Federico Altan
Scritti sulla pittura friulana
A cura di Paolo Pastres
Memorie intorno alla Vita ed all’Opere dell’insigne Pittore Pomponio Amalteo, 1753
Del vario stato della pittura in Friuli dalla caduta del Romano Impero fino a’ tempi nostri, 1772
Udine, Deputazione di Storia Patria per il Friuli, 2017
Recensione di Giovanni Mazzaferro
La nascita della storiografia artistica in Friuli
Tradizionalmente, è con il conte
e abate Federico Altan di Salvarolo (1714-1767), originario di San Vito al
Tagliamento, che si individua la nascita di una storiografia artistica dedicata
prettamente al Friuli. In particolare, gli scritti di Altan che segnano tale
debutto sono due saggi brevi apparsi nel 1753 e nel 1772 rispettivamente sulla «Raccolta» e
sulla «Nuova
raccolta di opuscoli scientifici e filologici» promossa da Angelo Calogerà. Nel
2017 Paolo Pastres ha curato la presente edizione, che li offre per la prima
volta al lettore in edizione moderna e sapientemente commentata.
Altan, ecclesiastico di natali
aristocratici, fu il classico esponente di un’erudizione settecentesca che
aveva fatto della ricerca storica uno degli strumenti più efficaci per
affermare l’identità culturale della propria terra d’origine. Pastres fa
notare, ad esempio, che il titolo del secondo saggio (scritto fra 1765 e 1767,
anno della morte dell’abate e pubblicato postumo nel 1772) comincia con ‘Del
vario stato’, espressione tipica della tradizione storiografica erudita
italiana a partire da Muratori. Altan, insomma, fu più storico che storico
dell’arte; più attento alle fonti letterarie e ai documenti d’archivio che
all’ispezione oculare delle opere. C’è anzi, da ritenere, che in molti casi non
abbia mai visto i dipinti che cita, appoggiandosi, appunto, sulla tradizione
letteraria. Parlerò del ricorso frequente a trascrizioni di brani di autori (da
Ridolfi
a un manoscritto di fine Cinquecento da ascriversi a Girolamo Cesarino
intitolato Sull’origine del castello di S. Vito [1]). Dalla parte dell’erudito
sta comunque la consapevolezza che le ‘arti belle’ costituiscono un momento
qualificante di un’identità culturale collettiva.
I due opuscoli scritti da Altan
hanno un comune scopo, quello appunto di affermare l’esistenza di una scuola
artistica friulana e di esaminarne le manifestazioni più importanti, ma lo
perseguono percorrendo strade diverse: le Memorie su Amalteo, scritte in
fittizia forma epistolare e dedicate all’amico romano Pompeo Frangipane,
marchese di Nemi, hanno natura biografica; il De vario stato,
probabilmente un discorso pronunciato in una qualche occasione accademica, ambisce
a delineare per sommi capi una vera e propria storia della scuola di pittura
friulana dai ‘secoli bui’ sino ‘ai nostri giorni’.
Quando Altan
scrisse le Memorie di Amalteo il Patriarcato di Aquileia era stato
soppresso da appena due anni (1751); nel caso del secondo opuscolo il lasso di
tempo è maggiore (realisticamente una quindicina d’anni), ma non lascia dubbi
sul fatto che, nella mente dell’abate – e dei suoi conterranei – una gloriosa
stagione plurisecolare si era chiusa formalmente. In proposito Pastres cita una
famosa frase di Édouard Pommier (p. 35): «La rilevazione della storia passa
attraverso la presa di coscienza di un ritorno impossibile»; in sostanza, una
storicizzazione è fattibile solo quando si abbia la piena consapevolezza che si
è chiusa un’epoca e altro non resta da fare che nobilitarne l’eredità che ci
lascia. Nel caso di Altan, il discorso mi sembra perfetto.
San Vito al Tagliamento, Interno della Chiesa di San Vito al Tagliamento con affreschi di Pomponio Amalteo Fonte: Zairon tramite Wikimedia Commons |
I
caratteri della scuola pittorica friulana
Ma quali
sono i caratteri che Altan riconosce alla scuola pittorica friulana? Innanzi
tutto, occorre ragionare in termini geografici: per l’abate di San Vito fa
parte della cultura friulana anche Tiziano (la circostanza è rivendicata in
entrambi gli scritti). Il Cadore di fine XV secolo era infatti ‘inglobato’
nell’alto Friuli perché in parte sottoposto alla giurisdizione del luogotenente
di Udine e già sottoposto al patriarcato di Aquileia (p. 18). Ho appena detto
che il patriarcato era stato abolito nel 1751 e davvero la sua storia sembra
parametro vitale per rintracciare un’identità geografica friulana. A dire il
vero, Altan non spende molto tempo su Tiziano; probabilmente è vinto dal pudore
e si rende conto di aver fatto un’affermazione molto impegnativa; si limita ad
affermare (nelle Memorie di Amalteo) che Tiziano era stato uno dei primi
quattro pittori d’Italia e a postulare (nel Del vario stato) l’esistenza
di una ‘scuola’ di Tiziano, distinta da quelle di Pellegrino di San Daniele e
del Pordenone, nel cui ambito riconduce Orazio e Marco Vecellio e Irene da
Spilimbergo (riprendendo in questo caso la tradizione storiografica vasariana).
