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venerdì 29 settembre 2023

Federico Altan. Scritti sulla pittura friulana


Federico Altan
Scritti sulla pittura friulana
A cura di Paolo Pastres

Memorie intorno alla Vita ed all’Opere dell’insigne Pittore Pomponio Amalteo, 1753
Del vario stato della pittura in Friuli dalla caduta del Romano Impero fino a’ tempi nostri, 1772


Udine, Deputazione di Storia Patria per il Friuli, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro




La nascita della storiografia artistica in Friuli

Tradizionalmente, è con il conte e abate Federico Altan di Salvarolo (1714-1767), originario di San Vito al Tagliamento, che si individua la nascita di una storiografia artistica dedicata prettamente al Friuli. In particolare, gli scritti di Altan che segnano tale debutto sono due saggi brevi apparsi nel 1753 e nel 1772 rispettivamente sulla «Raccolta» e sulla «Nuova raccolta di opuscoli scientifici e filologici» promossa da Angelo Calogerà. Nel 2017 Paolo Pastres ha curato la presente edizione, che li offre per la prima volta al lettore in edizione moderna e sapientemente commentata.

Altan, ecclesiastico di natali aristocratici, fu il classico esponente di un’erudizione settecentesca che aveva fatto della ricerca storica uno degli strumenti più efficaci per affermare l’identità culturale della propria terra d’origine. Pastres fa notare, ad esempio, che il titolo del secondo saggio (scritto fra 1765 e 1767, anno della morte dell’abate e pubblicato postumo nel 1772) comincia con ‘Del vario stato’, espressione tipica della tradizione storiografica erudita italiana a partire da Muratori. Altan, insomma, fu più storico che storico dell’arte; più attento alle fonti letterarie e ai documenti d’archivio che all’ispezione oculare delle opere. C’è anzi, da ritenere, che in molti casi non abbia mai visto i dipinti che cita, appoggiandosi, appunto, sulla tradizione letteraria. Parlerò del ricorso frequente a trascrizioni di brani di autori (da Ridolfi a un manoscritto di fine Cinquecento da ascriversi a Girolamo Cesarino intitolato Sull’origine del castello di S. Vito [1]). Dalla parte dell’erudito sta comunque la consapevolezza che le ‘arti belle’ costituiscono un momento qualificante di un’identità culturale collettiva.

I due opuscoli scritti da Altan hanno un comune scopo, quello appunto di affermare l’esistenza di una scuola artistica friulana e di esaminarne le manifestazioni più importanti, ma lo perseguono percorrendo strade diverse: le Memorie su Amalteo, scritte in fittizia forma epistolare e dedicate all’amico romano Pompeo Frangipane, marchese di Nemi, hanno natura biografica; il De vario stato, probabilmente un discorso pronunciato in una qualche occasione accademica, ambisce a delineare per sommi capi una vera e propria storia della scuola di pittura friulana dai ‘secoli bui’ sino ‘ai nostri giorni’.

Quando Altan scrisse le Memorie di Amalteo il Patriarcato di Aquileia era stato soppresso da appena due anni (1751); nel caso del secondo opuscolo il lasso di tempo è maggiore (realisticamente una quindicina d’anni), ma non lascia dubbi sul fatto che, nella mente dell’abate – e dei suoi conterranei – una gloriosa stagione plurisecolare si era chiusa formalmente. In proposito Pastres cita una famosa frase di Édouard Pommier (p. 35): «La rilevazione della storia passa attraverso la presa di coscienza di un ritorno impossibile»; in sostanza, una storicizzazione è fattibile solo quando si abbia la piena consapevolezza che si è chiusa un’epoca e altro non resta da fare che nobilitarne l’eredità che ci lascia. Nel caso di Altan, il discorso mi sembra perfetto.

San Vito al Tagliamento, Interno della Chiesa di San Vito al Tagliamento con affreschi di Pomponio Amalteo
Fonte: Zairon tramite Wikimedia Commons


