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sabato 14 ottobre 2023

Elisabetta Giffi. Federico Zuccari e la professione del pittore


Elisabetta Giffi
Federico Zuccari e la professione del pittore

Postfazione di Paolo Procaccioli

Roma, Artemide, 2023

Recensione di Giovanni Mazzaferro


In copertina: Federico Zuccari, Autoritratto, Chatsworth, The Devonshire Collections


La dimensione culturale

Uscire dall’interpretazione ‘psicologica’ del personaggio (condotta peraltro a quattro secoli di distanza) e entrare in una dimensione più ampia, culturale, di cui Zuccari (1539-1609) fece parte a pieno titolo nella seconda metà del Cinquecento: mi pare questa l’operazione tentata (con successo) da Elisabetta Giffi nel suo Federico Zuccari e la professione del pittore. Mi si lasci passare un paradosso: è proprio la professione del pittore a essere la vera protagonista del libro, che si occupa delle riflessioni dell’artista sul tema. È fuori di dubbio che Zuccari perseguì per tutta la sua vita l’idea che la pittura fosse arte nobile e codificò i comportamenti, i requisiti, le qualità che si addicevano all’artista, fino a giungere a dar vita alla romana Accademia di San Luca, di cui fu primo Principe, nel 1593. Agì in prima persona, ma fu simbolo, riferimento, ispirazione per la comunità dei pittori, e non solo romani.

Giffi sostiene l’importanza di recuperare le coordinate culturali nel cui ambito Zuccari si mosse, facendo presente, a ragione, che non è possibile esprimere giudizi anacronistici (specie sulle ‘discusse’ invenzioni dell’artista), che non tengano conto delle idee e del contesto sociale dell’epoca. Certo, mi sembra perfettamente umano il desiderio di conoscere i retroscena dei comportamenti degli ‘uomini illustri’: oggi sappiamo, ad esempio, che Tiziano era avaro, il che non sposta di un millimetro valore e peso di Vecellio nella storia dell’arte. È quasi normale, a questo punto, mettere a confronto lo Zuccari ‘ufficiale’, quello che si richiama all’onore, alla verità, ai valori dello stoicismo con ciò che traspare, ad esempio, dalle sue velenose postille a ben tre esemplari delle Vite vasariane. Allo stesso modo è famosissimo il processo a cui fu sottoposto per essere stato l’ ‘inventore’ di un quadro dipinto dal Passignano e rappresentante la Porta Virtutis (in sostanza una rappresentazione allegorica diretta, secondo l’accusa, contro Paolo Ghiselli, facente parte della corte pontificia). La vicenda si concluse con l’allontanamento (temporaneo) di Zuccari da Roma. Dobbiamo essere innocentisti o colpevolisti? Il punto non mi pare questo; semmai dobbiamo avere la forza di astrarre dal caso singolo per comprendere appieno l’aura quasi leggendaria che Zuccari assunse nel corso del Seicento come primo Principe dell’Accademia. La prospettiva, insomma, se vuole essere storica, deve essere culturale. Ed è qui che si cimenta l’autrice con sapiente ricostruzione di un contesto che non riguarda solo Roma, ma anche altri centri, a cominciare da Venezia.

 

Venezia e i poligrafi

Che cosa rappresentò Venezia per Zuccari, dove Federico arrivò una prima volta nell’estate del 1563, a ventiquattro anni, e rimase meno di due anni (salvo successivi soggiorni)? Da un punto stilistico – è un dato condiviso – non tantissimo; su un piano culturale l’influenza della Serenissima sembra ben più incisiva: «a Venezia, Federico Zuccari si nutrì soprattutto di idee» (p. 22). 

Federico Zuccari, Volta della Scala d'onore, 1563-1565, Venezia, Palazzo Grimani
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons

