Requisizioni napoleoniche:
recuperi, dispersioni e musealizzazione tra le Marche e la Lombardia
A cura di Cecilia Prete
Urbino, Accademia Raffaello 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Introduzione
La letteratura sulle vicissitudini del patrimonio artistico italiano
(e non solo) in anni napoleonici è sterminata. Sappiamo tutti che la conquista
di buona parte dell’Europa da parte francese mise in moto enormi flussi di
opere che, in pochi anni, videro cambiare collocazione e proprietari, spesso in
maniera irreversibile. Limitatamente a questo blog, possiamo cogliere i
presupposti ideologici di questa grande migrazione in opere ‘generali’ come il
celeberrimo I furti
d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre di Paul Wescher, ascoltare le poche
voci in aperto dissidio nelle Lettere a
Miranda di Antoine Chrysostome Quatrèmere de Quincy; seguire in diretta
la spoliazione del patrimonio nelle Lettere di
Gaspard Monge, avere un’idea generale di quanto giunto in Francia in Opere
d’arte prese in Italia nel corso della campagna napoleonica 1796-1814 e riprese
da Antonio Canova nel 1815 (con l’avvertenza che in realtà sono oggetto
di schedatura solo i dipinti sottoposti a restauro al Louvre). E, ancora,
possiamo comprendere che le requisizioni non riguardarono unicamente dipinti e
sculture, ma anche
libri e manoscritti, come nel caso veneziano, e allargare l’orizzonte
ulteriormente seguendo i
medesimi fenomeni in Germania nei medesimi anni. Il
presente volume, curato da Cecilia Prete, propone una serie di scritti volti ad
approfondire le conoscenze su un flusso tutt’altro che ‘secondario’ delle
requisizioni, quello che dalle Marche le portò sino a Milano, a Brera. Qui di
seguito elenco i contributi presenti nel libro, che costituiscono di fatto gli
atti di una giornata di studi dal titolo omonimo tenutasi a Urbino il 21
novembre 2019:
- Luigi Gallo, Presentazione;
- Sandra Sicoli, Pinacoteca di Brera: un decennio di allestimenti (1806-1816). Intorno ad alcuni dipinti di pittori marchigiani;
- Olga Piccolo, La fortuna espositiva delle opere arrivate a Brera in età napoleonica. Una guida alle fonti manoscritte e a stampa;
- Carlo Bassanini, La Reale Pinacoteca di Brera del 15 luglio 1813: il sogno dimenticato di Andrea Appiani;
- Anna Cerboni Baiardi, Il ruolo delle guide e dei conoscitori locali nella dispersione del patrimonio artistico: il caso di Pesaro;
- Valentino Battisti, Le requisizioni: tre opere di Federico Zuccari, tre finali diversi;
- Bonita Cleri, Una pala di Pierantonio Palmerini e Giacomo di Marco da Pesaro a Fano passando per Milano;
- Elisa Penserini, Copie, alienazioni, requisizioni: una Madonna del velo da Sassoferrato a Milano;
- Cecilia Prete, Urbino-Milano andata e ritorno. Alcune considerazioni sui primi dipinti che nel 1817 rientrano a casa.
