Paolo Pastres
Gli scritti di Angelo Maria Cortenovis sull’arte medievale in Friuli
In appendice:
Luigi Lanzi
Elogio del p. A.M Cortenovis
Udine, Deputazione di Storia Patria per il Friuli, 2018
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Una figura di riferimento
Di Padre Angelo Maria Cortinovis (1727-1801), barnabita,
vissuto a Udine, non si può che ribadire che anch’egli fece parte di quella
rete erudita, vivace, ma forse non particolarmente all’avanguardia, che visse
in Friuli nella seconda metà del Settecento. Cortinovis, bergamasco, si
trasferì a Udine nel 1764, dopo aver praticato l’insegnamento in vari
insediamenti barnabiti in giro per l’Italia e aver avuto contemporaneamente
modo di coltivare i suoi interessi antiquari (dedicandosi in particolare
all’epigrafia e alla numismatica), ma non tralasciando scritti dedicati alla
storia della sua congregazione, a questioni relative all’agricoltura e alle
scienze. All’ultimo decennio della sua vita risalgono tre brevi scritti
relativi alle arti friulane, e in particolare alle arti in epoca medievale, che,
giustamente l’autore colloca nell’alveo della cosiddetta riscoperta dei primitivi. A questi scritti è dedicato il presente volume. Si tratta di Sopra
alcuni antichi avori del Friuli, risalente probabilmente al 1794; del Sopra
varie sculture antiche del Friuli, vergato attorno al 1798; e, infine, del
Sopra le antichità di Sesto [n.d.r. al Réghena] nel Friuli. Nessuno di questi
brevi scritti, concepiti in almeno due volte su tre in forma di epistola
fittizia, fu edito nel corso della vita del padre barnabita. Due (il secondo e
il terzo) furono stampati nel 1801, pochi mesi dopo la morte di Angelo Maria,
come forma di omaggio nei confronti di una figura di riferimento della cultura
udinese; il terzo andò a stampa addirittura solo nel 1826. Si è detto che
Cortinovis fu una figura di riferimento nel mondo culturale udinese. Giunse
nella città udinese nel 1764 come preposto della locale congregazione dei
Barnabiti; ordine che da ormai un secolo si era fatto carico della formazione
scolastica preuniversitaria dei giovani udinesi e che nel 1750 aveva creato non
uno, ma due collegi destinati nel primo caso ai nobili e nel secondo ai figli
della borghesia. Cortenovis fu per decenni ‘preside’ del primo, e i suoi metodi
di insegnamento formarono generazioni e generazioni di udinesi. Uno dei suoi
allievi fu, ad esempio, Girolamo Asquini, che avremo modo di
conoscere per le sue Notizie dei pittori del Friuli. ‘Figura di riferimento’,
si diceva; non di svolta. Non lo fu né nei prediletti studi antiquariali, che
Pastres definisce tutto sommato attardati, né in quelli artistici, che tuttavia
costituiscono premessa e contesto per quelli successivi e, come già detto, sono
orientati soprattutto verso l’epoca medievale. Si tratta di una suggestione che
Cortenovis può aver raccolto, direttamente o indirettamente, da sue conoscenze
personali: fra queste spiccano quelle con Luigi Lanzi, Mauro Boni, Giovanni de
Lazara, nessuno dei quali friuliano, ma tutti in Friuli per alcuni anni proprio
negli anni Novanta o (nel caso di de Lazara) impegnati nella perlustrazione del
territorio; molto probabile che tramite costoro, ma anche tramite il cardinale
Stefano Borgia, conosciuto a Roma nel 1785, celebre collezionista e lettore di
epigrafi, possa essere venuto a conoscenza del grande progetto di Seroux
d’Agincourt e della sua Histoire de l’Art par les monumens, a cui il francese
cominciò a lavorare sin dagli anni Ottanta del Settecento e che si concentrava
soprattutto sul Medioevo. D’altro canto sembra da escludersi che un uomo così
colto potesse non aver letto opere come la Verona illustrata di Scipione Maffei
(1731-1732) o non avesse a mente l’esempio del Tiraboschi, così come non conoscesse opere di respiro più locale, a partire dalle Antichità di Aquileia di
Gian Domenico Bartoli fino a scritti di minor pretese.
Una dimostrazione di amicizia
Prima di prendere in considerazione i tre scritti
‘artistici’ di Cortenovis io vorrei però partire dall’Elogio dell’abate che
Luigi Lanzi scrisse e pubblicò nel 1801, appena un mese dopo la sua morte.
