Anton Maria Zanetti di Alessandro
Storia, contesti e fortuna della Pittura veneziana (1771)
A cura di Paolo Delorenzi, Paolo Pastres, Chiara Piva
Sarzana-Lugano, Agorà & Co, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Sessant’anni fa
Già altre volte mi è capitato di ricordare la sfortunata
esperienza della milanese casa editrice Labor, fondata nel 1934 da Daniele
Ercoli. A metà anni Settanta del secolo scorso l’editore diede vita alla
collana Gli storici della letteratura artistica italiana, a cura di
Angela Ottino Della Chiesa e Bruno Della Chiesa. Obiettivo della serie era la
pubblicazione dei venticinque principali testi della nostra letteratura
artistica in edizione facsimilare, ognuno con un’introduzione e un apparato di
indici moderni che servisse per contestualizzare le opere e per facilitare la
ricerca al loro interno. In realtà, ben presto le Edizioni Labor fallirono;
solo cinque furono i titoli editi nella collana, anche se in molti casi si
riuscì a ‘recuperarne’ molti, soprattutto grazie all’interessamento dell’editoria
bancaria. Nella
brochure che presentava le opere da pubblicare compariva anche il Della
pittura veneziana che nel 1771 era stato pubblicato nella città lagunare da
Anton Maria Zanetti di Alessandro (1706-1778) o il Giovane, così chiamato per
distinguerlo da Anton Maria Zanetti di Girolamo (1680-1767) o il Vecchio, che
era cugino di primo grado del padre del Giovane. A curare l’edizione doveva
essere Francesco Valcanover (1926-2016), o almeno così si legge nella brochure
in questione. Non se ne fece nulla. Il problema è che da allora sino a oggi, nonostante
gli sforzi di singoli storici dell’arte, non è uscita un’edizione commentata
moderna dell’opera, pur essendosi rafforzata la consapevolezza dell’importanza
della fatica zanettiana, se non altro perché Luigi Lanzi, sin dalla prima
edizione della Storia
pittorica (si badi bene: dalla prima edizione, che non comprendeva la
scuola veneziana) aveva esplicitato il debito metodologico della sua opera nei
confronti di quella dello Zanetti: «Ciò ch’egli fa nella sua scuola io l’imito in
tutte le altre d’Italia».
Ben venga, dunque, un volume come il presente, che è l’esito della
giornata di studi tenutasi a Venezia l’1 dicembre 2021, nel centocinquantenario
della pubblicazione dell’opera, nella speranza che presto la mancanza di
un’edizione commentata possa essere colmata. Sono proposti all’attenzione del
lettore sette saggi, che elenco qui di seguito:
- Chiara Piva, Zanetti critico d’arte: dalla Descrizione di tutte le pubbliche pitture a Della pittura veneziana;
- Paolo Delorenzi, Anton Maria Zanetti e il Genio della Pittura;
- Sergio Marinelli, La ragione e la grazia;
- Chiara Gauna, «Accuratezza di disegno, finezza d’intaglio, molteplicità d’ornati»: le Antiche statue greche e romane dei due Anton Maria Zanetti (1740-1743);
- Enrico Lucchese, «Fratelli-siamesi della cultura veneziana»? I due Anton Maria Zanetti;
- Giorgio Marini, «Le stampe parlano agli occhi»: incisione di traduzione e storiografia artistica nel tardo Settecento, tra Zanetti, Milizia e Lanzi;
- Paolo Pastres, Luigi Lanzi di fronte al Della pittura veneziana di Zanetti.
