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sabato 21 ottobre 2023

Stefan Germer. Art - Pouvoir - Discours. La carrière intellectuelle d’André Félibien dans la France de Louis XIV


Stefan Germer
Art – Pouvoir – Discours
La carrière intellectuelle d’André Félibien
dans la France de Louis XIV


Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 2016

Recensione di Giovanni Mazzaferro



Una biografia intellettuale

André Félibien (1619-1695) è il classico convitato di pietra di qualsiasi storia della critica d’arte. In genere lo si considera esponente di spicco della Francia del Re Sole, ricordando la moltitudine di testi celebrativi di Luigi XIV da lui scritti appunto per celebrare le lodi del sovrano francese. Si ricordano poi alcuni testi a contenuto artistico come le Conférences de l’Académie royale de peinture et de sculpture pendant l’année 1667 (edite l’anno successivo) e soprattutto gli Entretiens sur le vies et sur les ouvrages des plus excellens peintres anciens et modernes, pubblicati in cinque parti (e dieci ‘éntretiens’, ossia ‘colloqui, conversazioni’) fra 1666 e 1688. La visione che ne abbiamo è senza dubbio parziale (sono presi in considerazioni solo alcuni scritti, tralasciandone molti altri) e cronologicamente appiattita [1]. Félibien scrisse per quarant’anni; gli stessi Entretiens, che pure sono la sua opera di maggior successo, sono scanditi nel corso di vent’anni e una comparazione fra i primi e gli ultimi mostra chiaramente come fossero cambiati i tempi. Eppure normalmente se ne propongono valutazioni che non considerano il mutare del contesto storico.

A questi limiti cerca di far fronte la densissima monografia di Stefan Germer (1958-1998). Diretta prosecuzione della sua tesi di dottorato, Germer la pubblicò nel 1997 in tedesco col titolo Kunst – Macht – Diskurs. Die intellektuelle Karriere des André Félibien. L’anno dopo scompariva prematuramente, a quarant’anni. Nel 2016 è stata pubblicata la presente edizione, tradotta dal tedesco a opera di Aude Virey-Wallon e con un’introduzione di Christian Michel.

Il titolo, di per sé, è chiaro: quella proposta è una biografia intellettuale, giocata soprattutto sull’analisi dei testi. Da qui, innanzi tutto, una prima scelta: quella di non proporre l’esame degli scritti o dei manoscritti di Félibien in ordine strettamente cronologico, ma tematico. Operazione sostanzialmente riuscita, con le cautele del caso. La tesi di fondo della monografia è che tutte le opere di Félibien risentano di un intreccio fra interessi artistici, sollecitazioni provenienti dal potere e ‘discorso’ ossia modalità con cui l’ ‘autore’ si adatta, a seconda delle esigenze, a renderle in forma letteraria. Ho scritto fra virgolette il termine ‘autore’ perché una delle caratteristiche fondamentali dell’uomo fu la sua capacità di ‘nascondere’ o rivendicare la paternità dei suoi scritti a seconda delle finalità dei medesimi. Ci sono situazioni (ad esempio negli scritti di natura laudativa del potere di Luigi XIV) in cui l’ ‘autore’ ha funzione puramente strumentale e quindi quasi non se ne ha consapevolezza, e altre (come gli ultimi Entretiens) in cui propone in maniera assolutamente convincente l’indipendenza e l’autonomia del giudizio artistico (a volte facendo ricorso, tuttavia, a riprese letterali, quasi plagi, di scritti di altri autori, e questo complica ulteriormente le cose). Il volume di Germer, insomma, non è un’opera facile; certamente non la proporrei a chi di (o su) Félibien non abbia letto nulla sino a oggi. Ma è certamente un’opera da tenere nella propria biblioteca. 

Ritratto di André Félibien
Fonte: http://www.ensba.fr/ow2/catzarts/voir.xsp?id=00101-65033&qid=sdx_q0&n=15&sf=&e=#


Ambizioni di crescita sociale

Inevitabilmente il mio rendiconto sarà parziale e, soprattutto, seguirà in maggior misura un andamento cronologico. Ci sono senza dubbio alcune linee di fondo che si possono cogliere nell’esistenza di Félibien. Una è la voglia di emergere che fu non solo sua, ma di una famiglia della agiata borghesia francese, di stanza a Chartres, che spinse André (e i suoi fratelli) a studi letterari di livello notevole per l’epoca. Borghesia agiata, dicevo, ma comunque ‘terzo stato’. In una società divisa per ordini è evidente che l’ambizione principale era quella di salire la scala della considerazione sociale. All’epoca, il modo migliore per giungere all’obiettivo era comprare un titolo nobiliare. Nel caso di Félibien, sappiamo che già nel 1650 (ossia a trentun anni) era citato come ‘signore di Avaux e Javercy’, zone vicine alla natia Chartres; si trovano inoltre documenti (nel 1653) in cui è ricordato come «conseiller et secrétaire de la chambre du Roy». E proprio l’avvicinamento alla vita di corte appare essere uno dei grandi obiettivi della vita di Félibien. In realtà il primo mentore che gli assicura un incarico ufficiale è da cercare altrove; dopo una dozzina d’anni trascorsi a Parigi, di cui sappiamo pochissimo, ma in cui appare chiaro che il giovane letterato imparò a frequentare i salotti mondani e un circolo di eruditi, André partì nel 1647 alla volta di Roma in qualità di segretario del marchese di Fontenay-Mareuil, diplomatico e inviato speciale della corona presso papa Innocenzo X. Quella romana fu un’esperienza durata grosso modo un paio d’anni (il ritorno avvenne a metà 1649), su cui avrò modo di scrivere. Fatto sta che, quando torna in Francia, la situazione politica è quanto meno confusa. Da un anno il paese è dilaniato dalla Fronda e il re legittimo, Luigi XIV, ha appena undici anni. Félibien fatica a emergere; quando lo fa è al servizio di Nicolas Fouquet (1615-1680), spregiudicato sovrintendente alle finanze che, a fronte della lealtà formale a Mazzarino e al sovrano minorenne, non esita a utilizzare a scopo personale le casse reali, facendo costruire, fra le altre cose, la splendida dimora di Vaux-le-Vicomte. Fouquet, grazie a regalie varie, ha al suo servizio buona parte dell’erudizione francese, Félibien compreso. André a lui dedica un progetto indipendente (che costituirà anche il nucleo iniziale degli Entretiens), ossia il De l’origine de la Peinture et des plus excellens peintres de l’Antiquité (1660), ma soprattutto è autore (anonimo) di due lettere a stampa che descrivono la dimora di Vaux e di una Relation des magnificences faites par Monsieur Fouquet à Vaux lorsque le Roy y alla le 17 aoust 1661, et de la somptuosité de ce lieu. È ormai padrone di un genero letterario che lo vedrà costantemente al servizio del potere negli anni successivi. Non che le cose vadano tutte bene. Il 6 settembre 1661 Fouquet viene fatto arrestare da Luigi XIV, nel frattempo divenuto maggiorenne. Comincia l’epoca dell’assolutismo del Re Sole e di Colbert, suo autentico braccio destro.
 

