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martedì 5 dicembre 2023

Giovanni Mazzaferro. La Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea di Macerata (1 – 15 marzo 1947): speranze nel futuro e polemiche sull’arte

 

Giovanni Mazzaferro
La Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea di Macerata
(1 – 15 marzo 1947):
speranze nel futuro e polemiche sull’arte

Fig. 1) Copertina del catalogo


Questo post vuole fare il punto su un episodio dimenticato e ‘provinciale’ dell’arte italiana e non pretende di andare oltre la pura cronaca dei fatti: il lettore paziente conoscerà presto le ragioni che mi hanno indotto a scriverlo, pur non conoscendo molti degli attori che vi presero parte. Mi piacerebbe, anzi, saperne a mia volta di più e ben volentieri mi dichiaro aperto sin d’ora a correzioni e integrazioni.

 

Una mostra coraggiosa

Dall’ 1 al 15 marzo 1947 fu allestita nell’atrio del teatro Lauro Rossi di Macerata una mostra nazionale d’arte contemporanea. L’esposizione era promossa, come indicato sin dal frontespizio del catalogo, un fascicolo di sedici pagine (più un foglio volante) senza nessuna pretesa, dal Circolo d’arte e cultura «Rinascita», di cui davvero non so nulla [1]. I tempi parlano da soli: non sono passati nemmeno due anni dalla fine ufficiale della guerra; il fascismo è caduto (fra le associazioni che hanno collaborato all’organizzazione della mostra figura anche l’A.N.P.I.), l’Italia è una Repubblica, ma non ha ancora una Costituzione; il Presidente del Consiglio è Alcide De Gasperi che guida un esecutivo di unità nazionale destinato a durare fino ai primi di maggio, con l’estromissione dei socialcomunisti.. Già l’organizzazione della mostra deve essere stata un’impresa; la dichiarazione che si tratta di un’esposizione ‘nazionale’ potrebbe sembrare eccessivamente ambiziosa e indurre al sorriso, se non fosse che, in realtà, l’elenco degli artisti rappresentati e le difficoltà di quegli anni inducono a portare rispetto. Qui di seguito riproduco dal catalogo l’elenco delle opere e degli artisti rappresentati (figg. 1-4); nel foglio volante (figg. 5-6) sono indicati quattro dipinti del pittore Renato Lucentini, o perché si aggiunse per ultimo o per rimediare a una dimenticanza. Complessivamente le opere presentate erano 110.  

 

Fig. 2) Dal catalogo della mostra: artisti e opere esposte (segue)

Fig. 3) Dal catalogo della mostra: artisti e opere esposte (segue)


Fig. 4) Dal catalogo della mostra: artisti e opere esposte (segue)

Fig. 5) Foglio volante allegato al catalogo della mostra; p. 1.

Fig. 6) Foglio volante allegato al catalogo; p. 2.

 

Appare evidente che, ad artisti già noti a livello nazionale, come Guttuso, Prampolini, Scialoja, Monachesi (che comunque era di Macerata), si affianca un agguerrito gruppo di giovani marchigiani, alcuni dei quali destinati a un brillante futuro (si pensi solo a Wladimiro Tulli).

Il catalogo è aperto da due scritti introduttivi rispettivamente di Pietro Cristallini, docente presso il locale istituto d’arte Giulio Cantalamessa (ma non so se già lo fosse o se lo divenne successivamente) e Virgilio Budini, uomo di lettere e critico d’arte.

I due interventi si caratterizzano immediatamente per un tono ‘provocatorio’. Cantalamessa mette in guardia lo spettatore dalle «più comuni prevenzioni», ossia che l’arte imiti la natura, la costruisca o la crei. È esplicita la contestazione del dettato crociano che porta a evidenziare la necessità di «partecipazione, comunione amore [n.d.r. con la natura] che non escludono la imitazione, la costruzione la creazione, ma che sole le convalidano». Impossibile tuttavia – mette le mani avanti lo scrivente – indicare al pubblico in quali opere sia possibile evidenziare questa partecipazione, perché l’unico che può rilevarlo è lo spettatore, tramite un’analoga relazione di partecipazione, comunione e amore con l’opera.