Venezia era la patria della libertà (così l’aveva celebrata – uno fra tanti – Sansovino nel 1561); a Venezia viveva Tiziano, uno degli artisti più celebrati del mondo, ricercato da tutte le corti, ma contemporaneamente estraneo a esse e capace di contrattare i suoi incarichi da posizioni di forza. Ma soprattutto la città fu il luogo dell’incontro con i poligrafi, ossia con una ‘categoria’ di professionisti che, con la forza delle idee (e della stampa) era riuscita a emanciparsi dalla vita ecclesiastica da un lato e da quella di corte dall’altro, ossia dai due unici sbocchi che sembravano essere possibili fino ad allora per chiunque volesse dedicarsi a essere ‘dotto’. Poco importa se questo incontro sia stato mediato (come nel caso dell’Aretino, morto sette anni prima) o diretto (e qui l’attenzione di Giffi è dedicata soprattutto a Anton Francesco Doni, senza trascurare molti altri). La Venezia di quegli anni è una città in cui artisti e poligrafi si incontrano e si scambiano idee (immagini da un lato, parole dall’altro) per vedere rivendicata la nobiltà del loro lavoro, la loro indipendenza, il loro onore. «La portata dell’operazione nella quale un pittore come Zuccari era impegnato – scrive Paolo Procaccioli nella sua postfazione – è evidente al solo considerare il lessico posto a fondamento del suo edificio argomentativo. Un lessico minimo – “verità”, “virtù”, “ingegno”, da allargare con le riflessioni sul “dono” – e tra l’altro né specifico né tantomeno esclusivo delle arti, che costituiva il vero nodo del dibattito in corso nel secolo e che vide la partecipazione, sui rispettivi fronti, dei letterati e degli artisti. Era proprio per la loro portata allargata che quei termini erano una leva potente, in grado di sollevare la figura dell’artista e riscattarla dal destino di subalternità cui la tradizione lo condannava” (p. 262).

Siamo, per molti versi, ancora una volta di fronte al tema dell’ut pictura poesis, che in Federico, tuttavia, assume un carattere particolare e – sostiene Giffi – permette a Zuccari, tramite l’incontro coi poligrafi di «ricomprendere nella professione di pittore le proprie aspirazioni letterarie» (p. 26). Del resto, Doni concepisce la pittura – e lo si vede in molti suoi scritti – come attività precipuamente mentale in quanto dipendente dal ‘disegno’, espressione massima dell’attività intellettuale. Inutile dire quanto questo modo di intendere le cose incida storicamente su Zuccari, che arrivò poi a codificare ‘disegno interno’ e ‘esterno’ nei suoi scritti teorici, specie nell’Idea del 1607.

Il mondo veneziano dei poligrafi propone al giovane artista una serie di aspirazioni ideali, se si vuole utopistiche, che ritroveremo nel corso di tutta la sua vita. Le prime sono – senza dubbio - «la nobiltà conferita non dalla nascita ma dalle qualità naturali dell’animo e dell’ingegno individuale che produce i suoi frutti attraverso il lavoro artistico (…); la rappresentazione di quest’ultimo affidata a metafore legate al lavoro agreste, a una condizione umile, vicina alla natura; l’esaltazione della sfera dei valori individuali e familiari da intendere anche come orgogliosa rivendicazione di una dimensione esistenziale e professionale autonoma» (p. 34). Aggiungerei anche l’abitudine a declinare queste rivendicazioni tramite una serie di invenzioni (siano esse letterarie o figurative poco importa: sempre di invenzioni “poetiche” si tratta) secondo un registro serio-comico. Si parla, si dipinge, si disegna (si ‘inventa’, insomma) per allegorie che nascondono un significato ‘serio’ dietro alla burla o al tono faceto del discorso. Comune ai poligrafi e all’artista è, poi, il tema dell’onore, a cui l’artista giunge tramite la fatica intellettuale e che non può essere oggetto di vile remunerazione, ma di riconoscimento e ‘premi’. Il rapporto col committente non può quindi essere legato a un discorso salariale (il che riporterebbero l’artista su un piano di lavoro servile e artigianale), ma deve espresso dal ‘dono’ che, autonomamente, deve essere riconosciuto dal committente all’artefice per il percorso che porta alla realizzazione dell’opera.

 

Dal particolare al generale

Si è detto, più o meno, dell’humus culturale alla luce del quale leggere, in filigrana, il pensiero di Zuccari. Scrivo il pensiero, e non l’opera, perché è evidente che Federico si muove sempre su un piano morale; e perché - stando a Giffi - «Zuccari, a partire all’incirca dagli anni 1565-1570 [n.d.r. quindi, molto presto], abdicò alla ricerca propriamente artistica per coltivare piuttosto aspirazioni letterarie e impegnarsi in un discorso pubblico; si fece portatore degli interessi della «professione» e, nell’arco di circa trent’anni, espose i suoi «concetti» a riguardo laddove poteva farlo: nella decorazione delle sue case, la fiorentina e la romana, e attraverso la stampa figurativa che poteva autofinanziarsi sul circuito commerciale» (p. 7). 

