Pagine

lunedì 4 dicembre 2023

Dilettanti del disegno nell’Italia del Seicento. Padre Resta tra Malvasia e Magnavacca. A cura di Simonetta Prosperi Valenti Rodinò


Dilettanti del disegno nell’Italia del Seicento
Padre Resta tra Malvasia e Magnavacca
A cura di Simonetta Prosperi Valenti Rodinò


Roma, Campisano Editore, 2013

Recensione di Giovanni Mazzaferro




«Una vita ordinata ad furia di disordine»

In una lettera indirizzata al bolognese Paris Maria Boschi, Padre Sebastiano Resta (1635-1714), erudito e collezionista milanese trapiantato a Roma, descrive la sua vita intellettuale come «una vita ordinata ad furia di disordine» (p. 193). Credo che si tratti di una definizione perfetta per un uomo che, da un lato stupisce e dall’altro mantiene sempre un aspetto sfuggente. Molto ho scritto sul padre oratoriano in questo blog: rimando alle recensioni a Luca Pezzuto, Padre Resta e il Viceregno. Per una storia della pittura del primo Cinquecento a Napoli, alle Notizie di pittura raccolte dal padre Resta. Il carteggio con Giuseppe Ghezzi e altri corrispondenti (curate da Maria Rosa Pizzoni), a Le postille di padre Sebastiano Resta ai due esemplari delle Vite di Giorgio Vasari nella Biblioteca Apostolica Vaticana (seguite da Barbara Agosti e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, con trascrizione e commento di Maria Rosa Pizzoni) e, infine, a Le postille di padre Resta alle Vite del Baglione, a cura di Barbara Agosti, Francesco Grisolia e Maria Rosa Pizzoni. Molto ho scritto perché molto si è scritto. Oggetto di accuse di ciarlataneria nel corso dell’Ottocento, visto con sospetto praticamente per tutto il secolo successivo, Sebastiano Resta e le sue capacità di conoscitore (specie in ambito di disegni) hanno indubbiamente conosciuto grande successo negli ultimi decenni, e meritatamente. Senonché, in Resta, - è inutile negarlo – ordine e disordine, coerenza e contraddizioni coesistono in maniera strettissima; è senza dubbio vero che il suo grande progetto fu la redazione di una storia dell’arte per immagini, partendo dai ‘primi pensieri’ degli artisti, ma non possiamo certo pretendere di essere di fronte a un’enciclopedista. Gli album di disegni di cui più volte ho parlato non facevano parte di un progetto complessivo, ma erano messi insieme e venduti secondo criteri abbastanza estemporanei. Resta partiva da un’idea base (ad esempio, come vedremo qui, l’allestimento di un album dedicato alla pittura emiliana) e metteva assieme quello che già aveva o riusciva a procurarsi in tempi non eccessivamente dilatati dai suoi corrispondenti, secondo criteri che non sempre erano privi di contraddizioni. D’altra parte non si può negare che il metodo di porre a confronto fra loro disegni di scuole diverse per operare direttamente confronti stilistici sia molto acuto (al di là della correttezza delle attribuzioni) e anticipatore di una connoisseurship che lo farà proprio secoli dopo.

Resta, insomma, è tutto questo e lo è anche in questo volume, che cronologicamente precede la pubblicazione dei quattro che ho già recensito, ma che sono andato a recuperare perché affronta un tema molto interessante, ossia quello del rapporto fra il religioso e erudito e Carlo Cesare Malvasia (1616-1693), autore della Felsina pittrice (1678); più in generale fra Resta e gli ambienti collezionistici e mercantili bolognesi di fine Seicento e inizio Settecento, fra cui compaiono nomi poco noti ai profani, come quello di Giuseppe Magnavacca (1639-1724), pittore di scarso talento, interessato all’antiquaria, mercante, amico e probabilmente tramite nei rapporti fra Resta e Malvasia.

Il tema è affrontato in una serie di saggi che elenco qui di seguito:

  • Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Resta e Malvasia: un dimenticato episodio della polemica antivasariana nel Seicento;
  • Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Resta e la Felsina vindicata contra Vasarium;
  • Maria Rosa Pizzoni, Resta e Magnavacca, conoscitori e collezionisti tra Roma e Bologna;
  • Giulia Bonardi, Resta e i disegni dell’antica scuola lombarda.