I rapporti fra i due Zanetti
Le direttive d’indagine sono molteplici e proverò a percorrerne alcune, partendo dai rapporti fra Zanetti il Vecchio e il Giovane. Come noto, si trattò di una collaborazione durata a lungo, ma non sempre pacifica. In particolare, Anton Maria il Giovane fu cooptato dal più anziano parente per la redazione del Delle antiche statue greche e romane che nell’antisala della Libreria di San Marco, e in altri luoghi pubblici di Venezia si trovano (1740 e 1743). Dell’opera si occupa, nello specifico,
Antiporta del primo tomo di Delle Antiche Statue Greche e Romane (1740) Fonte: https://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/zanetti1740bd1/0002/image,info |
Chiara Gauna, che
sottolinea come, certamente, il ruolo dei due, nella circostanza, fu di peso
ben diverso. Il Vecchio ne fu il vero promotore e finanziatore, mentre il
Giovane ebbe compiti più defilati, limitati, secondo Chiara Piva, alla
realizzazione delle cornici antichizzanti e dei finalini presenti nel testo. Quella
della Antiche Statue fu un’impresa, in realtà, durata vent’anni,
in cui non mancarono contenziosi legali. In una lettera extragiudiziale
consegnata a un notaio nel 1736 Zanetti il Vecchio rinfacciò al figlio del
cugino l’ingratitudine che gli aveva dimostrato: «Potevo io solo intraprendere
l’assunto, e farne tutta la mia gloria et i vantaggi, giaché tutta mia è
l’invenzione, et il pensiero. […] Ma di tal gloria, e di tal utile ho voluto
elegger voi per compagni, e consorte dell’impresa» (p. 67). È tuttavia da ricordare
(e lo fa Enrico Lucchese) che, nel 1761, Zanetti il Giovane scriveva a un amico,
con riferimento a altra opera dello stesso periodo (i Chiaroscuri): «Per
le stampe a più tinte è vero che in quel libro pubblicato da mio cugino ve ne
sono di mie più di un terzo; ma corrono per fatalità tutte sotto il nome
equivoco di Antonio Maria Zanetti. Io ero allora assai ragazzo; e il buon uomo
ha profittato in ciò, e in altre cose della mia età, e della mia melonaggine,
che alcuna volta eccedeva, ed eccede ancora» (p. 84). Insomma, non sempre si
andò d’amore e d’accordo, tanto che Lucchese parla di metaforica e
psicanalitica ‘uccisione del padre’ da parte di Anton Maria il Giovane nei
confronti del Vecchio, avvenuta, grosso modo, fra il 1750 e il 1760.
L’illustrazione per Zanetti il Giovane
Ciò premesso, è fuori di dubbio che gli Zanetti avessero interessi
comuni. Per quanto riguarda l’incisione è sufficiente ricordare che siamo negli
anni del trionfo della cosiddetta ‘stampa di traduzione’, come segnala Giorgio
Marini. ‘Trionfo’ è forse termine eccessivo; ciò che è senz’altro vero è che i
grandi collezionisti, soprattutto francesi, di fine Sei e inizio Settecento
colgono a pieno l’importanza dei libri illustrati, pur essendo consapevoli che
la realizzazione delle immagini comporta un ‘tradimento’ (o, se si è meno negativi,
una ‘traduzione’) dei dipinti originari. Sono temi su cui si discute nel corso
di tutto il Settecento e che ho trattato a lungo, ad esempio, parlando della
monografia dedicata da Kristel Smentek a Mariette (che
prova un pantografo per arrivare a una riproduzione ‘perfetta’ e asettica degli
originali), o dando conto della scarsa fiducia di Francesco Algarotti (al
contrario di Lanzi) nei confronti della stampa di traduzione (si veda la
recensione al Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma), o,
ancora, prendendo in esame il volume collettaneo La storia
dell’arte illustrata e la stampa di traduzione tra XVIII e XIX secolo.
Il caso di Zanetti il giovane è interessante. La sua
produzione libraria ‘autonoma’ (tralasciando quindi le collaborazioni con il
Vecchio), mi sembra oscillare fra situazioni in cui l’illustrazione ha ruolo
fondamentale (quasi monopolizzante) e altre in cui è importante, ma va letta in
relazione col testo. Nel primo caso possono senz’altro ricadere le Varie
pitture a fresco de’ principali maestri veneziani ora per la prima volta con le
stampe pubblicate (1760) in cui sono riprodotti alcuni degli affreschi
delle facciate veneziane che stavano andando in rovina, come quelli del Fondaco
dei Tedeschi. Nel secondo credo che si possa prendere in considerazione il
corredo iconografico del Della pittura veneziana, come fa Paolo
Delorenzi nella prima parte del suo contributo. Delorenzi dimostra in maniera
inequivoca l’importanza e la coerenza dell’antiporta e delle cinque vignette
poste a capo dei cinque libri che compongono l’opera, come anticipatrici dei
contenuti del libro (pp. 31 e seguenti). Delorenzi, insomma, conduce
un’indagine molto simile, a mio avviso, a quella proposta da
Giovanna Perini Folesani in merito all’apparato illustrativo della Felsina
pittrice, chiarendo che le scelte tipografiche, in Malvasia come in
Zanetti non sono puri abbellimenti, ma rispondono a un codice simbolico per
nulla casuale.