Lanzi e Cortenovis si conobbero probabilmente sin dal 1788, a Roma; ma fu
Cortenovis a offrire riparo a Lanzi quando nel 1796 quest’ultimo, a Bassano per
seguire la seconda edizione della sua Storia pittorica, si sentì minacciato
dagli eventi bellici (l’arrivo dei Francesi) e si trasferì al Collegio dei Barnabiti
di Udine. Qui Lanzi rimase sino al 1801 inoltrato, avendo così modo di
assistere alla morte di Cortenovis e di darne conto a Mauro Boni nelle lettere
che i due si scrivevano periodicamente (Boni, a sua volta, fu a Udine dal 1795
al 1797, per poi tornare a Venezia). Proprio dall’epistolario Lanzi-Boni,
subito dopo la morte di Cortenovis, emerge l’amicizia che il primo nutriva nei
confronti del defunto rettore del collegio, tale da spingere Lanzi a fare una
cernita degli scritti che valeva la pena pubblicare in onore del religioso
scomparso. Lanzi scrisse a Boni che molti degli studi antiquari di Cortenovis
erano sì eruditi, ma del tutto congetturali («Io temo che vi sia spesso più
d’ingegno che di verità» - cfr. p. 173) e di aver cercato più volte di dissuadere
l’amico dal pubblicare tesi strampalate, come quella che già gli antichi greci
fossero stati in grado di volare usando dei palloni aerostatici, tesi che
avevano come unico risultato quello di minarne la credibilità. Nulla di tutto
ciò trapelò nell’elogio. Al di là della dimostrazione di sincera amicizia, ciò
che più conta è che Lanzi scrisse a Boni di aver ritoccato anche parti della
‘lettera’ sulla scultura, circostanza di cui dobbiamo, pertanto, tener conto
(p. 175).
Sopra alcuni antichi avori del Friuli
Scritto probabilmente entro il 1794, Sopra alcuni antichi avori del Friuli è una lettera indirizzata al conte Antonio Bartolini, erudito udinese che, fra le altre cose, progettò la stesura di una guida artistica di Udine, mai realizzata. Bartolini fu il possessore di tutti e tre gli scritti oggetto di questo volume. Il testo (non del tutto completo) fu pubblicato sole nel 1826 in Lettere inedite d’illustri friulani del secolo XVIII o scritte da altri uomini celebri a personaggi friulani, Udine, Mattiuzzi, 1826. La lettera ‘artistica’ sugli avori è forse quella che più riflette gli interessi antiquari di Cortenovis, a cui si abbinano istanze di carattere religioso. Tutti gli oggetti presi in considerazione e descritti di fatto avevano avuto un utilizzo in ambito liturgico, anche quando, in origine, non erano stati pensati per questo tipo di mansione. È il caso, ad esempio, del cofanetto ‘a rosette’, oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Cividale, di produzione bizantina e risalente grosso modo alla prima metà dell’XI secolo; in origine si trattava, con ogni probabilità, di un portagioie, ma fu poi riciclato, come altri oggetti del genere, in contenitori di reliquie.
Cofanetto di ambito longobardo, Cividale del Friuli, Museo archeologico nazionale Fonte: https://www.touringclub.it/evento/venaria-reale-to-mostra-ercole-e-il-suo-mito |
Nei limiti delle sue capacità,
Cortenovis offre un giudizio stilistico («Le sculture sono gentilesche
[n.d.r. ossia risalenti ai tempi dei ‘gentili’, dei pagani], e per il loro
gusto e carattere mostrano di essere degli ultimi tempi del gentilesimo»;
cfr. p. 87). Poi provvede a descriverne le scene che lo decorano decifrando in
maniera sostanzialmente corretta scene mitologiche, salvo poi cadere in intima
contraddizione proprio alla fine. Il cavaliere che suona la tiorba, in uno dei
riquadri laterali del cofanetto, diventa «uno di quei poeti
circonforanei che nei bassi tempi giravano per le corti dei sig. e trovatori si
chiamavano»
(pp. 87-88). In realtà, pur fornendo – come detto – un panorama
sufficientemente completo Cortenovis non è in grado di organizzare storicamente
la sua trattazione e ricorre, semmai, a una trattazione per genere di oggetti;
e così al cofanetto cividalese ne abbina altri, passando poi alla Copertura di
Evangelario impiegata per impartire le benedizioni e per i baci dei fedeli,
oggi a Udine e alla Pace del duca Orso, tavolette usate per i baci dei fedeli,
concludendo ricordando la semplice memoria della cattedra episcopale nel duomo
di Grado (oggi non più esistente), per la quale si lancia in improbabili
ricostruzioni storiografiche, sostenendo che vada identificata con quella dell’arcivescovo
Massimiano a Ravenna. L’aspetto forse più interessante è la consapevolezza che
si tratta di oggetti non di produzione locale, ma impiegati come forma di
‘riuso dell’antico’.
