Art – Pouvoir – Discours
La carrière intellectuelle d’André Félibien
dans la France de Louis XIV
Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 2016
Una biografia
intellettuale
André Félibien (1619-1695)
è il classico convitato di pietra di qualsiasi storia della critica d’arte. In
genere lo si considera esponente di spicco della Francia del Re Sole,
ricordando la moltitudine di testi celebrativi di Luigi XIV da lui scritti
appunto per celebrare le lodi del sovrano francese. Si ricordano poi alcuni
testi a contenuto artistico come le Conférences de l’Académie royale de
peinture et de sculpture pendant l’année 1667 (edite l’anno successivo) e
soprattutto gli Entretiens sur le vies et sur les ouvrages des plus excellens peintres
anciens et modernes,
pubblicati in cinque parti (e dieci ‘éntretiens’, ossia ‘colloqui,
conversazioni’) fra 1666 e 1688. La visione che ne abbiamo è senza dubbio parziale
(sono presi in considerazioni solo alcuni scritti, tralasciandone molti altri)
e cronologicamente appiattita [1]. Félibien scrisse per quarant’anni; gli stessi
Entretiens, che pure sono la sua opera di maggior
successo, sono scanditi nel corso di vent’anni e una comparazione fra i primi e
gli ultimi mostra chiaramente come fossero cambiati i tempi. Eppure normalmente
se ne propongono valutazioni che non considerano il mutare del contesto
storico.
A questi limiti
cerca di far fronte la densissima monografia di Stefan Germer (1958-1998).
Diretta prosecuzione della sua tesi di dottorato, Germer la pubblicò nel 1997
in tedesco col titolo Kunst – Macht – Diskurs. Die intellektuelle Karriere
des André Félibien. L’anno dopo scompariva prematuramente, a quarant’anni.
Nel 2016 è stata pubblicata la presente edizione, tradotta dal tedesco a opera
di Aude Virey-Wallon e con un’introduzione di Christian Michel.
Il titolo, di per sé, è chiaro: quella proposta è una biografia intellettuale, giocata soprattutto sull’analisi dei testi. Da qui, innanzi tutto, una prima scelta: quella di non proporre l’esame degli scritti o dei manoscritti di Félibien in ordine strettamente cronologico, ma tematico. Operazione sostanzialmente riuscita, con le cautele del caso. La tesi di fondo della monografia è che tutte le opere di Félibien risentano di un intreccio fra interessi artistici, sollecitazioni provenienti dal potere e ‘discorso’ ossia modalità con cui l’ ‘autore’ si adatta, a seconda delle esigenze, a renderle in forma letteraria. Ho scritto fra virgolette il termine ‘autore’ perché una delle caratteristiche fondamentali dell’uomo fu la sua capacità di ‘nascondere’ o rivendicare la paternità dei suoi scritti a seconda delle finalità dei medesimi. Ci sono situazioni (ad esempio negli scritti di natura laudativa del potere di Luigi XIV) in cui l’ ‘autore’ ha funzione puramente strumentale e quindi quasi non se ne ha consapevolezza, e altre (come gli ultimi Entretiens) in cui propone in maniera assolutamente convincente l’indipendenza e l’autonomia del giudizio artistico (a volte facendo ricorso, tuttavia, a riprese letterali, quasi plagi, di scritti di altri autori, e questo complica ulteriormente le cose). Il volume di Germer, insomma, non è un’opera facile; certamente non la proporrei a chi di (o su) Félibien non abbia letto nulla sino a oggi. Ma è certamente un’opera da tenere nella propria biblioteca.
Ritratto di André Félibien Fonte: http://www.ensba.fr/ow2/catzarts/voir.xsp?id=00101-65033&qid=sdx_q0&n=15&sf=&e=# |
Ambizioni di crescita
sociale
Inevitabilmente il
mio rendiconto sarà parziale e, soprattutto, seguirà in maggior misura un
andamento cronologico. Ci sono senza dubbio alcune linee di fondo che si
possono cogliere nell’esistenza di Félibien. Una è la voglia di emergere che fu
non solo sua, ma di una famiglia della agiata borghesia francese, di stanza a
Chartres, che spinse André (e i suoi fratelli) a studi letterari di livello
notevole per l’epoca. Borghesia agiata, dicevo, ma comunque ‘terzo stato’. In
una società divisa per ordini è evidente che l’ambizione principale era quella
di salire la scala della considerazione sociale. All’epoca, il modo migliore per
giungere all’obiettivo era comprare un titolo nobiliare. Nel caso di Félibien, sappiamo
che già nel 1650 (ossia a trentun anni) era citato come ‘signore di Avaux e
Javercy’, zone vicine alla natia Chartres; si trovano inoltre documenti (nel
1653) in cui è ricordato come «conseiller et secrétaire de la chambre du Roy». E proprio
l’avvicinamento alla vita di corte appare essere uno dei grandi obiettivi della
vita di Félibien. In realtà il primo mentore che gli assicura un incarico
ufficiale è da cercare altrove; dopo una dozzina d’anni trascorsi a Parigi, di
cui sappiamo pochissimo, ma in cui appare chiaro che il giovane letterato imparò
a frequentare i salotti mondani e un circolo di eruditi, André partì nel 1647
alla volta di Roma in qualità di segretario del marchese di Fontenay-Mareuil,
diplomatico e inviato speciale della corona presso papa Innocenzo X. Quella
romana fu un’esperienza durata grosso modo un paio d’anni (il ritorno avvenne a
metà 1649), su cui avrò modo di scrivere. Fatto sta che, quando torna in
Francia, la situazione politica è quanto meno confusa. Da un anno il paese è
dilaniato dalla Fronda e il re legittimo, Luigi XIV, ha appena undici anni. Félibien
fatica a emergere; quando lo fa è al servizio di Nicolas Fouquet (1615-1680),
spregiudicato sovrintendente alle finanze che, a fronte della lealtà formale a
Mazzarino e al sovrano minorenne, non esita a utilizzare a scopo personale le
casse reali, facendo costruire, fra le altre cose, la splendida dimora di
Vaux-le-Vicomte. Fouquet, grazie a regalie varie, ha al suo servizio buona
parte dell’erudizione francese, Félibien compreso. André a lui dedica un progetto
indipendente (che costituirà anche il nucleo iniziale degli Entretiens), ossia il De l’origine de la Peinture et
des plus excellens peintres de l’Antiquité (1660), ma soprattutto è autore (anonimo)
di due lettere a stampa che descrivono la dimora di Vaux e di una Relation
des magnificences faites par Monsieur Fouquet à Vaux lorsque le Roy y alla le
17 aoust 1661, et de la somptuosité de ce lieu. È ormai padrone di un
genero letterario che lo vedrà costantemente al servizio del potere negli anni
successivi. Non che le cose vadano tutte bene. Il 6 settembre 1661 Fouquet
viene fatto arrestare da Luigi XIV, nel frattempo divenuto maggiorenne.
