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domenica 26 novembre 2023

Requisizioni napoleoniche: recuperi, dispersioni e musealizzazione tra le Marche e la Lombardia. A cura di Cecilia Prete



Requisizioni napoleoniche:
recuperi, dispersioni e musealizzazione tra le Marche e la Lombardia
A cura di Cecilia Prete

Urbino, Accademia Raffaello 2022

Recensione di Giovanni Mazzaferro



Introduzione

La letteratura sulle vicissitudini del patrimonio artistico italiano (e non solo) in anni napoleonici è sterminata. Sappiamo tutti che la conquista di buona parte dell’Europa da parte francese mise in moto enormi flussi di opere che, in pochi anni, videro cambiare collocazione e proprietari, spesso in maniera irreversibile. Limitatamente a questo blog, possiamo cogliere i presupposti ideologici di questa grande migrazione in opere ‘generali’ come il celeberrimo I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre di Paul Wescher, ascoltare le poche voci in aperto dissidio nelle Lettere a Miranda di Antoine Chrysostome Quatrèmere de Quincy; seguire in diretta la spoliazione del patrimonio nelle Lettere di Gaspard Monge, avere un’idea generale di quanto giunto in Francia  in Opere d’arte prese in Italia nel corso della campagna napoleonica 1796-1814 e riprese da Antonio Canova nel 1815 (con l’avvertenza che in realtà sono oggetto di schedatura solo i dipinti sottoposti a restauro al Louvre). E, ancora, possiamo comprendere che le requisizioni non riguardarono unicamente dipinti e sculture, ma anche libri e manoscritti, come nel caso veneziano, e allargare l’orizzonte ulteriormente seguendo i medesimi fenomeni in Germania nei medesimi anni. Il presente volume, curato da Cecilia Prete, propone una serie di scritti volti ad approfondire le conoscenze su un flusso tutt’altro che ‘secondario’ delle requisizioni, quello che dalle Marche le portò sino a Milano, a Brera. Qui di seguito elenco i contributi presenti nel libro, che costituiscono di fatto gli atti di una giornata di studi dal titolo omonimo tenutasi a Urbino il 21 novembre 2019:

  • Luigi Gallo, Presentazione;
  • Sandra Sicoli, Pinacoteca di Brera: un decennio di allestimenti (1806-1816). Intorno ad alcuni dipinti di pittori marchigiani;
  • Olga Piccolo, La fortuna espositiva delle opere arrivate a Brera in età napoleonica. Una guida alle fonti manoscritte e a stampa;
  • Carlo Bassanini, La Reale Pinacoteca di Brera del 15 luglio 1813: il sogno dimenticato di Andrea Appiani;
  • Anna Cerboni Baiardi, Il ruolo delle guide e dei conoscitori locali nella dispersione del patrimonio artistico: il caso di Pesaro;
  • Valentino Battisti, Le requisizioni: tre opere di Federico Zuccari, tre finali diversi;
  • Bonita Cleri, Una pala di Pierantonio Palmerini e Giacomo di Marco da Pesaro a Fano passando per Milano;
  • Elisa Penserini, Copie, alienazioni, requisizioni: una Madonna del velo da Sassoferrato a Milano;
  • Cecilia Prete, Urbino-Milano andata e ritorno. Alcune considerazioni sui primi dipinti che nel 1817 rientrano a casa.

 

Dalle Marche a Milano (e viceversa)

