Tommaso Casini
La molteplicità del volto
Studi per la storia del ritratto dal XVI al XXI secolo
Roma, Carocci, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Introduzione
«Si può parlare del ritratto in
termini contraddittori: un ritratto così somigliante che crea l’illusione; ma
una somiglianza che lascia forse sfuggire l’essenziale, l’anima dell’uomo, che
si esprime meglio nello scritto dei poeti o degli storici»: così scriveva,
nel 1998, Édouard Pommier nel suo Théories du portrait: de la Renaissance
aux Lumières» [1]. L’eccesso di verosimiglianza, insomma, si sarebbe
scontrato con la capacità di penetrare l’anima del modello. Quale il ruolo del
ritratto nell’ambito della storia dell’arte (non solo pittura, naturalmente, ma
anche scultura e incisione)? È noto che, in termini teorici, la ritrattistica
in pittura fu considerata genere secondario rispetto alla pittura di storia, il
che non impedì ad artisti famosissimi, da Raffaello a Tiziano, di cimentarvisi
con esiti (anche economici) elevatissimi. Indubbiamente la principale ‘colpa’
del ritratto era quello di non essere riconducibile al ‘bello ideale’. Si
tratta di convinzioni radicatissime che sono durate secoli. Non più tardi del
1852 Giovan Battista Cavalcaselle, osservando al Prado la Venere con
cagnolino e organista di Tiziano e giudicando non riuscito il volto della
dea, addebitava la circostanza al fatto che l’artista fosse stato costretto a
eseguire un ritratto, e non avesse potuto ricorrere al bello ideale come nella Venere
di Urbino. In generale, combattuto fra l’aspirazione alla verosimiglianza e
il dovere di edulcorare i difetti fisici del modello (si pensi a Federico di
Montefeltro col suo occhio mancante), un pittore non poteva attingere più di
tanto rispetto all’ ‘idea di bello’ che, secondo le teorie classiciste,
risiedeva prima di tutto nella sua mente, cedendo, in minore o maggior misura,
al ‘naturalismo’ (o, se si preferisce, al realismo).
Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro, Firenze, Galleria degli Uffizi Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Piero,_Double_portrait_of_the_Dukes_of_Urbino_02_480.jpg |
Fenomeni di lungo periodo
Del ritratto si occupa ormai da più di
vent’anni anche Tommaso Casini, autore de La molteplicità del volto, un
libro che non è una storia del ritratto (men che meno in termini iconografici)
o delle teorie del ritratto, ma che cerca, piuttosto, attraverso una serie di
spunti scalati cronologicamente dal XVI al XXI secolo (e comprensivi, quindi,
anche della fotografia, del cinema, della televisione, dei social media) di
cogliere alcuni aspetti di lungo periodo legati alla rappresentazione (o
all’autorappresentazione) dei volti.
Per diversi aspetti, molte di queste riflessioni valgono non solo per il ritratto, ma per l’arte in generale e anche per la letteratura. Mi riferisco, ad esempio, alla questione dell’autorialità del ritratto, che resta saldamente ancorata nelle mani dell’artista fino a quando i progressi tecnici non finiscono per minarla alle basi, prima lentamente, poi in maniera incontrollabile (e falsamente ‘democratica’, come nei selfie). Unico garante della verosimiglianza, ma anche unico interprete dell’animo del ritrattato, l’artista viene man mano affiancato e poi sostituito dall’incisore, dal fotografo, dal videomaker, da un sistema binario di ricostruzione e decrittazione dell’immagine frutto della programmazione informatica. Il fenomeno diventa particolarmente evidente nel caso degli autoritratti, in cui è appunto l’artista che si autorappresenta (spesso con gli strumenti del mestiere, il primo di tutti essendo la mano, e poi il pennello. Mi si lasci qui consigliare la lettura dell’interessantissimo saggio 8, La mano parlante dell’artista).
