Piero della Francesca
Trattato d’abaco
3 voll.. Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2012
Il manoscritto (e un secondo testimone)
Si ritiene che la stesura del Trattato d’abaco da
parte di Piero della Francesca sia avvenuta all’incirca fra la fine degli anni
Settanta e l’inizio degli Ottanta del Quattrocento. L’attribuzione a Piero del
testimone, oggi conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze con
segnatura Codice Ashburnham 359*-291*, risale a oltre un secolo fa ed è ormai
accettata da tutti. In realtà la prima edizione a stampa è uscita solo nel 1970
per merito di Gino Arrighi. Fu Arrighi ad attribuire al manoscritto il titolo
di Trattato d’abaco, usando la dicitura che è oggi leggibile sulla
rilegatura moderna del codice (che è invece privo di titolo e dell’indicazione
del nome dell’autore). Nel 2012, nell’ambito della faticosa (ma se non altro
portata a conclusione) pubblicazione dell’Edizione
Nazionale degli Scritti di Piero della Francesca, è uscita appunto la
presente edizione. Riporto la lista dei crediti, tratta dal frontespizio: Commissione
Scientifica: Marisa Dalai Emiliani (presidente); Ottavio Besomi, Carlo
Maccagni. Gruppo di ricerca: Enrico Gamba e Vico Montebelli (testo critico),
Giovanna Derenzini (note codicologiche e paleografiche), Enzo Mattesini (note
linguistiche e indice lessicale), Vladimiro Valerio con la collaborazione di
Alessandra Sorci (edizione critica dei disegni). Mentirei se negassi che ogni
tanto si avvertono piccole contraddizioni fra una mano e l'altra. Il primo tomo
contiene un’introduzione al trattato, il suo testo e l’apparato degli indici;
il secondo è dedicato ai disegni; il terzo presenta la stampa anastatica del
codice Ashburnham 359* [n.d.r. -291*]. Il formato di quest’ultimo, più piccolo
rispetto ai precedenti, è esattamente coincidente con quello del codice.
Dell’opera esiste un secondo testimone, il codice Conv.
Sopp. A.6.2026 oggi alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, più tardo
dell’originale, frutto con ogni probabilità della copia di una copia.
Il perché di un trattato
Piero della Francesca, Trattato d'abaco, pagina iniziale, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/File:Piero_della_Francesca_-_Trattato_d%27Abaco_%281%29.jpg |
Perché Piero scrisse un Trattato d’abaco (l’abaco, per chi non lo sapesse, era, a suo modo, un genere letterario: si trattava di un libretto in cui erano insegnati i rudimenti dell’aritmetica)? In realtà è lo stesso artista a spiegarcelo, all’inizio della sua fatica: «Essendo io pregato de dovere scrivere alcune cose de abaco necesarie a’ mercatanti da tale che i preghi suoi me sono commandamenti, non commo presuntuoso ma per ubidire me sforçarò con l’aiutorio de Dio in parte sactisfare l’animo suo, cioè scrivendo alcune raigioni mercantesche» (v. I, p. 3). Qualcuno, insomma, gli avrebbe chiesto di scrivere un testo abachistico che potesse venire incontro alle esigenze di calcolo dei ‘mercatanti’ (compravendita, baratto, società, leghe e misture). Chi fu quel qualcuno? Una risposta ci può forse venire dalla pagina iniziale del manoscritto, che è riccamente miniata, e che in basso, presenta l’arme di una famiglia contenente tre uccelli (probabilmente tre picchi), il che costituirebbe una dedicatoria alla famiglia Pichi, una delle più importanti di Sansepolcro, che peraltro aveva già finanziato l’esecuzione del Polittico della Misericordia per l’omonima chiesa della città.
Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, Museo civico di Sansepolcro Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/p/piero/1/1miser01.html |
Si sarebbe trattato, quindi, di una richiesta proveniente dagli ambienti
di Sansepolcro; va peraltro segnalato che l’esame tecnico-stilistico delle
miniature porta a un’attribuzione delle medesime alla scuola ferrarese e, in
particolare, a qualche collaboratore o emulo di Taddeo Crivelli (il miniatore
della Bibbia di Borso d’Este). I due dati andranno in qualche modo armonizzati,
ma non è difficile pensare a contatti avvenuti nel corso della permanenza di
Piero a Ferrara o a un seguace di Crivelli temporaneamente in Toscana.
Nonostante la dichiarazione di Piero, non è tuttavia ben
chiaro chi fosse il fruitore ultimo del testo. Possiamo leggere, ad esempio, che
il trattato aveva funzione «di promemoria per chi aveva
frequentato la scuola o di manuale per autodidatti» (v. I, p. XLIV). Se dunque il
pubblico dell’autore sembra essere intenzionalmente quello di ‘pratici’ e
‘tecnici’, è anche vero che «in realtà il livello matematico
dell’opera è troppo elevato perché siano loro i veri destinatari. È probabile
che Piero componesse l’opera non solo perché interessato all’argomento ma,
secondo un costume dell’epoca, anche per fare bella mostra delle proprie
conoscenze matematiche nei confronti del destinatario» (p. XLVII).
