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sabato 13 gennaio 2024

Designed to Impress. Guido Mazenta’s Plans for the Entry of Gregoria Maximiliana of Austria into Milan (1597)

 

Janis Bell, Stefano Bruzzese, Silvio Leydi, Elisa Ruiz Garcia
Designed to Impress
Guido Mazenta’s Plans for the Entry of Gregoria Maximiliana of Austria into Milan (1597)
With an edition of Madrid MS 2908


Wilimngton (Delaware), Vernon Press, 2023

Recensione di Giovanni Mazzaferro



Un  manoscritto di Guido Mazenta

La Biblioteca Nazionale di Spagna a Madrid conserva un manoscritto (segnato MS 2908) che fino a oggi è stato oggetto di scarsa attenzione. Si tratta del programma iconografico che nel 1597 il nobile milanese Guido Mazenta (1561? – 1613) presentò al governatore spagnolo della città meneghina per l’imminente passaggio in città (e conseguente entrata trionfale) di Gregoria Massimiliana (1581-1597), cugina dell’imperatore Rodolfo II (appartenente al ramo austriaco degli Asburgo). Gregoria andava in Spagna e si accingeva a sposare il principe Filippo (futuro Filippo III), figlio di Filippo II, re di Spagna. In particolare il manoscritto, di cui viene fornita qui la prima edizione paleografica, con commento di Elisa Ruiz García, si concentrava sul progetto dei cinque archi trionfali che avrebbero dovuto accompagnare l’arciduchessa Gregoria dall’arrivo in città, entrando da Porta Romana, fino al Duomo. Si tratta di un fascicolo (datato 22 luglio 1597) che era arricchito di cinque disegni a penna con la rappresentazione degli archi (solo della loro ‘facciata anteriore’, e non di quella posteriore). Ruiz García (ma non Janis Bell) ritiene che i disegni, che si discostano in parte rispetto al programma proposto da Mazenta, non possano essere attribuiti a Guido. Coloro che fino a oggi hanno studiato il manoscritto lo hanno fatto in maniera superficiale, attribuendolo a due dei tre fratelli più giovani di Guido, Alessandro o Giovanni Ambrogio. Il fascicolo è firmato da Guido e stupisce, francamente, che un simile fraintendimento sia stato possibile. Nel suo intervento, la studiosa spagnola rende conto, da un punto di vista architettonico, dello stretto rispetto da parte di Guido delle regole degli ordini classici e del loro programma iconografico, comprensivo di emblemi, allegorie, iscrizioni latine, secondo una ben nota tradizione erudita che attingeva chiaramente (ma non solo) da Andrea Alciato e Cesare Ripa. Il successo del Libro degli Emblemi di Alciato, del resto, fu enorme in tutto il mondo; a ciò si aggiunga un dato non trascurabile: Alciato era milanese, e quindi ispirarsi ai suoi dettami era anche aspetto identitario.

Del progetto di Guido non si fece nulla. La giovanissima Gregoria, dalla salute fragile, morì a settembre. La scomparsa prematura non fu certo un problema particolare nell’ambito della politica matrimoniale degli Asburgo d’Austria e di Spagna. Entro la fine dell’anno successivo si decise che a sposare il futuro Filippo III sarebbe stata la sorella minore di Massimiliana, ossia l’arciduchessa Margherita d’Austria (1584-1611). Il matrimonio avvenne per procura a Ferrara nel novembre 1598; peraltro, quando entrò a Milano, la quattordicenne Margherita non era nemmeno più principessa, ma già regina. Filippo II, re di Spagna, era infatti morto nel settembre 1598 e il principe Filippo III era divenuto re. L’ingresso di Margherita, testimoniato da diversi testi a stampa, fra cui uno dello stesso Guido Mazenta, dovette essere rimodulato (e con esso il progetto del nobile milanese) tenendo conto delle mutate circostanze; dei cinque archi progettati nel 1597 due erano dedicati a Gregoria, e uno a Filippo II. Non si pensi, peraltro, che la cosa abbia comportato uno stravolgimento complessivo dei piani; gran parte delle significazioni allegoriche erano in qualche modo ‘neutre’, ossia valide per essere adottate con riferimento a chiunque. Piuttosto, gli archi divennero sette, invece di cinque, e le celebrazioni per l’avvenuto matrimonio a distanza furono accompagnate da quelle, ben più meste, in ricordo del re spagnolo.