Diego_Velázquez, Autoritratto all'interno de Las Meninas, 1656, Madrid, Museo del Prado Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Autorretrato_de_Vel%C3%A1zquez_ en_las_Meninas.jpg |
L’autorappresentazione è segno di emancipazione culturale e
sociale. «Nel transito dall’immagine pittorica dell’autoritratto d’artista (…)
all’immagine fotografica e poi cinematografica vi è però un cambio di
prospettiva radicale. Perché queste ultime si realizzino devono esserci dei
complici: il fotografo e il cineoperatore» (p. 154). Non è, necessariamente, un
cambiamento negativo; ogni mutamento riscrive, piuttosto i termini del problema
e amplia la gamma dei possibili (auto)ritratti, che oggi vanno dall’uso
burocratico – la foto digitale per la carta d’identità – a un modo nuovo di
narrare il processo creativo, che non coglie più l’artista in un momento
simbolico della lavorazione di un dipinto, ma consente anche di cogliere nel
suo sviluppo dinamico il processo creativo dell’artista che dipinge, scolpisce,
diventa performer. Di fronte a fatti come questi, il ruolo del critico è
leggere lucidamente come cambia la realtà, e Casini lo fa senz’altro in maniera
più che stimolante.
Gli uomini illustri
Ciò detto, mi si lasci tornare a un mio
vecchio, grande amore, ossia la diffusione delle serie di ritratti, dipinti e/o
pubblicati a mezzo stampa, nel corso del Cinquecento. Si tratta, senza dubbio,
della ripresa della tradizione degli uomini illustri che ha radici saldamente
ancorate nell’antichità greca e romana e che rappresenta un salto di qualità
rispetto alle tradizionali raccolte numismatiche di interesse antiquario. È
chiara a tutti l’importanza che ebbe, in quest’ambito, l’esperienza di Paolo
Giovio, con la sua casa-museo di Borgovico, nel comasco, e la raccolta
di ritratti di uomini (ma anche donne) illustri che essa comteneva, sotto ai
quali erano scritti gli ‘elogi’ di ognuno (più dei profili biografici che degli
encomi). Il progetto di Giovio fu quello di rendere pubblico questo pantheon ‘privato’
attraverso la stampa. Delle previste quattro parti della sua opera (letterati
defunti, letterati viventi, artisti, e una quarta con pontefici, re e uomini
d’arme) furono pubblicati, in vita solo gli elogi dei letterati defunti e degli
uomini d’armi (in latino). La prima edizione illustrata, coi ritratti degli
elogiati derivanti dai disegni di Tobias Stimmer condotti sugli originali (ancora
una forma di ‘traduzione) fu
pubblicata solo fra 1575 e 1577 a Basilea da Pietro Perna,
tipografo lucchese lì emigrato perché calvinista. Casini (che peraltro segnala
come nel Museo vi fossero anche ritratti di donne, mentre, a stampa, si perde
completamente, qui e altrove, la ‘parità’ di genere) osserva quanto, dal
combinato fra immagini e elogi, emerga l’adesione del Giovio alle regole della
fisiognomica, pseudo-disciplina traghettata da Quintiliano attraverso il
Medioevo e poi oggetto di rinnovato interesse umanistico. La pratica è
particolarmente visibile in corrispondenza degli uomini d’armi: «Nella descriptio
dell’uomo d’arme, tradizionalmente, gli aspetti di corrispondenza tra sembianza
fisica e indole, virtù morali, militari e politiche, cause dell’azione in
generale, sono le informazioni più importanti per l’indagine fisiognomica» (p.
37). Giovio si basa sempre su una relazione ‘aspetto del corpo’ / ‘aspetto
dell’anima’ che si muove dentro schemi fissi e che addirittura giustifica
l’accettazione di testimonianze figurative o letterarie che, chiaramente, sono
assai poco probabili. È il caso del ritratto di Attila, per il quale possiamo
leggere (cito da p. 38, nella traduzione Domenichi): «Questo volto per inhumana
e scolorita pallidezza per mostruoso ceffo di crudele aspetto e per torta
quadratura d’occhi terribili, dimostra la spietata crudeltà di Athila, re degli
Hunni, sì come lo veggiamo scolpito in bronzo per mano d’arteficie e con lo
stile degli scrittori.»
Tobias Stimmer, Ritratto di Attila in Paolo Giovio, Elogia virorum bellica virtute illustrium, Basilea, Pietro Perna, 1575-1578 Fonte: https://catalog.hathitrust.org/Record/100578958 |
La fortuna della lettura fisiognomica dei ritratti fu costante nel corso di tutto il secolo e oltre. Il caso delle biografie illustrate di André Thevet (edite a Parigi nel 1584) è interessante perché rende esplicita anche la pratica del ritratto di ‘ricostruzione’, ossia del ritratto creato in assenza di testimonianze figurative, ma comunque sulla base delle regole della caratterizzazione fisiognomica. Fra i 222 ritratti della sua raccolta, Thevet, che era stato grande viaggiatore, inserì anche quelli di diversi re delle popolazioni indigene americane, come Atahualpa, Montezuma e altri ancora, mostrando «un intento comparativo quasi di tipo etnologico. […]. È ovviamente ingenuo pensare che questi ritratti rispecchino una pur vaga somiglianza con i personaggi reali. Vi è invece una peculiare ricerca nella distinzione fisiognomica dei volti e un’attenzione alla prestanza fisica dei personaggi che si direbbe erculea. […] I ritratti di ricostruzione della raccolta di Thevet, allontanandosi dal paradigma della verosimiglianza, si allineavano così ai criteri della caratterizzazione fisiognomica» (p. 49).