Resta il fatto che le affermazioni di Altan ebbero un loro seguito e la
presenza di Tiziano nella scuola pittorica friulana fu ripresa, ad esempio, da
Girolamo de’ Rinaldis, autore, fra 1796 e 1798, di Della pittura friulana.
Fu Fabio di Maniago, attorno al 1820, a negare la presunta appartenenza del
Vecellio al mondo culturale del Friuli.
Più
complesso parlare dei caratteri ‘stilistici’ della scuola artistica friulana.
Più complesso perché Altan attribuisce allo stile poca attenzione e in molte
occasioni, più che non saper vedere, non guarda proprio. Così, per quanto
riguarda i primitivi (e qui sto facendo riferimento al Del vario stato)
rivendica l’esistenza di opere ben precedenti a Cimabue e Giotto, ossia agli
eroi vasariani della rinascita delle arti in Toscana; l’arte friulana,
dunque, esisteva già prima del XIII secolo, ma «si dee confessare che allora
[n.d.r a quell’epoca] vi mancava affatto l’arte del dipingere bene e con gusto».
Manca, addirittura, la relatività del giudizio che pure Vasari aveva accordato,
ad esempio, a Giotto: ottimo pittore, naturalmente tenendo conto dei tempi in
cui visse.
Pellegrino da San Daniele, Annunciazione, Musei Civici di Udine Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pellegrino-da-San-Daniele-LAnnunciazione.jpg |
In realtà
Altan mostra nelle sue pagine un gusto improntato alla tradizione classicista;
così, parlando del Cinquecento, finisce per vergare alcune pagine dedicate alla
perfezione raggiunta dall’arte in quel secolo più in termini generali che in
Friuli: «Ma venne finalmente il secolo decimosesto, secolo per ogni bella arte
sommamente felice, in cui si pose ogni studio per ricondurre anche la pittura
alla sua vera bellezza. Non vi è cosa, che ad essa in qualche modo appartenga,
che in quel tempo diligentemente non si coltivasse. Si diede opera a
rappresentare con accortezza il vero, e ad imitar con ingegno la natura…» (p.
131). Con grande acume, Pastres segnala puntualmente come gran parte delle
osservazioni contenute in questa sezione derivino (a volte anche letteralmente)
dal Saggio sopra la Pittura di Francesco Algarotti, pubblicato nel 1763,
ossia un paio d’anni prima circa che Altan scrivesse e pronunciasse (si
presume) il suo discorso (pp. 37-41). Algarotti, sia detto per inciso, non
viene mai citato, ma perché nel caso specifico non è fonte di dati oggettivi,
quanto ‘ispirazione’ per un discorso di ordine teorico. L’assenza di una
cultura visiva all’altezza è tale che, quando Altan prova a entrare più nello
specifico, delineando i tratti della pittura friulana, finisce immancabilmente
per rimanere nel generico: «Se talvolta si desidera in essa [n.d.r. nella scuola
friulana] più corretto disegno e maggiore espressione di affetti, ciò per
avventura addivenne, perché la medesima intenta principalmente ad imitare la
natura, e ad esprimerla, non si prese molto pensiero di studiare quanto di più
perfetto fu di essa natura imitato nelle greche statue, che sono per altro il
vero fonte, onde derivano bel disegno e scelta espressione. […] Ma a questo
qualunque siasi mancamento seppero ben supplire i nostri dipintori con la
eccellenza, che dimostrarono nelle altre parti della pittura, e singolarmente
nel comporre e maneggiare colori, sicchè giunsero eglino a conseguire
felicemente i principali fini, che si propone quest’arte, vale a dire ad
ingannare l’occhio, a muovere il cuore ed a rappresentare il vero». Giudizio
che sancisce un’ ‘autonomia’ friulana sul fronte del colore, ma che
contemporaneamente poteva essere (o essere stato) pronunciato con riferimento a
quella veneta. Sicché nel momento di rivendicare una ‘specificità’ friulana,
Altan finisce inconsapevolmente per appiattirsi su Venezia e i suoi artisti.