La letturatura panegiristica

Se potenzialmente la caduta di Fouquet poteva costituire un pericolo, va detto che Félibien fu abile a riposizionarsi immediatamente su posizioni filocolbertiane e a dar vita a una serie di testi che certificano l’abilità con cui fu in grado di mettere in scena, in forma letteraria, l’assolutismo di Luigi XIV. Rapidamente alcune delle opere più significative: Les Reines de Perse aux pieds d’Alexandre. Peinture du Cabinet du Roy (1663), la Relation de la feste de Versailles du 18e juillet 1668 (1668), Les divertissements de Versailles  donnez par le Roy à tout sa cour au retour de la conqueste de la Franche-Comté en l’anné 1674, le descrizioni prima della grotta (1672) e poi del castello (1674) di Versailles e, una decina d’anni dopo, Le Songe de Philomathe. Di volta in volta Félibien è abile a interpretare le esigenze della propaganda sovrana, a seconda dei tipi di pubblicazione che vengono dati alla luce. Col passare degli anni, ad esempio, la figura di Luigi XIV evolve e si passa dall’elogio dell’uomo che è riuscito a spegnere la Fronda a quella del monarca che, dopo vittoriose campagne belliche, ha donato la pace all’Europa in virtù del trattato siglato con la Spagna. Mi soffermerò qui brevemente su uno dei testi probabilmente meno conosciuti in questo ambito, ossia la descrizione esegetica de Les Reines de Perse aux pieds d’Alexandre, tela dipinta da Charles Le Brun fra 1660 e 1661. Scelgo proprio questo titolo perché ha, storicamente – come vedremo – una valenza nell’ambito della produzione letteraria di Félibien sull’arte. 

Charles Le Brun, Le regine di Persia ai piedi di Alessandro, Parigi, museo del Louvre
Fonte: https://collections.louvre.fr/en/ark:/53355/cl010241161


L’opera, ovviamente, richiama alla mente la magnanimità esibita da Alessandro Magno nei confronti di madre, moglie e figlie di Dario III, sconfitto in battaglia e ritiratosi abbandonando la famiglia nelle mani del vincitore. Il legame fra Luigi XIV e Alessandro Magno sorge spontaneo. I biografi di Le Brun vollero che il pittore eseguisse l’opera in presenza del sovrano francese e seguendone i consigli; oltre al paragone storico con Alessandro, si richiama quindi anche l’interesse che, secondo gli antichi testi, costui aveva dimostrato nei confronti di Apelle. Ma nel caso di Félibien le cose stanno su piano un po’ diverso. Nel suo scritto laudativo, André non propone il parallelo Alessandro – Luigi XIV, che non è l’incarnazione moderna dell’antico condottiero. Il sovrano francese si colloca a un livello ben superiore rispetto ad Alessandro; semmai è giusto che, in una pittura di storia dedicata al più grande monarca della storia, sia evocato l’episodio di un celebre condottiero vissuto millenni prima. Ma siamo già, concettualmente, in un’età in cui i moderni hanno superato gli antichi; non è un caso che la circostanza sarà ribadita anche nel campo delle arti (in architettura come in pittura). Proprio nel 1663 Colbert, su indicazione di Luigi XIV, aveva fondato la cosiddetta Petit Académie, un’agile istituzione che, di fatto, doveva sorvegliare tutto il processo di glorificazione del monarca, anche in ambito culturale. E in questo processo rientrava per l’appunto l’affermazione che la Francia e il mondo intero erano destinate a vivere la fase migliore della loro storia grazie, appunto, al monarca più grande di sempre. Non è un mistero che tutti gli scritti laudativi di Félibien (e di chiunque altro) furono prima visionati da esponenti della Petit Académie. A parte un caso minore, non risulta che siano mai stati modificati, proprio per la sua camaleontica capacità di adeguarsi alle esigenze e alla volontà del potere.