Da un manoscritto al contesto: la produzione suntuaria

Fin qui, i fatti. Tuttavia, il punto forte del libro è quello di partire da un documento per sviluppare un contesto, indagando in più direzioni. L’ingresso trionfale di Margherita non fu certo il primo che avvenne in città. Se ne ricordano almeno cinque: quello di Cristina di Danimarca (1534), sposa dell’ultimo Sforza e nipote di Carlo V; poi fu la volta di Carlo V (1541) e di Filippo II nel 1548 (all’epoca ancora semplicemente principe); infine Margherita d’Asburgo (è il caso che stiamo esaminando) e i coniugi Isabella Clara Eugenia e l’arciduca Alberto d’Asburgo nel 1599, per cui furono riciclati parte degli apparati effimeri del 1598. Oltre a queste, vi furono diverse altre occasioni di transiti di Asburgo, puntualmente ricostruite da Silvio Leydi nel suo saggio, intitolato Asburgo a Milano. Trionfi, feste, tornei, balli e fuochi artificiati (1549-1599). Leydi, che attinge a piene mani dagli archivi, riesce a dare un’idea della complessità degli eventi, del numero elevatissimo degli attori che, a qualsiasi titolo, prendevano parte alla preparazione dei festeggiamenti e dell’enormità delle spese che bisognava affrontare per l’occasione. Un altro aspetto fondamentale è che, dai documenti, emerge pienamente quel tessuto di ‘artisti industriosi e speculativi’ di cui parlò Paolo Morigia nel Quinto libro della sua Nobiltà di Milano e di cui si è occupata specificamente Rossana Sacchi di recente. Abbiamo quindi un’idea più approfondita della ricchezza delle produzioni suntuarie milanesi, dai cristalli di rocca alle armature e ai ricami, che costituivano vero e proprio motivo di richiamo, interesse e committenza soprattutto in ambienti asburgici. Rossana Sacchi, peraltro, ha scritto la prefazione al presente volume, ricordando quello che, da un punto di vista urbanistico, fu il risultato più evidente e duraturo del progetto di Mazenta poi modificato l’anno dopo: la costruzione di Porta Romana non come arco trionfale effimero, ma in muratura, nuovo ingresso scenografico permanente alla città. Sacchi mette inoltre in evidenza come gli ingressi trionfali di fine Cinquecento parlino ormai, e logicamente, un linguaggio «poco incline a mettere in atto e in scena divinità dell’Olimpo o leggendarie per privilegiare tematiche storiche, allegoriche ed encomiastiche inneggianti alle virtù e alla fede cattolica» (p. XVIII).

Milano, L'arco di Porta Romana
Fonte: Paolobon140 tramite Wikimedia Commons


Ma torniamo al saggio di Leydi. L’autore chiarisce che le spese che uno stato (o, nel caso specifico, il ducato di Milano) doveva sostenere in situazioni come queste non si limitavano certo all’approntamento degli apparati effimeri, ma andavano ben al di là, tenendo presente la necessità di far fronte alle esigenze di centinaia di persone, dal festeggiato al più umile dei servitori, che seguivano la corte: centinaia, a volte migliaia di persone. È fuori di dubbio che, in termini macroeconomici, ciò comportava un aumento dell’indebitamento delle casse statali; il fatto che fossero vuote è dimostrato da suppliche di pagamento inoltrate non solo da artisti, ma anche da artigiani ‘di alto livello’ ad anni di distanza dalla prestazione dei propri servizi. Un aspetto che non è chiaro – e non per certo per colpa dell’autore, ma per assenza di documentazione – è se la prassi degli ingressi trionfali, diffusa in tutta Italia, si risolvesse in un salasso o in maggiori ricchezze non tanto per i singoli cittadini (do per scontato che in coincidenza di tali avvenimenti venissero drenate risorse dal contado alla città), ma proprio per quei ricamatori, armaioli, lavoratori di cristalli e così via che beneficiavano degli acquisti dei signori e delle dame di corte. Ho cioè l’impressione che, per far fronte a debiti pubblici, si facesse più forte il ricorso alla fiscalità generale (a volte di natura straordinaria) e che questa gravasse proprio su quelle classi produttive che non erano esenti dal pagamento delle imposte. Forse è il caso di parlare – ma, ripeto, non mi sembra che esista documentazione – di ‘redistribuzione del reddito’ a favore dei pochi fortunati che vendevano i loro prodotti a prezzi elevatissimi e a scapito di tutti gli altri. Su fenomeni di questo tipo ha scritto (con riferimento al ferrarese) Guido Guerzoni in Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), un libro che rivaluta l’economia del lusso come forma di sostentamento di una produzione suntuaria che, dal Novecento in poi, si sarebbe trasformata nel celebre Made in Italy (una tesi che mi sembra un po’ troppo azzardata).