Comincia l’epoca dell’assolutismo del Re Sole e di Colbert, suo autentico
braccio destro.
La letturatura
panegiristica
Se potenzialmente la caduta di Fouquet poteva costituire un pericolo, va detto che Félibien fu abile a riposizionarsi immediatamente su posizioni filocolbertiane e a dar vita a una serie di testi che certificano l’abilità con cui fu in grado di mettere in scena, in forma letteraria, l’assolutismo di Luigi XIV. Rapidamente alcune delle opere più significative: Les Reines de Perse aux pieds d’Alexandre. Peinture du Cabinet du Roy (1663), la Relation de la feste de Versailles du 18e juillet 1668 (1668), Les divertissements de Versailles donnez par le Roy à tout sa cour au retour de la conqueste de la Franche-Comté en l’anné 1674, le descrizioni prima della grotta (1672) e poi del castello (1674) di Versailles e, una decina d’anni dopo, Le Songe de Philomathe. Di volta in volta Félibien è abile a interpretare le esigenze della propaganda sovrana, a seconda dei tipi di pubblicazione che vengono dati alla luce. Col passare degli anni, ad esempio, la figura di Luigi XIV evolve e si passa dall’elogio dell’uomo che è riuscito a spegnere la Fronda a quella del monarca che, dopo vittoriose campagne belliche, ha donato la pace all’Europa in virtù del trattato siglato con la Spagna. Mi soffermerò qui brevemente su uno dei testi probabilmente meno conosciuti in questo ambito, ossia la descrizione esegetica de Les Reines de Perse aux pieds d’Alexandre, tela dipinta da Charles Le Brun fra 1660 e 1661. Scelgo proprio questo titolo perché ha, storicamente – come vedremo – una valenza nell’ambito della produzione letteraria di Félibien sull’arte.
Charles Le Brun, Le regine di Persia ai piedi di Alessandro, Parigi, museo del Louvre Fonte: https://collections.louvre.fr/en/ark:/53355/cl010241161 |
L’opera, ovviamente, richiama alla
mente la magnanimità esibita da Alessandro Magno nei confronti di madre, moglie
e figlie di Dario III, sconfitto in battaglia e ritiratosi abbandonando la
famiglia nelle mani del vincitore. Il legame fra Luigi XIV e Alessandro Magno
sorge spontaneo. I biografi di Le Brun vollero che il pittore eseguisse l’opera
in presenza del sovrano francese e seguendone i consigli; oltre al paragone
storico con Alessandro, si richiama quindi anche l’interesse che, secondo gli
antichi testi, costui aveva dimostrato nei confronti di Apelle. Ma nel caso di
Félibien le cose stanno su piano un po’ diverso. Nel suo scritto laudativo, André non
propone il parallelo Alessandro – Luigi XIV, che non è l’incarnazione moderna
dell’antico condottiero. Il sovrano francese si colloca a un livello ben
superiore rispetto ad Alessandro; semmai è giusto che, in una pittura di storia
dedicata al più grande monarca della storia, sia evocato l’episodio di un
celebre condottiero vissuto millenni prima. Ma siamo già, concettualmente, in
un’età in cui i moderni hanno superato gli antichi; non è un caso che la
circostanza sarà ribadita anche nel campo delle arti (in architettura come in
pittura). Proprio nel 1663 Colbert, su indicazione di Luigi XIV, aveva fondato la
cosiddetta Petit Académie, un’agile istituzione che, di fatto, doveva sorvegliare
tutto il processo di glorificazione del monarca, anche in ambito culturale. E
in questo processo rientrava per l’appunto l’affermazione che la Francia e il
mondo intero erano destinate a vivere la fase migliore della loro storia
grazie, appunto, al monarca più grande di sempre. Non è un mistero che tutti
gli scritti laudativi di Félibien (e di chiunque altro) furono prima visionati
da esponenti della Petit Académie. A parte un caso minore, non risulta
che siano mai stati modificati, proprio per la sua camaleontica capacità di adeguarsi
alle esigenze e alla volontà del potere.