 

L’Origine de la peinture (1660)

Il frontespizio dell'opera
Fonte: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k108176c.image#


Fino ad ora, in sostanza, ho parlato del rapporto fra potere e modalità di raccontarlo. Non sappiamo con precisione quando Félibien cominciò a occuparsi di arte. Germer suppone che le prime esperienze in merito si debbano collocare nel periodo giovanile parigino. Segnala le amicizie coi pittori Louis Du Guernier (1614-1659) e Sébastien Bourdon (1616-1671), quest’ultimo rientrato dall’Italia nel 1637 e quindi possibile precoce informatore di André sulle tendenze artistiche della nostra penisola. Ciò detto, siamo ancora in un periodo in cui Félibien non ha ben chiaro a cosa dedicarsi nella vita, e, a ben vedere, non molto sappiamo neppure dell’esperienze del suo soggiorno romano. Per meglio dire, tutto quello che ci è noto, lo è perché nei suoi Entretiens, a decenni di distanza, Félibien rievoca retroattivamente la sua frequentazione di Poussin a Roma e identifica quella consuetudine come il fatto che realmente gli ha cambiato la vita. Gli storici dell’arte hanno considerato molto deludenti, in proposito, sia il Journal de voyage che Félibien redasse nel corso della sua permanenza italiana sia le lettere che scrisse nello stesso periodo. I riferimenti all’arte sono del tutto marginali. Germer, in maniera convincente, spiega che, in realtà, in entrambi i casi Félibien scriveva con tutt’altre intenzioni, redigendo nel primo caso un ‘diario’ il cui scopo era tener memoria degli accadimenti politici e dell’attività diplomatica e, nel secondo, ricorrendo a una tradizione epistolare che riproduceva in forma letteraria le conversazioni da Salon già sperimentate a Parigi. Così, ad esempio, nel Journal l’erudito francese si limita inizialmente a descrivere le (poche) opere che segnala come «beau», «trè beau» o «fort beau». «Questi termini non sono altro che dei punti di riferimento dietro ai quali scompaiono l’opera e il suo impatto; non consentono né una ricostruzione né di trarre conclusioni per spiegare il suo entusiasmo. Presto, tuttavia, s’arricchiscono di osservazioni sulle decorazioni, sui materiali o su dettagli tecnici. Si tratta pur sempre, a ogni modo, di una percezione dell’arte priva di nomi e tematiche, che accorda il primato all’impressione ottica, al lusso dei marmi, degli ori, delle tappezzerie e dei ricchi intarsi ed è negligente nei confronti delle questioni iconografiche, formali e stilistiche» (p. 61). Resta difficile credere che il Félibien che è autore di queste note possa essere anche lo stesso che discute con Poussin di teoria artistica e che, da tali conversazioni, codifica un proprio sistema dell’arte. Anche se l’incontro con Poussin, così pure come quello con altri famosi artisti e collezionisti (come Cassiano dal Pozzo) non è in discussione, non si può escludere che la ‘verità’ raccontata negli anni ’70 e ’80 sia in qualche modo stata ritoccata.

E torniamo ora al De l’origine de la Peinture et des plus excellens peintres de l’Antiquité, dedicato a Fouquet nel 1660. A giudizio di Germer si tratta di un’opera che segna il punto di partenza degli Entretiens (e non a caso, con piccole modifiche, il testo sarà riprodotto nel primo di essi, nel 1666). «Come affronta Félibien l’argomento? Comincia col definire gli elementi che costituiscono la pittura, continua discutendo le qualità e le competenze di un bravo pittore, prosegue con uno studio sulle componenti di un dipinto e degli aspetti da rispettare nella sua elaborazione e, per finire, stabilisce il rapporto fra pittura e creazione artistica. Dopo un intervallo consistente nella descrizione di una passeggiata nel parco di Vaux [n.d.r. la dimora di Fouquet] ripercorre l’evoluzione della pittura dai suoi esordi, prima di commentare le realizzazioni dei suoi esponenti antichi più eminenti» (p. 113) La dedica a Fouquet è chiaramente un tentativo di farlo divenire mecenate della pubblicazione dei volumi successivi, tentativo frustrato dall’arresto del soprintendente, ammesso che mai abbia avuto una possibilità di essere accolto. L’autore ritiene che molto probabilmente Félibien pensasse a una serie di biografie degli artisti su modello vasariano (non esattamente quello che divennero gli Entretiens – cfr. p. 394).

Conviene ancora trattenersi sull’analisi dell’Origine perché le osservazioni di Germer sono di particolare pregnanza (pp. 301-307). Nel sistema teorico abbozzato all’inizio del testo, Félibien opera una fondamentale distinzione fra «composition» da una parte e «disegno» e «colore» dall’altra. Il termine ‘composizione’ è una scatola al cui interno sta tutto il lavoro concettuale che porta alla progettazione del dipinto; disegno e colore, invece, sono entrambi aspetti pratici. Siamo nell’ambito delle rivendicazioni sulla nobiltà della pittura che hanno portato alla nascita dell’Académie royale de peinture et sculpture nel 1648 (e non è ancora cominciata la querelle fra poussinisti e rubenisti che si colloca attorno al 1670). Félibien si discosta quindi in qualche modo dalla tradizione vasariana e da quella manierista (si pensi agli scritti di Zuccari su ‘disegno interno’ ed ‘esterno’): «disegno e colore sono subordinati a un progetto intellettuale complessivo; sono dunque fortemente limitati nel loro carico significativo» (p. 303). Ma la limitazione del loro ruolo non mira solo alla rivendicazione della nobiltà della pittura, quanto anche a quella dell’amatore di esprimere giudizi sulle opere d’arte. In un’epoca storica in cui l’Accademia rivendica per sé e per i suoi componenti (tutti artisti) il diritto di giudicare sulle giuste massime in campo artistico, «al contrario di disegno e colore, che riguardano la pratica e quindi sono solo competenza degli artisti, la composizione è un processo intellettuale accessibile in ugual misura agli amatori» (p. 303)

