Dilettanti del disegno nell’Italia del Seicento
Padre Resta tra Malvasia e Magnavacca
A cura di Simonetta Prosperi Valenti Rodinò
Roma, Campisano Editore, 2013
Recensione di Giovanni Mazzaferro
«Una vita ordinata ad furia di
disordine»
In una lettera indirizzata al
bolognese Paris Maria Boschi, Padre Sebastiano Resta (1635-1714), erudito e
collezionista milanese trapiantato a Roma, descrive la sua vita intellettuale
come «una
vita ordinata ad furia di disordine» (p. 193). Credo che si tratti di una
definizione perfetta per un uomo che, da un lato stupisce e dall’altro mantiene
sempre un aspetto sfuggente. Molto ho scritto sul padre oratoriano in questo
blog: rimando alle recensioni a Luca Pezzuto, Padre
Resta e il Viceregno. Per una storia della pittura del primo Cinquecento a
Napoli, alle Notizie
di pittura raccolte dal padre Resta. Il carteggio con Giuseppe Ghezzi e altri
corrispondenti (curate da Maria Rosa Pizzoni), a Le
postille di padre Sebastiano Resta ai due esemplari delle Vite di Giorgio
Vasari nella Biblioteca Apostolica Vaticana (seguite da Barbara Agosti
e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, con trascrizione e commento di Maria Rosa
Pizzoni) e, infine, a Le
postille di padre Resta alle Vite del Baglione, a cura di Barbara
Agosti, Francesco Grisolia e Maria Rosa Pizzoni. Molto ho scritto perché molto
si è scritto. Oggetto di accuse di ciarlataneria nel corso dell’Ottocento, visto
con sospetto praticamente per tutto il secolo successivo, Sebastiano Resta e le
sue capacità di conoscitore (specie in ambito di disegni) hanno indubbiamente
conosciuto grande successo negli ultimi decenni, e meritatamente. Senonché, in
Resta, - è inutile negarlo – ordine e disordine, coerenza e contraddizioni
coesistono in maniera strettissima; è senza dubbio vero che il suo grande
progetto fu la redazione di una storia dell’arte per immagini, partendo dai
‘primi pensieri’ degli artisti, ma non possiamo certo pretendere di essere di
fronte a un’enciclopedista. Gli album di disegni di cui più volte ho parlato
non facevano parte di un progetto complessivo, ma erano messi insieme e venduti
secondo criteri abbastanza estemporanei. Resta partiva da un’idea base (ad
esempio, come vedremo qui, l’allestimento di un album dedicato alla pittura
emiliana) e metteva assieme quello che già aveva o riusciva a procurarsi in
tempi non eccessivamente dilatati dai suoi corrispondenti, secondo criteri che
non sempre erano privi di contraddizioni. D’altra parte non si può negare che
il metodo di porre a confronto fra loro disegni di scuole diverse per operare
direttamente confronti stilistici sia molto acuto (al di là della correttezza
delle attribuzioni) e anticipatore di una connoisseurship che lo farà
proprio secoli dopo.
Resta, insomma, è tutto questo e
lo è anche in questo volume, che cronologicamente precede la pubblicazione dei
quattro che ho già recensito, ma che sono andato a recuperare perché affronta
un tema molto interessante, ossia quello del rapporto fra il religioso e
erudito e Carlo Cesare Malvasia (1616-1693), autore della Felsina
pittrice (1678); più in generale fra Resta e gli ambienti
collezionistici e mercantili bolognesi di fine Seicento e inizio Settecento,
fra cui compaiono nomi poco noti ai profani, come quello di Giuseppe Magnavacca
(1639-1724), pittore di scarso talento, interessato all’antiquaria, mercante,
amico e probabilmente tramite nei rapporti fra Resta e Malvasia.
Il tema è affrontato in una serie
di saggi che elenco qui di seguito:
- Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Resta e Malvasia: un dimenticato episodio della polemica antivasariana nel Seicento;
- Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Resta e la Felsina vindicata contra Vasarium;
- Maria Rosa Pizzoni, Resta e Magnavacca, conoscitori e collezionisti tra Roma e Bologna;
- Giulia Bonardi, Resta e i disegni dell’antica scuola lombarda.
Resta e Malvasia
Carlo Maratti, Caricatura di padre Sebastiano Resta, Chatsworth, collezione Devonshire Fonte: https://www.padrerestaproject.eu/ |
Sebastiano Resta e Carlo Cesare
Malvasia si conobbero, nonostante la differenza d'età (Malvasia aveva 19 anni più dell'oratoriano). Su questo non c’è dubbio. C’è rimasta, ad esempio, una
lettera di Malvasia a Sebastiano datata 26 marzo 1687, in cui i toni sono
colloquiali e lasciano presagire una frequentazione ben precedente. Può darsi
che si siano incontrati a Roma, quando il bolognese vi soggiornò a lungo, o a
Bologna, nel corso di uno degli spostamenti (non frequentissimi, ma comunque periodici)
di Resta fra la natia Milano e Roma; lo stesso oratoriano, anni dopo, ricordò
di essere andato a trovare l’anziano Malvasia a Bologna nel corso di un suo viaggio
nel 1691. Non sappiamo, piuttosto, se il milanese fu di qualche ausilio al
bolognese nella raccolta dei suoi materiali per la Felsina pittrice.