Federico Zuccari, Stemma di Federico Zuccari, Firenze, Casa Zuccari
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons


Il tutto, è il caso di dire, prendendo spunto da avvenimenti particolari e rendendoli generali, ossia leggibili e interpretabili al pubblico come osservazioni sulla professione del pittore. È il caso, ad esempio, della famosissima serie di disegni dedicata alle vicende biografiche di Taddeo, il fratello maggiore morto prematuramente nel 1566, oggi al Getty Museum [1]. In essa, la figura di Taddeo è mostrata come quella ideale del giovane artista che si afferma alla ribalta della scena solo tramite lo studio indefesso e il superamento di una quantità enorme di difficoltà economiche e lavorative. Taddeo diventa sinonimo di artista esemplare. 

Federico Zuccari, L'allucinazione di Taddeo nel viaggio di ritorno a casa da Roma, Los Angeles, Getty Museum
Fonte: https://www.getty.edu/art/collection/objects/126623/federico-zuccaro-taddeo's-hallucination-italian-about-1595/


Se è vero che i disegni non furono incisi e poi diffusi, è altrettanto innegabile che conobbero una fortuna notevolissima, testimoniata dalle numerose copie antiche che li riproducono. Mi chiedo anche se il fatto che Federico abbia postillato ben tre esemplari diversi delle Vite vasariane non rientri esattamente nella stessa fattispecie, volta a diffondere la leggenda del fratello (e perché no? a screditare Vasari). Fino a oggi si è sostenuto che Zuccari fu proprietario di quei tre esemplari e che li regalò a persone diverse. Mi si consenta di dire che è forse più probabile che si sia offerto (o gli sia stato chiesto) di scrivere le sue postille su esemplari appartenenti a terzi, proprio perché potesse completare in senso moralistico la biografia di Taddeo. Si tratta, sia chiaro, di una mia personalissima ipotesi, che peraltro dovrebbe essere verificata a partire da un confronto puntuale (e in prima persona) di tutti e tre gli esemplari, ora che anche quello segnalato da Milanesi nel 1848 è stato rintracciato e ha trovato casa presso la Biblioteca comunale degli Intronati di Siena.

 

La stampa

La stampa fu, fin dai tempi veneziani, uno degli strumenti preferiti attraverso il quale Zuccari diffuse le sue invenzioni sulla professione del pittore. Logico che fosse pienamente consapevole della sua importanza, appunto per via del soggiorno lagunare e (successivamente) di quello effettuato in Anversa, altra capitale della tipografia europea. «Quando Baglione scriveva che Zuccari «mandò in stampa alcune sue bizzerrie, e pensieri circa la nostra professione», tratteggiava gli aspetti forti, innovativi dell’impegno corporativo del pittore: l’elaborazione di una simbolica dedicata alla professione, intorno a cui strutturare l’«immaginario sociale» degli artefici del disegno» (p. 144). Sicuramente il particolare apprezzamento per la stampa era anche frutto di riflessioni (anch’esse con ogni probabilità maturate a Venezia) sul rapporto fra poesia e pittura. Se è vero che i poeti, tramite i caratteri mobili, potevano diffondere le loro ‘invenzioni’ ovunque, la stampa di traduzione offriva ai pittori analoga possibilità. La stagione della stampa aveva conosciuto già grandi fasti con Raffaello e Marcantonio Raimondi, ma con Zuccari (e non solo con lui) emerge «l’esigenza di promuoversi come inventori e diffondere di sé una fama legata all’ingegno» (p. 164). Scrive ancora Giffi: «La stampa figurativa (…), svincolando il «disegno»  dell’opera dalla sua onerosa realizzazione materiale, promuoveva di fatto la libertà inventiva del pittore che, con poca spesa, come il letterato, poteva affidare le proprie invenzioni alla diffusione delle carte stampate, il che lo rendeva libero dai condizionamenti imposti dalla committenza, «libero cioè di poter liberamente proferir quello che vuole» dal momento che, come avrebbe dichiarato lo stesso Zuccari, «la virtù […] può scrivere quello che li pare»» (p. 156).