Intendiamoci: Félibien si muove in maniera molto cauta. Il suo problema è evitare, da ‘amatore’, le critiche che potrebbero piovere proprio dall’Accademia [2]. Germer fa notare, intanto, che l’opera esce in un momento di vuoto nella produzione teorica dell’Accademia. Rallentata dalla lunga lotta intestina con la corporazione dei pittori [3], l’Académie è tutta concentrata sulla durissima polemica con Abraham Bosse sull’insegnamento della prospettiva e sul livello qualitativo della traduzione del Trattato della pittura di Leonardo, divenuto, di fatto, testo fondante dell’insegnamento della pittura [4]: Fréart de Chambray aveva pubblicato nel 1651 la traduzione di Leonardo, ma non ancora l’Idée de la perfection de la peinture (1662), Charles-Alphonse Dufresnoy (1611-1668) era schierato con la corporazione contro l’Accademia (più che altro per motivi di risentimento personale nei confronti di Le Brun) e il suo De arte graphica, redatto senz’altro in precedenza, vide la luce in versione latina solo nel 1668, a cura di Roger de Piles. In ogni caso, Félibien difende il suo diritto a esprimersi cominciando col dire di aver scritto l’Origine non di sua spontanea volontà, ma su sollecitazione di un 'Monsieur' che, quasi sicuramente, è Fouquet. Cerca, cioè, una spalla politica. Poi «spiega che deve tutte le sue conoscenze sull’arte a conversazioni avute con artisti contemporanei, un modo per disinnescare il conflitto e disarmare gli accademici inclini alle critiche. Finisce sottolineando che l’Origine non è destinata agli artisti, né pretende di avere valore normativo» (p. 115).

 

Les Reines de Perse (1663)

Si è già visto che la redazione de Les Reines de Persie (1663) rientra a pieno diritto nell’ambito della letteratura panegiristica dedicata all’esaltazione di Luigi XIV. Costituisce tuttavia anche una delle prime applicazioni concrete del sistema teorico dell’arte a una singola opera in ambito francese. Nell’Origine, infatti, Félibien non aveva applicato la sua suddivisione dei componenti della pittura a quadri specifici. Germer scrive che, in questa occasione, l’erudito francese rende in forma discorsiva un elemento visuale (il quadro). Non si parla più di composizione (e quindi di una fase che è relativa alla progettazione dell’opera), ma «il posto centrale è ormai occupato dal dipinto finito […] Due aspetti distinguono Les Reines de Perse da tutta la letteratura artistica francese disponibile sino ad allore: una maggior precisione e più sfumature nelle descrizioni; nonché la capacità di collegare caratteristiche formali ad aspetti generali» (p. 307). Irrompe nella descrizione del quadro l’importanza dell’unità del soggetto: «a esso sono subordinate l’espressione delle passioni, l’unità della luce e quella dei colori. Che si tratti di colore, luce o passioni, l’argomentazione resta sempre identica: ogni elemento è integrato in una struttura gerarchica, messa in rapporto al soggetto principale del dipinto» (p. 177). Nel modo in cui descrive il quadro «si legge una convinzione secondo la quale un elemento formale isolato – una mimica, un gesto, un colore – non si riempiono di significato se non in relazione agli altri, se non attraverso una contestualizzazione. […] Il modo con cui Felibien riesce a riunire le qualità formali d’un quadro in strutture apportatrici di senso fanno del suo testo un modello per la comprensione e la descrizione delle opere d’arte» (p. 308).

 

Félibien e il difficile rapporto con l’Accademia: le Conférences

Oggi consideriamo genericamente Félibien come un esponente del mondo dell’Académie francese. E, in effetti, molte delle sue osservazioni in fatto di teoria dell’arte non sono affatto rivoluzionarie e ben si sposano con quanto sostenuto in via ufficiale dall’Accademia negli anni dal 1660 in poi, quando l’istituzione si consolidò attorno a Charles Le Brun. Tuttavia il rapporto di André con l’istituto fondato nel 1648 fu tutt’altro che semplice e, piuttosto, denso di amarezze, di cui si trova traccia negli ultimi Entretiens.

Félibien fu cooptato all’interno dell’Accademia in qualità di socio onorario il 30 aprile 1667. La figura dell’amatore o consigliere onorario era stata introdotta negli statuti dell’istituto alla fine del 1663, chiaramente su sollecitazione di Colbert, che poteva così intervenire sugli affari dell’Accademia tramite suoi uomini di fiducia, uno dei quali fu Charles Perrault (1628-1703), nominato a giugno 1665. Siamo in anni in cui il potere assoluto spinge fortemente per una riorganizzazione interna: «l’istituzione doveva essere coinvolta nella valorizzazione propagandistica delle collezioni reali iniziata dalla Petit Académie, e le sedute accademiche portate dalla definizione di dogmi generici alla presentazione di casi concreti utilizzabili a fini didattici» (p. 309). Queste le indicazioni fornite da Colbert nel gennaio 1666. In realtà per oltre un anno non se ne fece nulla, sicché nel 1667, tramite una relazione proprio di Perrault, Colbert impose, di fatto, l’auspicata riorganizzazione delle modalità con cui, una volta al mese, si tenevano le sedute e volle che di esse si fornisse un pubblico rendiconto. Perrault indica a tal proposito il nome di Félibien, che quindi era anch’egli ‘uomo del potere’. Logico che il suo incarico fosse fonte di gelosie nell’establishment accademico, gelosie che esplosero subito dopo la pubblicazione del volume con i resoconti delle prime sette sedute, le Conférences de l’Académie royale de peinture et de sculpture pendant l’année 1667, edite nel 1668.