Quello che è certo è che il successo
degli Elogia di Giovio fu enorme, sia nella versione non illustrata, sia,
e a maggior ragione, in quella curata del Perna, tant’è che, non a caso,
scrivendo il suo Della fisionomia dell’uomo (1586) Giovanni Battista
Della Porta riprese ben sei ritratti della raccolta gioviana, ponendoli a
confronto con teste di animali come un mastino, un rinoceronte etc. e ricavando
dalle relative somiglianze dei tratti indicazioni sull’ ‘anima’ delle persone.
L’umanesimo europeo
Casini ricorda che nel corso di undici
anni, fra 1566 e 1577, in Europa fu pubblicata una decina di raccolte di
biografie illustrate di uomini illustri, a dimostrazione dell’impatto del
genere e della rapidità con cui si diffuse nel continente tramite la rete degli
umanisti dell’epoca. Fra essi va ricordato il medico e storico Johannes
Sambucus, che nel 1574 pubblicò ad Anversa, presso il Plantin, le Icones
veterum aliquot, ac recentium medicorum philosophorumque elogiolis sui editae
opera, con 64 ritratti di medici, naturalisti, filosofi antichi e moderni
(p. 57), «il primo tentativo di creare una breve storia della filosofia e della
medicina per immagini ed elogi in chiave gioviana» (p. 72); Sambucus viaggiò
moltissimo in Europa e sicuramente fondamentali, ai fini della raccolta, furono
i suoi soggiorni italiani, dal 1553 al 1557 e dal 1561-1563, nel corso dei
quali ebbe modo di approfondire i suoi interessi numismatici e antiquari e
molto probabilmente di conoscere le opere di Giovio (e Vasari). Negli
stessi anni fu in Italia il francese Jean-Jacques Boissard (dal 1555 al 1559 e
nel 1576). Boissard diede alle stampe i suoi scritti solo nella parte finale
della sua vita (dal 1574 al 1602), ma è evidente che le sue Icones virorum
illustrium doctrina eruditione praestantium (1597-1599), pubblicate a
Francoforte tramite Théodore de Bry (ed eredi) provengono dagli stessi ambienti
culturali e fotografano un’Europa dell’Umanesimo che, da Giovio in poi, scrive
nella koiné dell’epoca, ossia il latino, e recepisce modelli e soluzioni
culturali, diffondendole da un paese all’altro. Il ritratto degli uomini
illustri, del resto, diventa prassi così comune (mi sia consentito aggiungere)
che Philip Galle (autore anch’egli di un Virorum doctorum de disciplinis
benemerentium effigies XLIII, pubblicato sempre ad Anversa nel 1572), nel
1570 circa declina il suo memento mori in forma, appunto, di ritratto,
con uno scheletro incorniciato proprio alla maniera degli uomini illustri.
Philip Galle, 'Ritratto' della morte, 1570 circa Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mors_ultima_linea_rerum.jpg |
In una dimensione privata, le
biografie illustrate ebbero un corrispettivo negli ‘album amicorum’ (mi si
scusi se uso il singolare, riferendomi al genere), «peculiare fenomeno
fiammingo, nato in quegli anni a cavallo tra la prima e la seconda metà del
secolo XVI, non destinato alla stampa, ma a una ristretta circolazione
manoscritta, in cui comparivano veri e propri ritratti degli amici dell’autore,
disegnati o talvolta a stampa. Il più famoso (…) è probabilmente quello di
Abraham Ortelius (Ortelio), il celebre geografo e antiquario, autore del Theatrum
orbis terrarum. L’album amicorum di Ortelio era una raccolta di
emblemi, lettere, elogi, poemetti e ritratti dedicati alla ristretta cerchia di
intellettuali a lui vicina, una sorta di piccola accademia» (p. 66).