L’Origine de la
peinture (1660)
Il frontespizio dell'opera Fonte: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k108176c.image# |
Fino ad ora, in
sostanza, ho parlato del rapporto fra potere e modalità di raccontarlo. Non
sappiamo con precisione quando Félibien cominciò a occuparsi di arte. Germer
suppone che le prime esperienze in merito si debbano collocare nel periodo
giovanile parigino. Segnala le amicizie coi pittori Louis Du Guernier (1614-1659)
e Sébastien Bourdon (1616-1671), quest’ultimo rientrato dall’Italia nel 1637 e
quindi possibile precoce informatore di André sulle tendenze artistiche della
nostra penisola. Ciò detto, siamo ancora in un periodo in cui
Félibien non ha ben chiaro a cosa dedicarsi nella vita, e, a ben vedere, non
molto sappiamo neppure dell’esperienze del suo soggiorno romano. Per meglio
dire, tutto quello che ci è noto, lo è perché nei suoi Entretiens, a
decenni di distanza, Félibien rievoca retroattivamente la sua frequentazione di
Poussin a Roma e identifica quella consuetudine come il fatto che realmente gli
ha cambiato la vita. Gli storici
dell’arte hanno considerato molto deludenti, in proposito, sia il Journal de
voyage che Félibien redasse nel corso della sua permanenza italiana sia le
lettere che scrisse nello stesso periodo. I riferimenti all’arte sono del tutto
marginali. Germer, in maniera convincente, spiega che, in realtà, in entrambi i
casi Félibien scriveva con tutt’altre intenzioni, redigendo nel primo caso un
‘diario’ il cui scopo era tener memoria degli accadimenti politici e
dell’attività diplomatica e, nel secondo, ricorrendo a una tradizione
epistolare che riproduceva in forma letteraria le conversazioni da Salon
già sperimentate a Parigi. Così, ad esempio, nel Journal l’erudito
francese si limita inizialmente a descrivere le (poche) opere che segnala come
«beau», «trè beau» o «fort beau». «Questi termini non sono altro che dei punti
di riferimento dietro ai quali scompaiono l’opera e il suo impatto; non
consentono né una ricostruzione né di trarre conclusioni per spiegare il suo
entusiasmo. Presto, tuttavia, s’arricchiscono di osservazioni sulle
decorazioni, sui materiali o su dettagli tecnici. Si tratta pur sempre, a ogni
modo, di una percezione dell’arte priva di nomi e tematiche, che accorda il
primato all’impressione ottica, al lusso dei marmi, degli ori, delle
tappezzerie e dei ricchi intarsi ed è negligente nei confronti delle questioni
iconografiche, formali e stilistiche» (p. 61). Resta difficile credere che il
Félibien che è autore di queste note possa essere anche lo stesso che discute
con Poussin di teoria artistica e che, da tali conversazioni, codifica un proprio
sistema dell’arte. Anche se l’incontro con Poussin, così pure come quello con
altri famosi artisti e collezionisti (come Cassiano dal Pozzo) non è in
discussione, non si può escludere che la ‘verità’ raccontata negli anni ’70 e
’80 sia in qualche modo stata ritoccata.
E torniamo ora al De l’origine de la Peinture et des plus
excellens peintres de l’Antiquité, dedicato a Fouquet nel 1660. A giudizio di Germer si tratta di un’opera
che segna il punto di partenza degli Entretiens (e non a caso, con
piccole modifiche, il testo sarà riprodotto nel primo di essi, nel 1666). «Come affronta Félibien
l’argomento? Comincia col definire gli elementi che costituiscono la pittura,
continua discutendo le qualità e le competenze di un bravo pittore, prosegue
con uno studio sulle componenti di un dipinto e degli aspetti da rispettare
nella sua elaborazione e, per finire, stabilisce il rapporto fra pittura e
creazione artistica. Dopo un intervallo consistente nella descrizione di una
passeggiata nel parco di Vaux [n.d.r. la dimora di Fouquet] ripercorre
l’evoluzione della pittura dai suoi esordi, prima di commentare le
realizzazioni dei suoi esponenti antichi più eminenti» (p. 113) La dedica a
Fouquet è chiaramente un tentativo di farlo divenire mecenate della
pubblicazione dei volumi successivi, tentativo frustrato dall’arresto del
soprintendente, ammesso che mai abbia avuto una possibilità di essere accolto. L’autore
ritiene che molto probabilmente Félibien pensasse a una serie di biografie
degli artisti su modello vasariano (non esattamente quello che divennero gli Entretiens
– cfr. p. 394).