Le conoscenze matematiche di Piero
Molto meno stupefacente deve essere considerato, invece,
l’interesse di Piero per la matematica. Sappiamo bene, e la circostanza emerge
in maniera evidente nel De
prospectiva pingendi, quanto fosse impregnata di calcoli la pittura
dell’artista. Nell’edizione del 1970 Arrighi scrisse in proposito a p. 8:
“Questo trattato… è quasi indipendente dagli interessi artistici dell’autore;
ma ho voluto dir «quasi» giacché quell’ordine con cui si presenta l’opera
pittorica di Piero potrebbe spiegarsi anche con la considerazione che egli fu
dotato altresì di una forma mentis matematica…”, non cogliendo
completamente quest’aspetto. Giusta Nicco Fasola, invece, già nel 1942, proponendo
il De prospectiva pingendi in edizione anastatica, chiariva che “Il
problema del dissidio di scienza ed arte non esiste nel ‘400-‘500 perché non
esisteva la differenza, dal momento che l’unica distinzione era tra scienza e
non scienza, arti meccaniche ed arti liberali” (p. 10). Nessuna sorpresa,
dunque. Piero non fu il solo artista ad avere nozioni di matematica che
utilizzava (anche) per i suoi quadri. La prospettiva, del resto, nasce nel
Quattocento. Semmai l’aspetto eccezionale è il livello di conoscenza che
l’artista riuscì a raggiungere in quest’ambito.
Per capire meglio quale fosse la cultura matematica di Piero torniamo al trattato e consideriamolo meglio: si divide grosso modo in tre parti (più una sorta di appendice). La prima è dedicata all’aritmetica, ma tralasciando le operazioni elementari e partendo dalle operazioni con le frazioni; la seconda è dedicata all’algebra; la terza alla geometria; la quarta, infine, è «una miscellanea di problemi non geometrici di vario tipo» (vol. I, p. XLVI). Sia la sezione algebrica sia quella geometrica sono eccezionalmente estese per essere di fronte a un abaco (e per questo si accennava prima a un livello più ‘alto’ rispetto a quello di un ‘mercatante’). Nel caso del’algebra sono proposte una sessantina di equazioni di primo e secondo grado (con tentativi, non sempre riusciti, di spingersi oltre ad equazioni di terzo, quarto, quinto e sesto grado); in quello della geometria si va dallo studio delle figure piane (triangoli, quadrati, pentagoni) a quello delle solide (cubo, dodecaedro, icosaedro, ottaedro e due poliedri semiregolari (tetraedro tronco, cubottaedro)). «Questa parte è notevole sia per l’originalità dell’argomento, sia ancor più per il disegno delle figure: come è noto, gli Elementi di Euclide [n.d.r. che Piero richiama esplicitamente almeno in tre occasioni] terminano con le proposizioni sui cinque solidi regolari, tuttavia nei codici medievali e rinascimentali antecedenti a Piero, questi solidi non vengono disegnati, o ricevono disegni estremamente incompleti e del tutto privi di resa spaziale» (vol. I, p. LXII). Proprio la parte iconografica costituisce l’elemento più caratteristico del trattato: si tratta di 131 figure, tutte concentrate, ovviamente, nella sezione geometrica: 78 sono relative alla geometria piana e 53 riguardano quella solida. Sono disegnate soprattutto nel margine inferiore dei fogli (raramente di lato) e ovviamente sono legate inscindibilmente al testo, costituendo spiegazione visiva di quanto scritto: «I disegni dell’Abaco di Piero sono inscindibili dal testo, con il quale istituiscono un dialogo continuo: spiegano il testo e viceversa il testo chiarisce il disegno» (vol. II, p. XIV).
Oltre all’edizione facsimilare (tomo
III), le immagini sono presentate in edizione diplomatica e in edizione critica
(due immagini diverse, quindi) nel volume secondo. «Il disegno diplomatico
presenta la trascrizione delle particolarità formali dell’originale,
migliorandone la leggibilità. […] Il disegno critico riproduce il
disegno diplomatico emendato degli errori (…), integrato con le linee e le
lettere menzionate nella proposizione, ma omesse nella figura del manoscritto» (vol.
II, pp. XVII-XVIII).
Le conoscenze di Piero riflettono pienamente quelle dell’algebra e
della geometria dell’epoca. L’algebra, traghettata in Italia nel XIII secolo,
ebbe il suo testo di riferimento nel Liber abaci di Leonardo Pisano. Il
primo effetto di tale introduzione fu, come noto, la sostituzione delle cifre
romane con quelle arabe, facilitando, e non di poco, il calcolo aritmetico. Tutto
sommato, però, lo sviluppo del calcolo algebrico fu piuttosto lento e, due
secoli dopo il trattato di Pisano, si conoscevano bene solo le equazioni di
primo e secondo grado (proprio come nel presente Trattato d’abaco).