Antiporta del Della pittura veneziana (1771) Fonte: https://archive.org/details/dellapitturavene00zane/page/n5/mode/1up?view=theater |
Questioni lessicali
Sia Delorenzi sia Piva si occupano poi di questioni lessicali all’interno del Della pittura. Delorenzi prende spunto proprio dall’antiporta del volume, in cui in alto a sinistra compare la figura alata di un Genio munito di pennelli, dove il Genio è il talento innato, la predisposizione naturale, non necessariamente universale (c’è chi è più portato per l’invenzione, chi per il disegno etc.). L’autore osserva come il concetto di ‘genio’ transiti dal classicismo romano di Bellori al mondo francese, e in particolare a Roger de Piles. E proprio l’influenza francese (a cui si è già accennato in merito all’incisione) appare evidente in Zanetti il Giovane. Qui bisogna aprire una parentesi: il Nostro fu autore nel 1733 (quindi a ventisette anni) di una Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia e isole circonvicine, che sin dal titolo si poneva come rinnovazione delle Ricche minere di Marco Boschini, colla aggiunta di tutte le opere che uscirono dal 1674 fino al presente 1733. Quasi quarant’anni separano quest’opera dal Della pittura veneziana.
Fonte: https://books.google.it/books?id=yHvVPgAACAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false |
Ed è appunto prendendo in
considerazione questo lunghissimo intervallo che Delorenzi evidenzia la
moltiplicazione della frequenza del lemma ‘genio’ nel pensiero zanettiano. Si
passa da due a novanta occorrenze, con un terzo dei casi che si presenta (come
ovvio, visto l’argomento) a commento del capitolo dedicato ai grandi pittori
veneziani del Cinquecento: «Dell’avviso, come de Piles, che le potenzialità
delle doti innate potessero svilupparsi al massimo grado unicamente per il
mezzo dello studio, Zanetti arrivò a proclamare l’esistenza di una sorta di
nume tutelare della nazione, il «Genio della Veneziana Pittura», assegnandogli,
all’interno del volume, il posto d’onore» (p. 47).
Di aspetti lessicali si occupa anche Chiara Piva, operando un
analogo confronto cronologico e mostrando come il linguaggio di Zanetti
dimostri un suo sostanziale aggiornamento in merito al dibattito artistico
(anche qui con chiare influenze francesi): ecco quindi (e non a caso, visti i
tempi) imporsi il termine ‘ragione’ a «definire una qualità dell’intelletto che
può trasparire nella pittura» o il ricorso più frequente a espressioni
(connotate positivamente) di ‘verità’, ‘facilità’, ‘felicità’. Al contrario
termini prettamente boschiniani
come ‘pittoresco’ assumono valenza negativa, mentre la
categoria di ‘decoro’ in pratica scompare, a testimonianza di una sensibilità
che va cambiando nel tempo.
Ricche minere e Descrizione di tutte le
pubbliche pitture
Si è detto che Zanetti propose la sua Descrizione del 1733
come ‘rinnovazione’ delle Ricche minere di Boschini (1674); non solo:
secondo una prassi abbastanza comune all’epoca, l’opera fu stampata in forma
anonima. Tuttavia Piva ritiene (a ragione) che sia sbagliato parlare di una
nuova edizione della guida boschiniana: «La Descrizione, infatti,
proprio dietro la dicitura introdotta nel frontespizio, nasconde piuttosto un
cambiamento consapevole di obiettivi e di prospettiva, che registra un
coraggioso mutamento metodologico nella critica d’arte ancora in divenire a
quelle date» (p. 5). Semplificando al massimo, potremmo dire che, mentre
Boschini parla al ‘forestiere’, Zanetti si rivolge a un pubblico di dilettanti.