Budini non rinuncia certo alla satira di costume:

Si tratta di Arte contemporanea, è chiaro. E sappiamo già come vanno queste cose. Una sala discretamente illuminata, quadri di varie dimensioni alle pareti. Gente che si affaccia timidamente, signore in pelliccia, studenti e studentesse, qualche avvocato.

Più avanti sbeffeggia «uno statale (tale sembrava, visto contro luce): «non mi piacciono queste donne della pittura contemporanea, preferisco le Madonne di Raffaello, esuberanti dignitose ottimiste. Non mi piacciono queste donne sostituite da fanali e da funghi, con le mani ossute da proletario e i seni penduli come borse di gomma per decongestionare infiammazioni cerebrali»»; e, ancora, un avvocato (sono tutte figure esemplari, naturalmente) che preferisce la pittura dell’Ottocento a quella contemporanea, «deforme, mostruosa, isterica». La sua conclusione è un po’ un manifesto degli organizzatori:

È tutto un mondo a sé, mondo ormai definito, che crolla ogni giorno, ogni ora, e sdrucciola sul terreno dell’arte come su quello della letteratura, sul terreno della filosofia come su quello politico. S’è aperto un solco tra due epoche. Non è più l’incomprensione tra due generazioni, tra giovani e vecchi, tra differenti classi sociali. S’è scavato un abisso tra due mondi, nessuno lo colmerà. Noi siamo per l’epoca nuova, la nostra epoca. Noi preferiamo il Sistema al metodo, il Socialismo al liberalismo, il Boogie-Woogie al secondo atto della Traviata. Preferiamo i seni penduli alle estive «Madonne» di Raffaello- […] Vi è un mondo che muore e un mondo che nasce. Noi siamo per quello che nasce.

Per quanto ingenue possano sembrare queste parole, è impossibile non cogliere l’entusiasmo di una generazione di giovani che è appena uscita dalla guerra e guarda con fiducia al futuro. L’Italia – s’è detto – è cambiata, e ora è il tempo di pensare al mondo che nasce. In questo senso la mostra ha una precisa connotazione programmatica. Per quanto spartano, il cataloghetto presenta anche alcune immagini (naturalmente in bianco e nero), che ripropongo qui sotto. Si coglie immediatamente, nella varietà dei linguaggi artistici proposti, la volontà di esplorare il nuovo e di fuggire dal passato. Si tratta di opere di Renato Guttuso, Enrico Prampolini, Sante Monachesi, Aldo Borgonzoni, Wladimiro Tulle e Umberto Peschi.

Fig. 7) Renato Guttuso, Ritratto di donna; Enrico Prampolini, Marina.

Fig. 8) Sante Monachesi, Natura morta

Fig. 9) Aldo Borgonzoni, Fiori

Fig. 10) Wladimiro Tulli, Bottiglie su verde; Umberto Peschi, Il pescatore

 

Il dibattito all’’inaugurazione della mostra

Quali furono le reazioni alla mostra? Possiamo farcene un’idea seguendo gli articoli che furono pubblicati sulla stampa locale dall’apertura a poco dopo la chiusura della medesima. In un buon articolo semplicemente siglato M.B. e stampato sulla cronaca marchigiana de «Il Messaggero» (edizione delle Marche) del 5 marzo 1947 lo scrivente dichiara, innanzi tutto, di aver dovuto rivedere le sue aspettative:

Dobbiamo confessare di avere appreso dell’organizzazione di questa Mostra con un certo scetticismo, solo perché, generalmente, ogni buona iniziativa a Macerata, finisce quasi sempre per sfumare sul nascere. Ieri sera abbiamo dovuto ricrederci nel constatare che sia l’organizzazione come l’inaugurazione abbia superato ogni aspettativa.