Il frontespizio delle Conférences
Fonte: gallica/bnf/fr tramite https://journals.openedition.org/dossiersgrihl/9987


Le Conférences sono precedute da una dedica a Colbert e da una prefazione di Félibien. Non è chiaro – essendo andati persi i verbali originali – se e quanto André sia intervenuto nel modificare i testi delle sedute vere e proprie che, comunque,  prendono sempre spunto dall’esame di un’opera specifica, come prescritto da Colbert. Piuttosto nella prefazione si colgono aspetti importanti; intanto un cambiamento di tono da parte di Félibien, che se nell’Origine cercava di giustificare il suo interessarsi all’arte pur non essendo un artista, ora assume sicurezza, essendo membro dell’Accademia. Sono inoltre presenti riferimenti a vari aspetti che non sono oggetto di discussione nelle singole conferenze (p. 317): la distinzione fra arte e artigianato, la gerarchia dei generi (e quindi prima di tutto la pittura di storia, meglio ancora se rappresentata in forma allegorico-mitologica e poi il paesaggio, il ritratto etc), la separazione fra componenti teoriche e pratiche della pittura, la teoria poussinista dell’imitazione e dei modi di rappresentare gli affetti. A ben vedere, nessuno di questi argomenti, come si diceva, si pone in contrasto col pensiero accademico. Del resto, l’esaltazione della figura di Poussin quale traghettatore della grande arte dall’Italia alla Francia è idea insita sin dalla traduzione del Trattato della pittura di Leonardo (1651), in cui l’apparato illustrativo era condotto su disegni di Poussin [5]; la separazione fra arte e artigianato stava alla base dell’esistenza dell’Accademia; l’individuazione di una gerarchia dei generi ben si conciliava coi tentativi di Le Brun di limitare l’accesso all’Accademia ad artisti che praticavano le ‘arti minori’. Il problema è che, probabilmente, Félibien non ebbe alcuna sorta di autorizzazione a trattare tali argomenti. Che sia stato questo il problema; che, invece, si sia trattato, come sopra ipotizzato, di un rimaneggiamento eccessivo dei verbali accademici (senza possibilità per gli oratori di revisionare le bozze), fatto sta che il consigliere onorario fu oggetto di accese polemiche di fronte alle quali anche Colbert dovette arrendersi. La redazione delle Conférences, che in realtà divenne molto più sporadica, fu assegnata a Henri Testelin (1616-1695), segretario dell’Accademia e il ruolo di Félibien fortemente ridimensionato. Pur rimanendo consigliere onorario, del resto, l’attività di Félibien era destinata a concretizzarsi in un altro luogo, nell’ambito dell’Académie d’architecture, fondata il 30 dicembre 1671.


I Principes de l’architecture, de la sculpture, de la peinture (1676)

Sull’esperienza di Félibien all’interno dell’Académie royale d’architecture non mi dilungherò più di tanto. Basti sapere che l’Académie era costituita da pochi membri cooptati da Colbert; loro compito era, naturalmente, fissare una dottrina normativa in materia, ma soprattutto far fronte (se richiesti) ai bisogni dell’amministrazione centrale. Così, ad esempio, il Procès-verbal de la visite de toutes les anciennes eglises et bastiments de Paris et des environs, pour examiner la qualité des pierres dont il sont bastis, redatto da Félibien, risponde a una richiesta in tal senso di Charles Perrault (ovviamente su indicazione di Colbert). Francamente inutile cercare, in testi come questo, un interesse estetico (e quindi un apprezzamento del gotico); a prevalere sono le considerazioni di natura tecnica e, semmai, archeologica.

Frontespizio dei Principes de l'architecture
Fonte: https://www.libreriagonnelli.it/libri-antichi/des-principes-de-larchitecture-de-la-sculture-de-la-peinture-et-des-autres-a