Ancora una volta si sente l’eco delle tesi di De Piles (su questo tema si veda
nel blog la recensione a I savi e
gli ignoranti. Dialogo del pubblico con l’arte (XVI-XVIII secolo)), che
allarga la platea dei lettori a conoscitori e amatori. Non a caso, nel 1760,
presentando le Varie pitture a fresco, Zanetti si definì orgogliosamente
un ‘dilettante’. Anche in Italia, del resto, «la questione del pubblico come
attore del dibattito sull’arte diventerà nella seconda metà del secolo un tema
progressivamente sempre più ricorrente, di crescente importanza, così come
dimostrano, tra gli altri, lo scritto di Francesco Algarotti Dell’importanza
del giudizio del pubblico, nel suo Saggio sopra la pittura del 1764,
oppure alcuni decenni più tardi le parole di Luigi Lanzi, sempre pronto ad
intercettare, sintetizzare e rilanciare le questioni critiche più rilevanti
provenienti dal dibattito precedente» (p. 8).
Della pittura veneziana
Della pittura veneziana esce nel 1771. Non è una guida, ma
persegue uno scopo storiografico, e tuttavia lo fa uscendo dal consueto schema
dei medaglioni biografici e organizzando la narrazione per periodi, che
corrispondono ai cinque ‘libri’ che la compongono. Si va dal Trecento (e di
nuovo rimando all’articolo di Delorenzi per cogliere la corrispondenza fra
‘contenuto’ e significato simbolico di ogni testatina premessa ai capitoli) fino
al Cinquecento (libro secondo) con i grandi maestri come Tiziano, Tintoretto,
Veronese e Jacopo Bassano. Da qui si passa ai loro discepoli e imitatori (un
concetto, quello relativo alla differenza fra ‘discepoli’ e ‘imitatori’ che
sarà caro anche a Lanzi) nel libro terzo; nel quarto Zanetti affronta il
tema della decadenza, a partire da inizio Seicento, che corrisponde al periodo
dello stile ‘umile e tenebroso’ per poi passare al quinto libro con la
rinascita che sfocia in Tiepolo. A proposito della pittura ‘tenebrosa’, Piva
chiarisce: «nonostante questi pittori si allontanassero dal suo gusto, è da
osservare come Zanetti non rinunci a trattare gli artisti del Seicento e in
diversi casi ne rilevi gli aspetti positivi» (p. 19). È un tema che tocca anche
Sergio Marinelli nel suo contributo. Il suo giudizio sull’autore è più che
positivo: «Il linguaggio di Zanetti ha sempre un’indubbia valenza estetica, si
esprime al livello del sublime e del gentile insieme, allo stesso tempo con una
qualità letteraria non inferiore a quella dei grandi critici d’arte figurativa
italiana del passato, da Vasari a Malvasia» (p. 50).
Marinelli apprezza le intuizioni tutt’altro che banali (o conformiste) di
Zanetti su figure ‘minori’ come quella di Federico Bencovich (p. 54), o
l’acutezza con cui allude alla pratica deformativa nei quadri di Canaletto (p.
57). In generale apprezza molto la sua dote di essere garbato anche nelle
critiche, tendendo sempre a mettere più in evidenza gli aspetti positivi
rispetto ai punti di debolezza.
Zanetti, la dimensione pubblica e museale
Nel 1737, quindi ancora molto giovane, Zanetti fu nominato custode
della Biblioteca Marciana, mantenendo l’incarico per tutta la vita [1].
Personalmente mi piacerebbe capire quanto questo compito gli fece maturare
l’idea di una dimensione ‘pubblica’ del patrimonio, in cui, ad esempio, ricade
già la pubblicazione delle Varie pitture a fresco (1760); allo stesso
modo e, con molta cautela, si può provare a ricondurre alla dimensione
dell’interesse pubblico anche la redazione del Della pittura veneta, in
cui, non a caso, Zanetti si concentra quasi esclusivamente sulle opere visibili
nei pubblici palazzi e nelle chiese lagunari [2]. Certamente non a caso, due
anni dopo la pubblicazione del Della pittura veneziana, Zanetti fu
nominato ispettore alle pubbliche pitture dal Consiglio dei dieci, col compito
di realizzare la mappatura dei beni attinenti al ‘pubblico’ e di proporre
eventuali restauri di quelli più in pericolo. Piva ricorda che in quel
documento, conservato oggi alla Marciana, «tra gli artisti sottoposti al
vincolo statale Zanetti enumera (..) di frequente anche i pittori del periodo
che poco apprezza come critico, ma che evidentemente considera degni di essere
conservati e protetti dal rischio di manomissione» (p. 20). Come noto, il
successore di Zanetti, dopo la sua morte, fu Pietro
Edwards, la cui fama di restauratore non ha certo bisogno di
presentazioni. Le idee di Zanetti e di Edwards sul restauro certamente non
coincidevano (essendo di fatto Zanetti contrario a qualsiasi forma di
intervento). In sostanza coincidente, invece, la visione storica dei due in
merito alla pittura veneziana, tant’è che, durante il periodo napoleonico, nel
1806, Edwards, convinto di stare
lavorando per la creazione di una pinacoteca veneta e non per selezionare
quadri da mandare in Francia o a Brera, scriveva, a proposito della futura,
agognata, galleria di arte veneta da aprirsi in laguna: «Entrar dovranno per
necessità anche quelle produzioni rimotissime, che si riferiscono ai primi
albori delle rinascenti belle arti; opere che non si curerebbero se non
dall’antiquario; ma che poste in serie, e facendo parte di questo grande
complesso, acquisterebbero un sommo valore; ancorché fossero le misere
tavolette di Mastro Teofane, il primo che dopo il 1100 aprisse scuola di
pittura in Venezia». È inutile dire che il progetto ricalcava, pari pari, la
scansione cronologica del Della pittura veneziana di Zanetti.