Per avere un’idea degli aspetti quantitativi del fenomeno delle requisizioni basta dare un’occhiata all’Inventario Napoleonico del museo, che registra rispettivamente l’arrivo di 120, 162, 22, 468, 38 e 4 opere dal 1808 al 1813. Non abbiamo dati in merito agli anni precedenti. Naturalmente non tutti i dipinti provenivano dalle Marche: vi fu un contributo ‘diffuso’ che colpì soprattutto Lombardia, Veneto e, appunto, Marche. I destini di ogni singola opera variano di caso in caso, declinandosi nelle maniere più disparate. Valentina Battisti segnala tre pale d’altare di Federico Zuccari, rispettivamente una pala pesarese (forse un Compianto), una rimossa da Cesena (La discesa di Cristo al Limbo) e la cosiddetta Pala Zuccari in origine nel monastero di Santa Caterina a Sant’Angelo in Vado (paese d’origine dell’artista); tutte e tre furono prelevate fra 1809 e 1811. Della prima opera si è persa ogni traccia; dopo il trasferimento a Brera, fu dirottata all’Ospedale civile della Congregazione della Carità di Desio nel 1820 e da lì è stata smarrita. La Discesa di Cristo al Limbo si trova nei depositi di Brera, mentre la Pala Zuccari è tornata a Sant’Angelo in Vado, ma ora è conservata nel locale Palazzo Comunale. Davvero si tratta, ogni volta, di inseguire le singole opere, senza escludere nulla; altri casi di scuola sono segnalati da Bonita Cleri ed Elisa Penserini. Cleri si occupa di un quadro (Madonna col Bambino incoronata da due angeli tra i santi Andrea e Paolo) prelevato a Pesaro nel 1811, arrivato a Brera, inviato in deposito prima a Greco Milanese e poi a Desio e ora a Fano, attribuito all’epoca al fantomatico artista fanese Pompeo Presciutti e ora a Pierantonio Palmerini e Giacomo di Marco; Penserini si interessa a una copia della Madonna del Velo di Raffaello data al Sassoferrato, ma forse non sua (in quanto copia assai debole), oggi alla quadreria dell’arcivescovado di Milano.

È noto che, nel loro lavoro di selezione delle opere da inviare in Francia prima e a Milano poi, i singoli commissari si avvalsero anche della consultazione di guide artistiche locali, tanto più utili quanto più erano recenti. Anna Cerboni Baiardi si chiede, ad esempio, se il Catalogo delle pitture che si conservano nelle chiese di Pesaro, pubblicato nel 1783 e curato da Antonio Benci, ma con un fattivo contributo del pittore Giannandrea Lazzarini (1710-1801) sia stato decisivo nella scelta di quali dipinti portar via dalla città . È un dato di fatto che (a parte due) tutte le opere pesaresi segnalate come capolavori nella Guida e arricchite da riflessioni di Lazzarini furono asportate dai commissari. Si tratta di un’ipotesi certamente plausibile, anche se è sempre difficile capire fino a che punto vi sia un rapporto causa-effetto e fino a quanto, invece, si debba parlare della condivisione di un gusto. Piuttosto mi piacerebbe sapere (è solo una mia curiosità) se il pittore Francesco Giorgi (1754-1799), che le fonti indicano come ‘collaborazionista’ nell’agevolare l’asportazione del patrimonio fosse parente (il padre? o più probabilmente il nonno) di quel Luigetto Giorgi, rigattiere e mercante di quadri, che molti anni dopo, nel 1858, fece da guida pesarese di Charles Eastlake e Giovan Battista Cavalcaselle, in cerca di quadri per la National Gallery [1] e nel 1862 intavolò con Eastlake le trattative per la vendita dell’Incoronazione della Vergine di Giovanni Bellini, acquisendo il consenso di tutto il comune di Pesaro e fallendo solo per l’intervento ministeriale [2]. La possibile parentela potrebbe lasciar intravvedere la trasmissione nel corso del tempo, di generazione in generazione, di una pratica professionale certo non di grandissimo prestigio, ma comunque gravitante attorno agli ambienti artistici.

