impressione che,
per far fronte a debiti pubblici, si facesse più forte il ricorso alla
fiscalità generale (a volte di natura straordinaria) e che questa gravasse
proprio su quelle classi produttive che non erano esenti dal pagamento delle
imposte. Forse è il caso di parlare – ma, ripeto, non mi sembra che esista documentazione
– di ‘redistribuzione del reddito’ a favore dei pochi fortunati che vendevano i
loro prodotti a prezzi elevatissimi e a scapito di tutti gli altri. Su fenomeni
di questo tipo ha scritto (con riferimento al ferrarese) Guido Guerzoni in Apollo e
Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), un libro
che rivaluta l’economia del lusso come forma di sostentamento di una
produzione suntuaria che, dal Novecento in poi, si sarebbe trasformata nel
celebre Made in Italy (una tesi che mi sembra un po’ troppo azzardata).
I Mazenta e l’architettura
L’altro grande filone che scaturisce dalla ricerca è quello
relativo alla figura di Guido Mazenta e, più in generale, della sua famiglia.
Guido, fino a oggi, mi era noto solo in merito alle
memorie leonardiane lasciate dal fratello minore Giovanni Ambrogio
(1565-1635), scritte nell’ambito del progetto di pubblicazione a stampa del
Trattato di pittura di Leonardo, progetto concepito a Roma da Cassiano dal
Pozzo e coronato
solo nel 1651 in Francia. Tornerò più tardi sull’argomento. Janis
Bell e Stefano Bruzzese (quest’ultimo sta per pubblicare una monografia sui
fratelli Mazenta) scrivono due saggi molto densi sull’argomento: intitolati
rispettivamente Guido Antonio Mazenta (c. 1561-1613) e Guido Mazenta,
erudito e architetto “specolativo”. Ora, è fuori di dubbio che Guido non
possa essere messo alla pari con altre figure di spicco del mondo culturale,
collezionistico e artistico milanese, ma probabilmente è grazie a lui e a molti
altri come lui che quelle che oggi chiamiamo ‘eccellenze’ ebbero modo di
emergere. Tutti i quattro figli di Ludovico Mazenta ebbero interessi artistici,
nonostante i loro studi ‘ufficiali’ siano stati altri. Guido, ad esempio, si
laureò in legge. Eppure Girolamo
Borsieri, che nel 1619 pubblicò un Supplemento alla Nobiltà di Milano di
Morigia, elencò qui una serie di nomi di architettici ‘pratici’ a cui se ne
aggiungevano altri chiamati ‘specolativi’ (Bruzzese, p. 44); fra essi compare (e
in posizione di preminenza) Guido Mazenta. Col termine ‘speculativi’ Borsieri
intendeva circoscrivere un gruppo di uomini eruditi, che avevano letto i grandi
trattati architettonici, da Vitruvio in poi, e che su essi si appoggiavano,
oltre che sulla matematica e sulla geometria, per esporre i loro progetti,
senza avere diretta esperienza della pratica di cantiere. Di fatto, è quanto
successe proprio nel caso del manoscritto che stiamo esaminando.
Quasi tutti i fratelli Mazenta, in realtà, ebbero a che fare con
l’architettura. Alessandro, che fece vita ecclesiastica rimanendo a Milano, fu
canonico del Duomo; si occupò lui della realizzazione di uno degli archi
trionfali progettati da Guido, il quinto, ossia quello che doveva coprire
l’incompiuta facciata della cattedrale. Si fece promotore (senza successo) di
una riedizione delle Instructiones
Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae di Carlo Borromeo, uno dei testi
chiave dell’architettura controriformata; seguì per conto di Federico Borromeo
(nel periodo in cui quest’ultimo visse a Roma) l’andamento dei principali
cantieri ecclesiastici della città (Bruzzese, pp. 42 e seguenti). Giovanni
Ambrogio entrò nei barnabiti e fu architetto per conto dell’ordine in molti
centri d’Italia (a Bologna, ad esempio, progettò la chiesa del Santissimo
Salvatore). Più sfuggente la figura di Francesco Ludovico che si consacrò
anch’egli alla vita religiosa ed ebbe fama come «intagliatore di pietre dure,
cristalli e oggetti suntuari» (Bruzzese, p. 42). Appare quindi evidente che
l’avviamento agli studi architettonici sia qualcosa di coltivato in ambito
familiare; Giovanni Ambrogio ricorda che il numero degli architetti e dei
periti che frequentava la casa paterna era elevatissimo. Per molti versi il
palazzo di casa Mazenta appare, nei primi anni Ottanta, il ricettacolo di
architetti, artisti (documentati i rapporti con la famiglia del Lomazzo); del
resto è in questo contesto che si colloca anche la presenza a palazzo, per
motivi di studio, del futuro cardinale Federico Borromeo (nota è la sua
amicizia con Giovanni Ambrogio).