All’inaugurazione e, in particolare, al dibattito aperto al pubblico che si tenne nel teatro il 4 marzo intervennero lo scrittore (già allora famosissimo) Corrado Alvaro (1895-1956) e lo scultore Leoncillo (ossia Leoncillo Leonardi 1915-1968). L’intervento di Alvaro – stando al resoconto del giornalista – fu centrato sulla «necessità di appoggiare il movimento artistico nazionale, in felicissima ripresa, specialmente da parte dei giovani che danno alla rinascita artistica tutto il loro entusiasmo e fervore di opere.» Appoggio non solo morale, ma anche materiale, sia chiaro. Una delle principali difficoltà con cui si scontravano i giovani era l’impossibilità di esporre in gallerie importanti per via di spese esorbitanti da sostenere. In merito Alvaro annunciò la nascita «a Roma [di] una Cooperativa di cui fanno parte una cinquantina di membri, allo scopo di facilitare agli artisti le Mostre personali o collettive ed istituire forme di previdenze ed assistenza».

Tutto sommato, il dibattito pare essere stato variegato e interessante; non mancò chi, come tale ‘prof. Felici’ domandò «come si fa a comprendere un’arte che deforma la natura, che si allontana sempre più dalle norme naturali della linea e dal colore che l’occhio umano è abituato a vedere e l’anima a sentire», ma le risposte sia di Alvaro sia di Leoncillo paiono essere state apprezzate. L’articolo si conclude con alcune righe che riporto integralmente:

Il «clou» della serata è dato dall’intervento in discussione del giovanissimo Mazzaferri. Non è la prima volta che questo «giovane prodigio» si cimenta in discussioni, sia artistiche, sia filosofiche, sia scientifiche e con una profondità di scienza, di arte, di filosofia da sorprendere chi in queste discipline ha fatto i capelli bianchi. Egli ha fatto una disamina della situazione artistica come concezione e come espressione ed è stato così logico e convincente da strappare uno spontaneo applauso di tutti i presenti.

Il ‘giovanissimo Mazzaferri’ in questione, in realtà, era Luciano Mazzaferro, ossia mio padre.

Fig. 11) Parte dell'articolo a firma M.B. pubblicato su 'Il Messaggero' il 5 marzo 1947

 

Una parentesi familiare

Mio padre (1928-2004) era nato a Roma il 9 ottobre 1928. All’epoca aveva diciotto anni e mezzo. La sua famiglia paterna era originaria di Montappone, oggi in provincia di Fermo. Suo padre, ossia mio nonno, si era trasferito per lavoro a Roma; qui aveva aderito al fascismo assumendo anche cariche di una certa importanza (mai nascondere nulla, nella vita, anche quando si tratta di circostanze poco edificanti), tanto da indurre la famiglia, dopo la fine della guerra, a tornare a Montappone, in attesa che si calmassero le acque. Luciano Mazzaferro frequentò il primo anno di giurisprudenza a Macerata ed è questo il motivo per cui lo troviamo nel gruppo del Circolo d’arte e cultura ‘Rinascita’. Per la stessa ragione ho a disposizione i ritagli di giornale relativi alla mostra, riordinati da mio padre in un momento che non sono in grado di indicare, perché mai mi parlò, in vita sua, di questa vicenda e li ho ritrovati solo dopo la sua morte. L’anno dopo, mio padre tornò a Roma, si laureò in giurisprudenza (non senza aver seguito per puro diletto i corsi di Lionello Venturi) e nel 1951 si trasferì a Bologna, dove fece tutt’altro, divenendo direttore dell’ufficio studi dell’Ente Delta Padano prima, Ente Regionale di Sviluppo Agricolo poi. Pur mantenendo una grande passione per l’arte, specie per la letteratura artistica, mai si occupò in prima persona di quella contemporanea. Come semplice eccezione scrisse le presentazioni dei cataloghi dedicati alle mostre di Mino Maccari (Palazzo Ricci di Macerata (17 giugno – 30 settembre 1993)) e Amerigo Bartoli (Palazzo Ricci di Macerata (18 giugno – 30 settembre 1994)). Le mostre usufruivano del finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata, di cui era all’epoca direttore Giorgio Pagnanelli, il suo migliore amico. Giorgio non sapeva nulla di arte e chiese a mio padre di fare il ghost writer, circostanza che mio padre accettò ben volentieri.