Dalle Marche a Milano (e viceversa)
Per avere un’idea degli aspetti quantitativi del fenomeno delle
requisizioni basta dare un’occhiata all’Inventario Napoleonico del museo, che
registra rispettivamente l’arrivo di 120, 162, 22, 468, 38 e 4 opere dal 1808
al 1813. Non abbiamo dati in merito agli anni precedenti. Naturalmente non
tutti i dipinti provenivano dalle Marche: vi fu un contributo ‘diffuso’ che
colpì soprattutto Lombardia, Veneto e, appunto, Marche. I destini di ogni
singola opera variano di caso in caso, declinandosi nelle maniere più
disparate. Valentina Battisti segnala tre pale d’altare di Federico Zuccari, rispettivamente
una pala pesarese (forse un Compianto), una rimossa da Cesena (La
discesa di Cristo al Limbo) e la cosiddetta Pala Zuccari in origine
nel monastero di Santa Caterina a Sant’Angelo in Vado (paese d’origine
dell’artista); tutte e tre furono prelevate fra 1809 e 1811. Della prima opera
si è persa ogni traccia; dopo il trasferimento a Brera, fu dirottata all’Ospedale
civile della Congregazione della Carità di Desio nel 1820 e da lì è stata
smarrita. La Discesa di Cristo al Limbo si trova nei depositi di Brera,
mentre la Pala Zuccari è tornata a Sant’Angelo in Vado, ma ora è
conservata nel locale Palazzo Comunale. Davvero si tratta, ogni volta, di
inseguire le singole opere, senza escludere nulla; altri casi di scuola sono
segnalati da Bonita Cleri ed Elisa Penserini. Cleri si occupa di un quadro (Madonna
col Bambino incoronata da due angeli tra i santi Andrea e Paolo) prelevato
a Pesaro nel 1811, arrivato a Brera, inviato in deposito prima a Greco Milanese
e poi a Desio e ora a Fano, attribuito all’epoca al fantomatico artista fanese
Pompeo Presciutti e ora a Pierantonio Palmerini e Giacomo di Marco; Penserini si
interessa a una copia della Madonna del Velo di Raffaello data al
Sassoferrato, ma forse non sua (in quanto copia assai debole), oggi alla
quadreria dell’arcivescovado di Milano.
È noto che, nel loro lavoro di selezione delle opere da inviare in
Francia prima e a Milano poi, i singoli commissari si avvalsero anche della consultazione
di guide artistiche locali, tanto più utili quanto più erano recenti. Anna
Cerboni Baiardi si chiede, ad esempio, se il Catalogo delle pitture che si
conservano nelle chiese di Pesaro, pubblicato nel 1783 e curato da Antonio
Benci, ma con un fattivo contributo del pittore Giannandrea Lazzarini (1710-1801)
sia stato decisivo nella scelta di quali dipinti portar via dalla città . È un
dato di fatto che (a parte due) tutte le opere pesaresi segnalate come
capolavori nella Guida e arricchite da riflessioni di Lazzarini furono
asportate dai commissari. Si tratta di un’ipotesi certamente plausibile, anche se
è sempre difficile capire fino a che punto vi sia un rapporto causa-effetto e fino
a quanto, invece, si debba parlare della condivisione di un gusto. Piuttosto mi
piacerebbe sapere (è solo una mia curiosità) se il pittore Francesco Giorgi (1754-1799),
che le fonti indicano come ‘collaborazionista’ nell’agevolare l’asportazione
del patrimonio fosse parente (il padre? o più probabilmente il nonno) di quel Luigetto
Giorgi, rigattiere e mercante di quadri, che molti anni dopo, nel 1858, fece da
guida pesarese di Charles Eastlake e Giovan Battista Cavalcaselle, in cerca di
quadri per la National Gallery [1] e nel 1862 intavolò con Eastlake le trattative
per la vendita dell’Incoronazione della Vergine di Giovanni Bellini,
acquisendo il consenso di tutto il comune di Pesaro e fallendo solo per
l’intervento ministeriale [2]. La possibile parentela potrebbe lasciar
intravvedere la trasmissione nel corso del tempo, di generazione in
generazione, di una pratica professionale certo non di grandissimo prestigio,
ma comunque gravitante attorno agli ambienti artistici.
Il contributo di Cecilia Prete è di particolare interesse perché si sofferma sulle modalità con cui solo una piccola parte delle opere requisite tornò nelle Marche (nuovamente integrate nello Stato pontificio) dopo la fine degli anni napoleonici. Il rientro fu molto parziale e la scelta di rivendicare il ritorno di determinate opere e non di altre fu legata un po’ all’impreparazione con cui la burocrazia periferica pontificia rispose alle sollecitazioni del governo centrale e molto a questioni di gusto. Se i rientri riguardarono soprattutto Federico Barocci e non la celeberrima Pala del Montefeltro di Piero della Francesca (ma data all’epoca a Fra Carnevale) si trattò, in sostanza, di questioni di scarso interesse nei confronti della pittura dei primitivi.