Nel 1676 Félibien pubblica i Principes de l’architecture, de la sculpture, de la peinture et des autres arts qui en dipendent avec un dictionnaire des Termes propres à chacun de ces Arts. Si tratta di un’opera di difficile collocazione, che Germer inserisce all’interno del capitolo dedicato all’esperienza dell’autore nell’Académie d’architecture fondamentalmente per due motivi: innanzi tutto perché Félibien sottopose agli altri membri dell’istituto il suo testo prima della sua pubblicazione, poi perché lo spazio (anche in termini di apparato iconografico) dedicato all’architettura è nettamente prevalente. I Principes sono opera che mira all’organizzazione della conoscenza su base empirica; un tentativo, però, che è possibile solo grazie a uno scarto preliminare rispetto a posizioni precedenti. Abbiamo visto che nell’Origine Félibien operava una fondamentale distinzione da una parte fra ‘composizione’ (la parte teorica su cui potevano esprimersi anche gli amatori) e, dall’altra, ‘disegno’ e ‘colore’. A distanza di sedici anni le cose cambiano: d’ora in poi ‘composizione’ (in questo caso specifico si parla di ‘ragionamento’), disegno e colore partecipano tutti di un aspetto teorico e pratico. La conseguenza diretta è che, avendo tutti una componente teorica, gli amatori sono autorizzati a considerazioni di ordine critico su tutti e tre i grandi rami del fare artistico. Senza dubbio si fanno sentire gli effetti di opere come il Dialogo sul colorito di Roger de Piles (1673) e, di conseguenza, gli echi della querelle fra sostenitori del disegno (nel cui ambito si colloca Félibien) e del colore. Ma, a essere sinceri, questa premessa non è, nella circostanza, motivo di grandi elaborazioni teoriche; qui, come detto, Félibien, mira alla ‘semplice’ organizzazione del sapere in architettura, pittura e scultura (e, fatto da non trascurare, delle ‘altre arti’ ossia delle professioni, anche artigianali, a loro collegate) tramite l’individuazione dei principi che a loro presiedono. Ci aspetteremmo una qualche affermazione di natura vasariana, con il disegno definito come padre di tutte e tre le arti. In realtà le cose non stanno così. Félibien utilizza il termine ‘principio’ in quattro accezioni diverse (pp. 370 ss.) e a esse fa corrispondere l’uso di quattro registri letterari che meglio le illustrano. La prima accezione di ‘principio’ è di natura assiomatica ed è utilizzata, ad esempio, per l’esposizione degli ordini delle colonne in architettura; l’esposizione è ugualmente assiomatica; afferma un fatto senza avvertire il bisogno di giustificarlo. Vi è poi il ‘principio’ inteso in senso storico e Félibien ricorre alla narrazione; con la terza accezione l’autore espone i diversi modi di funzionamento dei processi artistici a cui sono abbinati spiegazioni affiancate da un ricco apparato iconografico; infine, sono considerati ‘principi’ anche gli utensili e gli strumenti che servono agli artefici (dai muratori agli architetti) per esercitare il loro mestiere; in tal caso l’esposizione è meramente lessicale, e trova la sua naturale forma organizzativa nella redazione di un dizionario che occupa un terzo dell’intera opera e che oggi costituisce di gran lunga la parte storicamente più importante del lavoro di Félibien. La redazione del dizionario non ha alcuna intenzione ‘normalizzatrice’. Félibien non scrive per ‘imporre’ una lingua ufficiale alle tecniche artistiche; il suo scopo è esattamente il contrario, ossia registrare tutte le forme, anche dialettali, con cui sono definiti gli utensili e i processi di creazione artistica. Per capire quale sia l’impegno con cui l’autore espleta il suo compito, basti pensare che, non nel dizionario, ma in una parte precedente, dedicata all’architettura, tecniche e strumenti del fabbro occupano trentanove pagine fra testo e immagini. Naturalmente la prima cosa che, a un profano come il sottoscritto viene in mente, è che si tratti di una sorta di anticipazione dell’Enciclopedia di D’Alembert e Diderot. Su quest’aspetto bisogna andare molto cauti, e Germer lo è. Molto acutamente, tuttavia, fa presente che il progetto di Félibien si inserisce perfettamente nell’aspirazione di uno Stato che «per accrescere l’efficacia del suo potere e per incoraggiare l’economia, reclamava la pubblicazione e l’accessibilità di tutto il sapere» (p. 387). Ancora una volta, insomma, anche se non abbiamo nessuna prova che la richiesta sia stata fatta dalla monarchia assoluta, il francese è bravo a interpretarne le esigenze e a dar vita a un’opera che le possa soddisfare.

 

Gli Entretiens


Il frontespizio del primo tomo degli Entretiens
Fonte: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k10402281


Gli Entretiens sur le vies et sur les ouvrages de plus excellens peintres anciens et modernes sono considerati il capolavoro di Felibien; per essi André fu spesso soprannominato il Vasari francese. La prima cosa da notare, senz’altro curiosa, è che non ne esiste una versione commentata moderna; per meglio dire (a meno che non sbagli) nel 1987 René Démoris (morto nel 2016) ha pubblicato con l’editore Les Belles Lettres testo e commento ai primi due colloqui (corrispondenti, come vedremo, al primo tomo dell’opera), ma poi non si è visto altro. La circostanza è curiosa. È sì vero che, nel redigere la sua fatica, Félibien fu debitore (a volte letterale) a più di una fonte (a cominciare da Vasari per proseguire con Bellori); forse questo ha fatto pensare che lo studio dell’opera non abbia un senso. Tralasciando il fatto che comunque Félibien apportò eccome elementi di rielaborazione personale, ancora una volta il rischio è quello di incorrere in un equivoco. La letteratura artistica non è una gara in cui si tratta di stabilire chi per primo parla di determinati aspetti legati al fare artistico o alle biografie dei pittori, quanto una cartina di tornasole per capire i meccanismi di diffusione di quegli aspetti e di quelle nozioni. Anche solo per questo fatto, gli Entretiens meriterebbero ben altra considerazione.