 

«Sicuri del nostro avvenire»

L’8 marzo 1947 usciva sempre su «Il Messaggero» ed. Marche un articolo, questa volta firmato Luciano Mazzaferro, in cui si capiva che le cose non erano andate così bene come potrebbe sembrare e come, in fondo, gli organizzatori si immaginavano sin dall’inizio. Il titolo originale dell’articolo (come si capisce da un successivo intervento) era ‘Lettera aperta ai benpensanti’, trasformato redazionalmente in ‘Pubblico: idra dalle sette teste. Disorientato dalle opere quando era già stato convinto dalle parole’.  La conferenza – vi si legge – era stata interessante, ma poi era venuto il momento del confronto con le opere e lì erano nati i problemi:

quando (…) si è trattato di trovare nelle singole opere la dimostrazione plastica e visibile di concetti che tutti, fuorché i soliti «benpensanti», avevano poco prima condiviso, è nato un generale disorientamento. Si è creduto che le nozioni di estetica che si erano premesse non riguardassero minimamente quelle creazioni che venivano giudicate estrose, eccessivamente manierate e senza sensibilità. Guidata da un gusto borghese, desiderosa di cogliere ogni valore artistico nei lati più apparenti della composizione ogni persona autonominatasi critico d’arte, estendeva i suoi facili postulati a quei colori e a quelle forme; non si sforzava di trovare parole proprie per ogni mezzo stilistico, ma pretendeva sottoporlo ai suoi preconcetti.

E così, proseguendo parlando dei ‘benpensanti’, si viene al nucleo centrale dell’articolo, che riporto per intero, perché, parentela a parte, mi sembra di estremo interesse, tenuto conto dell’anno in cui si era e dell’età dello scrivente:

Noi tentiamo di far comprendere Prampolini, Guttuso, Buttafava; essi ci rispondono che era migliore Raffaello. Vogliamo spiegare che cosa sia l’Espressionismo. Additiamo Santomaso, il suo colore-sentimento, lo studio della persona nella sua carnalità, i suoi ricordi orientali; indichiamo le pennellate grasse di Scialoja, l’espressionismo, equilibrato da influenze cubiste in Savelli, ma è tutta lettera morta. Tentiamo col Cubismo. Facciamo presente Prampolini, la sua opera conosciuta ovunque, segnaliamo Maugeri e l’interpretazione cubista della scuola romana che troviamo evidente in lui; ricordiamo Borgonzoni, la sua partenza da forme espressionistiche, la conquista di valori geometrici puri. Pensiamo a Lucentini, alla delicatezza dell’atmosfera, alla dissociazione dei toni in complementari. Ricorriamo a Caffè. Abbiamo fiducia nella prevalenza di quei toni storici, in quell’esperienza post-impressionistica, in quella penombra quasi romantica. Facciamo presente Tulli; mettiamo a fuoco la sua composizione; giuochiamo sull’effetto di quelle palpitanti corolle di colore dalle quali si espandono forme controllate in una cadenza suggestiva. Notiamo la luminosità dei suoi corsi, lo studio accorto di rifrazioni che ci sono rese in adeguati equivalenti pittorici. Ma anche qui non abbiamo troppa fortuna.
Ci piace Tomassetti, quindi lo segnaliamo. Mostriamo l’edonismo nelle pennellate di Monachesi, gli elementi poetici ed armonici che sbalzano tra un lusso di colori dalle sue opere, i tocchi fluidi e pur sintetici e costruttivi negli olii di Ciarroccchi e l’effetto atmosferico col quale egli delimita la spazialità dell’ambiente.
Torniamo poi a Buttafava, al più calunniato dopo Prampolini, forse perché, secondo un metro squisitamente cristiano, dopo Prampolini è il migliore di tutti. Gli poniamo vicino, anche per notare le differenze stilistiche, Lambertucci con i suoi effetti di luce, con la delicatezza della sua gamma cromatica, col superamento del Cubismo ch’egli sente anatomico di fronte agli oggetti, col ricorso frequente di un dinamismo ora nervoso, ora incisivo che vuole tradurre nella risultante di una impressione integrale di fronte alla natura.
E i disegni? Bartolini, felice stilizzatore, Fazzini, sintetico e architettonico, Tamburi, traduttore dell’impressione ottica in linee rotonde e continue, sono artisti che piacciono di più, ma che, ciò non ostante, sono ben lontani dall’essere valorizzati a pieno. Infine in Peschi l’abbandono definitivo del linguaggio martiniano, la sintesi di masse che egli crea attraverso ritmi larghi e di una certa solennità, la pesantezza di quella contadina goduta nella curva continua e riassuntiva della schiena e nel saldarsi delle mani entro un cerchio che è richiamo allo spazio, i suoi bassorilievi che creano l’effetto di una pittura tonale, vengono spesso, davanti al mito della bellezza ideale, intesi come segni di sproporzione e di incapacità tecnica.
Insomma, per Voi, signori «benpensanti», tutti da Prampolini a Guttuso da Buttafava a Peschi, tutti pazzi o nella migliore delle ipotesi, tutti manieristi.
Ebbene, di fronte a queste affermazioni decise, noi ci sentiamo di rispondere altrettanto decisamente.
Noi non siamo della Scapigliatura, né del Futurismo. Noi non disprezziamo chi sa comprendere. Noi desideriamo che il nostro tentativo di giungere ad una sintesi che denominiamo pura, in quanto la vogliamo sinceramente umana, sia da tutti apprezzata. Noi sappiamo che l’Arte moderna non può essere da tutti compresa; per ciò auguriamo un processo di iniziazione artistica. Noi tolleriamo anche che ci si insulti (…). Sappiamo che in fondo il dubbio implica nelle persone coscienti un desiderio di controllo e che il bisogno di insultare diventa volontà dichiarata solo perché costretto ad un giudizio necessario anche se negativo.
Ma se qualcuno vuole essere deliberatamente cieco, non si aspetti che noi ci mettiamo a cantare il «mea culpa». Noi, difensori dell’Arte moderna, siamo soddisfatti. Soddisfatti della nostra Arte e della nostra estetica, come siamo sicuri del nostro avvenire.