Conviene ancora trattenersi sull’analisi
dell’Origine perché le osservazioni di Germer sono di particolare
pregnanza (pp. 301-307). Nel sistema teorico abbozzato all’inizio del testo,
Félibien opera una fondamentale distinzione fra «composition» da una parte e
«disegno» e «colore» dall’altra. Il termine ‘composizione’ è una scatola al cui
interno sta tutto il lavoro concettuale che porta alla progettazione del
dipinto; disegno e colore, invece, sono entrambi aspetti pratici. Siamo
nell’ambito delle rivendicazioni sulla nobiltà della pittura che hanno portato
alla nascita dell’Académie royale de peinture et sculpture nel 1648 (e
non è ancora cominciata la querelle fra poussinisti e rubenisti che si
colloca attorno al 1670). Félibien si discosta quindi in qualche modo dalla
tradizione vasariana e da quella manierista (si pensi agli scritti di Zuccari
su ‘disegno interno’ ed ‘esterno’): «disegno e colore sono subordinati a un
progetto intellettuale complessivo; sono dunque fortemente limitati nel loro
carico significativo» (p. 303). Ma la limitazione del loro ruolo non mira solo
alla rivendicazione della nobiltà della pittura, quanto anche a quella
dell’amatore di esprimere giudizi sulle opere d’arte. In un’epoca storica in
cui l’Accademia rivendica per sé e per i suoi componenti (tutti artisti) il
diritto di giudicare sulle giuste massime in campo artistico, «al contrario di
disegno e colore, che riguardano la pratica e quindi sono solo competenza degli
artisti, la composizione è un processo intellettuale accessibile in ugual
misura agli amatori» (p. 303)
Intendiamoci: Félibien si muove in
maniera molto cauta. Il suo problema è evitare, da ‘amatore’, le critiche che
potrebbero piovere proprio dall’Accademia [2]. Germer fa notare, intanto, che
l’opera esce in un momento di vuoto nella produzione teorica dell’Accademia. Rallentata
dalla lunga lotta intestina con la corporazione dei pittori [3], l’Académie è
tutta concentrata sulla durissima polemica con Abraham Bosse sull’insegnamento della
prospettiva e sul livello qualitativo della
traduzione del Trattato della pittura di Leonardo, divenuto, di fatto, testo fondante dell’insegnamento della pittura [4]:
Fréart de Chambray aveva pubblicato nel 1651 la traduzione di Leonardo, ma non
ancora l’Idée de la perfection de la peinture (1662), Charles-Alphonse
Dufresnoy (1611-1668) era schierato con la corporazione contro l’Accademia (più
che altro per motivi di risentimento personale nei confronti di Le Brun) e il
suo De arte graphica, redatto senz’altro in precedenza, vide la luce in versione latina solo nel
1668, a cura di Roger de Piles. In ogni caso, Félibien difende il suo diritto a
esprimersi cominciando col dire di aver scritto l’Origine non di sua
spontanea volontà, ma su sollecitazione di un 'Monsieur' che, quasi sicuramente,
è Fouquet. Cerca, cioè, una spalla politica. Poi «spiega che deve tutte le sue
conoscenze sull’arte a conversazioni avute con artisti contemporanei, un modo
per disinnescare il conflitto e disarmare gli accademici inclini alle critiche.
Finisce sottolineando che l’Origine non è destinata agli artisti, né
pretende di avere valore normativo» (p. 115).
Les Reines de
Perse (1663)
Si è già visto che la
redazione de Les Reines de Persie (1663) rientra a pieno diritto nell’ambito
della letteratura panegiristica dedicata all’esaltazione di Luigi XIV.
Costituisce tuttavia anche una delle prime applicazioni concrete del sistema
teorico dell’arte a una singola opera in ambito francese. Nell’Origine,
infatti, Félibien non aveva applicato la sua suddivisione dei componenti della
pittura a quadri specifici. Germer scrive che, in questa occasione, l’erudito
francese rende in forma discorsiva un elemento visuale (il quadro). Non si
parla più di composizione (e quindi di una fase che è relativa alla
progettazione dell’opera), ma «il posto centrale è
ormai occupato dal dipinto finito […] Due aspetti distinguono Les Reines de
Perse da tutta la letteratura artistica francese disponibile sino ad allore:
una maggior precisione e più sfumature nelle descrizioni; nonché la capacità di
collegare caratteristiche formali ad aspetti generali» (p. 307). Irrompe nella
descrizione del quadro l’importanza dell’unità del soggetto: «a esso sono
subordinate l’espressione delle passioni, l’unità della luce e quella dei
colori. Che si tratti di colore, luce o passioni, l’argomentazione resta sempre
identica: ogni elemento è integrato in una struttura gerarchica, messa in
rapporto al soggetto principale del dipinto» (p. 177). Nel modo in cui descrive
il quadro «si legge una convinzione secondo la quale un elemento formale
isolato – una mimica, un gesto, un colore – non si riempiono di significato se
non in relazione agli altri, se non attraverso una contestualizzazione. […] Il
modo con cui Felibien riesce a riunire le qualità formali d’un quadro in
strutture apportatrici di senso fanno del suo testo un modello per la
comprensione e la descrizione delle opere d’arte» (p. 308).
Félibien e
il difficile rapporto con l’Accademia: le Conférences
Oggi consideriamo genericamente Félibien
come un esponente del mondo dell’Académie francese. E, in effetti, molte
delle sue osservazioni in fatto di teoria dell’arte non sono affatto
rivoluzionarie e ben si sposano con quanto sostenuto in via ufficiale dall’Accademia
negli anni dal 1660 in poi, quando l’istituzione si consolidò attorno a Charles
Le Brun. Tuttavia il rapporto di André con l’istituto fondato nel 1648 fu
tutt’altro che semplice e, piuttosto, denso di amarezze, di cui si trova
traccia negli ultimi Entretiens.
Félibien fu cooptato all’interno
dell’Accademia in qualità di socio onorario il 30 aprile 1667. La figura
dell’amatore o consigliere onorario era stata introdotta negli statuti
dell’istituto alla fine del 1663, chiaramente su sollecitazione di Colbert, che
poteva così intervenire sugli affari dell’Accademia tramite suoi uomini di
fiducia, uno dei quali fu Charles Perrault (1628-1703), nominato a giugno 1665.
Siamo in anni in cui il potere assoluto spinge fortemente per una
riorganizzazione interna: «l’istituzione doveva essere coinvolta nella
valorizzazione propagandistica delle collezioni reali iniziata dalla Petit
Académie, e le sedute accademiche portate dalla definizione di dogmi generici
alla presentazione di casi concreti utilizzabili a fini didattici» (p. 309).
Queste le indicazioni fornite da Colbert nel gennaio 1666. In realtà per oltre
un anno non se ne fece nulla, sicché nel 1667, tramite una relazione proprio di
Perrault, Colbert impose, di fatto, l’auspicata riorganizzazione delle modalità
con cui, una volta al mese, si tenevano le sedute e volle che di esse si
fornisse un pubblico rendiconto. Perrault indica a tal proposito il nome di
Félibien, che quindi era anch’egli ‘uomo del potere’. Logico che il suo incarico
fosse fonte di gelosie nell’establishment accademico, gelosie che esplosero
subito dopo la pubblicazione del volume con i resoconti delle prime sette
sedute, le Conférences de l’Académie royale de peinture et de sculpture
pendant l’année 1667, edite nel 1668.