Il contributo di Cecilia Prete è di particolare interesse perché si sofferma sulle modalità con cui solo una piccola parte delle opere requisite tornò nelle Marche (nuovamente integrate nello Stato pontificio) dopo la fine degli anni napoleonici. Il rientro fu molto parziale e la scelta di rivendicare il ritorno di determinate opere e non di altre fu legata un po’ all’impreparazione con cui la burocrazia periferica pontificia rispose alle sollecitazioni del governo centrale e molto a questioni di gusto. Se i rientri riguardarono soprattutto Federico Barocci e non la celeberrima Pala del Montefeltro di Piero della Francesca (ma data all’epoca a Fra Carnevale) si trattò, in sostanza, di questioni di scarso interesse nei confronti della pittura dei primitivi. 

Piero della Francesca, Pala Montefeltro, Milano, Pinacoteca di Brera
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Pala_di_Brera#/media/File:Piero_della_Francesca_046.jpg


Va poi detto che, esattamente come successe nel caso dei rientri dalla Francia, si posero all’ordine del giorno esigenze di carattere diplomatico. Le richieste di restituzione venivano infatti inviate non più al governo del Regno d’Italia, ma all’Impero austriaco (quell’impero che, sia detto per inciso, controllava militarmente per conto del Papa parte del suo stesso Stato). La prima richiesta fu inoltrata a Milano nel maggio 1816. Si chiedeva di rispedire in tutto 24 quadri appartenenti allo Stato pontificio (non solo provenienti dalle Marche); si operava peraltro una distinzione fra opere giunte a Milano senza alcun pagamento (ed era fra queste che si andava a selezionare i quadri richiesti) e altre per cui invece era stato effettuato un esborso di denaro, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo fosse stato equo o meno. Fra quei 24 dipinti, le opere marchigiane erano solo cinque, e tutte – come anticipato – di Federico Barocci. Una seconda richiesta di restituzione, avanzata a fine anno, e relativa a altri trenta quadri, in merito ai quali si faceva notare, quasi con deferenza, che la loro perdita non sarebbe stata di alcun danno per la pinacoteca milanese, non fu nemmeno presa in considerazione. Solo per la cronaca si può segnalare che, all’interno di quei trenta, si distingueva già in due classi, di maggior o minor merito, segno evidente che ci si sarebbe accontentati di una restituzione parziale, che non ci fu perché i rapporti di forza erano totalmente sbilanciati.

 

Brera

Cortile della Pinacoteca di Brera
Fonte: Jean-Christophe Benoist tramite Wikimedia Commons


Sandra Sicoli, Olga Piccolo e Carlo Bassanini osservano il flusso dei quadri dalle Marche a Milano nella prospettiva opposta, ossia quella di Brera e lo fanno con saggi estremamente densi, ricchissimi di riferimenti documentari, che mi obbligano per forza di cose, a semplificare. Mi si lasci comunque dire inizialmente che il lavoro di Carlo Bassanini, che, partendo da un inventario del 15 luglio 1813 ricostruisce l’intero allestimento del museo, elencando le singole opere e mostrando la loro collocazione nell’apparato illustrativo, è semplicemente fenomenale. Mi chiedo se non abbia senso proporre sul sito di Brera, al posto di tanti inutili ‘virtual tour’ contemporanei, il viaggio nel museo così come doveva essere nel 1813.