Piero della Francesca, Pala Montefeltro, Milano, Pinacoteca di Brera Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Pala_di_Brera#/media/File:Piero_della_Francesca_046.jpg |
Va poi detto che, esattamente come successe nel caso dei rientri
dalla Francia, si posero all’ordine del giorno esigenze di carattere
diplomatico. Le richieste di restituzione venivano infatti inviate non più al
governo del Regno d’Italia, ma all’Impero austriaco (quell’impero che, sia
detto per inciso, controllava militarmente per conto del Papa parte del suo
stesso Stato). La prima richiesta fu inoltrata a Milano nel maggio 1816. Si
chiedeva di rispedire in tutto 24 quadri appartenenti allo Stato pontificio
(non solo provenienti dalle Marche); si operava peraltro una distinzione fra opere
giunte a Milano senza alcun pagamento (ed era fra queste che si andava a
selezionare i quadri richiesti) e altre per cui invece era stato effettuato un
esborso di denaro, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo fosse stato
equo o meno. Fra quei 24 dipinti, le opere marchigiane erano solo cinque, e
tutte – come anticipato – di Federico Barocci. Una seconda richiesta di
restituzione, avanzata a fine anno, e relativa a altri trenta quadri, in merito
ai quali si faceva notare, quasi con deferenza, che la loro perdita non sarebbe
stata di alcun danno per la pinacoteca milanese, non fu nemmeno presa in
considerazione. Solo per la cronaca si può segnalare che, all’interno di quei
trenta, si distingueva già in due classi, di maggior o minor merito, segno
evidente che ci si sarebbe accontentati di una restituzione parziale, che non
ci fu perché i rapporti di forza erano totalmente sbilanciati.
Brera
Cortile della Pinacoteca di Brera Fonte: Jean-Christophe Benoist tramite Wikimedia Commons |
Sandra Sicoli, Olga Piccolo e Carlo Bassanini osservano il flusso
dei quadri dalle Marche a Milano nella prospettiva opposta, ossia quella di
Brera e lo fanno con saggi estremamente densi, ricchissimi di riferimenti documentari,
che mi obbligano per forza di cose, a semplificare. Mi si lasci comunque dire
inizialmente che il lavoro di Carlo Bassanini, che, partendo da un inventario
del 15 luglio 1813 ricostruisce l’intero allestimento del museo, elencando le
singole opere e mostrando la loro collocazione nell’apparato illustrativo, è
semplicemente fenomenale. Mi chiedo se non abbia senso proporre sul sito di
Brera, al posto di tanti inutili ‘virtual tour’ contemporanei, il viaggio nel
museo così come doveva essere nel 1813.
Ciò premesso, gli anni napoleonici di Brera sono, ovviamente, un
tourbillon. Nel 1803 nasce la nuova Accademia ‘nazionale’ (in realtà, le
Accademie ‘nazionali’ erano due, essendovi anche Bologna); ne è segretario
Giuseppe Bossi (1777-1815). Gli anni bossiani sono forieri di una progettualità
che, in termini di allestimento, è testimoniata dalla Notizia delle opere
del disegno pubblicamente esposte nella Reale Accademia di Milano nel maggio
dell’anno 1806. Ne risulta una Brera in cui i lavori sono in corso (solo
tre dei quattro grandi saloni napoleonici sono completati) e in cui le opere
esposte sono appena quarantaquattro, giunte per lo più da soppressioni lombarde.