Milano, Palazzo Mazenta in una stampa del 1745 Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Milano,_Palazzo_Mazenta_01.jpeg |
Che Guido si considerasse architetto speculativo appare evidente
in una polemica del 1589 nei confronti di Martino Bassi (che invece era senza
dubbio architetto ‘pratico’) in merito alla cupola della chiesa di San Lorenzo.
In tale circostanza Mazenta si schierò apertamente contro il progetto di
rifacimento della cupola presentato dal Bassi, viziata da scarsa fedeltà ai
precetti classici dell’architettura (Bell, pp. 14 e seguenti). Da ricordare
che, per via della presenza delle cosiddette Colonne di San Lorenzo, la
basilica era considerata il luogo simbolo della Milano di epoca romana, e che
non era concepibile, quindi, a detta di Guido, allontanarsi proprio lì dal
‘canone’ vitruviano. Lo stesso progetto relativo agli apparati effimeri per
l’ingresso di Gregoria Maximiliana mirava chiaramente «a trasformare la città
in un teatro alla romana» (Bell, p. 16). La consuetudine di Guido con
l’architettura è peraltro testimoniata dalla sua ricca biblioteca, di cui fu
steso inventario nel 1608. Bruzzese lo trascrive per intero (pp. 57-71): vi
troviamo due versioni di Vtiruvio, Leon Battista Alberti, i libri di Serlio e
Palladio, trattati di architettura militare, ma anche i Dispareri di
architettura di quel Martino Bassi che Guido non esitò a attaccare in merito
alla cupola della basilica di San Lorenzo. Mi sembra facile immaginare che, nell’ambito
della querelle sullo stile in cui doveva essere realizzata la facciata del
Duomo, Guido fosse schierato col partito che la voleva ‘alla romana’.
Il 1608
Guido ebbe, di fatto, la
rappresentanza del ramo ‘secolare’ della famiglia (posto che tutti i suoi
fratelli minori si diedero alla vita religiosa). Eppure un fatto infame ne
sconvolse la vita. Un fatto che, fino a oggi, era passato praticamente sotto silenzio. Nel
1608, ufficialmente proponendosi di ‘educarla’, Guido uccise sua moglie, Elena
Rajnoldi, che aveva sposato nel 1589 e da cui aveva avuto due figli maschi,
Ludovico e Faustino. Come diretta conseguenza dell’evento, l’uxoricida scappò e
fu condannato in contumacia all’esilio. Parte integrante della condanna fu la
confisca di tutti i suoi beni e il divieto perpetuo agli eredi di entrare in
possesso di beni mobili o immobili appartenenti al condannato. L’esilio fu
passato a Venezia, dove Guidò morì nel 1613, Ci sono peraltro tracce evidenti
(esposte da Bruzzese) che, comunque, fra 1608 e 1613, l’omicida continuò a
relazionarsi con gli ambienti eruditi vicino a Federico Borromeo (ma non col
cardinale, che, peraltro, esercitò la sua protezione sui figli). Così, assieme
a Girolamo Borsieri e Giovan Battista Galliani, Guido progettò la nascita di
un’Accademia di pittura, scultura e architettura (elemento, quest’ultimo, che
doveva distinguerla dagli esempi fiorentini e romano). Pare, anzi, che per un
tempo brevissimo l’Accademia, chiamata dell’Aurora, sia stato davvero aperta. Sull’Accademia
dell’Aurora scrive Bruzzese: «per qualche tempo è stata aperta, con le sue
“regole” pubblicate e con i primi iscritti, tra i quali sappiamo, ed è un fatto
da tenere in considerazione, che a volerne fare parte erano anche alcuni
gentiluomini che si dilettavano di pittura, come Francesco II D’Adda, colto
collezionista, con la casa confinante a quella dei Mazenta a Milano, e indicato
come protettore dell’operazione. Altro entusiasta sostenitore è Federico
Borromeo, che si era dichiarato disposto, qualora l’istituzione fosse rimasta
in vita, a donare le sue raccolte artistiche, cosa che farà poi per la sua Ambrosiana» (p. 54).