Sopra varie sculture antiche del Friuli
L’occasione che spinse Cortenovis a scrivere la lettera
(fittizia) dedicata a Mauro Boni sulla scultura friulana è spiegata sin
dall’inizio: Boni (lo ricordo ancora: a Udine fra fine 1795 e inizio 1797)
aveva intenzione, secondo il barnabita, «di scrivere una dissertazione sulle
arti della scoltura, pittura, ed architettura che sono fiorite in questa
Provincia»
e Cortenovis desiderava, di fatto, dare il suo contributo, da un lato con la
‘lettura sulla pittura’ (Sulle antichità di Sesto) dedicata al de Lazara (ma
nel 1801 in mano a Bartolini) e dall’altro con questa epistola sulla scultura
che, in teoria, dovrebbe comprendere tutto l’arco temporale dai longobardi alla
‘modernità’, ma che di fatto si concentra sul medioevo friulano. Si tratta di
una rassegna di manufatti ‘esemplari’ che sono inseriti in una prospettiva
storica, sempre nei limiti delle conoscenze di Cortenovis. Non dobbiamo
aspettarci affermazioni strabilianti: Angelo Maria comincia parlando di alcune
sculture longobarde pervenuta sino ai suoi tempi «le quali ci fanno
testimonianza della estrema barbarie alla quale erano discese le arti in questa
Provincia ne’ secoli VI e VII» (p. 101) che però sarebbe state meglio
conservare per essere ‘molto particolari’. Tuttavia alcuni elementi positivi
possono essere colti. Innanzi tutto che, insieme a informazioni letterarie ve
ne siano altre colte direttamente sul campo; poi la capacità di distinguere che
l’Altare di Ratchis e il Battistero di Callisto appartengano entrambi a età
longobarda (p. 56), e, ancora, la consapevolezza che il territorio vada
esplorato per riuscire ad avere un’idea concreta del fare artistico è aspetto
non secondario: «Di queste sculture quante ve ne saranno in altre simili chiese
campestri, che si aprono di rado, e che appena sono visitate nel giorno della
loro primaria solennità dai contadini del vicinato? Di particolare importanza,
poi, è la chiusa finale, che abbandona la scultura per aprire su una parentesi
sugli affreschi visti in un viaggio a Sesto al Réghena. Ne parlerò subito qui
di seguito.
Altare del duca Ratchis, Cividale del Friuli, Museo cristiano e tesoro del duomo Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Sopra le antichità di Sesto nel Friuli
La visita a Sesto e, in particolare, alla sua antica abbazia (già in stato di abbandono) risale all’estate del 1798. Il resoconto di Cortenovis, ancora una volta si concentra sulle ‘antichità', e, in particolare sugli affreschi ‘trecenteschi’ che vi erano presenti, ora come allora in stato precario, se non perduti. Per ‘trecenteschi’ l’autore intende le scene a fresco dell’Inferno (praticamente illeggibile) e del Paradiso per le quali sottolinea la somiglianza coi celeberrimi affreschi del Camposanto di Pisa, da lui visti evidentemente in giovinezza.