Ciò detto, è difficile e probabilmente impreciso parlare degli Entretiens come di un’opera unica; nella loro versione finale furono, infatti, pubblicati nell’arco di più vent’anni e ogni volume risente quindi di diversi contesti storico-politici, ma anche della differente posizione personale dell’autore nella società francese. Complessivamente siamo di fronte a cinque volumi, ognuno dei quali comprendente due ‘conversazioni’. Il primo fu edito nel 1666; il testo del primo Entretien non è altro che quello dell’Origine de la peinture (1660) di cui ho già parlato, con modifiche secondarie e la creazione di un paratesto ad hoc (l’Origine era dedicata a Fouquet, poi arrestato; qui, naturalmente, siamo in un contesto laudativo di Luigi XIV e di Colbert); nel secondo è presentato lo sviluppo dell’arte italiana dal medio evo ad Andrea del Sarto (compreso Raffaello). Il secondo volume fu pubblicato nel 1672: la terza e la quarta conversazione erano dedicate al Cinquecento centroitaliano (nella quarta troviamo Michelangelo), ma anche, con un salto all’indietro, alle prime manifestazioni artistiche a nord delle Alpi. Per leggere il terzo tomo si dovette attendere il 1679; qui Félibien (quinto Entretien)  si dedicò ai pittori veneti e (nel sesto) alla fine del Cinquecento e all’inizio del Seicento, con i Carracci, il Cavalier d’Arpino e Caravaggio (ma sempre anche con uno sguardo allo sviluppo artistico extra-italiano). Molto probabilmente fu solo in questo momento, come risulterebbe da una sorta di opuscolo distribuito ai suoi amici, che Félibien completò il progetto complessivo dell’opera, mirando a presentare le biografie degli artisti morti entro il 1679; d’altro lato l’intenzione (rispettata) era quella di affrancarsi sempre più dalla storiografia italiana per spostare l’attenzione su quella francese. In un processo evolutivo che deriva naturalmente da Vasari, il progresso delle arti portava direttamente alla figura di Poussin. Tuttavia i tempi di completamento dell’opera furono lunghi. Il quarto tomo uscì solo nel 1685; studiava gli epigoni dei Carracci, Rembrandt, Rubens e soprattutto (ottavo Entretien) Poussin. Arrivato a questo punto, però, Félibien si accorse che restavano fuori i pittori francesi successivi al suo ‘eroe’ e redasse un ultimo tomo, con nona e decima conversazione, che fu pubblicata nel 1688.

È fuori di dubbio (come detto) che la letteratura artistica italiana fu indispensabile al francese per sostanziare la sua opera. Basti pensare che, in realtà, molto spesso Félibien stava parlando di opere che non aveva mai visto in vita sua e, inevitabilmente, doveva affidarsi (copiandole) a fonti letterarie. Ciò detto, esistono elementi di originalità; il primo mi sembra (curiosamente Germer non ne parla esplicitamente) la dimensione europea con cui è concepita la storia dell’arte del francese; una storia multicentrica, dedicata all’Italia, alla Francia (non alla Spagna della cui trattatistica probabilmente non conosceva nulla), ai Paesi Bassi e alla Germania. Non doveva essere facile; per l’inevitabile barriera linguistica, ad esempio, Félibien non aveva modo di leggere lo Schilder-Boeck di Karel van Mander, ossia il testo più significativo della tradizione storiografia fiamminga. È noto che se ne fece tradurre i brani più significativi dell’erudito Isaac Bullart (1599-1672), autore a sua volta di un’Académie des Sciences et des Arts edita nel 1682 [6]. Naturalmente allargare geograficamente il campo d’indagine voleva dire implicitamente mettere in maggior risalto i meriti dell’arte francese che era emersa nella sua importanza con Poussin e sotto Luigi XIV.

Le prime parole del titolo, peraltro, segnalano un’ulteriore elaborazione personale che la discostano dalle Vite vasariane. Non siamo di fronte a delle ‘vite’, ma a delle ‘conversazioni sulle vite’. L’ ‘unità di misura’ del testo non è più il medaglione biografico dell’aretino, ma un discorso continuo che, specialmente nel primo tomo, copre addirittura secoli di sviluppo artistico. Non solo; non siamo di fronte ‘solo’ a delle biografie, ma a un mix di elementi che comprendono anche osservazioni teoriche sull’arte, declinate non in maniera sistematica, ma sporadicamente, soprattutto nell’ambito dei primi sei Entretiens. Molto probabile che a spingerlo ad adottare un simile approccio siano  state anche indicazioni fornitegli dallo stesso Poussin, a giudicare da una lettera, a noi nota, inviatagli dal pittore francese nel gennaio 1665. Qui, con specifico riferimento a scritti biografici dell’abate Claude Nicaise (1623-1701), Poussin si dichiarava scettico sulle pure biografie d’artisti; gli artefici andavano presi in considerazione anche in relazione alle loro idee e alla teoria dell’arte. È appena evidente che Poussin aveva in mente un modello storiografico come quello belloriano. E sicuramente Bellori è l’altra grande fonte di Félibien (che pure non rinuncia a esplorare le biografie degli artisti minori); non si faccia caso al fatto che l’opera belloriana uscì solo nel 1672; il progetto dell’erudito italiano risaliva già ai decenni precedenti (c’è chi lo riconduce agli anni ’40 del secolo) e Poussin vi era ampiamente coinvolto. Da Bellori certamente Félibien mutuò l’interpretazione dell’evoluzione del fare artistico di fine Cinque e inizio Seicento, con la contrapposizione fra classicisti, manieristi e ‘naturalisti’ caravaggeschi.

L’opera è proposta in forma dialogica. Il dialogo, naturalmente, era forma letteraria ben nota sin dall’antichità, e quindi Félibien non inventa nulla. Tuttavia Germer segnala che, a suo avviso, il dialogo del francese è diverso dai toni di quello che conosciamo dalla tradizione letteraria precedente, che, in sostanza, proponeva in via fittizia una disputa erudita. L’interruzione continua del testo con una serie di brevi domande e risposte, ad esempio, è percepita come poco idonea allo scopo: «per questo motivo [n.d.r. Félibien, che è il narratore e uno dei due protagonisti] integra la conversazione con Pimandro in una narrazione continua formulata con la prima persona singolare» (p. 412).