Una pagina dell'Album amicorum manoscritto di Abraham Ortelius, Dublin, Pembroke Library Fonte: https://cudl.lib.cam.ac.uk/view/MS-LC-00002-00113/21 |
Vasari e i ritratti di artista
In questo contesto ho volutamente
tralasciato il nome di Vasari, che recupero qui, parlando di un sottoinsieme
degli uomini illustri, ovvero le biografie illustrate degli artisti. È noto che
l’autore puntava a inserire già i ritratti degli artefici sin
dall’edizione torrentiniana delle Vite, edita nel 1550. Non vi riuscì per
motivi di tempo e denaro. Casini suppone che, comunque, la raccolta, utilizzata
anche in altri contesti, anche pittorici, sia cominciata addirittura prima del
1550 (e sono assolutamente d'accordo). Fatto sta che i ritratti furono inseriti ‘solo’ nella Giuntina del 1568.
Inutile ribadire il legame che univa l’iniziativa di Vasari a Giovio e al suo
museo di Borgovico. Basterà ricordare che, secondo la testimonianza (da
prendere con le molle) dello stesso Vasari fu lo stesso Giovio a proporre di
scrivere le Vite degli artisti a Vasari nel corso di una cena a palazzo
Farnese nel 1547. Scritte in italiano (e quindi eccentriche rispetto alle già
citate esperienze umanistiche sugli uomini illustri), le Vite divennero
canone o, comunque, modello anche per coloro che, successivamente, ricorsero al
genere biografico per contestarne l’impostazione filo-toscana. Uno degli
aspetti notoriamente più interessanti delle Vite è la presenza di
medaglioni destinati a contenere i ritratti lasciati bianchi perché l’autore
non era stato in grado di rintracciare le sembianze degli artisti. Una cosa che
non sapevo (e che mi piacerebbe approfondire) è che Vasari non fu il primo ad
adottare un metodo di questo tipo. Già nel 1565, ad esempio, Francesco
Sansovino lasciava dei medaglioni in bianco, col solo nome del personaggio,
all’interno dell’Historia di Casa Orsina, da lui edita a Venezia presso
Bernardino e Filippo Stagnini.
Sansovino fu il primo? Onestamente non
lo so. A ogni modo, i motivi della scelta di Sansovino sono chiari e sono gli
stessi esposti in una lettera del 14 luglio 1564 da Vincenzio Borghini a
Vasari: «Di poj ho considerato che il viso che hauete messo a questo Niccola
Pisano non mi pare fatto per lui, ma per un piu uicino ai nostri tempi; et
l’habito lo dimostra pure assaj: Hora, questo non mi piace in modo alcuno, et
piu presto uorrei lasciare in bianco, cioè mettere l’ornamento senza l’anima;
che forse trouandosi poi, si potrà ognuno metterlo da sé. In somma, se
cominciate a metterne uno, che si uegga che non sia, torrete la riputazione a
tutti gli altri» [3]. L’assenza delle effigi conferisce credibilità a tutte le
altre (anche se sappiamo bene – e l’autore lo ricorda – che nel caso vasariano
vi furono ritratti ‘di fantasia’). L’esempio vasariano, certamente, fu comunque
seguito da una serie infinita di epigoni, esattamente con lo stesso spirito. È
il caso, ad esempio, dello stesso Sambucus (cfr. p. 70) [4].
Dopo Vasari: la fortuna dei ritratti
d’artista
Il grande successo di Vasari comportò
l’inserimento a pieno titolo degli artisti nel pantheon degli uomini illustri.
A ben vedere, diede vita a opere ‘settoriali’ (dal progetto ‘universale’ di
Giovio si passa, ad esempio, alle vite degli artisti di Vasari e a quelle dei
medici e filosofi di Sambucus). Restando in ambito artistico, l’influenza
vasariana si declina in due modi diversi: la semplice adozione del modello
delle Vite, senza immagini (è il caso di Van Mander, che
tuttavia le inserisce dentro una
struttura assai più complessa che non va dimenticata) e, invece, quella
della raccolta di biografie (secondo scelte personali) con la presenza dei
ritratti, e qui abbiamo solo l’imbarazzo delle scelta, da Lampsonio a Baglione, da Ridolfi a Malvasia e Bellori. Non sono
del tutto certo di poter essere d’accordo con l’autore, che, oltre a questi
nomi, segnala anche Francisco Pacheco con il Libro de
retratos di artisti spagnoli, ma per non dilungarmi, spiego
il perché in nota [5].