L’opera fu edita nel 1678, mentre la lettera sopra richiamata è del 1687.
Tuttavia Prosperi Valenti Rodinò elenca alcuni indizi che portano a ritenere
che vi sia stato un contributo, soprattutto sulla scuola milanese, che
Sebastiano conosceva bene.
Quello che è certo è che Sebastiano, accanito divoratore (e postillatore) di letteratura artistica conoscesse bene la Felsina e l’avesse letta (almeno in buona parte).
Frontespizio del primo tomo della Felsina pittrice Fonte: https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=gri.ark:/13960/t3126w15h&seq=8 |
La fama di un’opera come quella del Malvasia e tutte le polemiche che ne conseguirono non poterono certo sfuggire a un uomo che viveva a Roma e conosceva quanto meno Bellori, uno dei (silenti) protagonisti della ben nota querelle che si accese in quegli anni in merito alla Felsina. La lettura dell’opera è, del resto, certificata da un esemplare della Felsina che è oggi custodito presso la biblioteca degli Uffizi a Firenze e che reca una serie di postille dell’oratoriano. Possediamo molte opere postillate da Padre Resta, da due esemplari delle Vite torrentiniane alle Vite del Baglione; la Felsina non fa eccezione (e mi stupirei se Sebastiano non avesse postillato anche le Vite di Bellori). L’esemplare è stato rintracciato solo nel 2012, ma le annotazioni restiane ci erano già note perché Giovanni Antonio Armano (1751 – post 1823), erudito veneziano, le aveva già trascritte in un fascicolo che oggi è conservato presso la Yale University. Prosperi Valenti Rodinò le riesamina, cadendo – se non sono stato cattivo lettore – in qualche contraddizione cronologica: dapprima scrive che «è presumibile che il filippino le abbia scritte subito dopo l’uscita del volume nel 1678» (p. 23); poi si corregge e segnala che la maggior parte di esse vanno circoscritte fra 1698 e 1701, fermo restando che l’indicazione esplicita di altri anni dimostra come, in realtà, l’opera sia stata annotata di continuo fino alla vecchiaia di Resta (p. 24). A ogni modo, l’analisi delle annotazioni è esemplare. L’autrice ricorda che «le postille di Resta alla Felsina non rappresentano davvero il primo o il più significativo tra i numerosi episodi di reazione al Vasari esplosi nel Seicento in Italia – dal Mancini al Ridolfi, al Boschini, al Soprani sino al Baldinucci – ma esse sono la prova di quanto il filippino tenesse conto delle informazioni fornite dal Malvasia nel suo testo, come del suo giudizio critico sulle opere» (p. 23).
La Felsina vindicata
Il legame con Malvasia è testimoniato dall’allestimento da parte di Resta di un volume di disegni intitolato eloquentemente Felsina vindicata contra Vasarium. Si tratta di un progetto avviato attorno al 1698 e concluso un paio di anni dopo. L’acquirente di questo, come di molti altri volumi, fu Giovanni Matteo Marchetti, vescovo di Arezzo, che morì nel 1704 senza averlo pagato. Questo il motivo per cui gli eredi restituirono l’album a Resta, che lo rivendette in Inghilterra. Il destino degli album restiani (o, almeno, della maggior parte di essi) è noto: entrarono in possesso di Lord Somers, in Inghilterra, che a sua volta, ben presto, morì. A questo punto i libri furono sciolti e i disegni furono venduti separatamente all’asta nel maggio 1717. Prima dell’asta, tuttavia, Jonathan Richardson senior (o chi per lui) copiò tutte le note che comparivano sotto i disegni, brevi o lunghe che esse fossero, registrando anche la sequenza dei fogli, soggetti e autori e dei disegni (naturalmente, con le attribuzioni dell’epoca).
Jonathan Richardson senior, Autoritratto, 1729, Londra, National Portrait Gallery Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jonathan_Richardson_by_Jonathan_Richardson.jpg |
La trascrizione delle annotazioni è oggi conservata nel ms.