I caratteri della scuola pittorica friulana

Ma quali sono i caratteri che Altan riconosce alla scuola pittorica friulana? Innanzi tutto, occorre ragionare in termini geografici: per l’abate di San Vito fa parte della cultura friulana anche Tiziano (la circostanza è rivendicata in entrambi gli scritti). Il Cadore di fine XV secolo era infatti ‘inglobato’ nell’alto Friuli perché in parte sottoposto alla giurisdizione del luogotenente di Udine e già sottoposto al patriarcato di Aquileia (p. 18). Ho appena detto che il patriarcato era stato abolito nel 1751 e davvero la sua storia sembra parametro vitale per rintracciare un’identità geografica friulana. A dire il vero, Altan non spende molto tempo su Tiziano; probabilmente è vinto dal pudore e si rende conto di aver fatto un’affermazione molto impegnativa; si limita ad affermare (nelle Memorie di Amalteo) che Tiziano era stato uno dei primi quattro pittori d’Italia e a postulare (nel Del vario stato) l’esistenza di una ‘scuola’ di Tiziano, distinta da quelle di Pellegrino di San Daniele e del Pordenone, nel cui ambito riconduce Orazio e Marco Vecellio e Irene da Spilimbergo (riprendendo in questo caso la tradizione storiografica vasariana). Resta il fatto che le affermazioni di Altan ebbero un loro seguito e la presenza di Tiziano nella scuola pittorica friulana fu ripresa, ad esempio, da Girolamo de’ Rinaldis, autore, fra 1796 e 1798, di Della pittura friulana. Fu Fabio di Maniago, attorno al 1820, a negare la presunta appartenenza del Vecellio al mondo culturale del Friuli.

Più complesso parlare dei caratteri ‘stilistici’ della scuola artistica friulana. Più complesso perché Altan attribuisce allo stile poca attenzione e in molte occasioni, più che non saper vedere, non guarda proprio. Così, per quanto riguarda i primitivi (e qui sto facendo riferimento al Del vario stato) rivendica l’esistenza di opere ben precedenti a Cimabue e Giotto, ossia agli eroi vasariani della rinascita delle arti in Toscana; l’arte friulana, dunque, esisteva già prima del XIII secolo, ma «si dee confessare che allora [n.d.r a quell’epoca] vi mancava affatto l’arte del dipingere bene e con gusto». Manca, addirittura, la relatività del giudizio che pure Vasari aveva accordato, ad esempio, a Giotto: ottimo pittore, naturalmente tenendo conto dei tempi in cui visse.

Pellegrino da San Daniele, Annunciazione, Musei Civici di Udine
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Pellegrino-da-San-Daniele-LAnnunciazione.jpg


In realtà Altan mostra nelle sue pagine un gusto improntato alla tradizione classicista; così, parlando del Cinquecento, finisce per vergare alcune pagine dedicate alla perfezione raggiunta dall’arte in quel secolo più in termini generali che in Friuli: «Ma venne finalmente il secolo decimosesto, secolo per ogni bella arte sommamente felice, in cui si pose ogni studio per ricondurre anche la pittura alla sua vera bellezza. Non vi è cosa, che ad essa in qualche modo appartenga, che in quel tempo diligentemente non si coltivasse. Si diede opera a rappresentare con accortezza il vero, e ad imitar con ingegno la natura…» (p. 131). Con grande acume, Pastres segnala puntualmente come gran parte delle osservazioni contenute in questa sezione derivino (a volte anche letteralmente) dal Saggio sopra la Pittura di Francesco Algarotti, pubblicato nel 1763, ossia un paio d’anni prima circa che Altan scrivesse e pronunciasse (si presume) il suo discorso (pp. 37-41). Algarotti, sia detto per inciso, non viene mai citato, ma perché nel caso specifico non è fonte di dati oggettivi, quanto ‘ispirazione’ per un discorso di ordine teorico. L’assenza di una cultura visiva all’altezza è tale che, quando Altan prova a entrare più nello specifico, delineando i tratti della pittura friulana, finisce immancabilmente per rimanere nel generico: «Se talvolta si desidera in essa [n.d.r. nella scuola friulana] più corretto disegno e maggiore espressione di affetti, ciò per avventura addivenne, perché la medesima intenta principalmente ad imitare la natura, e ad esprimerla, non si prese molto pensiero di studiare quanto di più perfetto fu di essa natura imitato nelle greche statue, che sono per altro il vero fonte, onde derivano bel disegno e scelta espressione. […] Ma a questo qualunque siasi mancamento seppero ben supplire i nostri dipintori con la eccellenza, che dimostrarono nelle altre parti della pittura, e singolarmente nel comporre e maneggiare colori, sicchè giunsero eglino a conseguire felicemente i principali fini, che si propone quest’arte, vale a dire ad ingannare l’occhio, a muovere il cuore ed a rappresentare il vero». Giudizio che sancisce un’ ‘autonomia’ friulana sul fronte del colore, ma che contemporaneamente poteva essere (o essere stato) pronunciato con riferimento a quella veneta. Sicché nel momento di rivendicare una ‘specificità’ friulana, Altan finisce inconsapevolmente per appiattirsi su Venezia e i suoi artisti.