Il frontespizio delle Conférences Fonte: gallica/bnf/fr tramite https://journals.openedition.org/dossiersgrihl/9987 |
Le Conférences sono precedute da
una dedica a Colbert e da una prefazione di Félibien. Non è chiaro – essendo
andati persi i verbali originali – se e quanto André sia intervenuto nel
modificare i testi delle sedute vere e proprie che, comunque, prendono sempre spunto dall’esame di un’opera
specifica, come prescritto da Colbert. Piuttosto nella prefazione si colgono
aspetti importanti; intanto un cambiamento di tono da parte di Félibien, che se
nell’Origine cercava di giustificare il suo interessarsi all’arte pur
non essendo un artista, ora assume sicurezza, essendo membro dell’Accademia. Sono
inoltre presenti riferimenti a vari aspetti che non sono oggetto di discussione
nelle singole conferenze (p. 317): la distinzione fra arte e artigianato, la
gerarchia dei generi (e quindi prima di tutto la pittura di storia, meglio
ancora se rappresentata in forma allegorico-mitologica e poi il paesaggio, il
ritratto etc), la separazione fra componenti teoriche e pratiche della pittura,
la teoria poussinista dell’imitazione e dei modi di rappresentare gli affetti.
A ben vedere, nessuno di questi argomenti, come si diceva, si pone in contrasto
col pensiero accademico. Del resto, l’esaltazione della figura di Poussin quale
traghettatore della grande arte dall’Italia alla Francia è idea insita sin
dalla traduzione del Trattato della pittura di Leonardo (1651), in cui
l’apparato illustrativo era condotto su disegni di Poussin [5]; la separazione
fra arte e artigianato stava alla base dell’esistenza dell’Accademia;
l’individuazione di una gerarchia dei generi ben si conciliava coi tentativi di
Le Brun di limitare l’accesso all’Accademia ad artisti che praticavano le ‘arti
minori’. Il problema è che, probabilmente, Félibien non ebbe alcuna sorta di
autorizzazione a trattare tali argomenti. Che sia stato questo il problema; che, invece, si sia trattato, come sopra ipotizzato, di un rimaneggiamento
eccessivo dei verbali accademici (senza possibilità per gli oratori di
revisionare le bozze), fatto sta che il consigliere onorario fu oggetto di
accese polemiche di fronte alle quali anche Colbert dovette arrendersi. La
redazione delle Conférences, che in realtà divenne molto più sporadica,
fu assegnata a Henri Testelin (1616-1695), segretario dell’Accademia e il ruolo
di Félibien fortemente ridimensionato. Pur rimanendo consigliere onorario, del
resto, l’attività di Félibien era destinata a concretizzarsi in un altro luogo, nell’ambito dell’Académie
d’architecture, fondata il 30 dicembre 1671.
I Principes
de l’architecture, de la sculpture, de la peinture (1676)
Sull’esperienza di Félibien all’interno
dell’Académie royale d’architecture non mi dilungherò più di tanto.
Basti sapere che l’Académie era costituita da pochi membri cooptati da
Colbert; loro compito era, naturalmente, fissare una dottrina normativa in
materia, ma soprattutto far fronte (se richiesti) ai bisogni dell’amministrazione
centrale. Così, ad esempio, il Procès-verbal de la visite de toutes les
anciennes eglises et bastiments de Paris et des environs, pour examiner la
qualité des pierres dont il sont bastis, redatto da Félibien, risponde a
una richiesta in tal senso di Charles Perrault (ovviamente su indicazione di
Colbert). Francamente inutile cercare, in testi come questo, un interesse
estetico (e quindi un apprezzamento del gotico); a prevalere sono le
considerazioni di natura tecnica e, semmai, archeologica.
Frontespizio dei Principes de l'architecture Fonte: https://www.libreriagonnelli.it/libri-antichi/des-principes-de-larchitecture-de-la-sculture-de-la-peinture-et-des-autres-a |
Nel 1676 Félibien pubblica i Principes
de l’architecture, de la sculpture, de la peinture et des autres arts qui en
dipendent avec un dictionnaire des Termes propres à chacun de ces Arts. Si
tratta di un’opera di difficile collocazione, che Germer inserisce all’interno
del capitolo dedicato all’esperienza dell’autore nell’Académie
d’architecture fondamentalmente per due motivi: innanzi tutto perché
Félibien sottopose agli altri membri dell’istituto il suo testo prima della sua
pubblicazione, poi perché lo spazio (anche in termini di apparato iconografico)
dedicato all’architettura è nettamente prevalente. I Principes sono opera
che mira all’organizzazione della conoscenza su base empirica; un tentativo,
però, che è possibile solo grazie a uno scarto preliminare rispetto a posizioni
precedenti. Abbiamo visto che nell’Origine Félibien operava una
fondamentale distinzione da una parte fra ‘composizione’ (la parte teorica su
cui potevano esprimersi anche gli amatori) e, dall’altra, ‘disegno’ e ‘colore’.