Lansdowne 802 presso la British Library (p. 47). Il manoscritto è ovviamente
importantissimo, perché permette non solo di farsi un’idea di come dovevano
apparire i singoli codici, ma anche di cercare di rintracciare i disegni. Nel
caso della Felsina vindicata, ad esempio, sappiamo che il libro era
composto da 80 pagine per complessivi 110 disegni, di cui solo 40, al momento
della pubblicazione di questo volume, erano stati identificati. Prosperi
Valenti Rodinò, naturalmente, offre la trascrizione delle note dal ms. Lansdowne
802 (pp. 175-188) e ricostruisce virtualmente il catalogo, prendendo in
considerazione i disegni uno a uno e ricostruendo gli studi a essi dedicati.
Una pubblicazione d' 'occasione' o il tassello di un progetto complessivo?
Barbara Agosti ha fatto notare,
con acume, che il progetto della Felsina vindicata nasce nel 1698, ossia
quando Malvasia era morto, e «sembra dettato soprattutto da recenti
e cogenti ragioni di mercato, in primis la dispersione di celebri raccolte
grafiche quali quella dello stesso Bellori o quella di Lelio Orsini, cariche di
fogli carracceschi, avvenuta dopo la morte dei rispettivi proprietari, con la
loro acquisizione da parte di Resta» [1]. Simonetta Prosperi Valenti
Rodinò sembra più propensa a ricondurre l’allestimento del libro alla volontà
restiana di compilare una storia dell’arte ‘per scuole’, e, in quest’ambito, di
dedicare un focus particolare su quella emiliana, che Vasari aveva
colpevolmente tralasciato e sminuito. Non per questo tace di prese di distanza
del filippino dall’impianto di Malvasia, come vedremo.
La 'Felsina travisata'?
Lo spirito ‘antivasariano’ del
testo è chiaro sin dal titolo del volume. La vera domanda, semmai, è fino a che
punto Resta (che a detta della curatrice non fu un grande teorico, ma un uomo
pragmatico) colse il vero spirito della Felsina o lo alterò in qualche
modo. Una cosa è certa: si può condannare Vasari, ma non se ne può fare a meno.
È
il caso di Resta (come di Malvasia) che, appunto, non solo lo cita nel titolo,
ma apre il suo libro con un disegno dell’aretino e con una lunga nota che
comincia così:
«Il Vasario nelle sue Vite de
Pittori si può dire Speculativo, e questo tomo si potrà dire Vasario prattico e
sarà un Vasario Bolognese, che è molto congiunto alla Lombardia, delle quali il
Vasario parlò con disistimatione» (p. 175). In tre righe Vasari è
citato quattro volte, Malvasia nessuna. Cosa vuole dire ‘Vasario speculativo’ e
‘Vasario prattico’? A me non è del tutto chiaro. In linea di massima, tuttavia,
suppongo che stia a indicare non tanto che le Vite erano un libro a tesi
(quella della rinascita delle arti per merito dei toscani e della supremazia
degli artisti originari di quella regione), ma soprattutto che erano un’opera
senza immagini (mmagini delle opere; sappiamo benissimo che vi erano i ritratti degli artisti, ma questo è un altro discorso). Proponendo un libro di disegni, con postille esplicative, Resta
puntava – come già detto – a una storia dell’arte per immagini, in cui uno
degli elementi fondamentali era anche il confronto fra scuole diverse. Così il
motivo per cui il libro si apre con un disegno di Vasari è specificato poco più
in là: «non
deve il Vasario sprezzare i Bolognesi, mentre per valenthuomo, ch’ei sia, si
vederà qui da buon Giudice non potere resistere questo suo Frontespizio, benché
disegno de suoi più compiti, al Tibaldi da Bologna. Hor veniamo alle prove
d’Apologia sia fatta da gl’occhi vostri non dalla mia lingua»
(p. 176). Ecco, quindi, la Felsina vindicata, che è un ‘Vasario
prattico’ e non ‘speculativo’, in quanto si regge sui disegni. Una
considerazione va fatta subito: un ‘Vasario prattico’ e non un ‘Malvasia
prattico’. Perché? Perché Malvasia era poco noto? Non credo. L’unica risposta
che so darmi è che anche Malvasia, pur sostenendo tesi diverse da Vasari, agli
occhi dell’oratoriano era ‘teorico’, ossia aveva approntato un libro senza
immagini.