Ciò che più importa nel ragionamento
di Casini, è la restituzione di un contesto – di cui le Vite fanno parte
a pieno titolo – in cui (per tornare ai dipinti) possiamo comprendere la
fondazione dell’Accademia delle arti del disegno a Firenze (1562-3) che
prevedeva, negli statuti, l’esposizione dei ritratti degli artisti più
meritevoli da Cimabue in poi e di quelli dei membri dell’Accademia stessa; la
decisione medicea di creare quella che oggi è la famosissima collezione di
ritratti d’artisti (1591); la creazione dell’Accademia di San Luca a Roma nel
1593, in cui era prevista la donazione degli autoritratti dei nuovi accademici.
Vasari rientra dunque pienamente in un discorso celebrativo del ruolo degli
artisti che trova pieno spazio, di lì a poco e nei secoli successivi, nelle
Accademie: «gli esiti di questo modello culturale di raccolta e musealizzazione
delle effigi dei maestri furono numerosi, come dimostra la nascita nel 1675
dell’Accademia Reale di Torino (oggi Albertina) sulla precedente antica
Università dei pittori, scultori, architetti trasformata in Compagnia di San
Luca nel 1652. E ancor prima, nel 1648, lo stesso era avvenuto con la nascita
dell’Accademia Reale di pittura e scultura di Parigi» (p. 111). In nuce,
poi, gli spazi in cui i ritratti erano esposti cominciano «a diventare il
concetto di Museo, scandendo le tappe del processo in cui prese forma la
memoria della storia e dell’arte esemplificata attraverso il ritratto» (p.
112).
Quelli selezionati, come di consueto,
sono soltanto alcuni spunti di un libro che non ha certo l’ambizione di essere
un trattato (e la circostanza è dichiarata sin dall’inizio, con un certo
scetticismo sulla possibilità che mai se ne possa scrivere uno), ma riesce
piacevolmente a individuare costanti e cambiamenti intervenuti nel corso di
secoli; se mi è consentito usare un’espressione banale, in fin dei conti la
critica d’arte è questa cosa qui. Spesso ce ne dimentichiamo.
NOTE
[1] In realtà sto citando dalla traduzione italiana, ossia Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi, Einaudi, 2003.
[2] André Thevet, Les vrais pourtraits et vies des hommes illustres grecs, latins et payens, Parigi, 1584.
[3] Trascrizione da Carlo Maria
Simonetti, La vita delle «Vite» vasariane. Profilo storico di due
edizioni, Firenze, 2005, p. 109. La lettera è, in origine, pubblicata da Karl
Frey nel secondo volume del carteggio di Giorgio Vasari (Der literarische
Nachlass Giorgio Vasaris (1563-1574), Monaco, 1930, lettera 168).
[4] Sono perfettamente consapevole,
come scrive Casini (p. 62) che nella biblioteca di Sambucus non vi erano le
Vite; ciò non toglie, tuttavia, che avrebbe potuto conoscerle e sfogliarle
presso amici della sua cerchia umanistica (o aver comunque avuto notizia della
scelta di lasciar bianchi i medaglioni di alcuni artefici).
[5] Il Libro de retratos rimase
in forma manoscritta fino al 1983, pur essendo ben noto ai contemporanei di Pacheco. Ben
presto andò smarrito e il suo ritrovamento risale al 1864. È dato per scontato
che ci sia giunto mutilo, privo cioè di molti degli ‘elogi’ scritti
dall’artista spagnolo; delle 56 biografie illustrate giunte sino a noi, quelle
di artisti sono tre. Da tracce desumibili nell’Arte de la
Pintura riusciamo ad aggiungerne altre quattro (perdute), per un totale
di sette su 170 ritratti dichiarati (sempre secondo quanto scrisse Pacheco nel
suo trattato teorico). Più che un libro sugli artisti, dunque, siamo di fronte
a un libro di uomini illustri, dedicato a religiosi (i più numerosi), umanisti,
soldati, musicisti e anche artisti (un fatto comunque significativo, a
dimostrazione della considerazione in cui erano tenuti). Concettualmente,
insomma, il Libro de retratos ricorda più l’opera di Boissard e una tradizione
nord-Europea che non avrebbe avuto nessuna difficoltà a giungere in Spagna
vista la presenza spagnola negli attuali Paesi Bassi.
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