A distanza di sedici anni le cose cambiano: d’ora in poi ‘composizione’ (in
questo caso specifico si parla di ‘ragionamento’), disegno e colore partecipano
tutti di un aspetto teorico e pratico. La conseguenza diretta è che, avendo
tutti una componente teorica, gli amatori sono autorizzati a considerazioni di
ordine critico su tutti e tre i grandi rami del fare artistico. Senza dubbio si
fanno sentire gli effetti di opere come il Dialogo sul colorito di Roger de
Piles (1673) e, di conseguenza, gli echi della querelle fra sostenitori
del disegno (nel cui ambito si colloca Félibien) e del colore. Ma, a essere
sinceri, questa premessa non è, nella circostanza, motivo di grandi
elaborazioni teoriche; qui, come detto, Félibien, mira alla ‘semplice’
organizzazione del sapere in architettura, pittura e scultura (e, fatto da non
trascurare, delle ‘altre arti’ ossia delle professioni, anche artigianali, a
loro collegate) tramite l’individuazione dei principi che a loro presiedono. Ci
aspetteremmo una qualche affermazione di natura vasariana, con il disegno
definito come padre di tutte e tre le arti. In realtà le cose non stanno così.
Félibien utilizza il termine ‘principio’ in quattro accezioni diverse (pp. 370
ss.) e a esse fa corrispondere l’uso di quattro registri letterari che meglio le
illustrano. La prima accezione di ‘principio’ è di natura assiomatica ed è
utilizzata, ad esempio, per l’esposizione degli ordini delle colonne in
architettura; l’esposizione è ugualmente assiomatica; afferma un fatto senza
avvertire il bisogno di giustificarlo. Vi è poi il ‘principio’ inteso in senso
storico e Félibien ricorre alla narrazione; con la terza accezione l’autore
espone i diversi modi di funzionamento dei processi artistici a cui sono
abbinati spiegazioni affiancate da un ricco apparato iconografico; infine, sono
considerati ‘principi’ anche gli utensili e gli strumenti che servono agli
artefici (dai muratori agli architetti) per esercitare il loro mestiere; in tal
caso l’esposizione è meramente lessicale, e trova la sua naturale forma
organizzativa nella redazione di un dizionario che occupa un terzo dell’intera
opera e che oggi costituisce di gran lunga la parte storicamente più importante
del lavoro di Félibien. La redazione del dizionario non ha alcuna intenzione
‘normalizzatrice’. Félibien non scrive per ‘imporre’ una lingua ufficiale alle
tecniche artistiche; il suo scopo è esattamente il contrario, ossia registrare
tutte le forme, anche dialettali, con cui sono definiti gli utensili e i
processi di creazione artistica. Per capire quale sia l’impegno con cui l’autore
espleta il suo compito, basti pensare che, non nel dizionario, ma in una parte
precedente, dedicata all’architettura, tecniche e strumenti del fabbro occupano
trentanove pagine fra testo e immagini. Naturalmente la prima cosa che, a un
profano come il sottoscritto viene in mente, è che si tratti di una sorta di anticipazione
dell’Enciclopedia di D’Alembert e Diderot. Su quest’aspetto bisogna
andare molto cauti, e Germer lo è. Molto acutamente, tuttavia, fa presente che
il progetto di Félibien si inserisce perfettamente nell’aspirazione di uno
Stato che «per accrescere l’efficacia del suo potere e per incoraggiare
l’economia, reclamava la pubblicazione e l’accessibilità di tutto il sapere»
(p. 387). Ancora una volta, insomma, anche se non abbiamo nessuna prova che la
richiesta sia stata fatta dalla monarchia assoluta, il francese è bravo a
interpretarne le esigenze e a dar vita a un’opera che le possa soddisfare.
Gli Entretiens
Il frontespizio del primo tomo degli Entretiens Fonte: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k10402281 |
Gli Entretiens sur le vies et sur les
ouvrages de plus excellens peintres anciens et modernes sono considerati il
capolavoro di Felibien; per essi André fu spesso soprannominato il Vasari
francese. La prima cosa da notare, senz’altro curiosa, è che non ne esiste una
versione commentata moderna; per meglio dire (a meno che non sbagli) nel 1987
René Démoris (morto nel 2016) ha pubblicato con l’editore Les Belles Lettres
testo e commento ai primi due colloqui (corrispondenti, come vedremo, al primo
tomo dell’opera), ma poi non si è visto altro. La circostanza è curiosa. È sì
vero che, nel redigere la sua fatica, Félibien fu debitore (a volte letterale)
a più di una fonte (a cominciare da Vasari per proseguire con Bellori); forse
questo ha fatto pensare che lo studio dell’opera non abbia un senso.
Tralasciando il fatto che comunque Félibien apportò eccome elementi di rielaborazione
personale, ancora una volta il rischio è quello di incorrere in un equivoco. La
letteratura artistica non è una gara in cui si tratta di stabilire chi per
primo parla di determinati aspetti legati al fare artistico o alle biografie
dei pittori, quanto una cartina di tornasole per capire i meccanismi di
diffusione di quegli aspetti e di quelle nozioni. Anche solo per questo fatto,
gli Entretiens meriterebbero ben altra considerazione.
Ciò detto, è difficile e probabilmente impreciso
parlare degli Entretiens come di un’opera unica; nella loro versione
finale furono, infatti, pubblicati nell’arco di più vent’anni e ogni volume
risente quindi di diversi contesti storico-politici, ma anche della differente
posizione personale dell’autore nella società francese. Complessivamente siamo
di fronte a cinque volumi, ognuno dei quali comprendente due ‘conversazioni’.