Come figlio dell’autore non posso aggiungere molto. Permettetemi di dire che raramente ho letto qualcosa di più fervido, sincero e entusiasmante.

 

Botta e risposta

Passano sei giorni. Il 14 marzo è pubblicato, sempre su «Il Messaggero» ed. Marche un trafiletto intitolato ‘Povero pubblico’, datato 12 e proveniente da Corridonia, comune del maceratese. Lo firma Spartaco Cinti. Il poco che sono riuscito a rintracciare su internet di Spartaco Cinti è che fu sindaco e segretario della Democrazia Cristiana di Corridonia nei primi anni Cinquanta (probabilmente all’epoca non lo era ancora). L’autore lamenta le offese nei confronti del pubblico contenute nell’articolo precedente. Era intollerabile che il pubblico fosse comparato a un’idra, una goccia del cui veleno bastava a uccidere. Seguiva una serie di lamentele di questo genere:

Povero pubblico! Nelle ore di riposo per la tua immane fatica, che ti ha degradato al livello degli esseri inferiori, hai cercato nei cieli limpidi dell’artista la luce che ti ridesse la dignità umana.
L’artista incosciente ha detto che sei una bestia velenosa.
Tu, abituato a dire come senti i pareri ed i giudizi con la voce appassionata che parte dal cuore; tu che sei formato da gente semplice e laboriosa, da gente onesta che non ama la posa e la esibizione – tu contadino che strappi alla terra il pane per noi – tu operaio della industria ridotto alla più piccola parte di una piccola macchina – tu lavoratore degli uffici e della scuola: sei un’Idra velenosa. […]
Hai visitato la «Mostra nazionale d’Arte contemporanea» a Macerata e giustamente hai provato un profondo dolore e un senso di sgomento:
Tu contadino ed operaio delle officine hai detto: io non ci capisco più niente – e a te, povero statale, altri hanno detto: non puoi capire […].
A te, pubblico difensore dei sacri valori morali e culturali della Patria – che ora non ci resta più altro – hanno detto di preferire il Boogie-Woogie al secondo atto della Traviata.
Hai visitato la Mostra Nazionale d’Arte e ne hai provato un profondo schianto alle reni – sei fuggito che la testa ti girava.

La replica di mio padre si fece attendere nove giorni,  e fu pubblicata sotto forma di lettera aperta a Cinti sempre sul «Messaggero», il 23 marzo 1947 (ossia a mostra chiusa).