Ciò premesso, gli anni napoleonici di Brera sono, ovviamente, un tourbillon. Nel 1803 nasce la nuova Accademia ‘nazionale’ (in realtà, le Accademie ‘nazionali’ erano due, essendovi anche Bologna); ne è segretario Giuseppe Bossi (1777-1815). Gli anni bossiani sono forieri di una progettualità che, in termini di allestimento, è testimoniata dalla Notizia delle opere del disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano nel maggio dell’anno 1806. Ne risulta una Brera in cui i lavori sono in corso (solo tre dei quattro grandi saloni napoleonici sono completati) e in cui le opere esposte sono appena quarantaquattro, giunte per lo più da soppressioni lombarde. Il progetto del segretario è di natura squisitamente didattica; proviene, cioè, dal mondo dell’Accademia e più che a un pubblico generico è rivolto ai giovani artisti che possano cogliere dagli esempi proposti lo spunto per migliorare le proprie qualità personali: «L’attenzione del segretario – scrive Sandra Sicoli – è incentrata sulla “gioventù studiosa”, sulla relazione fra scuola e museo, secondo una concezione pedagogica tardo settecentesca di matrice illuminista […]. Il modello di museo proposto da Bossi, prima idea di una collezione pubblica a Milano, non prende a prestito l’esempio francese (ben conosciuto dal segretario), ma nasce dall’interno della scuola, dalla necessità di educare, di far conoscere e di valorizzare, senza priorità di generi, il ricco e variegato patrimonio dell’Accademia (interessante è la presentazione di disegni) in continuità e in dialogo con la contemporaneità, con gli artisti. Il passato è strettamente legato alla pratica artistica del presente.» (Sicoli, pp. 38 e 42). Nel gennaio 1807 Giuseppe Bossi dà le dimissioni da segretario dell’Accademia, dedicandosi nei pochi anni a venire (morirà precocemente nel 1815) allo studio di Leonardo, come risulta dalle sue Memorie. L’incremento esponenziale del numero dei quadri provenienti dal Regno implica una revisione dell’allestimento e un modo nuovo di pensare il museo, da un lato espressione della potenza napoleonica, dall’altro luogo di ‘ordinamento’ del patrimonio e, con esso, di riflessione sulle attribuzioni, sulla conservazione e tutela, sull’articolarsi in scuole del patrimonio artistico (e naturalmente una particolare influenza su quest’ultimo aspetto è esercitato dalla Storia pittorica del Lanzi). Brera non è più appendice dell’Accademia, ma Galleria ‘nazionale’, inaugurata (sia pur senza troppe cerimonie) nel 1809.

Il protagonista principale di questa stagione è, probabilmente, Andrea Appiani (1754-1817), se non altro perché è soprattutto lui a visitare i singoli dipartimenti del regno e a decidere cosa debba o non debba finire a Brera. All’inaugurazione del 1809 corrisponde un nuovo allestimento: dei 44 quadri esposti da Bossi ne rimangono 29, ma complessivamente si sale a 139, il che (essendo rimasto identico lo spazio espositivo; la quarta sala napoleonica non è ancora conclusa) dà un’idea di un maggiore affollamento negli spazi della pinacoteca: «Con Andrea Appiani le pareti vengono ricoperte dalle opere arrivando fino al soffitto, con un effetto visivo decisamente spettacolare che è poi quello abituale fino ad allora. I dipinti (…) sono distribuiti in modo simmetrico, allineati su due registri, con corrispondenze formali di dimensioni e per lo più rimandi iconografici (soggetti religiosi, scene di genere, ritratti), ma non secondo un criterio di scuola e di epoca (…), principio che pur gli era stato richiesto (…). Ma il commissario ha altre idee, altre preferenze. Lo svolgimento cronologico non lo interessa, come pure il raggruppamento per scuole e privilegia, invece, in un ordinamento di sapore eclettico, i nomi di alcuni maestri che, da soli, avrebbero assicurato il prestigio della galleria nazionale e che vengono quindi collocati, nel rispetto del “bilanciamento”, nella fila più bassa» (Sicoli, pp. 59-60). Quello di Appiani è un allestimento scenografico più che scientifico, di gusto marcatamente neoclassico.