Il primo fu edito nel 1666; il testo del primo Entretien non è altro che
quello dell’Origine de la peinture (1660) di cui ho già parlato, con
modifiche secondarie e la creazione di un paratesto ad hoc (l’Origine
era dedicata a Fouquet, poi arrestato; qui, naturalmente, siamo in un contesto
laudativo di Luigi XIV e di Colbert); nel secondo è presentato lo sviluppo
dell’arte italiana dal medio evo ad Andrea del Sarto (compreso Raffaello). Il
secondo volume fu pubblicato nel 1672: la terza e la quarta conversazione erano
dedicate al Cinquecento centroitaliano (nella quarta troviamo Michelangelo), ma
anche, con un salto all’indietro, alle prime manifestazioni artistiche a nord
delle Alpi. Per leggere il terzo tomo si dovette attendere il 1679; qui
Félibien (quinto Entretien) si
dedicò ai pittori veneti e (nel sesto) alla fine del Cinquecento e all’inizio
del Seicento, con i Carracci, il Cavalier d’Arpino e Caravaggio (ma sempre
anche con uno sguardo allo sviluppo artistico extra-italiano). Molto
probabilmente fu solo in questo momento, come risulterebbe da una sorta di
opuscolo distribuito ai suoi amici, che Félibien completò il progetto
complessivo dell’opera, mirando a presentare le biografie degli artisti morti
entro il 1679; d’altro lato l’intenzione (rispettata) era quella di affrancarsi
sempre più dalla storiografia italiana per spostare l’attenzione su quella francese.
In un processo evolutivo che deriva naturalmente da Vasari, il progresso delle
arti portava direttamente alla figura di Poussin. Tuttavia i tempi di
completamento dell’opera furono lunghi. Il quarto tomo uscì solo nel 1685; studiava
gli epigoni dei Carracci, Rembrandt, Rubens e soprattutto (ottavo Entretien)
Poussin. Arrivato a questo punto, però, Félibien si accorse che restavano fuori
i pittori francesi successivi al suo ‘eroe’ e redasse un ultimo tomo, con nona
e decima conversazione, che fu pubblicata nel 1688.
È fuori di dubbio (come detto) che la
letteratura artistica italiana fu indispensabile al francese per sostanziare la
sua opera. Basti pensare che, in realtà, molto spesso Félibien stava parlando
di opere che non aveva mai visto in vita sua e, inevitabilmente, doveva
affidarsi (copiandole) a fonti letterarie. Ciò detto, esistono elementi di
originalità; il primo mi sembra (curiosamente Germer non ne parla
esplicitamente) la dimensione europea con cui è concepita la storia dell’arte
del francese; una storia multicentrica, dedicata all’Italia, alla Francia (non
alla Spagna della cui trattatistica probabilmente non conosceva nulla), ai
Paesi Bassi e alla Germania. Non doveva essere facile; per l’inevitabile
barriera linguistica, ad esempio, Félibien non aveva modo di leggere lo Schilder-Boeck di Karel van Mander, ossia il testo più significativo della tradizione storiografia
fiamminga. È noto che se ne fece tradurre i brani più significativi
dell’erudito Isaac Bullart (1599-1672), autore a sua volta di un’Académie
des Sciences et des Arts edita nel 1682 [6]. Naturalmente allargare
geograficamente il campo d’indagine voleva dire implicitamente mettere in
maggior risalto i meriti dell’arte francese che era emersa nella sua importanza
con Poussin e sotto Luigi XIV.
Le prime parole del titolo, peraltro,
segnalano un’ulteriore elaborazione personale che la discostano dalle Vite vasariane. Non siamo di fronte a delle ‘vite’, ma a delle ‘conversazioni sulle
vite’. L’ ‘unità di misura’ del testo non è più il medaglione biografico
dell’aretino, ma un discorso continuo che, specialmente nel primo tomo, copre
addirittura secoli di sviluppo artistico. Non solo; non siamo di fronte ‘solo’
a delle biografie, ma a un mix di elementi che comprendono anche osservazioni
teoriche sull’arte, declinate non in maniera sistematica, ma sporadicamente,
soprattutto nell’ambito dei primi sei Entretiens. Molto probabile che a
spingerlo ad adottare un simile approccio siano
state anche indicazioni fornitegli dallo stesso Poussin, a giudicare da
una lettera, a noi nota, inviatagli dal pittore francese nel gennaio 1665. Qui,
con specifico riferimento a scritti biografici dell’abate Claude Nicaise
(1623-1701), Poussin si dichiarava scettico sulle pure biografie d’artisti; gli
artefici andavano presi in considerazione anche in relazione alle loro idee e
alla teoria dell’arte. È appena evidente che Poussin aveva in mente un modello
storiografico come quello belloriano. E sicuramente Bellori è l’altra grande fonte di Félibien (che
pure non rinuncia a esplorare le biografie degli artisti minori); non si faccia
caso al fatto che l’opera belloriana uscì solo nel 1672; il progetto
dell’erudito italiano risaliva già ai decenni precedenti (c’è chi lo riconduce
agli anni ’40 del secolo) e Poussin vi era ampiamente coinvolto. Da Bellori
certamente Félibien mutuò l’interpretazione dell’evoluzione del fare artistico
di fine Cinque e inizio Seicento, con la contrapposizione fra classicisti,
manieristi e ‘naturalisti’ caravaggeschi.
L’opera è proposta in forma dialogica.
Il dialogo, naturalmente, era forma letteraria ben nota sin dall’antichità, e
quindi Félibien non inventa nulla. Tuttavia Germer segnala che, a suo avviso, il
dialogo del francese è diverso dai toni di quello che conosciamo dalla
tradizione letteraria precedente, che, in sostanza, proponeva in via fittizia
una disputa erudita. L’interruzione continua del testo con una serie di brevi
domande e risposte, ad esempio, è percepita come poco idonea allo scopo: «per
questo motivo [n.d.r. Félibien, che è il narratore e uno dei due protagonisti] integra
la conversazione con Pimandro in una narrazione continua formulata con la prima
persona singolare» (p. 412).