 

Giovanni Antonio de Sacchis detto il Pordenone, Noli me tangere, Cividale del Friuli, Museo del Duomo
Fonte: YukioSanjo tramite Wikimedia Commons


Le fonti di Altan

Se, quindi, da un punto di vista stilistico, l’abate di San Vito al Tagliamento non è in grado di essere avvincente, che giudizio dare dei suoi scritti? Secondo me Pastres ha perfettamente ragione: «rappresentano soprattutto un importante abrégé di quelle «poche e ancor qua e là sparse notizie» sui maestri friulani, che compaiono nelle principali fonti, alle quali il nostro ecclesiastico si limitò ad aggiungere brevi precisazioni di notevole interesse critico, ed alcune di carattere documentario» (p. 19). Non è comunque poco, se si tiene comunque conto che Altan fu un apripista e che tramite la sua rete di conoscenze, direttamente o indirettamente (è documentata ad esempio una lettera di Rinaldo de’ Rinaldis del 1764 che chiede informazioni sui pittori friulani a Gian Giuseppe Liruti a nome di Federico – cfr. p. 45), fu in grado di segnalare diverse opere mai indicate nella letteratura precedente. Quali furono le fonti letterarie di Altan? Naturalmente Vasari (nell’edizione giuntina curata dall’abate Bottari) e Ridolfi (1648). Poi, alcuni scritti di respiro erudito e locale, come il Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio in quanto unite contribuiscono alla felicità degli Stati (1764) dell’economista udinese Antonio Zanon, al cui interno erano comunque presentate alcune biografie di artisti friulani (p. 15), il testo di Girolamo Cesarino di cui ho già parlato e, probabilmente, un ulteriore manoscritto, stilato dal pordenonese Ernesto Mottense ed esteso nel 1763, oggi andato smarrito. Vi è poi una serie di scritti da inserire nell’ambito di un’influenza più lasca, ma comunque importante; si è detto di Algarotti; non mancano riferimenti alla Verona illustrata di Scipione Maffei, e, ancora, sono citati Malvasia e Baldinucci (della cui lettura diretta è comunque lecito dubitare). Una cosa è certa; finché può Altan cerca di appoggiarsi sulla testimonianza letteraria (anche se frutto di informazioni ricevute informalmente da altri eruditi). Pastres si domanda, ad esempio, come mai, parlando del Trecento, l’ecclesiastico segnali i cicli di affreschi di Vitale da Bologna nella cattedrale di Udine, all’epoca non visibili, tralasciandone altri, invece, facilmente osservabili: «nella prospettiva di ricerca del nostro abate, (…) decisivo deve essere stato il poterli ancorare a fonti letterarie e documentarie, permettendogli così di superare il prevedibile enpasse causato dalla difficoltà di occuparsi dei “primitivi”, se non per una mera registrazione (…) della loro esistenza» (p. 48).

 

Due ipotesi

L’ultima parte di questa recensione è dedicata all’esposizione di due ipotesi che mi sono venute in mente leggendo il libro. Vorrei chiarire immediatamente una cosa: non ho nessuna intenzione di dimostrare di ‘essere più bravo’ di Paolo Pastres. La ‘competizione’ – ammesso che provassi un minimo interesse per la cosa – non comincerebbe nemmeno, e non certo a mio vantaggio. Semplicemente, la lettura di un libro deve essere occasione di sollecitazione intellettuale, confronto e crescita personale; quindi espongo le mie perplessità, avanzo le mie ipotesi, avvertendo il lettore che come tali vanno prese, né più né meno.

Nell’ambito della sua storia della pittura friulana, Altan prende in considerazione, a un certo punto, Marco Basaiti e il Bellunello: «Fece la pittura in questa contrada ancora più bella mostra di sé nel secolo decimo quarto specialmente ne’ lavori di Marco Basaita [n.d.r. sic] e di Andrea Bellunello, che qui alzarono il grido di valenti dipintori…» (p. 131). Scrive in merito il curatore: «Sulla via della buona pittura, l’abate Federico passa a tratteggiare quelle che considera le più antiche personalità artistiche della regione: Marco Basaiti e Andrea Bellunello. Si tratta di due pittori del Quattrocento, che la critica settecentesca considerava ancora come pittori “primitivi” (…) ed appare perciò interessante notare lo spazio e l’attenzione riservata loro, pur nella quasi completa incertezza sulle biografie e cataloghi. […] Tuttavia, anche in questo caso, ci troviamo di fronte all’anticipazione cronologica di un secolo, dato che egli li riteneva appartenenti al XIV, anziché, come sarebbe corretto, al XV secolo; inoltre, va notato che entrambi non erano di nascita friulana» (p. 50).