Il progetto del segretario è di natura squisitamente didattica; proviene, cioè,
dal mondo dell’Accademia e più che a un pubblico generico è rivolto ai giovani
artisti che possano cogliere dagli esempi proposti lo spunto per migliorare le
proprie qualità personali: «L’attenzione del segretario – scrive Sandra Sicoli
– è incentrata sulla “gioventù studiosa”, sulla relazione fra scuola e museo,
secondo una concezione pedagogica tardo settecentesca di matrice illuminista
[…]. Il modello di museo proposto da Bossi, prima idea di una collezione
pubblica a Milano, non prende a prestito l’esempio francese (ben conosciuto dal
segretario), ma nasce dall’interno della scuola, dalla necessità di educare, di
far conoscere e di valorizzare, senza priorità di generi, il ricco e variegato
patrimonio dell’Accademia (interessante è la presentazione di disegni) in
continuità e in dialogo con la contemporaneità, con gli artisti. Il passato è
strettamente legato alla pratica artistica del presente.» (Sicoli, pp. 38 e
42). Nel gennaio 1807 Giuseppe Bossi dà le dimissioni da segretario
dell’Accademia, dedicandosi nei pochi anni a venire (morirà precocemente nel
1815) allo
studio di Leonardo, come risulta dalle sue Memorie. L’incremento
esponenziale del numero dei quadri provenienti dal Regno implica una revisione
dell’allestimento e un modo nuovo di pensare il museo, da un lato espressione
della potenza napoleonica, dall’altro luogo di ‘ordinamento’ del patrimonio e,
con esso, di riflessione sulle attribuzioni, sulla conservazione e tutela,
sull’articolarsi in scuole del patrimonio artistico (e naturalmente una
particolare influenza su quest’ultimo aspetto è esercitato dalla Storia
pittorica del Lanzi). Brera non è più appendice
dell’Accademia, ma Galleria ‘nazionale’, inaugurata (sia pur senza troppe
cerimonie) nel 1809.
Il protagonista principale di questa stagione è, probabilmente,
Andrea Appiani (1754-1817), se non altro perché è soprattutto lui a visitare i
singoli dipartimenti del regno e a decidere cosa debba o non debba finire a
Brera. All’inaugurazione del 1809 corrisponde un nuovo allestimento: dei 44
quadri esposti da Bossi ne rimangono 29, ma complessivamente si sale a 139, il
che (essendo rimasto identico lo spazio espositivo; la quarta sala napoleonica
non è ancora conclusa) dà un’idea di un maggiore affollamento negli spazi della
pinacoteca: «Con Andrea Appiani le pareti vengono ricoperte dalle opere
arrivando fino al soffitto, con un effetto visivo decisamente spettacolare che
è poi quello abituale fino ad allora. I dipinti (…) sono distribuiti in modo
simmetrico, allineati su due registri, con corrispondenze formali di dimensioni
e per lo più rimandi iconografici (soggetti religiosi, scene di genere,
ritratti), ma non secondo un criterio di scuola e di epoca (…), principio che
pur gli era stato richiesto (…). Ma il commissario ha altre idee, altre
preferenze. Lo svolgimento cronologico non lo interessa, come pure il
raggruppamento per scuole e privilegia, invece, in un ordinamento di sapore
eclettico, i nomi di alcuni maestri che, da soli, avrebbero assicurato il
prestigio della galleria nazionale e che vengono quindi collocati, nel rispetto
del “bilanciamento”, nella fila più bassa» (Sicoli, pp. 59-60). Quello di
Appiani è un allestimento scenografico più che scientifico, di gusto
marcatamente neoclassico.