 

I Mazenta e l’architettura

L’altro grande filone che scaturisce dalla ricerca è quello relativo alla figura di Guido Mazenta e, più in generale, della sua famiglia. Guido, fino a oggi, mi era noto solo in merito alle memorie leonardiane lasciate dal fratello minore Giovanni Ambrogio (1565-1635), scritte nell’ambito del progetto di pubblicazione a stampa del Trattato di pittura di Leonardo, progetto concepito a Roma da Cassiano dal Pozzo e coronato solo nel 1651 in Francia. Tornerò più tardi sull’argomento. Janis Bell e Stefano Bruzzese (quest’ultimo sta per pubblicare una monografia sui fratelli Mazenta) scrivono due saggi molto densi sull’argomento: intitolati rispettivamente Guido Antonio Mazenta (c. 1561-1613) e Guido Mazenta, erudito e architetto “specolativo”. Ora, è fuori di dubbio che Guido non possa essere messo alla pari con altre figure di spicco del mondo culturale, collezionistico e artistico milanese, ma probabilmente è grazie a lui e a molti altri come lui che quelle che oggi chiamiamo ‘eccellenze’ ebbero modo di emergere. Tutti i quattro figli di Ludovico Mazenta ebbero interessi artistici, nonostante i loro studi ‘ufficiali’ siano stati altri. Guido, ad esempio, si laureò in legge. Eppure Girolamo Borsieri, che nel 1619 pubblicò un Supplemento alla Nobiltà di Milano di Morigia, elencò qui una serie di nomi di architettici ‘pratici’ a cui se ne aggiungevano altri chiamati ‘specolativi’ (Bruzzese, p. 44); fra essi compare (e in posizione di preminenza) Guido Mazenta. Col termine ‘speculativi’ Borsieri intendeva circoscrivere un gruppo di uomini eruditi, che avevano letto i grandi trattati architettonici, da Vitruvio in poi, e che su essi si appoggiavano, oltre che sulla matematica e sulla geometria, per esporre i loro progetti, senza avere diretta esperienza della pratica di cantiere. Di fatto, è quanto successe proprio nel caso del manoscritto che stiamo esaminando.

Quasi tutti i fratelli Mazenta, in realtà, ebbero a che fare con l’architettura. Alessandro, che fece vita ecclesiastica rimanendo a Milano, fu canonico del Duomo; si occupò lui della realizzazione di uno degli archi trionfali progettati da Guido, il quinto, ossia quello che doveva coprire l’incompiuta facciata della cattedrale. Si fece promotore (senza successo) di una riedizione delle Instructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae di Carlo Borromeo, uno dei testi chiave dell’architettura controriformata; seguì per conto di Federico Borromeo (nel periodo in cui quest’ultimo visse a Roma) l’andamento dei principali cantieri ecclesiastici della città (Bruzzese, pp. 42 e seguenti). Giovanni Ambrogio entrò nei barnabiti e fu architetto per conto dell’ordine in molti centri d’Italia (a Bologna, ad esempio, progettò la chiesa del Santissimo Salvatore). Più sfuggente la figura di Francesco Ludovico che si consacrò anch’egli alla vita religiosa ed ebbe fama come «intagliatore di pietre dure, cristalli e oggetti suntuari» (Bruzzese, p. 42). Appare quindi evidente che l’avviamento agli studi architettonici sia qualcosa di coltivato in ambito familiare; Giovanni Ambrogio ricorda che il numero degli architetti e dei periti che frequentava la casa paterna era elevatissimo. Per molti versi il palazzo di casa Mazenta appare, nei primi anni Ottanta, il ricettacolo di architetti, artisti (documentati i rapporti con la famiglia del Lomazzo); del resto è in questo contesto che si colloca anche la presenza a palazzo, per motivi di studio, del futuro cardinale Federico Borromeo (nota è la sua amicizia con Giovanni Ambrogio).