Se si scoglie questo scarto, si
colgono altre differenze fra Malvasia e Resta che, onestamente, mi pare che
Valenti Prosperi Rodinò abbia un po' sottovalutato (pur dichiarando una certa indipendenza
del filippino dal testo del bolognese). Innanzi tutto, nella scansione delle
età della scuola bolognese le epoche non corrispondono: nella Felsina del
bolognese abbiamo il periodo dei primitivi, la maniera ‘moderna’, aperta da
Francesco Francia, l’età dei Carracci e, infine, la ‘nuova maniera moderna’
riconducibile al Reni. Resta dispone i suoi disegni rifacendosi a un titolo
riassuntivo che recita: «Felsina / in Aureo Saeculo / Argenta / in Argenteo Aurea»
(Bologna, argentea nel secolo d’oro – il Cinquecento - e aurea nel secolo
d’argento – il Seicento -). Il che dimostra una cosa: almeno nel caso della Felsina
vindicata (non è così in altri suoi libri) la storia comincia nel
Cinquecento, con Francesco Francia. Ciò che è successo prima, non conta. È
verissimo che le ragioni per un’affermazione di questo tipo possono essere
soprattutto pratiche: difficile, quasi impossibile, procurarsi disegni dei
primitivi emiliani (o presunti tali), ma in realtà appare chiaro che Resta è
molto più vicino a una visione di sviluppo storico vasariano che malvasiano:
uno sviluppo che procede per ‘traumi’ e non in continuità: la morte dell’arte
nei secoli bui, la rinascita per merito di Cimabue e Giotto, la diffusione
nelle altre aree italiane in seguito alle opere di questi artefici sono tesi
che in sostanza sono accettate. La differenza sta in quello che succede ‘dopo’,
ossia nel non saper cogliere, da parte vasariana, la ricchezza delle
declinazioni geografiche del fare artistico. Il vituperato Vasari, insomma, mi
pare molto più vicino a Resta, per impianto storiografico, di quanto non sia
Malvasia. O, se preferite, il Malvasia ‘teorico’ non è pienamente recepito da
Resta, che non a caso – si badi bene – comincia a citarlo nella Felsina
vindicata solo al disegno 5 e facendo riferimento ad elementi fattuali
proposti dall’erudito bolognese (la conoscenza reciproca fra Francia e Raffaello).
L'organizzazione della Felsina vindicata
Ci sarebbero mille altre cose da
dire. Ma forse è più importante approfondire quale sia l’impianto complessivo
della Felsina vindicata: la storia ‘pratica’ di Resta deve comunque
essere organizzata in qualche maniera, e lo è facendo riferimento a tre diverse
fasi: la «Prima
Scola di Bologna nel Secolo d’Oro», che parte con Francia e raduna i
raffaelleschi, le «Seconde Scuole Bolognesi» (perché sono più di una),
comunque riconducibili a Michelangelo, e la «Terza Scola Aurea in Secolo
d’Argento»,
dai Carracci in poi (fino a Guercino). Ma l’aspetto più evidente è l’incapacità
di riuscire a delineare i caratteri degli artisti bolognesi senza fare
riferimento a artisti terzi. Non è un caso che il libro si concluda con una nota di
questo tipo: «Et ecco Felsina vindicata da gl’aggravij del Vasario: non
per Vittoria di Eloquenza ma d’opere [n.d.r. raccolte da Resta, che agisce da
Vasari – e non Malvasia – pratico]. La prima e la Seconda Scola nelle maniere
moderne fiorirono sotto la scorta di Raffaele e di M. Angelo sino ad essere
Bologna Argentea nel Secolo Aureo; così la Terza fondata sul gusto del
Correggio, giunse alla gloria d’essere Aurea nel Secolo Argenteo, merce il
Trionfo de Procaccini e piu de Carracci sopra i loro Contemporanei et in Italia
e fuori d’Italia.» (p. 188).
In sostanza, almeno qui, Resta
funziona quando è ‘pratico’ (e proto-conoscitore) sino in fondo, e porta ad
esempio all’inserimento di un disegno di Taddeo Zuccari a scopo comparativo coi
bolognesi, per mostrare quale fosse «lo stile regnante di quei tempi in
Roma, e che stile portò il suo fratello Federico Zuccari in Spagna superato dal
Pelegrino [n.d.r. Tibaldi] che vi successe» (p. 181). Inizia a zoppicare,
invece, quando ci si sposta su un piano storiografico e teorico, in cui,
peraltro, l’oratoriano dimostra di essere molto più vicino a un Bellori che a
un Malvasia. È così, ad esempio, che, fra i Carracci, a giocare il ruolo
principale è Annibale e non Ludovico, esattamente l'opposto di quanto sostenga Malvasia nella Felsina pittrice;
e, sempre per Ludovico, non si accetta che fosse andato a Roma solo in tarda
età (tesi del bolognese), ma ben prima, a studiare Raffaello e le antiche statue.
La Felsina vindicata di
Padre Resta, insomma, non è, per molti aspetti, la Felsina pittrice di
Malvasia, ma un’opera ‘pratica’ (qualunque sia il giudizio sulle attribuzioni
ai disegni) che si mostra aperta allo studio dei maestri emiliani, in virtù del
loro vicinato con quelli lombardi, Correggio in primis, ma è comunque declinata
secondo i canoni del classicismo belloriano. Che ne avrebbe pensato Malvasia?
Probabilmente non ne sarebbe stato entusiasta.
NOTE
[1] Le postille di Padre Resta alle Vite del Baglione, p. 32.
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