Giovanni Antonio de Sacchis detto il Pordenone, Noli me tangere, Cividale del Friuli, Museo del Duomo Fonte: YukioSanjo tramite Wikimedia Commons |
Le fonti
di Altan
Se,
quindi, da un punto di vista stilistico, l’abate di San Vito al Tagliamento non
è in grado di essere avvincente, che giudizio dare dei suoi scritti? Secondo me
Pastres ha perfettamente ragione: «rappresentano soprattutto un importante abrégé
di quelle «poche e ancor qua e là sparse notizie» sui maestri friulani, che
compaiono nelle principali fonti, alle quali il nostro ecclesiastico si limitò
ad aggiungere brevi precisazioni di notevole interesse critico, ed alcune di
carattere documentario» (p. 19). Non è comunque poco, se si tiene comunque
conto che Altan fu un apripista e che tramite la sua rete di conoscenze,
direttamente o indirettamente (è documentata ad esempio una lettera di Rinaldo
de’ Rinaldis del 1764 che chiede informazioni sui pittori friulani a Gian
Giuseppe Liruti a nome di Federico – cfr. p. 45), fu in grado di segnalare
diverse opere mai indicate nella letteratura precedente. Quali furono le fonti
letterarie di Altan? Naturalmente Vasari (nell’edizione giuntina curata
dall’abate Bottari) e Ridolfi (1648). Poi, alcuni scritti di respiro erudito e
locale, come il Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio in quanto unite
contribuiscono alla felicità degli Stati (1764) dell’economista udinese
Antonio Zanon, al cui interno erano comunque presentate alcune biografie di
artisti friulani (p. 15), il testo di Girolamo Cesarino di cui ho già parlato e,
probabilmente, un ulteriore manoscritto, stilato dal pordenonese Ernesto
Mottense ed esteso nel 1763, oggi andato smarrito. Vi è poi una serie di
scritti da inserire nell’ambito di un’influenza più lasca, ma comunque
importante; si è detto di Algarotti; non mancano riferimenti alla Verona
illustrata di Scipione Maffei, e, ancora, sono citati Malvasia
e Baldinucci
(della cui lettura diretta è comunque lecito dubitare). Una cosa è certa;
finché può Altan cerca di appoggiarsi sulla testimonianza letteraria (anche se
frutto di informazioni ricevute informalmente da altri eruditi). Pastres si
domanda, ad esempio, come mai, parlando del Trecento, l’ecclesiastico segnali i
cicli di affreschi di Vitale da Bologna nella cattedrale di Udine, all’epoca
non visibili, tralasciandone altri, invece, facilmente osservabili: «nella prospettiva
di ricerca del nostro abate, (…) decisivo deve essere stato il poterli ancorare
a fonti letterarie e documentarie, permettendogli così di superare il
prevedibile enpasse causato dalla difficoltà di occuparsi dei
“primitivi”, se non per una mera registrazione (…) della loro esistenza» (p.
48).
Due ipotesi
L’ultima
parte di questa recensione è dedicata all’esposizione di due ipotesi che mi
sono venute in mente leggendo il libro. Vorrei chiarire immediatamente una
cosa: non ho nessuna intenzione di dimostrare di ‘essere più bravo’ di Paolo
Pastres. La ‘competizione’ – ammesso che provassi un minimo interesse per la
cosa – non comincerebbe nemmeno, e non certo a mio vantaggio. Semplicemente, la
lettura di un libro deve essere occasione di sollecitazione intellettuale, confronto
e crescita personale; quindi espongo le mie perplessità, avanzo le mie ipotesi,
avvertendo il lettore che come tali vanno prese, né più né meno.
Nell’ambito
della sua storia della pittura friulana, Altan prende in considerazione, a un
certo punto, Marco Basaiti e il Bellunello: «Fece la pittura in questa contrada
ancora più bella mostra di sé nel secolo decimo quarto specialmente ne’ lavori
di Marco Basaita [n.d.r. sic] e di Andrea Bellunello, che qui alzarono il grido
di valenti dipintori…» (p. 131). Scrive in merito il curatore: «Sulla via della
buona pittura, l’abate Federico passa a tratteggiare quelle che considera le
più antiche personalità artistiche della regione: Marco Basaiti e Andrea
Bellunello. Si tratta di due pittori del Quattrocento, che la critica
settecentesca considerava ancora come pittori “primitivi” (…) ed appare perciò
interessante notare lo spazio e l’attenzione riservata loro, pur nella quasi
completa incertezza sulle biografie e cataloghi. […] Tuttavia, anche in questo
caso, ci troviamo di fronte all’anticipazione cronologica di un secolo, dato
che egli li riteneva appartenenti al XIV, anziché, come sarebbe corretto, al XV
secolo; inoltre, va notato che entrambi non erano di nascita friulana» (p. 50).