Milano, Palazzo Mazenta in una stampa del 1745
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Milano,_Palazzo_Mazenta_01.jpeg


Che Guido si considerasse architetto speculativo appare evidente in una polemica del 1589 nei confronti di Martino Bassi (che invece era senza dubbio architetto ‘pratico’) in merito alla cupola della chiesa di San Lorenzo. In tale circostanza Mazenta si schierò apertamente contro il progetto di rifacimento della cupola presentato dal Bassi, viziata da scarsa fedeltà ai precetti classici dell’architettura (Bell, pp. 14 e seguenti). Da ricordare che, per via della presenza delle cosiddette Colonne di San Lorenzo, la basilica era considerata il luogo simbolo della Milano di epoca romana, e che non era concepibile, quindi, a detta di Guido, allontanarsi proprio lì dal ‘canone’ vitruviano. Lo stesso progetto relativo agli apparati effimeri per l’ingresso di Gregoria Maximiliana mirava chiaramente «a trasformare la città in un teatro alla romana» (Bell, p. 16). La consuetudine di Guido con l’architettura è peraltro testimoniata dalla sua ricca biblioteca, di cui fu steso inventario nel 1608. Bruzzese lo trascrive per intero (pp. 57-71): vi troviamo due versioni di Vtiruvio, Leon Battista Alberti, i libri di Serlio e Palladio, trattati di architettura militare, ma anche i Dispareri di architettura di quel Martino Bassi che Guido non esitò a attaccare in merito alla cupola della basilica di San Lorenzo. Mi sembra facile immaginare che, nell’ambito della querelle sullo stile in cui doveva essere realizzata la facciata del Duomo, Guido fosse schierato col partito che la voleva ‘alla romana’.


Il 1608

Guido ebbe, di fatto, la rappresentanza del ramo ‘secolare’ della famiglia (posto che tutti i suoi fratelli minori si diedero alla vita religiosa). Eppure un fatto infame ne sconvolse la vita. Un fatto che, fino a oggi, era passato praticamente sotto silenzio. Nel 1608, ufficialmente proponendosi di ‘educarla’, Guido uccise sua moglie, Elena Rajnoldi, che aveva sposato nel 1589 e da cui aveva avuto due figli maschi, Ludovico e Faustino. Come diretta conseguenza dell’evento, l’uxoricida scappò e fu condannato in contumacia all’esilio. Parte integrante della condanna fu la confisca di tutti i suoi beni e il divieto perpetuo agli eredi di entrare in possesso di beni mobili o immobili appartenenti al condannato. L’esilio fu passato a Venezia, dove Guidò morì nel 1613, Ci sono peraltro tracce evidenti (esposte da Bruzzese) che, comunque, fra 1608 e 1613, l’omicida continuò a relazionarsi con gli ambienti eruditi vicino a Federico Borromeo (ma non col cardinale, che, peraltro, esercitò la sua protezione sui figli). Così, assieme a Girolamo Borsieri e Giovan Battista Galliani, Guido progettò la nascita di un’Accademia di pittura, scultura e architettura (elemento, quest’ultimo, che doveva distinguerla dagli esempi fiorentini e romano). Pare, anzi, che per un tempo brevissimo l’Accademia, chiamata dell’Aurora, sia stato davvero aperta. Sull’Accademia dell’Aurora scrive Bruzzese: «per qualche tempo è stata aperta, con le sue “regole” pubblicate e con i primi iscritti, tra i quali sappiamo, ed è un fatto da tenere in considerazione, che a volerne fare parte erano anche alcuni gentiluomini che si dilettavano di pittura, come Francesco II D’Adda, colto collezionista, con la casa confinante a quella dei Mazenta a Milano, e indicato come protettore dell’operazione. Altro entusiasta sostenitore è Federico Borromeo, che si era dichiarato disposto, qualora l’istituzione fosse rimasta in vita, a donare le sue raccolte artistiche, cosa che farà poi per la sua Ambrosiana» (p. 54).

