Roberto Sani
La Storia dell’Arte come disciplina scolastica
Dal primo Novecento al secondo dopoguerra
Macerata, Edizioni Università di Macerata, 2022
Susanne Adina Meyer
Cenerentola a scuola
Il dibattito sull’insegnamento della storia dell’arte nei licei (1900-1943)
L’Amica geniale
Se avete letto l’Amica geniale (o, meglio ancora, Storia del
nuovo cognome) avrete ben presente la vicenda di Elena (‘Lenù’) che, provenendo
da un rione periferico e degradato di Napoli, frequenta il liceo classico per merito
scolastico. Tralascio, naturalmente, tutta la storia. Una cosa, tuttavia,
merita di essere sottolineata. Più o meno rapidamente, Elena Ferrante (o chi
per lei/lui) parla delle materie con cui Lenù si confronta a scuola;
praticamente di tutte, dal latino al greco, dalla fisica alla matematica,
dall’italiano alla religione, tranne due
(sempre che ricordi bene): la ginnastica e la storia dell’arte. Naturalmente
siamo di fronte a una finzione letteraria, ma è curioso che anche qui l’assenza della
storia dell’arte la releghi – di fatto – a quel ruolo di ‘Cenerentola’ o di
parente povera rispetto alle altre materie curricolari che è ampiamente
trattato nei due volumi, uno a firma di Roberto Sani e l’altro di Susanne Adina
Meyer, oggetto di questa recensione.
Perché due libri in una volta sola? Perché sono usciti praticamente uno a
ruota dell’altro (prima Sani, poi Meyer), perché entrambi fanno seguito a una
giornata di studi tenutasi all’Università di Macerata su La storia dell’arte
tra i banchi di scuola. L’insegnamento storico-artistico nelle scuole
secondarie italiane tra Otto e Novecento e perché, soprattutto, indagano
volutamente lo stesso fenomeno con un approccio diverso: da un lato (è il caso
di Roberto Sani) con l’occhio dello storico dell’educazione (o ‘della scuola’,
se preferite), dall’altro con la prospettiva di una storica dell’arte (Susanne
Adina Meyer). Inevitabilmente i fatti raccontati sono più o meno gli stessi, e
tuttavia è fruttuosa questa complementarietà che si sostanzia probabilmente in
maniera più vistosa nelle appendici documentarie delle rispettive opere. Sani
presenta infatti una ricca raccolta normativa (che va dai regi decreti alle
circolari), mentre Meyer opta per una nutrita antologia di scritti di storici
dell’arte sull’argomento. In realtà entrambi gli autori non restano
chiusi nel loro orticello, ma attingono ampiamente a quanto, tecnicamente, di
competenza dell’altro e quindi propongono un approccio pluridisciplinare che,
in tutta onestà, piace, e non poco. Da un punto di vista sostanziale, semmai
bisognerà ricordare che mentre La Storia dell’Arte come disciplina
scolastica si estende sino al 1968, che segna una data simbolicamente
spartiacque, dopo la quale molti dei problemi e delle priorità
dell’insegnamento saranno ridefiniti in seguito alle proteste scolastiche di
quegli anni, Meyer, invece, si ferma prima, e giunge sino alla fine della
Seconda guerra mondiale.
Una storia fascista?
Si può dire, semplificando tantissimo, che quella dell’insegnamento della
storia dell’arte nelle scuole medie (come si chiamavano allora; negli istituti
superiori diremmo oggi) e soprattutto nei licei sia, per larga parte una storia
fascista? In termini cronologici, probabilmente sì: basti pensare che
l’introduzione della disciplina come obbligatoria nei licei classici (e nei
licei ‘femminili’, rapidamente scomparsi) risale alla riforma Gentile del 1923
e che ancora nel 1942 Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, progettava
una radicale riforma dell’insegnamento (che peraltro prevedeva l’accorpamento
della storia dell’arte con l’insegnamento della letteratura, in una sorta di
passo indietro che avrebbe avuto effetti esiziali). Non deve stupire, peraltro,
che molti dei protagonisti che incontriamo con ruoli tutt’altro che irrilevanti
nel dibattito siano storici dell’arte che poi, caduto il fascismo, operarono
scelte politiche ben diverse: basti pensare a Giulio Carlo Argan, successivamente
sindaco di Roma, eletto come indipendente in Parlamento nelle liste del Partito
comunista italiano. E senza dubbio impressiona questa realtà che (a me) pare
distopica, in cui ci si accalora su programmi, cattedre di ruolo o meno, e mi
si consenta, anche ‘quote’ lavorative riservate alle donne, mentre nel
frattempo le leggi razziali hanno portato all’espulsione dei docenti e degli
studenti di origine ebraica dalle scuole del Regno. E – mi si lasci ancora dire
– è bello incontrare Lionello Venturi prima del 1931 e poi soltanto nel
dopoguerra, come conseguenza delle sue scelte politiche, a memoria del fatto
che ci fu chi ebbe il coraggio di fare la cosa giusta, anche quando questo
comportava la fine di una carriera professionale e sarebbe stato senza dubbio
più facile adeguarsi alla massa.