Sempre ad Appiani si può ricondurre il nuovo allestimento del 15
luglio 1813 e, ancora una volta, non si può non ricordare che queste frequenti
riorganizzazioni sono esito ultimo del massiccio afflusso di quadri alla
pinacoteca, ma anche conseguenza del fatto che è divenuta finalmente
disponibile la quarta sala napoleonica. La nuova distribuzione delle opere è
testimoniata dalla Nota dei quadri esposti nella Reale Pinacoteca il giorno
15 luglio dell’anno 1813 (giunta manoscritta in due copie fra loro
leggermente differenti). Dobbiamo fare una precisazione: nell’aprile del 1813
Appiani fu vittima di ‘fiera apoplessia’, malattia che lo rese sempre più
invalido fino alla morte giunta nel 1817. Se un ruolo importante, in sede di
collocazione dei dipinti, deve essere spettato a Ignazio Fumagalli (1778-1842)
è tuttavia presumibile che le direttive di Appiani fossero ben note e siano
state sostanzialmente rispettate. Non vi è dubbio che l’allestimento del 1813
evidenzi un tentativo più convinto di seguire la scansione cronologica e per
scuole, come già era stato chiesto nel 1809, anche se emerge sempre l’esigenza
di confrontarsi con la necessità di individuare (e porre in posizione
strategica) alcune opere esemplari e di non venir meno alla caratterizzazione
scenografica dell’allestimento, come si può vedere benissimo nelle tavole a
colori proposte da Carlo Bassanini nel suo contributo: «La disposizione dei
dipinti era principalmente estetica, improntata il più possibile a rimandi e
corrispondenze di formato, dimensione, iconografia, colore, proporzione,
composizione ed espressione, secondo le allora vigenti consuetudini
d’insegnamento accademiche e seguendo idealmente il modello del Musée
Napoléon (1803-1815). […] Ai contemporanei non poteva che impressionare la
scoperta di questo museo dalla “forma di sontuoso antico tempio” (…) in cui si
celebrava la pittura, mostrata nel confronto-endiadi tra i maestri e le scuole
pittoriche, tra le tradizioni dei centri artisti egemoni e quelle delle elaborazioni
alternative delle periferie, ancora tutte da esplorare. Risultavano
proporzionalmente studiate le disposizioni simmetriche dei dipinti che si
rispondevano su tutte le pareti, attentamente meditate per valorizzare ogni
opera (tanto che è possibile scoprire le ragioni di ciascun posizionamento,
alto o basso, destra o sinistra, come se ogni parete fosse un polittico)»
(Bassanini, pp. 136 e 143-144).
Pur nel cambiamento della denominazione delle sale, che sembra
evidenziare la scansione cronologica delle opere, l’allestimento delle opere
non cambiò radicalmente nel 1816, quando uscì l’Elenco degli oggetti di
belle arti esistenti nella I.R. Cesarea Pinacoteca di Milano in Brera colle
indicazioni dei nomi degli autori e delle scuole cui appartengono segnatamente
le pitture. La stagione bonapartista si era conclusa e quella austriaca si
apriva con le richieste di restituzioni, che, nel concreto, avrebbero portato a
solo piccole perdite nella collezione.
Le dissipazioni
Una delle cose più interessanti del volume è che prende in
considerazione anche il fenomeno delle ‘dissipazioni’. Gli anni napoleonici,
soprattutto per via delle abolizioni ecclesiastiche, misero in moto un numero
enorme di opere. Nella prospettiva di spostare le opere in Francia o a Milano,
o, ancora, in quella, che fu ad esempio prospettata a Pietro Edwards, della
nascita di un grande museo veneziano completo per serie storiche, vi fu una
prima scrematura, di fatto operata da autorità locali. [3] Il destino delle
opere scartate era quello di essere bruciate (come sosteneva Leopoldo Cicognara
a Venezia) o di essere vendute all’asta. Ma analogo problema si ripropose per i
quadri giunti a Brera in numero ben maggiore rispetto all’incremento delle
opere esposte. Nel solo 1811, ad esempio, arrivarono 468 quadri. Anche qui, e
di fatto sin dal 1803, si pensò di vendere i dipinti di nessun interesse