 

Mazenta collezionista

Tutto sommato, Guido Mazenta non ebbe particolari problemi per via dell’uxoricidio; molto probabilmente il mantenere dei contatti con ambienti milanesi stava a testimoniare che sperava anche di essere ‘perdonato’ e di tornare in città (morì abbastanza giovane, a 52 anni). Occuparsene è però indispensabile perché la condanna e la confisca dei beni ha inciso con certezza sulla nostra valutazione del collezionismo dei Mazenta e di Guido in particolare. Abbiamo visto che l’inventario della biblioteca è proprio del 1608. Il giudice, infatti, in vista o subito dopo la confisca lo fece realizzare perché vi era il serio pericolo che i beni mobili fossero stati o fossero in pericolo di essere ceduti fra parenti e amici clandestinamente. È fuori di dubbio che, a palazzo Mazenta, a parte la biblioteca, si trovò ben poco (mancavano pure i mobili).

Janis Bell segnala in merito che un inventario di un erede Mazenta, datato 1672, comprende circa 200 dipinti; mentre il numero delle opere è espressione di una larga pratica collezionistica familiare, la medesima è stata attribuita ai fratelli minori di Guido, e ai suoi figli. In realtà, è molto probabile – e l’autrice è molto convincente su questo – che si tratti di dipinti raccolti da Guido (se non addirittura da suo padre) e occultati presso terzi per poi riapparire a decenni di distanza: «come collezionista, Guido è finito nel cono d’ombra del suo illustre amico Federico Borromeo» (Bell, p. 20), ma è comunque possibile ricavare da documenti sparsi che anche il nobile uxoricida avesse una raccolta tutt’altro che disprezzabili, con riguardo soprattutto a documenti relativi a Leonardo e a opere di leonardeschi. Dei dipinti sappiamo pochissimo; siamo certi che erano di sua proprietà una Madonna con Bambino di Tiziano, la famosissima Natura morta con pesche di Ambrogio Figino e un Arcangelo Michele del Cerano; Bell aggiunge, con buona certezza, un Cristo che consegna le chiavi a san Pietro di fronte alla Fede, alla Speranza e alla Carità, all’epoca dato a Bellini e oggi a Vincenzo Catena (conservato al Prado). Una cosa appare certa: le opere presenti nell’inventario del 1672 appartenevano già, per buona parte, a Guido.

Ambrogio Figino, Natura morta con pesche, collezione privata
Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/f/figino/peaches.html


In questo contesto si pone – inutile girarci attorno – il problema dei manoscritti di Leonardo che appartenevano a Guido. Nelle già citate Memorie di Giovanni Ambrogio non si fa, ovviamente, nessun riferimento all’uxoricidio compiuto dal fratello e men che meno alla confisca dei beni. La versione di Giovanni è che egli entrò in possesso di tredici manoscritti di Leonardo a Pisa; erano stati portati a Firenze nel 1587 da Lelio Gavardi, incaricato dagli eredi Melzi di venderli ai Medici, senza fortuna alcuna. Di ritorno da Pisa Giovanni sarebbe tornato dai Melzi per restituirli; i legittimi proprietari li avrebbero rifiutati, regalandoglieli. A questo punto Giovanni li avrebbe dati a Guido. Quest’ultimo ne avrebbe venduti sette a Pompeo Leoni; dei sei restanti tre sarebbero stati donati, rispettivamente, a Federico Borromeo, ad Ambrogio Figino e a Carlo Emanuele di Savoia. Gli ultimi tre sarebbero finiti ancora una volta a Leoni in circostanze a Giovanni non note, dopo la morte di Guido. Almeno questa circostanza è falsa: Leoni morì nel 1608, Guido nel 1613. I manoscritti Leoni furono poi comprati da Galeazzo Arconati e ceduti alla sua morte all’Ambrosiana. Si pone il problema se, almeno in parte, i manoscritti non siano stati ceduti a terzi prima della confisca dei beni; a questo proposito non si può non segnalare che gli Arconati erano vicini di casa dei Mazenta e che, naturalmente, si conoscevano bene. Non è detto, insomma, che i tre manoscritti di cui ho parlato per ultimi siano stati comprati da Pompeo Leoni. Arconati potrebbe averli acquisiti da casa Mazenta, occultandoli alla confisca dei beni. Una cosa è chiara: la riscoperta dell’uxoricidio di Guido obbligherà a ristudiare i vari passaggi dei manoscritti (oggi all'Institut de France in seguito alle requisizioni napoleoniche, tranne il Codice Atlantico). Abbiamo perso quattro secoli per il tentativo (riuscito) di salvare l’onore di un assassino.


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