Zanetti il giovane e Lanzi
Si è cominciata questa recensione ricordando il debito esplicito
che Luigi Lanzi, nella sua Storia pittorica, riconobbe al Della
pittura veneziana. Paolo Pastres torna sull’argomento; Lanzi non fu certo
il primo a citare l’opera di Zanetti (in ordine cronologico si possono
ricordare Luigi Crespi nella Certosa di Bologna, Pierre-Jean Mariette, Guglielmo
Della Valle e, in ambito veneto, Verci, Tassi e Brandolese); certo sembra
essere stato il primo a utilizzarlo non solo per le informazioni che presentava
nel suo libro, ma per l’approccio metodologico, che offriva una visione storiografica
svincolata dalle biografie dei singoli e più attenta agli sviluppi stilistici:
una storia della pittura, più che dei pittori, che Lanzi declinò, se possibile,
in maniera ancora più evidente, ricorrendo a una narrazione continua delle
epoche, senza separazioni formali fra autori, che erano presenti in Zanetti. Entrambi,
poi, furono ispirati da una medesima attenzione nei confronti del pubblico,
connotando le loro opere come ‘libri tascabili’ (nel caso di Lanzi il fenomeno
è più evidente per quanto riguarda la prima edizione) che potessero essere di
utilità ad amatori e dilettanti per la formazione di un giudizio sulle opere e
il riconoscimento degli autori. Nel caso specifico della scuola veneziana,
peraltro, Pastres ribadisce che appare francamente sbagliato ritenere la
sezione lanziana «una riscrittura in bello stile di quanto pubblicato nel 1771»
(p. 119). Differenze significative si colgono nella parte prima, dedicata ai
‘primitivi’, ed è fuori discussione che su questo aspetto pesi la rinnovata
attenzione generale nei confronti della pittura ‘medievale’, che aveva portato
in vent’anni a importanti acquisizioni. Al di là dell’aspetto quantitativo,
tuttavia, va rimarcato il ruolo senz’altro più importante attribuito da Lanzi a
Giovanni Bellini, che diviene un caposcuola anticipatore di Giorgione; e non
possono essere taciuti, con riferimento a epoche diverse, i diversi giudizi su
Tintoretto e, soprattutto, su Tiepolo (a cui Lanzi preferiva Sebastiano Ricci).
Insomma, pur nel quadro di una sostanziale somiglianza nell’approccio
metodologico, Zanetti e Lanzi mostrano differenti sensibilità che non
consentono di parlare del secondo come semplice ‘ricompilatore’ degli scritti
del primo.
NOTE
[1] Per le notizie biografiche, si veda Chiara Piva in Dizionario
biografico degli italiani, ad vocem, volume 100, 2020.
[2] La cautela è obbligatoria perché anche Malvasia, ad esempio,
nelle Pitture di
Bologna aveva operato in maniera analoga (e siamo nel 1686). Esisteva,
cioè, un sentire abbastanza comune in base al quale occuparsi del patrimonio
nobiliare privato era considerato poco elegante (quasi si volessero
‘monetizzare’ i beni di una famiglia e paragonarli a quelli di un’altra).
[3] Si veda Giovanni Mazzaferro, Le Belle Arti a Venezia nei
manoscritti di Pietro e Giovanni Edwards, Firenze, GoWare, 2015, p. 146.
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