Fig. 12) Una parte dell'articolo pubblicato su 'Il Messaggero' il 23 marzo 1947


Naturalmente Cinti era confutato in tutto, a cominciare dal fatto che il pubblico avesse provato dolore nel visitare la mostra. Semmai la reazione più diffusa era stata quella dell’ilarità di chi non capisce. Si precisava inoltre che il riferimento all’idra dalle sette teste era stato frutto della fantasia redazionale e non compariva nel testo originale dell’articolo dell’ 8 marzo. Ricordando che la mostra era stata aperta con una serata iniziale (quella con Alvaro e Leoncillo) volta a preparare il pubblico e che comunque ogni giorno c’era qualcuno ben disposto a dare spiegazioni agli spettatori, si contestava soprattutto il metodo:

Lei ha voluto insultare non attraverso elementi formali o valori estetici: l’impresa sarebbe stata senza dubbio più difficile di quanto Le è apparsa dopo averla circoscritta entro una isterica disamina infarcita di punti esclamativi e di altro romanticume in vacanza. Su quasi ottanta righe non ho trovato nemmeno un ricordo dei valori artistici, né un richiamo alle considerazioni da ma svolte nell’articolo in questione. […]
Lei sostiene che il pubblico è abituato a dire come sente i pareri e i giudizi, «con la voce appassionata che parte dal cuore». Impari Kant, Sig. Cinti, e la critica del giudizio. Si renderà conto allora dell’importanza dell’iniziazione artistica che l’estetica formalista moderna (Hebbel-Valery-Marangoni) pone da introduzione al mondo dell’Arte […].
Studi Delacroix, Rénoir, Faruffini, e si accorgerà dell’importanza della mia osservazione. Si ricordi che Cézanne fu sempre denigrato dal pubblico e che Van Gogh in tutta la vita riuscì a vendere una sola tela. Si ricordi che i nostri migliori artisti dell’800, i «Macchiaioli» furono presi sempre per pazzi, che Courbet, Daumier, Manet e gli impressionisti furono sempre incompresi e che chi li difese (primo fra tutti Zola) non poté sempre portare a termine la sua difesa.

 

Sulla tradizione

Fin qui la polemica con Cinti. Di tono assai più pacato, invece, la risposta di metà aprile a Casimiro Grasselli (1879-1954), pittore di Reggio Emilia che evidentemente nei giorni della mostra l’aveva visitata e aveva scritto un articolo di cui, purtroppo, non conosco né data né testata. Questa volta l’articolo fu pubblicato il 17 aprile su «Il Momento» ed. Marche e, in versione non integrale, su «La Voce Adriatica» e su «Il Popolo» dello stesso giorno.

Lo scritto comincia così:

Nel suo articolo sulla mostra d’arte di Macerata il professor Casimiro Grasselli plaude al desiderio della maggior parte del pubblico di vedere realizzata un’arte non immemore «della tradizione, della tradizione latina e mediterranea e soprattutto italiana».
Io non dubito minimamente della buona fede dell’articolista per il quale sento simpatia sincera; ma sono d’altra parte sicuro che una disamina seria, illustrata da principii estetici e documentata da esempi storici, possa dimostrare che un desiderio di tal genere sia fuori luogo o per lo meno superfluo.

Il fatto è – prosegue l’articolo – che la tradizione è una verità spirituale e una forza morale, non una costrizione alla forma. La forma è un aspetto tecnico, la tradizione riguarda il singolo (in questo caso il singolo artista). La forma è un mezzo, non un fine. Antonello da Messina è intimamente italiano anche se mutuò la tecnica della pittura a olio da Van Eyck, così come Ingres è francese pur rifacendosi a Raffaello etc.