Torniamo
al testo originale di Altan: Quel «fece la pittura in questa contrada ancora
più bella mostra di sé» presuppone, a mio avviso, un discorso comparativo
rispetto a quanto avvenuto (e scritto) prima. E prima (a p. 129) Altan aveva
scritto: «Quindi la pittura cominciò anche essa in Friuli a dirozzarsi. Prima
ancora della metà del secolo decimo quarto avea ella qui fatto qualche
progresso così nel disegno, e nel colorito, che nella espressione» proseguendo
con la descrizione dei cicli di affreschi di Vitale (p. 129). Al termine, poi,
della sezione dedicata a Basaiti e al Bellunello, il testo recita: «Ma venne
finalmente anche il secolo decimosesto…» (p. 131). La mia ipotesi è che quel
‘decimo quarto’ che si legge in corrispondenza dei due artisti sia, banalmente,
un refuso per ‘decimo quinto’. Del resto, parlando di Basaiti, Altan cita
Vasari, che lo inserisce nella maniera ‘secca’ quattrocentesca, all’altezza del
medaglione biografico dedicato a Carpaccio e ad altri pittori veneziani e
lombardi. Ben difficile che l’abate volesse smentire l’aretino; se così fosse
stato, probabilmente si sarebbe dilungato a spiegarne i motivi. Non da ultimo,
bisogna tenere conto che, se dovessimo tener buona la correttezza del ‘decimo
quarto’, ci troveremmo di fronte a una storia che parla del Trecento e del
Cinquecento, ma non spende nemmeno una parola sul Quattrocento, circostanza che
mal si concilia con il «in tutti loro a un di presso appariva la maniera
istessa non ancora interamente spogliata del fare duro, e secco, che in tempi
barbari alla pittura già impresse il di lei ristoratore Cimabue» (p. 131),
affermazione che si attaglia perfettamente alla seconda età vasariana.
Paolo
Pastres segnala inoltre che, nella parte finale del Del vario stato
Altan cita l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, «definiti
sarcasticamente «dotti ed ingenui scrittori», (…) affermando con decisione e
orgoglio, la superiorità in campo artistico dell’Italia sulle altre nazioni.
[…] Nella fiera rivendicazione del primato italiano da parte del conte
Federico, possiamo anche ritrovare una eco – comunque flebilissima – della
contesa accesa dal marchese Boyer D’Argens, il quale nelle Réflexions
critiques sur les differents écoles de peinture del 1752, voleva dimostrare
la superiorità della pittura francese su quella italiana» (p. 41). I termini
della questione sono sufficientemente noti e comunque, per approfondimenti,
rimando alla recensione scritta riguardo al Saggio
sopra l’Accademia di Francia che è in Roma di
Francesco Algarotti (curato proprio da Pastres).
Proviamo
per un momento a leggere il testo originale (p. 139) dove, scrivendo appunto
della superiorità artistica italiana, l’abate afferma: «Né a lei (n.d.r.
all’Italia) contrastano tali insigni prerogative le colte nazioni oltramontane.
Per accertarsene basta osservare quanto scrissero su questo proposito i
chiarissimi autori del Dizionario Enciclopedico, i cui sentimenti io qui
ponendo termine al mio discorso riferirovvi con le istesse loro parole: “Nous
serions injustes (in tal guisa ragionano que’ dotti ed ingenui scrittori) si a
l’occasion du detail ou nous venons d’entrer , nous ne reconoissions point ce
que nous devons a l’Italie: c’est d’elle que nous avons reçu les sciences, qui
depuis ont fructisie si abbondemment dans toute l’Europe, c’est à elle sur
tout, que nous devons les beaux arts, le bon gout, dont elle nous a fourni un
grand nombre des Modeles inimitables» (p. 139). Ecco, io non sono del tutto
certo che quel «dotti e ingenui scrittori» abbia valenza sarcastica. Non credo
l’abbia perché Altan non si scaglia contro i due enciclopedisti; Diderot e
D’Alembert sono testimoni a favore dele tesi del friulano, non confutatori
delle medesime. Perché ridicolizzarli? Più logico mi sembra supporre che
‘ingenui’ abbia ancora valenza (storicamente testimoniata all’epoca) di
‘intelligenti’, un po’ come è rimasta nella lingua anglosassone. Altan, quindi,
starebbe tessendo l’elogio dei due autori francesi, forse in contrasto con lo
scritto di Boyer D’Argens.
Come si
vede, le mie remore sono, in realtà sciocchezze che certamente non inficiano la
bontà complessiva dell’operazione svolta dalla Deputazione di Storia Patria per
il Friuli, che ci ha consentito di tornare ad avere l’accesso a due testi
storicamente molto importanti.
NOTE
[1] L’originale del manoscritto è
andato smarrito. Il curatore avvisa che potrebbe essere stato manipolato, o
addirittura ‘inventato’ dallo stesso Altan (p. 28).
Nessun commento:
Posta un commento