 

Resta e Malvasia

Carlo Maratti, Caricatura di padre Sebastiano Resta, Chatsworth, collezione Devonshire
Fonte: https://www.padrerestaproject.eu/


Sebastiano Resta e Carlo Cesare Malvasia si conobbero, nonostante la differenza d'età (Malvasia aveva 19 anni più dell'oratoriano). Su questo non c’è dubbio. C’è rimasta, ad esempio, una lettera di Malvasia a Sebastiano datata 26 marzo 1687, in cui i toni sono colloquiali e lasciano presagire una frequentazione ben precedente. Può darsi che si siano incontrati a Roma, quando il bolognese vi soggiornò a lungo, o a Bologna, nel corso di uno degli spostamenti (non frequentissimi, ma comunque periodici) di Resta fra la natia Milano e Roma; lo stesso oratoriano, anni dopo, ricordò di essere andato a trovare l’anziano Malvasia a Bologna nel corso di un suo viaggio nel 1691. Non sappiamo, piuttosto, se il milanese fu di qualche ausilio al bolognese nella raccolta dei suoi materiali per la Felsina pittrice. L’opera fu edita nel 1678, mentre la lettera sopra richiamata è del 1687. Tuttavia Prosperi Valenti Rodinò elenca alcuni indizi che portano a ritenere che vi sia stato un contributo, soprattutto sulla scuola milanese, che Sebastiano conosceva bene.

Quello che è certo è che Sebastiano, accanito divoratore (e postillatore) di letteratura artistica conoscesse bene la Felsina e l’avesse letta (almeno in buona parte). 

Frontespizio del primo tomo della Felsina pittrice
Fonte: https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=gri.ark:/13960/t3126w15h&seq=8

La fama di un’opera come quella del Malvasia e tutte le polemiche che ne conseguirono non poterono certo sfuggire a un uomo che viveva a Roma e conosceva quanto meno Bellori, uno dei (silenti) protagonisti della ben nota querelle che si accese in quegli anni in merito alla Felsina. La lettura dell’opera è, del resto, certificata da un esemplare della Felsina che è oggi custodito presso la biblioteca degli Uffizi a Firenze e che reca una serie di postille dell’oratoriano. Possediamo molte opere postillate da Padre Resta, da due esemplari delle Vite torrentiniane alle Vite del Baglione; la Felsina non fa eccezione (e mi stupirei se Sebastiano non avesse postillato anche le Vite di Bellori). L’esemplare è stato rintracciato solo nel 2012, ma le annotazioni restiane ci erano già note perché Giovanni Antonio Armano (1751 – post 1823), erudito veneziano, le aveva già trascritte in un fascicolo che oggi è conservato presso la Yale University. Prosperi Valenti Rodinò le riesamina, cadendo – se non sono stato cattivo lettore – in qualche contraddizione cronologica: dapprima scrive che «è presumibile che il filippino le abbia scritte subito dopo l’uscita del volume nel 1678» (p. 23); poi si corregge e segnala che la maggior parte di esse vanno circoscritte fra 1698 e 1701, fermo restando che l’indicazione esplicita di altri anni dimostra come, in realtà, l’opera sia stata annotata di continuo fino alla vecchiaia di Resta (p. 24). A ogni modo, l’analisi delle annotazioni è esemplare. L’autrice ricorda che «le postille di Resta alla Felsina non rappresentano davvero il primo o il più significativo tra i numerosi episodi di reazione al Vasari esplosi nel Seicento in Italia – dal Mancini al Ridolfi, al Boschini, al Soprani sino al Baldinucci – ma esse sono la prova di quanto il filippino tenesse conto delle informazioni fornite dal Malvasia nel suo testo, come del suo giudizio critico sulle opere» (p. 23).

 

La Felsina vindicata 

Il legame con Malvasia è testimoniato dall’allestimento da parte di Resta di un volume di disegni intitolato eloquentemente Felsina vindicata contra Vasarium. Si tratta di un progetto avviato attorno al 1698 e concluso un paio di anni dopo. L’acquirente di questo, come di molti altri volumi, fu Giovanni Matteo Marchetti, vescovo di Arezzo, che morì nel 1704 senza averlo pagato. Questo il motivo per cui gli eredi restituirono l’album a Resta, che lo rivendette in Inghilterra. Il destino degli album restiani (o, almeno, della maggior parte di essi) è noto: entrarono in possesso di Lord Somers, in Inghilterra, che a sua volta, ben presto, morì. A questo punto i libri furono sciolti e i disegni furono venduti separatamente all’asta nel maggio 1717. Prima dell’asta, tuttavia, Jonathan Richardson senior (o chi per lui) copiò tutte le note che comparivano sotto i disegni, brevi o lunghe che esse fossero, registrando anche la sequenza dei fogli, soggetti e autori e dei disegni (naturalmente, con le attribuzioni dell’epoca). 