Spero che questi esempi siano chiari; ciò non di meno sono sicuro che molti cadranno ancora in errore, ripetendomi magari che Prampolini dovrebbe allontanarsi dal cubismo e che Buttafava e Tulli dovrebbero risentire meno delle conquiste formali di Braque. La gente, affezionata al mito della bellezza ideale o vincolata al preconcetto della verosimiglianza, rimarrà delusa di non trovare in questi artisti un disegno prestabilito, penserà a Raffaello o forse a qualche verista del tardo Ottocento, scoprirà una inevitabile divergenza e scapperà sempre fuori con la candida e ormai consumata affermazione: sono troppo contro la tradizione per essere pittori sinceri! […].
I «moderni» hanno intuito che, ponendo una forma prestabilita, il loro colore si sarebbe ridotto ad un riempitivo e che la forma stessa, preconcepita e perciò studiata razionalmente, non sarebbe stata in grado di assurgere ad espressione artistica. Essi non hanno voluto e non vogliono esprimersi con più mezzi insieme, perché hanno temuto e temono di incorrere nel pericolo di non sapersi poi esprimere. Da questo continuo uso dei mezzi espressivi nacque quel concetto estetico che io mi compiaccio sovente di chiamare «economia dei mezzi stilistici». Seguendo la verità di questa conquista il pittore, cioè l’artista che ama il colore, si esprimerà sempre attraverso il colore e condizionerà la forma alle esigenze cromatiche; un acquafortista, al contrario, preferirà esprimersi attraverso linee e contorni e porrà il chiaroscuro solo quando quelle linee e quei contorni lo richiederanno. Ma nemmeno questa riserva ci autorizza a credere che i mezzi stilistici non siano di per sé identici a quelli usati nel passato [n.d.r. non siano cioè ‘tradizionali’]. Una linea fragile e stilizzata al modo di Simone Martini può essere nuovamente goduta in una donna di Modigliani; un tono di Tiziano non perde molto del suo fascino in un pittore latino e mediterraneo, anche se non italiano, come Delacroix. […] L’unica divergenza fra i lavori antichi e moderni deriva da quell’unità di mezzi formali (colore con linee e forme complementari, linee con colore e luce complementari) di cui ho parlato poco sopra […]
Ora io mi domando: se la tradizione non riguarda il linguaggio ma soltanto il contenuto e se spesso lo stesso linguaggio, anche in artisti (come Modigliani) imbevuti di nozioni estetiche francesi, si rivela in definitiva aderente al linguaggio tradizionale, perché dovreste proibire ad artisti contemporanei, specialmente giovani, di studiare, ricreandole, le proprietà stilistiche di certi pittori moderni di fama indiscutibile? Siate sicuri! Essi ripudieranno quando non li sentiranno aderenti alla loro sensibilità, quei mezzi che anche noi, come italiani, sentiamo sgradevoli ed inopportuni. In compenso la loro esperienza sarà aumentata (come accadde a [n.d.r. Domenico] Morelli quando abbandonò Fortuny) e il processo epurativo, lento ma costante, avrà favorito la loro capacità di autocoscienza e il loro senso di autolimitazione. Lasciateli liberi di creare il loro linguaggio, non imponete a questi giovani, che sono qualcosa di più di una promessa, la tradizione come un duro peso da sopportare. […]

 

In conclusione

Questo è quanto so della Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea di Macerata del marzo 1947. Ovviamente il mio interesse è dettato dalla presenza di mio padre nella vicenda. Pur avvenendo in una città di provincia (ma comunque con un’università), a me sembra, tuttavia, che si tratti di un episodio storicamente importante che fotografa il fervore di una generazione di giovani studiosi e artisti evidentemente decisa a lasciarsi alle spalle la guerra e il fascismo e ad esplorare un mondo nuovo. Temo che queste aspirazioni siano andate deluse. Tuttavia mi sembra importante studiarle, ad esempio cercando di individuare meglio le opere in mostra e addirittura alcuni degli stessi artisti,  e di completare, se possibile, il panorama delle reazioni a stampa che animarono Macerata in quella primavera del ’47. Sarebbe inoltre interessante sapere qualcosa di più sulla vita del Circolo d’arte e cultura «Rinascita». Per questo motivo prego chiunque possa avere maggiori informazioni e desideri averne di più complete di contattarmi senza problema alla mail del blog.

 

NOTE

[1] La riproduzione del catalogo mi è stata cortesemente inviata dal dottor Renato Pagliari, della Biblioteca Mozzi Borgetti nel 2014, che qui ringrazio.

 

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