all’asta o a trattativa privata o di metterli a disposizione dei restauratori
perché riciclassero telai etc nelle loro operazioni. Il problema si pose nella
sua cogenza proprio nel 1811. Come ci si regolò? Le opere furono divise in quattro
‘classi’ di merito. La prima comprendeva pitture meritevoli di essere esposte;
la seconda quelle che potevano essere oggetto di scambi. Per la terza e la
quarta emersero due possibili soluzioni: la prima, proposta da Giovanni
Scopoli, segretario dell’Accademia dopo Bossi, era quella di girare le opere di
III e IV classe alle parrocchie ‘povere’ della Lombardia, dietro loro
richiesta; la seconda, sostenuta da Giovanni Scopoli (1774-1854) di
ridistribuire i dipinti ai singoli dipartimenti del regno, rimandando ‘sul
territorio’ quelle opere che appartenevano allo specifico territorio,
esponendole in luoghi pubblici. A tal proposito Scopoli suggeriva di ridefinire
il ruolo dei licei, da luoghi educativi a istituti con compiti anche
espositivi, raccogliendovi materiali artistici. Non solo: il suo progetto
prevedeva anche di incentivare i collezionisti dei singoli comuni a depositare
le loro opere nei luoghi espositivi pubblici individuati localmente. Sia Sicoli
sia Piccolo insistono molto sulla lungimiranza delle idee di Scopoli; io
concordo, ma non posso nemmeno nascondere che erano altrettanto utopistiche. In
un regno in cui l’esigenza principale era far cassa per sostenere le spese di
guerra napoleoniche, la creazione di una rete museale diffusa avrebbe
comportato costi insostenibili. Senza tacere il fatto che, nell’esperienza di
tutti i giorni, proprio in periferia avvenivano le dispersioni più dolorose,
che coinvolgevano quegli ecclesiastici, pittori, collezionisti a cui si sarebbe
dovuta affidare la conservazione dei dipinti. L’unica strada che fu perseguita,
quindi, fu la cessione delle opere alle parrocchie ‘povere’. Quanto ciò fu
disastroso è facilmente intuibile pensando che in molte occasioni, a decenni di
distanza, quando si cercò di recuperarli, questi dipinti erano andati persi,
distrutti, o venduti in perfetta buona fede, non sapendo che fossero beni
demaniali. Ciò detto, a me pare che si trattasse dell’unica soluzione realmente
praticabile in una situazione di emergenza.
È comunque evidente che in ognuno di questi passaggi, giocò un
ruolo fondamentale il giudizio soggettivo, spesso legato a un gusto che
penalizzava i primitivi; la ricostruzione di quanto si è perso è forse più
facile da un punto di vista quantitativo che qualitativo: nella maggior parte
dei casi le opere scartate non hanno indicazione di autore (che, del resto,
doveva essere ignoto) e il soggetto è generico. A darci un’idea di quanto si
perse sono comunque collezioni come quella Costabili a Ferrara, che nacque
appunto in seguito ai sommovimenti napoleonici o altre, ‘nate e morte’ per
motivi prettamente commerciali, come la celeberrima collezione Solly finita a
Berlino.
Olga Piccolo si occupa proprio dei destini delle opere di provenienza bergamasca (o, per meglio dire, giunte dall’allora Dipartimento del Serio) alla luce dei documenti non solo conservati a Brera, ma anche degli inventari che è stata in grado di reperire proprio a Bergamo. Bergamo fu una delle prime città a essere interessata dalle scelte a vantaggio di Brera; Appiani vi andò addirittura nel 1802, selezionando due opere del Salmeggia, una del Cariani e una di Moroni; vi fu poi una seconda ondata nel 1811, costituita da diciotto opere di scuola non solo bergamasca, ma anche bresciana, lodigiana, veneta e emiliana. Ma lo studio mi sembra di particolare interesse perché segnala alcuni casi di vendite clandestine che videro coinvolti, a volte, gli stessi funzionari incaricati da Brera della selezione. Già prima del 1802, ad esempio, la Madonna col Bambino tra i santi Rocco e Sebastiano fu rimossa dal monastero da cui proveniva e venduta a una cifra bassissima a un sacerdote, Giovanni Ghedini, che aveva anche interessi collezionistici (p. 77).