Sempre ad Appiani si può ricondurre il nuovo allestimento del 15 luglio 1813 e, ancora una volta, non si può non ricordare che queste frequenti riorganizzazioni sono esito ultimo del massiccio afflusso di quadri alla pinacoteca, ma anche conseguenza del fatto che è divenuta finalmente disponibile la quarta sala napoleonica. La nuova distribuzione delle opere è testimoniata dalla Nota dei quadri esposti nella Reale Pinacoteca il giorno 15 luglio dell’anno 1813 (giunta manoscritta in due copie fra loro leggermente differenti). Dobbiamo fare una precisazione: nell’aprile del 1813 Appiani fu vittima di ‘fiera apoplessia’, malattia che lo rese sempre più invalido fino alla morte giunta nel 1817. Se un ruolo importante, in sede di collocazione dei dipinti, deve essere spettato a Ignazio Fumagalli (1778-1842) è tuttavia presumibile che le direttive di Appiani fossero ben note e siano state sostanzialmente rispettate. Non vi è dubbio che l’allestimento del 1813 evidenzi un tentativo più convinto di seguire la scansione cronologica e per scuole, come già era stato chiesto nel 1809, anche se emerge sempre l’esigenza di confrontarsi con la necessità di individuare (e porre in posizione strategica) alcune opere esemplari e di non venir meno alla caratterizzazione scenografica dell’allestimento, come si può vedere benissimo nelle tavole a colori proposte da Carlo Bassanini nel suo contributo: «La disposizione dei dipinti era principalmente estetica, improntata il più possibile a rimandi e corrispondenze di formato, dimensione, iconografia, colore, proporzione, composizione ed espressione, secondo le allora vigenti consuetudini d’insegnamento accademiche e seguendo idealmente il modello del Musée Napoléon (1803-1815). […] Ai contemporanei non poteva che impressionare la scoperta di questo museo dalla “forma di sontuoso antico tempio” (…) in cui si celebrava la pittura, mostrata nel confronto-endiadi tra i maestri e le scuole pittoriche, tra le tradizioni dei centri artisti egemoni e quelle delle elaborazioni alternative delle periferie, ancora tutte da esplorare. Risultavano proporzionalmente studiate le disposizioni simmetriche dei dipinti che si rispondevano su tutte le pareti, attentamente meditate per valorizzare ogni opera (tanto che è possibile scoprire le ragioni di ciascun posizionamento, alto o basso, destra o sinistra, come se ogni parete fosse un polittico)» (Bassanini, pp. 136 e 143-144).

Pur nel cambiamento della denominazione delle sale, che sembra evidenziare la scansione cronologica delle opere, l’allestimento delle opere non cambiò radicalmente nel 1816, quando uscì l’Elenco degli oggetti di belle arti esistenti nella I.R. Cesarea Pinacoteca di Milano in Brera colle indicazioni dei nomi degli autori e delle scuole cui appartengono segnatamente le pitture. La stagione bonapartista si era conclusa e quella austriaca si apriva con le richieste di restituzioni, che, nel concreto, avrebbero portato a solo piccole perdite nella collezione.

 