Jonathan Richardson senior, Autoritratto, 1729, Londra, National Portrait Gallery
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jonathan_Richardson_by_Jonathan_Richardson.jpg


La trascrizione delle annotazioni è oggi conservata nel ms. Lansdowne 802 presso la British Library (p. 47). Il manoscritto è ovviamente importantissimo, perché permette non solo di farsi un’idea di come dovevano apparire i singoli codici, ma anche di cercare di rintracciare i disegni. Nel caso della Felsina vindicata, ad esempio, sappiamo che il libro era composto da 80 pagine per complessivi 110 disegni, di cui solo 40, al momento della pubblicazione di questo volume, erano stati identificati. Prosperi Valenti Rodinò, naturalmente, offre la trascrizione delle note dal ms. Lansdowne 802 (pp. 175-188) e ricostruisce virtualmente il catalogo, prendendo in considerazione i disegni uno a uno e ricostruendo gli studi a essi dedicati.


Una pubblicazione d' 'occasione' o il tassello di un progetto complessivo?

Barbara Agosti ha fatto notare, con acume, che il progetto della Felsina vindicata nasce nel 1698, ossia quando Malvasia era morto, e «sembra dettato soprattutto da recenti e cogenti ragioni di mercato, in primis la dispersione di celebri raccolte grafiche quali quella dello stesso Bellori o quella di Lelio Orsini, cariche di fogli carracceschi, avvenuta dopo la morte dei rispettivi proprietari, con la loro acquisizione da parte di Resta» [1]. Simonetta Prosperi Valenti Rodinò sembra più propensa a ricondurre l’allestimento del libro alla volontà restiana di compilare una storia dell’arte ‘per scuole’, e, in quest’ambito, di dedicare un focus particolare su quella emiliana, che Vasari aveva colpevolmente tralasciato e sminuito. Non per questo tace di prese di distanza del filippino dall’impianto di Malvasia, come vedremo.


La 'Felsina travisata'?

Lo spirito ‘antivasariano’ del testo è chiaro sin dal titolo del volume. La vera domanda, semmai, è fino a che punto Resta (che a detta della curatrice non fu un grande teorico, ma un uomo pragmatico) colse il vero spirito della Felsina o lo alterò in qualche modo. Una cosa è certa: si può condannare Vasari, ma non se ne può fare a meno. È il caso di Resta (come di Malvasia) che, appunto, non solo lo cita nel titolo, ma apre il suo libro con un disegno dell’aretino e con una lunga nota che comincia così:

«Il Vasario nelle sue Vite de Pittori si può dire Speculativo, e questo tomo si potrà dire Vasario prattico e sarà un Vasario Bolognese, che è molto congiunto alla Lombardia, delle quali il Vasario parlò con disistimatione» (p. 175). In tre righe Vasari è citato quattro volte, Malvasia nessuna. Cosa vuole dire ‘Vasario speculativo’ e ‘Vasario prattico’? A me non è del tutto chiaro. In linea di massima, tuttavia, suppongo che stia a indicare non tanto che le Vite erano un libro a tesi (quella della rinascita delle arti per merito dei toscani e della supremazia degli artisti originari di quella regione), ma soprattutto che erano un’opera senza immagini (mmagini delle opere; sappiamo benissimo che vi erano i ritratti degli artisti, ma questo è un altro discorso). Proponendo un libro di disegni, con postille esplicative, Resta puntava – come già detto – a una storia dell’arte per immagini, in cui uno degli elementi fondamentali era anche il confronto fra scuole diverse. Così il motivo per cui il libro si apre con un disegno di Vasari è specificato poco più in là: «non deve il Vasario sprezzare i Bolognesi, mentre per valenthuomo, ch’ei sia, si vederà qui da buon Giudice non potere resistere questo suo Frontespizio, benché disegno de suoi più compiti, al Tibaldi da Bologna. Hor veniamo alle prove d’Apologia sia fatta da gl’occhi vostri non dalla mia lingua» (p. 176). Ecco, quindi, la Felsina vindicata, che è un ‘Vasario prattico’ e non ‘speculativo’, in quanto si regge sui disegni. Una considerazione va fatta subito: un ‘Vasario prattico’ e non un ‘Malvasia prattico’. Perché? Perché Malvasia era poco noto? Non credo. L’unica risposta che so darmi è che anche Malvasia, pur sostenendo tesi diverse da Vasari, agli occhi dell’oratoriano era ‘teorico’, ossia aveva approntato un libro senza immagini.