 

Invenzioni e professione del pittore

Cornelis Cort da Federico Zuccari, La Calunnia, Amsterdam, Rijkmuseum
Fonte: https://www.rijksmuseum.nl/nl/zoeken/objecten?q=zuccaro&p=6&ps=12&st=Objects&ii=8#/RP-P-OB-7155,68


È in questa ottica che vanno considerate le molte stampe zuccaresche che sono state spesso considerate come risposta livorosa a presunti torti subiti nell’esercizio della sua professione. In realtà è molto probabile che l’artista possedesse un ‘repertorio’ iconografico di invenzioni, su cui meditasse per anni e che, di volta in volta adattasse a casi reali, sempre però passando dal particolare al generale e il più delle volte mantenendo il doppio registro serio-faceto. Così, ad esempio, la Calunnia, posta in relazione con l’allontanamento dai cantieri di Caprarola da parte del Cardinal Alessandro Farnese diventa una riflessione in chiave anti-cortigiana (già proposta a Venezia dai tempi dell’Aretino), che promuove il rapporto diretto fra artista e principe. «Zuccari indicava ai giovani della «professione» la via della libertà dall’«abietta servitù» nella corte e quella degli «studi», proponendo loro il modello del giovane coraggioso che, fronteggiando i colpi della fortuna e l’infernale malvagità degli uomini, persegue con forza, fatica e pazienza gli alti ideali di virtù e onore che lo conducono infine a godere dei frutti della pace e dell’abbondanza» (p. 122). La difficoltà della vita di corte non è certo fenomeno inedito, a quelle date: basti pensare allo stesso Vasari, che, attorno al 1537, in seguito alla morte del duca Alessandro de’ Medici, aveva sviluppato un fortissimo senso di sfiducia nei confronti delle corti, decidendo di abbandonarle. Ma in Vasari lo sconforto resta caso singolo, da vivere nell’intimo o da condividere con gli amici; non diviene caso da proporre all’attenzione di un pubblico come in Zuccari. Cert’è, ad ogni modo, che il rapporto col cardinal Alessandro, che molti hanno voluto identificare col potente dalle orecchie d’asino dell’invenzione, rimase sempre buono, come dimostrato da episodi storici successive. Evidentemente la Calunnia, giudicata oggi offensiva, tale non era percepita all’epoca, espressione piuttosto di un raffinato ragionamento di ordine morale sulla professione del pittore.

 

Il Monte della Virtù

Già nella Calunnia compare un riferimento al Monte della Virtù, raggiungibile dall’artista, novello Ercole, tramite una serie di difficoltà e pericoli. Si tratta di un tema che a Zuccari sta particolarmente a cuore e che riprende in chiave morale l’antica tradizione che voleva la presenza di due templi contigui, uno dedicato a Virtù e l’altra a Onore fuori Porta Capena, a Roma. Il tema diventa centrale nel disegno dedicato appunto al Monte della Virtù. Scrive Giffi: «Quanto al disegno oggi a New York, che illustrava lo scenario che doveva presentarsi a chi, affrontata la fatica degli studi, avesse raggiunto la sommità del Monte della virtù, con un Parnaso abitato dalle Arti liberali e dalle Arti del Disegno, esso dispiegava significati che risultano complementari a quelli della Calunnia: fuori dallo spazio «infernale» della corte, dove il pittore era consegnato a una condizione servile, c’erano da compiere scelte morali che implicavano anche responsabilità collettive rispetto alle sorti della Pittura; il Monte della virtù doveva prospettare come possibile la realizzazione di un «progetto corporativo» per l’emancipazione delle Arti del Disegno dallo statuto di Arti Meccaniche e il loro ingresso nel Parnaso delle Arti liberali» (p. 132). In sostanza, un’Accademia. Il tema dell’Accademia doveva essere stato oggetto di riflessione sin dai tempi di Venezia, dove Doni aveva fondato l’immaginaria Accademia Pellegrina e progettato una serie di immagini pittoriche destinate alla decorazione di un Tempio della Fama che rimase solo allo stato di progetto. Le Accademie ‘reali’, d’altro canto, non mancavano. È a Firenze, tuttavia, che Federico conosce e frequenta l’Accademia del Disegno, ossia l’unica, sino ad allora, specificamente dedicata agli artisti; ed è sulla scia dell’Accademia del Disegno che si muove per promuovere la nascita di un’Accademia romana. Sappiamo, peraltro, che un’Accademia fu istituita nella Città Eterna con decisione papale del 1577. Rimase tuttavia sulla carta. Fu solo nel 1593 che si ebbe la fondazione reale dell’Accademia di San Luca, di cui, come detto, Zuccari fu eletto primo Principe. Ma anche prima, le sue scelte di vita vanno lette in chiave ‘accademica’, nel tentativo di promuovere un consesso ideale dove gli artisti potessero rivendicare la loro indipendenza, studiare e trovare aiuto in caso di necessità economiche. L'edificazione del palazzetto sul Monte Pincio, l’attuale Palazzo Zuccari, a partire dal 1591, non può che essere letta in questo senso e doveva avere una chiara valenza simbolica, che oggi l’inurbamento ha completamente cancellato. Collocato in posizione isolata, in cima a una ripida salita, palazzo Zuccari non era altro che la materiale realizzazione del Monte della Virtù. E non è strano che fonti dellì’epoca scrivano, in proposito, segnalando l’enorme spesa a cui l’artista andava incontro, che Zuccari si era imbarcato in un suo ‘capriccio poetico’. Siamo, ancora una volta, nell’ambito dell’invenzione. Come noto, il palazzo era destinato a diventare – secondo le volontà dell’artista – luogo di riparo per pittori, scultori e architetti provenienti da fuori Roma. Si trattava di un lascito ideale alla città che si ricollegava alle difficoltà vissute dal fratello Taddeo quando giunse da ragazzo a Roma.