Vi furono
poi dipinti che, pur inventariati come di possibile interesse per Brera, non vi
giunsero mai e furono alienati in diverse circostanze, venendo incamerati dai
collezionisti locali (come Giuseppe Chinetti, che divenne proprietario di un
Moroni). Sarà sincero: la spiegazione fornita da Piccolo in merito non mi convince:
secondo l’autrice «si tratta di una modalità che veniva messa in atto – a opera
soprattutto di collezionisti e intermediari bergamaschi, già molto consapevoli
del valore del patrimonio locale – in un certo senso nell’estremo tentativo,
compiuto con ogni mezzo, di preservare le opere sul territorio di provenienza»
(p. 89). Sarei meno benevolo; che vi fosse consapevolezza della consistenza del
patrimonio è certo; che l’asportarlo ai danni di Brera fosse un gesto ‘patriottico’
mi sembra molto meno probabile. Vi furono intermediari che colsero l’occasione
per comprare a poco e rivendere con margine, evidentemente eludendo la
sorveglianza di chi si doveva occupare della custodia dei dipinti. È del resto
possibilissimo che gli stessi controllori fossero collusi. La circostanza, del
resto, è richiamata più avanti proprio da Piccolo: «A Bergamo molte opere
furono mantenute in deposito nelle chiese di appartenenza, benché già
soppresse, prima che se ne decidesse la destinazione finale, che mutava nel
corso del tempo col variare dei governi e delle direttive (…). Tale circostanza
fu causa di nuove vendite clandestine, per mano talvolta dei funzionari
governativi preposti alla custodia: lo stesso Roncalli [n.d.r. uno degli
incaricati di Brera] – probabilmente esasperato dalle esigue retribuzioni che
il Governo gli elargiva (…) – dovette vendere le porzioni laterali del
polittico di Alvise Vivarini (la cui pala centrale era arrivata a Brera nel
1811) e alcuni scomparti del polittico con il Martirio di san Pietro martire
di Moroni» (p. 94). Vorrei chiarire: io non sto proponendo di fare storia dell’arte
osservando i retroscena dal buco della serratura; ma se lo stesso Appiani, che
aveva selezionato i due Salmeggia nel 1802, due anni dopo propose a Brera l’acquisto
di un altro, non meglio identificato, Salmeggia, proveniente dalla sua
collezione privata, suggerendo che i due già acquisiti fossero ceduti a
Bologna, in maniera tale da favorire il suo, un nodo viene al pettine, e mi
pare il nodo fondamentale che, bene o male, riguarda tutti i protagonisti di
questi anni, e non solo a Milano: non esiste una netta distinzione fra
interesse privato e bene pubblico, non esistono figure professionali
indipendenti dal mercato (e non perché il ‘mercato’ sia una brutta cosa, ma
perché i conflitti d’interesse non possono essere tollerati). Fu così, ancora,
per decenni; basti pensare a figure come quelle di Antonio Fidanza,
restauratore di Brera dal 1813 e per circa trent’anni, ben noto per le falsificazioni
che, in anni successivi, immise sul mercato a scapito soprattutto dei visitatori
stranieri.
NOTE
[1] Giovanni Mazzaferro, Lo sguardo
condiviso: il viaggio di Giovan Battista Cavalcaselle e Charles Eastlake nel
Centro Italia (settembre 1858) in «Studi di Memofonte» 29/2012.
[2] Giovanni Mazzaferro – Susanna Avery-Quash, Michelangelo Gualandi (1793-1887) e la National Gallery. Un ‘Travelling Agent’ ufficioso per Sir Charles Eastlake in «L’Archiginnasio. Bolletino della Biblioteca Comunale di Bologna» Anno CXV -2020, lettere 63, 66, 120, 127.
[3] Giovanni Mazzaferro, Fra Repubblica, Napoleone e Impero Austriaco, Pietro Edwards Ispettore Generale alle Belle Arti di Venezia in «ABAV 2015 Annuario Accademia di Belle Arti di Venezia», Bari, Laterza, 2015, pp. 201-216.
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