Torniamo al testo originale di Altan: Quel «fece la pittura in questa contrada ancora più bella mostra di sé» presuppone, a mio avviso, un discorso comparativo rispetto a quanto avvenuto (e scritto) prima. E prima (a p. 129) Altan aveva scritto: «Quindi la pittura cominciò anche essa in Friuli a dirozzarsi. Prima ancora della metà del secolo decimo quarto avea ella qui fatto qualche progresso così nel disegno, e nel colorito, che nella espressione» proseguendo con la descrizione dei cicli di affreschi di Vitale (p. 129). Al termine, poi, della sezione dedicata a Basaiti e al Bellunello, il testo recita: «Ma venne finalmente anche il secolo decimosesto…» (p. 131). La mia ipotesi è che quel ‘decimo quarto’ che si legge in corrispondenza dei due artisti sia, banalmente, un refuso per ‘decimo quinto’. Del resto, parlando di Basaiti, Altan cita Vasari, che lo inserisce nella maniera ‘secca’ quattrocentesca, all’altezza del medaglione biografico dedicato a Carpaccio e ad altri pittori veneziani e lombardi. Ben difficile che l’abate volesse smentire l’aretino; se così fosse stato, probabilmente si sarebbe dilungato a spiegarne i motivi. Non da ultimo, bisogna tenere conto che, se dovessimo tener buona la correttezza del ‘decimo quarto’, ci troveremmo di fronte a una storia che parla del Trecento e del Cinquecento, ma non spende nemmeno una parola sul Quattrocento, circostanza che mal si concilia con il «in tutti loro a un di presso appariva la maniera istessa non ancora interamente spogliata del fare duro, e secco, che in tempi barbari alla pittura già impresse il di lei ristoratore Cimabue» (p. 131), affermazione che si attaglia perfettamente alla seconda età vasariana.

Paolo Pastres segnala inoltre che, nella parte finale del Del vario stato Altan cita l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, «definiti sarcasticamente «dotti ed ingenui scrittori», (…) affermando con decisione e orgoglio, la superiorità in campo artistico dell’Italia sulle altre nazioni. […] Nella fiera rivendicazione del primato italiano da parte del conte Federico, possiamo anche ritrovare una eco – comunque flebilissima – della contesa accesa dal marchese Boyer D’Argens, il quale nelle Réflexions critiques sur les differents écoles de peinture del 1752, voleva dimostrare la superiorità della pittura francese su quella italiana» (p. 41). I termini della questione sono sufficientemente noti e comunque, per approfondimenti, rimando alla recensione scritta riguardo al Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma di Francesco Algarotti (curato proprio da Pastres).

Proviamo per un momento a leggere il testo originale (p. 139) dove, scrivendo appunto della superiorità artistica italiana, l’abate afferma: «Né a lei (n.d.r. all’Italia) contrastano tali insigni prerogative le colte nazioni oltramontane. Per accertarsene basta osservare quanto scrissero su questo proposito i chiarissimi autori del Dizionario Enciclopedico, i cui sentimenti io qui ponendo termine al mio discorso riferirovvi con le istesse loro parole: “Nous serions injustes (in tal guisa ragionano que’ dotti ed ingenui scrittori) si a l’occasion du detail ou nous venons d’entrer , nous ne reconoissions point ce que nous devons a l’Italie: c’est d’elle que nous avons reçu les sciences, qui depuis ont fructisie si abbondemment dans toute l’Europe, c’est à elle sur tout, que nous devons les beaux arts, le bon gout, dont elle nous a fourni un grand nombre des Modeles inimitables» (p. 139). Ecco, io non sono del tutto certo che quel «dotti e ingenui scrittori» abbia valenza sarcastica. Non credo l’abbia perché Altan non si scaglia contro i due enciclopedisti; Diderot e D’Alembert sono testimoni a favore dele tesi del friulano, non confutatori delle medesime. Perché ridicolizzarli? Più logico mi sembra supporre che ‘ingenui’ abbia ancora valenza (storicamente testimoniata all’epoca) di ‘intelligenti’, un po’ come è rimasta nella lingua anglosassone. Altan, quindi, starebbe tessendo l’elogio dei due autori francesi, forse in contrasto con lo scritto di Boyer D’Argens.

Come si vede, le mie remore sono, in realtà sciocchezze che certamente non inficiano la bontà complessiva dell’operazione svolta dalla Deputazione di Storia Patria per il Friuli, che ci ha consentito di tornare ad avere l’accesso a due testi storicamente molto importanti.

  

NOTE

[1] L’originale del manoscritto è andato smarrito. Il curatore avvisa che potrebbe essere stato manipolato, o addirittura ‘inventato’ dallo stesso Altan (p. 28).



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