Mazenta collezionista
Tutto sommato, Guido Mazenta non ebbe particolari problemi per via
dell’uxoricidio; molto probabilmente il mantenere dei contatti con ambienti
milanesi stava a testimoniare che sperava anche di essere ‘perdonato’ e di
tornare in città (morì abbastanza giovane, a 52 anni). Occuparsene è però
indispensabile perché la condanna e la confisca dei beni ha inciso con certezza
sulla nostra valutazione del collezionismo dei Mazenta e di Guido in
particolare. Abbiamo visto che l’inventario della biblioteca è proprio del
1608. Il giudice, infatti, in vista o subito dopo la confisca lo fece
realizzare perché vi era il serio pericolo che i beni mobili fossero stati o
fossero in pericolo di essere ceduti fra parenti e amici clandestinamente. È
fuori di dubbio che, a palazzo Mazenta, a parte la biblioteca, si trovò ben poco
(mancavano pure i mobili).
Janis Bell segnala in merito che un inventario di un erede
Mazenta, datato 1672, comprende circa 200 dipinti; mentre il numero delle opere
è espressione di una larga pratica collezionistica familiare, la medesima è
stata attribuita ai fratelli minori di Guido, e ai suoi figli. In realtà, è
molto probabile – e l’autrice è molto convincente su questo – che si tratti di
dipinti raccolti da Guido (se non addirittura da suo padre) e occultati presso
terzi per poi riapparire a decenni di distanza: «come collezionista, Guido è
finito nel cono d’ombra del suo illustre amico Federico Borromeo» (Bell, p. 20),
ma è comunque possibile ricavare da documenti sparsi che anche il nobile
uxoricida avesse una raccolta tutt’altro che disprezzabili, con riguardo
soprattutto a documenti relativi a Leonardo e a opere di leonardeschi. Dei
dipinti sappiamo pochissimo; siamo certi che erano di sua proprietà una Madonna
con Bambino di Tiziano, la famosissima Natura morta con pesche di Ambrogio
Figino e un Arcangelo Michele del Cerano; Bell aggiunge, con buona certezza, un
Cristo che consegna le chiavi a san Pietro di fronte alla Fede, alla Speranza e
alla Carità, all’epoca dato a Bellini e oggi a Vincenzo Catena (conservato al
Prado). Una cosa appare certa: le opere presenti nell’inventario del 1672
appartenevano già, per buona parte, a Guido.
Ambrogio Figino, Natura morta con pesche, collezione privata Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/f/figino/peaches.html |
In questo contesto si pone – inutile girarci attorno – il problema
dei manoscritti di Leonardo che appartenevano a Guido. Nelle già citate Memorie
di Giovanni Ambrogio non si fa, ovviamente, nessun riferimento all’uxoricidio
compiuto dal fratello e men che meno alla confisca dei beni. La versione di
Giovanni è che egli entrò in possesso di tredici manoscritti di Leonardo a
Pisa; erano stati portati a Firenze nel 1587 da Lelio Gavardi, incaricato dagli
eredi Melzi di venderli ai Medici, senza fortuna alcuna. Di ritorno da Pisa
Giovanni sarebbe tornato dai Melzi per restituirli; i legittimi proprietari li
avrebbero rifiutati, regalandoglieli. A questo punto Giovanni li avrebbe dati a
Guido. Quest’ultimo ne avrebbe venduti sette a Pompeo Leoni; dei sei restanti
tre sarebbero stati donati, rispettivamente, a Federico Borromeo, ad Ambrogio
Figino e a Carlo Emanuele di Savoia. Gli ultimi tre sarebbero finiti ancora una
volta a Leoni in circostanze a Giovanni non note, dopo la morte di Guido.
Almeno questa circostanza è falsa: Leoni morì nel 1608, Guido nel 1613. I
manoscritti Leoni furono poi comprati da Galeazzo Arconati e ceduti alla sua
morte all’Ambrosiana. Si pone il problema se, almeno in parte, i manoscritti
non siano stati ceduti a terzi prima della confisca dei beni; a questo
proposito non si può non segnalare che gli Arconati erano vicini di casa dei Mazenta
e che, naturalmente, si conoscevano bene. Non è detto, insomma, che i tre manoscritti di cui ho parlato per ultimi siano stati comprati da Pompeo Leoni. Arconati potrebbe averli acquisiti da casa Mazenta, occultandoli alla confisca dei beni. Una cosa è chiara: la riscoperta
dell’uxoricidio di Guido obbligherà a ristudiare i vari passaggi dei
manoscritti (oggi all'Institut de France in seguito alle requisizioni napoleoniche,
tranne il Codice Atlantico). Abbiamo perso quattro secoli per il tentativo
(riuscito) di salvare l’onore di un assassino.
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