Antonio da Firenze, Particolare dal ciclo de Il Paradiso, Sesto al Reghena, Abbazia di Santa Maria in Silvis Fonte: YukioSanjo tramite Wikimedia Commons |
Se è vero che tali scene mostrano un’influenza
toscana, la lettura cronologica è invece sbagliata; le opere, attribuite oggi ad
Antonio da Firenze, sono occasione per cercare di capire la relazione fra
pittura primitiva toscana e friulana. Qui confesso di non poter essere del
tutto d’accordo col curatore. Cortenovis scrive, con frase involuta: «qui
[n.d.r. nell’abbazia] si apprende come i primordi delle arti risorte son quelli
fra noi, che in più parti d’Italia ci ha descritto il Vasari, a cui se fossero
state note queste pitture Sestine, non le avria certo pretermesse». Pastres
aggiunge che in questo passo «si avverte l’eco della mai sopita polemica
anti-fiorentina sul primato del «risorgimento» delle arti» (p. 67). Confesso
che io non colgo questa eco. Cortenovis ritiene che gli affreschi siano opera di
maestranze fiorentine, se non altro perché il modello del Giudizio Universale
si rifaceva a quello che Dante aveva descritto nella Divina Commedia. A questo
proposito ricorda che le fonti tramandavano l’arrivo di una folta comunità di
mercanti fiorentini in Friuli. Nella parte finale della lettera sulle sculture,
divagando appunto sulle pitture di Sesto aveva scritto, del resto: «La cappella
di S. Niccolò del duomo di Udine, che aveva i ritratti espressi del Petrarca,
del Boccaccio, di Cino da Pistoia, e del Cavalcanti ci dimostra, che con tanti
toscani che venivano e si stabilivano allora nel Friuli, vi venissero anche dei
pittori; ed i ritratti dei loro letterati, e le invenzioni dei loro primi
maestri qua portassero» (p. 107). Non solo; aggiunge: «Qui però non posso
dissimulare una scoperta che ho fatta nel mio viaggio di Sesto che potrebbe
indebolire l’opinione di qualcheduno sopra la originalità delle belle arti in
questo paese, indipendente dalle altre scuole d’Italia» (p. 106). Sappiamo
peraltro che esattamente in questo punto Cortenovis faceva riferimento
esplicito all’amico Mauro Boni (di cui evidentemente non condivideva tutte le
opinioni), che strenuamente esaltava la supremazia cronologica dell’arte di
area veneta (e quindi anche friulana) rispetto alla Toscana. Lo sappiamo perché
è lo stesso abate Lanzi a scrivere in una lettera a Boni di aver cassato il suo
nome per motivi di opportunità (cfr. p. 175), pur, nella sostanza, condividendo
la sua opinione. Riassumendo: sia Boni sia Cortenovis svolgono, ovviamente, un
discorso filopatrio, ma mentre il primo lo fa raccogliendo la lunga tradizione
della polemica antivasariana, il barnabita sembra invece accettare che,
storicamente, la pittura friulana del ‘risorgimento’ si sviluppi grazie al
deciso apporto di artisti toscani, circostanza che Vasari non avrebbe mancato
di segnalare se mai avesse conosciuto gli affreschi di Sesto al Réghena.
Non si può concludere senza ricordare che la curatela dello scritto su Sesto fu del conte Antonio Bartolini, che, come già detto, non scrisse mai la progettata guida di Udine. Le sue uniche note artistiche sembrano essere proprio quelle apposte a questo testo di Cortenovis e non sono del tutte prive di un loro interesse, in particolare quando Bartolini descrive (sia pur per interposta persona, almeno stando a quanto dichiara ufficialmente) il cosiddetto Tempietto Longobardo nel complesso monastico di Santa Maria in Valle a Cividale del Friuli.
Presbiterio del 'Tempietto longobardo', Cividale del Friuli, Monastero delle Orsoline Fonte: Wolfgang Sauber tramite Wikimedia Commons |
Si tratta della prima descrizione del patrimonio artistico del Tempietto, di difficilissimo accesso perché collocato all’interno di un monastero di clausura di suore: «il brano riservato al Tempietto comprende sia le figure femminili in stucco dell’VIII secolo sia gli affreschi medievali» (p. 73).
Statue di sante in stucco nel 'Tempietto longobardo' Fonte: Welleschik tramite Wikimedia Commons |
La critica d’arte moderna non ha mancato di mettere in evidenza la
particolare importanza delle decorazioni in stucco: «sono state notate precise
tangenze con la produzione dell’arte omayyade (…), dove nella prima metà
dell’VIII secolo furono modellate delle statue femminili e il motivo del
tralcio di vite fiorita (questa decorazione aveva già avuto una grande fortuna
nell’arte copta e siriaca. Simili assonanze hanno fatto pensare che gli
esecutori degli stucchi cividalesi possano essere artisti provenienti dal
medio-Oriente (di cultura bizantina) spostatisi in Europa portando con sé una
tradizione tecnica ed iconografica ormai da tempo persa ed estranea all’arte
locale» (p. 144). Di tutto ciò, ovviamente, Bartolini non era assolutamente
consapevole, ma a lui spetta comunque il merito di aver proposto la prima
descrizione, sia pur sommaria, degli apparati decorativi del Tempietto.
Nessun commento:
Posta un commento