Continua Germer: «la struttura dialogica conferisce agli Entretiens (…) coesione formale […]. Più ancora: gli permette di integrare nella conversazione una moltitudine di testi esistenti il cui spettro va dalla letteratura classica delle Vite passando per i trattati di pittura fino a intere conferenze accademiche. Solo una frazione di questi prestiti è resa riconoscibile: poche note marginali indicano l’autore e il titolo delle opere utilizzate. Più spesso, tuttavia, Félibien nasconde più di quanto non riveli: idee, formulazioni, modi di pensare – passaggi di solito decisivi – sono ripresi senza indicazione di fonte e attribuiti sia al narratore sia a Pimandro (p. 412).

Poussin costituisce la vera figura centrale dell’impalcatura di Félibien, sin dalla prefazione, in cui Félibien rievoca (non si sa fino a che punto fedelmente) la reciproca frequentazione romana; o, per meglio dire, si accredita della familiarità che il ‘Raffaello francese’ gli concedeva, uno dei pochissimi ad essere ammesso nel suo atelier mentre l’artista stava lavorando. Come Félibien identifica nella conoscenza con Poussin la sua iniziazione all’arte, così vale per i lettori che leggono le sue idee riprodotte negli Entretiens. Poussin, ad esempio, è portato a testimone contro gli autori che avevano difeso un’impalcatura teorica fissa e rigida per la pittura, dichiarando che quest’ultima, ad esempio, doveva sempre soggiacere alle regole della prospettiva di Desargues. Il sapere di Poussin, invece, è esperienziale e tale va considerata anche l’impostazione degli Entretiens: «In maniera logica, la sua opera [n.d.r. di Félibien] non è concepita come un testo prescrittivo redatto nella prospettiva di un sapere assoluto che viene prima di tutta la pratica artistica, ma come un testo descrittivo formulato sulla base della curiosità (,,,) e legato non alla riduzione a regole, ma a una differenziazione la più ampia possibile delle osservazioni» (p. 408).

Quella di Poussin, dunque, è la ‘biografia’ esemplare dell’opera. A essa è dedicato l’ottavo Entretien. Siamo nel 1685, e, come logico, oltre ad altri materiali, Félibien si affida in particolar modo alla biografia di Bellori. Tuttavia, pur essendo del tutto coerenti i rispettivi dati biografici, è evidente che l’interpretazione del ruolo dell’artista è diversa. Per il francese Poussin è il campione della libertà e dell’indipendenza dell’artista, l’uomo che rinuncia alla vita di corte e a ‘servire’ il potere per tornare a Roma e continuare i suoi studi e la pratica artistica. In Bellori questa notazione è molto meno accentuata, ed è inevitabile che sia così: da Roma il mecenatismo assolutista di re Luigi è visto come un’opportunità più che una minaccia. Molto più pericoloso il discorso di Félibien; è sì vero che, quando pubblica il quarto volume degli Entretiens Colbert è morto due anni, che la Petit Académie non svolge più ruolo di censura nei confronti dei suoi libri, ma l’indipendenza invocata per Poussin (implicitamente posta a confronto con il ‘servilismo’ di Le Brun) è chiaramente un’indipendenza rivendicata (o, forse meglio, desiderata) anche per sé. Félibien si allontana dal potere, quel potere che ha servito in maniera esemplare per tutta la vita. Implicitamente è quanto succede anche nell’ultimo tomo degli Entretiens, edito nel 1688. Con Poussin, infatti, si esaurisce di fatto lo sviluppo artistico dell’arte in generale e di quella francese in particolare; le biografie degli artisti successivi all’idolo di André diventano mero fatto di cronaca, ma non hanno nulla da aggiungere in termini di raggiungimento della perfezione. Questa generazione, che viene quindi a essere percepita in senso riduttivo è figlia dell’Accademia, quell’Accademia che è espressione del potere e che, però, non è stata in grado di far crescere artefici all’altezza. Si tratta di un quadro molto amaro, che chiude l’opera con toni di pessimismo inimmaginabili leggendo la Prefazione al primo volume. Sono passati vent’anni; l’uomo è diventato vecchio e il suo sguardo comincia a essere più scettico su una società di cui è stato uno dei principali interpreti in ambito intellettuale.  

 

NOTE

[1] Per una rassegna completa della produzione letteraria di Félibien si veda l’appendice 3, pp. 571-579.

[2] Il tema della capacità dell’amatore di esprimere giudizi sull’arte, del resto, si trascinerà per decenni. Si veda, ad esempio, Sandra Costa e Giovanna Perini Folesani, I savi e gli ignoranti. Dialogo del pubblico con l’arte (XVI-XVIII secolo).

[3] Si veda Claire Farago, Defining a Historical Approach to Leonardo’s Trattato della pittura in Claire Farago, Janis Bell, Carlo Vecce, The Fabrication of Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura.

[4] Si veda Martin Kemp, “A Chaos of Intelligence”: Leonardo’s Traité and the Perspective Wars at the Académie Royale in Re-Reading Leonardo. The Treatise on Painting across Europe, 1550-1900
Edited and introduced by Claire Farago.

[5] Si veda Juliana Barone, Poussin as Engineer of the Human Figure: the Illustrations for Leonardo’s Trattato in Re-Reading Leonardo. The Treatise on Painting across Europe, 1550-1900
Edited and introduced by Claire Farago.

[6] A essere corretti, fu Bullart a scrivere nel secondo volume della sua Académie di aver tradotto dei brani di Van Mander per Félibien, che non era in grado di leggere l’originale.

 

 

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