Ciò detto, no, quella dell’insegnamento della storia dell’arte non è una
storia ‘esclusivamente’ fascista. Anzi, direi che, all’inizio è una vicenda
‘liberale’, o, se si preferisce, una disputa fra ‘modernisti’ e
‘antimodernisti’. Lo stesso Gentile, ad esempio, aveva preso decisamente
posizione a favore dell’introduzione dell’insegnamento della storia dell’arte nelle
scuole medie sin dal 1903. Nel settembre 1900 l’allora Sottosegretario di Stato
all’istruzione, Enrico Panzacchi, aveva diramato una circolare con cui si
consentiva la tenuta (a titolo sperimentale) di corsi facoltativi della
disciplina nei licei classici. «L’educazione dell’immagine, del sentimento,
del gusto – scriveva Panzacchi nella circolare – è parte importante
dell’educazione liberale». Pur titolare di una cattedra di estetica e
storia dell’arte moderna presso l’Università di Bologna, Panzacchi era per
formazione un letterato, e la circolare non lascia dubbi su quanto fosse lontano
dal considerare la disciplina come qualcosa di scientificamente indipendente
dalla letteratura: «La storia delle arti è così intimamente congiunta con la storia civile e
con la letteraria, che, non i pretesti, ma le ragioni e le occasioni di passare
da questa a quelle si offrono continuamente. Per citare solo qualche esempio, dalle
pagine dell’Iliade si leva maestosa l’immagine di Giove che ispirò Fidia; nel
verso del «Poeta sovrano» piange Niobe la strada dei figliuoli prima che piangesse visibilmente
nel marmo greco […] Si aggiunga che nella nostra storia letteraria molti
artisti figurano quali scrittori insigni: Leon Battista Alberti, Filippo di Ser
Brunellesco, Leonardo, Michelangiolo, Benvenuto Cellini, il Vasari, Salvator
Rosa; e la bella serie, continuando, viene a chiudersi al tempo nostro con
Massimo D’Azeglio e con Giovanni Dupré (Sani, p. 160). Ed è senza dubbio
richiamandosi a quest’ultimo aspetto che Panzacchi pubblicò, nel 1902, Il Libro degli Artisti. Antologia (probabilmente indirizzato ai suoi studenti universitari e,
genericamente, a un pubblico colto). Siamo bel lontani da quanto scriveva, nel
1899, l’altro titolare di una cattedra universitaria di storia dell’arte, ossia
Adolfo Venturi, il quale già rivendicava invece la natura indipendente del
linguaggio artistico: «L’arte è un linguaggio che l’Italia crede di
comprendere senza la conoscenza del suo dizionario, anzi del suo alfabeto» (Meyer, p. 24).
Prima della riforma Gentile
Nell’impossibilità di poter dar conto dei dibattiti che si succedettero intorno
al 1903, richiamerò alcuni aspetti fondamentali. Non bisogna certo pensare che
l’introduzione della storia dell’arte nei licei non andasse incontro a
resistenze: alcune appaiono di natura tecnica (come l’aggravio delle ore di
lezione per gli studenti e quello economico per lo Stato, senza considerare –
un tema assai dibattuto – la necessità di riuscire a capire quale insegnante
dovesse tenere le lezioni: quello di italiano, ad esempio, o una figura
specializzata). Ci sono rifiuti, tuttavia, che non ci aspetterebbe, come quello
di Igino Benvenuto Supino; ugualmente stupisce che uno dei centri in cui
l’opposizione era più forte fosse Firenze (e qui bisogna ricordare la figura di
Ermenegildo Pistelli). Si è già detto che, sin dal 1903, Giovanni Gentile si
schierò a favore dell’inserimento della materia, sostenendo (a proposito del
sovraccarico di ore per studenti e finanze statali) che «se il liceo ha da essere
scuola di cultura generale, e non può avere altro valore, può esser questione
di misura, non di numero di materie; le quali devon essere tante quante ne
occorrono alla cultura dello spirito, cioè quante sono le forme e le attività
dello spirito» (Sani p. 16, Meyer, p. 49). È fuori di dubbio che, non solo in questi
anni, ma anche successivamente, si stagli come grande difensore
dell’insegnamento di storia dell’arte la figura di Adolfo Venturi, titolare
della cattedra alla Sapienza, ma soprattutto della Scuola di perfezionamento in
storia dell’arte medievale e moderna, di durata triennale, successiva alla
laurea.