Le dissipazioni

Una delle cose più interessanti del volume è che prende in considerazione anche il fenomeno delle ‘dissipazioni’. Gli anni napoleonici, soprattutto per via delle abolizioni ecclesiastiche, misero in moto un numero enorme di opere. Nella prospettiva di spostare le opere in Francia o a Milano, o, ancora, in quella, che fu ad esempio prospettata a Pietro Edwards, della nascita di un grande museo veneziano completo per serie storiche, vi fu una prima scrematura, di fatto operata da autorità locali. [3] Il destino delle opere scartate era quello di essere bruciate (come sosteneva Leopoldo Cicognara a Venezia) o di essere vendute all’asta. Ma analogo problema si ripropose per i quadri giunti a Brera in numero ben maggiore rispetto all’incremento delle opere esposte. Nel solo 1811, ad esempio, arrivarono 468 quadri. Anche qui, e di fatto sin dal 1803, si pensò di vendere i dipinti di nessun interesse all’asta o a trattativa privata o di metterli a disposizione dei restauratori perché riciclassero telai etc nelle loro operazioni. Il problema si pose nella sua cogenza proprio nel 1811. Come ci si regolò? Le opere furono divise in quattro ‘classi’ di merito. La prima comprendeva pitture meritevoli di essere esposte; la seconda quelle che potevano essere oggetto di scambi. Per la terza e la quarta emersero due possibili soluzioni: la prima, proposta da Giovanni Scopoli, segretario dell’Accademia dopo Bossi, era quella di girare le opere di III e IV classe alle parrocchie ‘povere’ della Lombardia, dietro loro richiesta; la seconda, sostenuta da Giovanni Scopoli (1774-1854) di ridistribuire i dipinti ai singoli dipartimenti del regno, rimandando ‘sul territorio’ quelle opere che appartenevano allo specifico territorio, esponendole in luoghi pubblici. A tal proposito Scopoli suggeriva di ridefinire il ruolo dei licei, da luoghi educativi a istituti con compiti anche espositivi, raccogliendovi materiali artistici. Non solo: il suo progetto prevedeva anche di incentivare i collezionisti dei singoli comuni a depositare le loro opere nei luoghi espositivi pubblici individuati localmente. Sia Sicoli sia Piccolo insistono molto sulla lungimiranza delle idee di Scopoli; io concordo, ma non posso nemmeno nascondere che erano altrettanto utopistiche. In un regno in cui l’esigenza principale era far cassa per sostenere le spese di guerra napoleoniche, la creazione di una rete museale diffusa avrebbe comportato costi insostenibili. Senza tacere il fatto che, nell’esperienza di tutti i giorni, proprio in periferia avvenivano le dispersioni più dolorose, che coinvolgevano quegli ecclesiastici, pittori, collezionisti a cui si sarebbe dovuta affidare la conservazione dei dipinti. L’unica strada che fu perseguita, quindi, fu la cessione delle opere alle parrocchie ‘povere’. Quanto ciò fu disastroso è facilmente intuibile pensando che in molte occasioni, a decenni di distanza, quando si cercò di recuperarli, questi dipinti erano andati persi, distrutti, o venduti in perfetta buona fede, non sapendo che fossero beni demaniali. Ciò detto, a me pare che si trattasse dell’unica soluzione realmente praticabile in una situazione di emergenza.

È comunque evidente che in ognuno di questi passaggi, giocò un ruolo fondamentale il giudizio soggettivo, spesso legato a un gusto che penalizzava i primitivi; la ricostruzione di quanto si è perso è forse più facile da un punto di vista quantitativo che qualitativo: nella maggior parte dei casi le opere scartate non hanno indicazione di autore (che, del resto, doveva essere ignoto) e il soggetto è generico. A darci un’idea di quanto si perse sono comunque collezioni come quella Costabili a Ferrara, che nacque appunto in seguito ai sommovimenti napoleonici o altre, ‘nate e morte’ per motivi prettamente commerciali, come la celeberrima collezione Solly finita a Berlino.

Olga Piccolo si occupa proprio dei destini delle opere di provenienza bergamasca (o, per meglio dire, giunte dall’allora Dipartimento del Serio) alla luce dei documenti non solo conservati a Brera, ma anche degli inventari che è stata in grado di reperire proprio a Bergamo. Bergamo fu una delle prime città a essere interessata dalle scelte a vantaggio di Brera; Appiani vi andò addirittura nel 1802, selezionando due opere del Salmeggia, una del Cariani e una di Moroni; vi fu poi una seconda ondata nel 1811, costituita da diciotto opere di scuola non solo bergamasca, ma anche bresciana, lodigiana, veneta e emiliana. Ma lo studio mi sembra di particolare interesse perché segnala alcuni casi di vendite clandestine che videro coinvolti, a volte, gli stessi funzionari incaricati da Brera della selezione. Già prima del 1802, ad esempio, la Madonna col Bambino tra i santi Rocco e Sebastiano fu rimossa dal monastero da cui proveniva e venduta a una cifra bassissima a un sacerdote, Giovanni Ghedini, che aveva anche interessi collezionistici (p. 77). 