Se si scoglie questo scarto, si colgono altre differenze fra Malvasia e Resta che, onestamente, mi pare che Valenti Prosperi Rodinò abbia un po' sottovalutato (pur dichiarando una certa indipendenza del filippino dal testo del bolognese). Innanzi tutto, nella scansione delle età della scuola bolognese le epoche non corrispondono: nella Felsina del bolognese abbiamo il periodo dei primitivi, la maniera ‘moderna’, aperta da Francesco Francia, l’età dei Carracci e, infine, la ‘nuova maniera moderna’ riconducibile al Reni. Resta dispone i suoi disegni rifacendosi a un titolo riassuntivo che recita: «Felsina / in Aureo Saeculo / Argenta / in Argenteo Aurea» (Bologna, argentea nel secolo d’oro – il Cinquecento - e aurea nel secolo d’argento – il Seicento -). Il che dimostra una cosa: almeno nel caso della Felsina vindicata (non è così in altri suoi libri) la storia comincia nel Cinquecento, con Francesco Francia. Ciò che è successo prima, non conta. È verissimo che le ragioni per un’affermazione di questo tipo possono essere soprattutto pratiche: difficile, quasi impossibile, procurarsi disegni dei primitivi emiliani (o presunti tali), ma in realtà appare chiaro che Resta è molto più vicino a una visione di sviluppo storico vasariano che malvasiano: uno sviluppo che procede per ‘traumi’ e non in continuità: la morte dell’arte nei secoli bui, la rinascita per merito di Cimabue e Giotto, la diffusione nelle altre aree italiane in seguito alle opere di questi artefici sono tesi che in sostanza sono accettate. La differenza sta in quello che succede ‘dopo’, ossia nel non saper cogliere, da parte vasariana, la ricchezza delle declinazioni geografiche del fare artistico. Il vituperato Vasari, insomma, mi pare molto più vicino a Resta, per impianto storiografico, di quanto non sia Malvasia. O, se preferite, il Malvasia ‘teorico’ non è pienamente recepito da Resta, che non a caso – si badi bene – comincia a citarlo nella Felsina vindicata solo al disegno 5 e facendo riferimento ad elementi fattuali proposti dall’erudito bolognese (la conoscenza reciproca fra Francia e Raffaello).


L'organizzazione della Felsina vindicata

Ci sarebbero mille altre cose da dire. Ma forse è più importante approfondire quale sia l’impianto complessivo della Felsina vindicata: la storia ‘pratica’ di Resta deve comunque essere organizzata in qualche maniera, e lo è facendo riferimento a tre diverse fasi: la «Prima Scola di Bologna nel Secolo d’Oro», che parte con Francia e raduna i raffaelleschi, le «Seconde Scuole Bolognesi» (perché sono più di una), comunque riconducibili a Michelangelo, e la «Terza Scola Aurea in Secolo d’Argento», dai Carracci in poi (fino a Guercino). Ma l’aspetto più evidente è l’incapacità di riuscire a delineare i caratteri degli artisti bolognesi senza fare riferimento a artisti terzi. Non è un caso che il libro si concluda con una nota di questo tipo: «Et ecco Felsina vindicata da gl’aggravij del Vasario: non per Vittoria di Eloquenza ma d’opere [n.d.r. raccolte da Resta, che agisce da Vasari – e non Malvasia – pratico]. La prima e la Seconda Scola nelle maniere moderne fiorirono sotto la scorta di Raffaele e di M. Angelo sino ad essere Bologna Argentea nel Secolo Aureo; così la Terza fondata sul gusto del Correggio, giunse alla gloria d’essere Aurea nel Secolo Argenteo, merce il Trionfo de Procaccini e piu de Carracci sopra i loro Contemporanei et in Italia e fuori d’Italia.» (p. 188).

In sostanza, almeno qui, Resta funziona quando è ‘pratico’ (e proto-conoscitore) sino in fondo, e porta ad esempio all’inserimento di un disegno di Taddeo Zuccari a scopo comparativo coi bolognesi, per mostrare quale fosse «lo stile regnante di quei tempi in Roma, e che stile portò il suo fratello Federico Zuccari in Spagna superato dal Pelegrino [n.d.r. Tibaldi] che vi successe» (p. 181). Inizia a zoppicare, invece, quando ci si sposta su un piano storiografico e teorico, in cui, peraltro, l’oratoriano dimostra di essere molto più vicino a un Bellori che a un Malvasia. È così, ad esempio, che, fra i Carracci, a giocare il ruolo principale è Annibale e non Ludovico, esattamente l'opposto di quanto sostenga Malvasia nella Felsina pittrice; e, sempre per Ludovico, non si accetta che fosse andato a Roma solo in tarda età (tesi del bolognese), ma ben prima, a studiare Raffaello e le antiche statue.

La Felsina vindicata di Padre Resta, insomma, non è, per molti aspetti, la Felsina pittrice di Malvasia, ma un’opera ‘pratica’ (qualunque sia il giudizio sulle attribuzioni ai disegni) che si mostra aperta allo studio dei maestri emiliani, in virtù del loro vicinato con quelli lombardi, Correggio in primis, ma è comunque declinata secondo i canoni del classicismo belloriano. Che ne avrebbe pensato Malvasia? Probabilmente non ne sarebbe stato entusiasta.

 

NOTE

[1] Le postille di Padre Resta alle Vite del Baglione, p. 32.

Nessun commento:

Posta un commento