Venturi emerge non solo perché ha una visione chiarissima dei termini del
problema, che parte dalla rivendicazione della specificità della materia, che
ha come scopo insegnare a ‘leggere’ un’opera d’arte (nel frattempo Panzacchi parlava
di ‘ascoltare’ le opere, e non si tratta di semplice variante lessicale), ma
perché ha ben presente che l’insegnamento della disciplina è strettamente
collegato con quello universitario, che deve creare i nuovi professori
destinati a rivolgersi agli studenti insegnando una grammatica per immagini. Ma,
soprattutto, Venturi non mancherà mai, anche dopo l’entrata in vigore della
riforma, di sostenere i suoi allievi (e, in particolare, le sue allieve, una
fra tutte Mary Pittaluga) e di farsi portavoce, direttamente o indirettamente,
delle loro istanze maturate sul campo, insegnando nei licei.
Programmi
La storia dell’insegnamento della storia dell’arte, una volta entrata in
vigore la riforma Gentile, si sostanzia in una serie di problemi che spesso si
trascinano per decenni, a volte trovando soluzione soltanto nel secondo
dopoguerra. Si tratta di molteplici aspetti che richiamerò brevemente e che sia
Sani sia Meyer non mancano di affrontare nei rispettivi lavori.
Successivamente all’approvazione della riforma fu Ugo Ojetti a stilare i
primi programmi per l’insegnamento, che era inizialmente distribuito sulle
classi dalla seconda alla terza liceo per due ore settimanali; successive
modifiche portarono alla riduzione a un’ora di lezione in seconda e tre in
terza, per poi passare a un assetto con un’ora in prima e seconda e due in
terza. Già le variazioni occorse nelle tabelle orarie nel corso dei decenni
basterebbero per spiegare la continua difficoltà ad adattare i programmi.
Concretamente, quello dei programmi fu uno degli aspetti più dibattuti e più
soggetti ad aggiustamenti. È indicativo come, sin dall’inizio (a dire il
vero proprio nell’ultimo rigo del testo) comparisse l’indicazione che era
specifico compito del docente insegnare «come si guarda un’opera d’arte». Qui sta il vero
nocciolo della questione: le riserve sui programmi riguardarono quasi sempre la
loro estensione eccessiva e il ricorso a un nozionismo ‘appiccicaticcio’, che
impediva all’alunno la comprensione intrinseca dell’opera. Tutto quanto
storicamente successivo si può inquadrare in questo contesto, ossia nel
tentativo (evidentemente mai pienamente raggiunto) di sfoltire le indicazioni
ministeriali e di proporre allo studente le indicazioni fondamentali,
rifuggendo dall’ «imparaticcio a memoria». Da ricordare, peraltro, che, quando divenne
obbligatoria, la storia dell’arte copriva un arco temporale che andava
dall’arte paleocristiana in poi, con esclusione di egizi, arte greca, romana e
etruschi, che restavano di competenza del docente di letteratura. Solo negli
anni Trenta, quando il Ministero era già divenuto dell’Educazione nazionale,
anche l’arte antica fu riversata nella disciplina, senza peraltro adeguamento
di orari e con la necessità, quindi, di selezionare ancor più la massa delle
informazioni.
Ruolo dei docenti
Sembra banale a dirsi, ma per insegnare storia dell’arte ci volevano
professori adatti. La riforma Gentile rese sì obbligatorio l’insegnamento della
materia, ma non creò cattedre di ruolo ad hoc. Per non appesantire troppo le
casse dello Stato si scelse – come scrive Sani (p. 43) – che «l’insegnamento (…)
sarebbe stato «conferito per incarico» ogni anno «dal preside» dell’istituto e remunerato, al pari delle
supplenze, con una retribuzione di «Lire 350 annue» limitatamente ai «mesi di lezione e di
esami, e sempre per il servizio effettivamente prestato».» È appena evidente che tutto ciò voleva dire creare docenti di serie A
(quelli di ruolo, pagati meglio e che maturavano il diritto alla pensione) e di
serie B (pagati peggio e senza diritto alla pensione). Eppure, i criteri
forniti ai presidi per la scelta dei docenti a incarico si mostravano
lungimiranti, chiarendo che a essere cooptati dovevano essere preferenzialmente
coloro che avevano seguito la scuola di perfezionamento di Adolfo Venturi a
Roma, i dottori in lettere con tesi in storia dell’arte e massimo dei voti, i
dottori in lettere che vantavano pubblicazioni in materia, gli ispettori e i
direttori delle regie gallerie. Il trattamento economico, tuttavia, faceva sì
che a accettare l’incarico fossero solo coloro che vivevano l’insegnamento come
una missione (e fra le primissime si ricordano molte allieve del Venturi). Gli
altri miravano a impieghi nelle soprintendendenze e nei musei. Restarono,
quindi, problemi di reclutamento che portarono a incaricare figure
professionalmente non preparate. Raffaelle Gioli, allievo di Longhi, riassumeva
la questione con una massiccia (e normale per i tempi) dose di misoginia, come
da citazione operata da Meyer (p. 87): «La disciplina nuova deve entrare in
pieno nelle scuole: con insegnanti seri e competenti, non supplenti razzolati
disperatamente, ma insegnanti di carriera, non signorine sentimentali ma
storici di temperamento» (siamo nel 1926).