Continua Germer: «la struttura dialogica
conferisce agli Entretiens (…) coesione formale […]. Più ancora: gli
permette di integrare nella conversazione una moltitudine di testi esistenti il
cui spettro va dalla letteratura classica delle Vite passando per i
trattati di pittura fino a intere conferenze accademiche. Solo una frazione di
questi prestiti è resa riconoscibile: poche note marginali indicano l’autore e
il titolo delle opere utilizzate. Più spesso, tuttavia, Félibien nasconde più
di quanto non riveli: idee, formulazioni, modi di pensare – passaggi di solito
decisivi – sono ripresi senza indicazione di fonte e attribuiti sia al
narratore sia a Pimandro (p. 412).
Poussin costituisce
la vera figura centrale dell’impalcatura di Félibien, sin dalla prefazione, in
cui Félibien rievoca (non si sa fino a che punto fedelmente) la reciproca
frequentazione romana; o, per meglio dire, si accredita della familiarità che il
‘Raffaello francese’ gli concedeva, uno dei pochissimi ad essere ammesso nel
suo atelier mentre l’artista stava lavorando. Come Félibien identifica nella
conoscenza con Poussin la sua iniziazione all’arte, così vale per i lettori che
leggono le sue idee riprodotte negli Entretiens. Poussin, ad esempio, è
portato a testimone contro gli autori che avevano difeso un’impalcatura teorica
fissa e rigida per la pittura, dichiarando che quest’ultima, ad esempio, doveva
sempre soggiacere alle regole della prospettiva di Desargues. Il sapere di
Poussin, invece, è esperienziale e tale va considerata anche l’impostazione
degli Entretiens: «In maniera logica, la sua opera [n.d.r. di
Félibien] non è concepita come un testo prescrittivo redatto nella prospettiva
di un sapere assoluto che viene prima di tutta la pratica artistica, ma come un
testo descrittivo formulato sulla base della curiosità (,,,) e legato non alla
riduzione a regole, ma a una differenziazione la più ampia possibile delle
osservazioni» (p. 408).
Quella di Poussin,
dunque, è la ‘biografia’ esemplare dell’opera. A essa è dedicato l’ottavo Entretien.
Siamo nel 1685, e, come logico, oltre ad altri materiali, Félibien si affida in
particolar modo alla biografia di Bellori. Tuttavia, pur essendo del tutto
coerenti i rispettivi dati biografici, è evidente che l’interpretazione del
ruolo dell’artista è diversa. Per il francese Poussin è il campione della
libertà e dell’indipendenza dell’artista, l’uomo che rinuncia alla vita di
corte e a ‘servire’ il potere per tornare a Roma e continuare i suoi studi e la
pratica artistica. In Bellori questa notazione è molto meno accentuata, ed è
inevitabile che sia così: da Roma il mecenatismo assolutista di re Luigi è
visto come un’opportunità più che una minaccia. Molto più pericoloso il
discorso di Félibien; è sì vero che, quando pubblica il quarto volume degli Entretiens
Colbert è morto due anni, che la Petit Académie non svolge più ruolo di
censura nei confronti dei suoi libri, ma l’indipendenza invocata per Poussin
(implicitamente posta a confronto con il ‘servilismo’ di Le Brun) è chiaramente
un’indipendenza rivendicata (o, forse meglio, desiderata) anche per sé.
Félibien si allontana dal potere, quel potere che ha servito in maniera
esemplare per tutta la vita. Implicitamente è quanto succede anche nell’ultimo
tomo degli Entretiens, edito nel 1688. Con Poussin, infatti, si
esaurisce di fatto lo sviluppo artistico dell’arte in generale e di quella
francese in particolare; le biografie degli artisti successivi all’idolo di
André diventano mero fatto di cronaca, ma non hanno nulla da aggiungere in
termini di raggiungimento della perfezione. Questa generazione, che viene
quindi a essere percepita in senso riduttivo è figlia dell’Accademia, quell’Accademia
che è espressione del potere e che, però, non è stata in grado di far crescere
artefici all’altezza. Si tratta di un quadro molto amaro, che chiude l’opera
con toni di pessimismo inimmaginabili leggendo la Prefazione al primo volume.
Sono passati vent’anni; l’uomo è diventato vecchio e il suo sguardo comincia a
essere più scettico su una società di cui è stato uno dei principali interpreti
in ambito intellettuale.
NOTE
[1] Per una rassegna
completa della produzione letteraria di Félibien si veda l’appendice 3, pp. 571-579.
[2] Il tema della capacità
dell’amatore di esprimere giudizi sull’arte, del resto, si trascinerà per decenni.
Si veda, ad esempio, Sandra Costa e Giovanna Perini Folesani, I savi e gli ignoranti. Dialogo del pubblico
con l’arte (XVI-XVIII secolo).
[3] Si veda Claire Farago, Defining a Historical Approach to Leonardo’s Trattato della pittura in Claire Farago, Janis Bell, Carlo Vecce, The Fabrication of
Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura.
[4] Si veda Martin
Kemp, “A Chaos of Intelligence”:
Leonardo’s Traité and the Perspective Wars at the Académie Royale in Re-Reading
Leonardo. The Treatise on Painting across Europe, 1550-1900
Edited and introduced by Claire Farago.
[5] Si veda Juliana
Barone, Poussin as Engineer of the Human Figure: the
Illustrations for Leonardo’s Trattato in Re-Reading
Leonardo. The Treatise on Painting across Europe, 1550-1900
Edited and introduced by Claire Farago.
[6] A essere
corretti, fu Bullart a scrivere nel secondo volume della sua Académie di
aver tradotto dei brani di Van Mander per Félibien, che non era in grado di
leggere l’originale.
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