Lorenzo Lotto, Madonna col Bambino tra i santi Rocco e Sebastiano, Ottawa, National Gallery of Canada
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Madonna_col_Bambino_tra_i_santi_Rocco_e_Sebastiano#/media/File:
Lorenzo_Lotto_034.jpg


Vi furono poi dipinti che, pur inventariati come di possibile interesse per Brera, non vi giunsero mai e furono alienati in diverse circostanze, venendo incamerati dai collezionisti locali (come Giuseppe Chinetti, che divenne proprietario di un Moroni). Sarà sincero: la spiegazione fornita da Piccolo in merito non mi convince: secondo l’autrice «si tratta di una modalità che veniva messa in atto – a opera soprattutto di collezionisti e intermediari bergamaschi, già molto consapevoli del valore del patrimonio locale – in un certo senso nell’estremo tentativo, compiuto con ogni mezzo, di preservare le opere sul territorio di provenienza» (p. 89). Sarei meno benevolo; che vi fosse consapevolezza della consistenza del patrimonio è certo; che l’asportarlo ai danni di Brera fosse un gesto ‘patriottico’ mi sembra molto meno probabile. Vi furono intermediari che colsero l’occasione per comprare a poco e rivendere con margine, evidentemente eludendo la sorveglianza di chi si doveva occupare della custodia dei dipinti. È del resto possibilissimo che gli stessi controllori fossero collusi. La circostanza, del resto, è richiamata più avanti proprio da Piccolo: «A Bergamo molte opere furono mantenute in deposito nelle chiese di appartenenza, benché già soppresse, prima che se ne decidesse la destinazione finale, che mutava nel corso del tempo col variare dei governi e delle direttive (…). Tale circostanza fu causa di nuove vendite clandestine, per mano talvolta dei funzionari governativi preposti alla custodia: lo stesso Roncalli [n.d.r. uno degli incaricati di Brera] – probabilmente esasperato dalle esigue retribuzioni che il Governo gli elargiva (…) – dovette vendere le porzioni laterali del polittico di Alvise Vivarini (la cui pala centrale era arrivata a Brera nel 1811) e alcuni scomparti del polittico con il Martirio di san Pietro martire di Moroni» (p. 94). Vorrei chiarire: io non sto proponendo di fare storia dell’arte osservando i retroscena dal buco della serratura; ma se lo stesso Appiani, che aveva selezionato i due Salmeggia nel 1802, due anni dopo propose a Brera l’acquisto di un altro, non meglio identificato, Salmeggia, proveniente dalla sua collezione privata, suggerendo che i due già acquisiti fossero ceduti a Bologna, in maniera tale da favorire il suo, un nodo viene al pettine, e mi pare il nodo fondamentale che, bene o male, riguarda tutti i protagonisti di questi anni, e non solo a Milano: non esiste una netta distinzione fra interesse privato e bene pubblico, non esistono figure professionali indipendenti dal mercato (e non perché il ‘mercato’ sia una brutta cosa, ma perché i conflitti d’interesse non possono essere tollerati). Fu così, ancora, per decenni; basti pensare a figure come quelle di Antonio Fidanza, restauratore di Brera dal 1813 e per circa trent’anni, ben noto per le falsificazioni che, in anni successivi, immise sul mercato a scapito soprattutto dei visitatori stranieri.

 

NOTE

[1] Giovanni Mazzaferro, Lo sguardo condiviso: il viaggio di Giovan Battista Cavalcaselle e Charles Eastlake nel Centro Italia (settembre 1858) in «Studi di Memofonte» 29/2012.

[2] Giovanni Mazzaferro – Susanna Avery-Quash, Michelangelo Gualandi (1793-1887) e la National Gallery. Un ‘Travelling Agent’ ufficioso per Sir Charles Eastlake in «L’Archiginnasio. Bolletino della Biblioteca Comunale di Bologna» Anno CXV -2020, lettere 63, 66, 120, 127.

[3] Giovanni Mazzaferro, Fra Repubblica, Napoleone e Impero Austriaco, Pietro Edwards Ispettore Generale alle Belle Arti di Venezia in «ABAV 2015 Annuario Accademia di Belle Arti di Venezia», Bari, Laterza, 2015, pp. 201-216.

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