 

La Porta Virtutis

Un’ultima invenzione va presa in considerazione, tralasciando purtroppo tanti dei temi proposti dall’autrice, ed è quella della Porta Virtutis. La questione è ben nota ed è stata illustrata di recente (secondo Giffi in maniera troppo sbilanciata a favore di una tesi ‘colpevolista’) da Patrizia Cavazzini. Nell’ottobre 1581, in occasione della festa dei pittori romani (non ancora costituiti in Accademia) Domenico Passignano esibì un dipinto su cartone intitolato Porta Virtutis. Passignano era allievo di Zuccari a cui si doveva, a tutti gli effetti, l’invenzione. Il dipinto è andato perso, ma ne restano un disegno preparatorio e una replica eseguita da Zuccari per il Duca d’Urbino qualche anno dopo. 

Federico Zuccari, Porta Virtutis, 1585, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Porta_Virtutis_-_F._Zuccari.jpg


Nel dipinto ci fu chi vide una manifesta presa in giro di uno dei funzionari papali, Paolo Ghiselli. Ghiselli, bolognese, aveva commissionato una pala con la Processione di San Gregorio Magno per la felsinea chiesa del Baraccano, pala che era stata rifiutata e rispedita a Zuccari perché insufficiente, a giudizio di stimatori bolognesi. Si sarebbe trattato, insomma, di una vendetta. Poco (mi) importa qui seguire la vicenda, che si concluse – come detto – con l’allontanamento di Zuccari da Roma per qualche anno [2]. Ciò che conta, invece, è il fatto che, evidentemente partendo dal caso specifico, Federico sviluppò un ragionamento in forma di allegoria sulla questione della stima dei quadri. A chi spettava, per far sì che l’artefice (qualsiasi artifice) potesse vedersi riconoscere fama e onore attraverso il riconoscimento eventuale di un premio? La risposta di Zuccari è chiarissima. Il giudizio corretto non può che essere dato da chi vive all’interno della Porta Virtutis; in sostanza dagli artisti stessi, dagli accademici e, peraltro, da quegli artisti che non siano guidati da invidia, giungendo a indicare stime basse, che sarebbero di danno per tutta la categoria e non solo per il singolo pittore. Ora, è chiaro che quello di Zuccari, ancora una volta, è un discorso ideale, e che la realtà doveva essere ben diversa. Federico cerca di connotare in senso morale la professione del pittore. Fatto sta che qualche anno dopo, nel 1593, Zuccari era eletto primo Principe dell’Accademia; un’elezione avvenuta all’unanimità, che riconosceva all’artista quel percorso intellettuale a difesa della ‘categoria’ che aveva condotto in maniera incessante per decenni e che Giffi, con grande abilità, ci ha aiutato a riscoprire.

 

NOTE

[1] Da notare che Giffi anticipa l'esecuzione (su basi documentarie) ldei disegni dal 1595 circa al 1581. Mi scuso per non potermi dilungare sulla questione.

[2] Giffi spiega la presenza di una rappresentazione della Processione di San Gregorio Magno nel disegno preparatorio e la sua assenza nella copia con il processo di progressiva ‘generalizzazione’ del caso. La circostanza che l’ovato dove, nel bozzetto preparatorio, compariva la Processione di San Gregorio nel cartone di Passignano fosse bianco risulta chiaramente dal processo: “è vero che nel cartone ci sono doi campi ovati in bianco, un in cima et l’altro in man dritta, ma non vi so dire a che proposito ce siano, né a che fine siano state fatte (cfr. Cavazzini, cit. p. 111). Va peraltro aggiunto che, nel corso del processo, nessuno vide il cartone, che nel frattempo era sparito. Zuccari sarebbe cioè partito, ancora una volta, dal proprio caso generale per arrivare a una riflessione morale, eliminando i riferimenti diretti.

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