Una letteratura tecnica
Il vero cambio di passo si ebbe col passaggio da un’algebra ‘retorica’
a una ‘simbolica’, ossia con l’introduzione di simboli e abbreviazioni che
sostituivano un’esposizione discorsiva. Il trattato di Piero, sotto questo
punto di vista, è di particolare interesse perché individua un momento di
transizione, in cui molti problemi sono esposti ancora in forma narrativa, ma
comincia a essere introdotta una simbologia standard. Così, ad esempio, per
indicare un’incognita x si usa un trattino posto sopra al numero; per l’elevazione
al quadrato, è collocato sempre sopra il numero un quadratino, per l’elevazione
al cubo un triangolino. Ma l’aspetto che più sorprende è la similitudine, in
termini letterari, fra il trattato di Piero e i ricettari artistici;
esattamente come le istruzioni reperibili in un ricettario, le proposizioni di
Piero sono sempre prescrittive e non dimostrative. Faccio un esempio: in un
caso come la proposizione 10 (la numerazione è moderna) possiamo leggere: «Ma
se vòi partire 9 2/3 per 5 2/7, parti 203/21 per 111/21, che ne vene 1 92/111.
Tanto ne vene a partire 9 2/3 per 5 2/7, et cioè 1 92/111»; in termini
concettuali non esiste alcuna differenza rispetto alle istruzioni (è un esempio
a caso) di Cennino Cennini «del modo da ffare un verde dazurro oltra marino:
verde e un colore che ssi fa dazurro oltre marino e dorpimento / convienti di questi
colori rimescolare con senno piglia l orpimento prima e mescholavi dell azzurro
se vuoi che penda in chiaro / l orpimento vincha se vuoi che penda inn sischuro
l azurro vincha questo colore ebuono in tavola e nonne in muro tempera con
cholla». Fra il trattato di Cennino e quello di Piero passano almeno settant’anni,
ma l’impostazione è sempre prescrittiva, e trasmette la conoscenza in base
all’esperienza. Si tratta di una somiglianza che lo sviluppo dell’algebra in
senso simbolico farà cadere, ma che a queste date è bene tuttora mettere in
risalto: «Ogni regola, presa per valida senza alcuna giustificazione, è subito
seguita dai relativi problemi già risolti. […] Lo scopo didattico è di formare
un bagaglio di modelli e un insieme di casi specifici, con annesse soluzioni,
ai quali riferire le situazioni concrete che poi s’incontreranno nella
professione. Ne risulta una matematica congeniale alla mentalità dello strato
culturale dei tecnici, che pensa e fa leva su “verità” pratiche e operative,
piuttosto che teorico-dimostrative.» (vol. I, p. XLIV-XLV).
Piero e Luca Pacioli
Naturalmente non poteva sfuggire alla trattazione un confronto fra
il Trattato d’abaco e il Libellus de quinque corporibus regularibus,
altra opera di Piero, offerta a Federico di Montefeltro fra 1482 e 1483 (e
quindi più tarda); né si poteva tralasciare il debito di Luca Pacioli nei
confronti degli scritti pierfrancescani. Sin dai tempi di Vasari Pacioli fu
accusato di plagio. Certamente nella sua Summa de arithmetica, geometria,
proportioni et proportionalità (vol. II p. XIV) attinse ampiamente dal Trattato
d’abaco, sia dalla parte algebrica sia da quella geometrica. Nel 1509, poi,
tradusse in italiano il Libellus de quinque corporibus regolaribus e lo
calò pari pari all’interno del suo Divina proportione. Ciò detto, è
evidente che il concetto di plagio era ben diverso a quei tempi rispetto ai
nostri. Si tratta di capire, però, perché già Vasari parli di plagio, e a mio
avviso una possibile risposta (a parte il campanilismo) è che lo scrittore
aretino non sembra avere particolare confidenza con la letteratura
tecnico-artistica (si pensi a come liquida il Libro dell’arte di Cennino
Cennini) che tradizionalmente è costituita da prescrizioni tratte a loro volta
da altri ricettari, se del caso modificate, in un processo di trasmissione
della conoscenza esperienzale in cui il nome dell’autore originario
semplicemente non ha senso. Molto simile, come ho cercato di spiegare sopra, è
la situazione della letteratura tecnico-matematica, basata anch’essa su
prescrizioni (sarebbe bello uno studio diretto a capire da chi attinge Piero)
che a volte vengono replicate senza modifica alcuna. Insomma, se Pacioli 'plagiò', lo fece nell’ambito di una disciplina in cui il plagio era la
regola, e non l’eccezione.
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