Le vicende
successive sono troppo lunghe per essere riassunte; basti pensare che a un
certo punto, per essere incaricati, bastò la laurea in lettere, anche se non
era ancora obbligatorio l’esame di storia dell’arte. Bisognò attendere il 1957
per vedere le prime cattedre di ruolo e, ciò nonostante, continuarono a esserci
ancora a lungo differenze di trattamento (ad esempio, il docente di storia
dell’arte non presenziava all’esame di maturità, come quello di educazione
fisica).
Dotazioni scolastiche
Quasi subito
fu chiaro che per insegnare storia dell’arte occorreva mostrare agli alunni le
opere e non solo parlarne loro. Da un lato furono i libri di testo, a volte
organizzati come atlanti, a fornire una prima rassegna iconografica; dall’altro
lo Stato intervenne gradualmente per consentire di creare negli istituti aule
dedicate alla storia dell’arte, con dotazione di una biblioteca dedicata, di
proiettori e diapositive (o cartoline). Come logico in queste situazioni, vi
furono forti disparità geografiche in merito, ma nel complesso si può dire che
quello della dotazione scolastica fu forse il tema che fu affrontato meglio. Da
ricordare, in proposito, che nel 1924 Mary Pittaluga pubblicò un’utilissima Guida
alla scelta del manuale illustrativo in cui l’autrice indicava una lunga
lista di novecento illustrazioni tratte dalle cinquemila del catalogo Alinari
che meritavano di far parte della dotazione del laboratorio di storia dell’arte.
Pittaluga, di fatto, determinò un canone, a cui ci si attenne per decenni (con
opportune modifiche). I primi due libri di testo sulla materia furono
pubblicati già nel 1924; si trattava de L’Arte italiana. Disegno storico
di Adolfo Venturi, per i tipi della bolognese Zanichelli e de L’Atlante di
storia dell’arte italiana di Ugo Ojetti e Luigi Dami, edito dalla milanese
Treves. Ciò detto l’insoddisfazione nei confronti del libro di testo,
considerato istintivamente la panacea di tutti i mali non è mai mancata, ed è doveroso,
in proposito, ricordare la durezza con cui il corpo insegnante stroncava la
loro qualità in un’inchiesta promossa nel 1959 da Sele Arte e Critica
d’arte, le due riviste all’epoca dirette da Carlo Ludovico Ragghianti. Lo
ricorda Roberto Sani a p. 129 del suo volume. Temo che analoga domanda, rivolta
oggi al corpo docente, otterrebbe analogo risultato (e non solo per qualità o difetti intrinseci ai testi)
Le donne
insegnanti
Un aspetto
particolarmente interessante è legato al ruolo delle donne nell’ambito
dell’insegnamento della materia. Secondo dati forniti da Meyer (p. 80),
nell’anno scolastico 1923-24, subito dopo la riforma Gentile, i professori
incaricati furono 134, di cui 31 donne (il 25% circa). Nei licei classici,
nello stesso anno, le donne rappresentavano il 14% dei docenti incaricati. Appare
quindi evidente la presenza di un consistente nucleo femminile all’interno del
corpo insegnante. Forse è anche per questo che – come abbiamo visto – Raffaele Gioli parlava dell’inadeguatezza
delle ‘signorine’ che salivano in cattedra; del tutto a sproposito, peraltro,
perché ben nove di quelle ‘signorine’ provenivano dal Corso di perfezionamento
di storia dell’arte diretto da Adolfo Venturi a Roma. Proprio Venturi ebbe a
difenderle a spada tratta, definendole (p. 91) «martiri dell’insegnamento della
disciplina», per aver accettato l’incarico a condizioni giuridiche ed
economiche così svantaggiose, per pura passione. La presenza femminile
nell’insegnamento della storia dell’arte si andò tuttavia a scontrare ben
presto con la tendenza del fascismo ad espellere gradualmente le donne dal
mondo del lavoro. Intendiamoci, nessuna ribellione. Ancora nel 1941,
commentando modifiche ai programmi intervenute nel 1936, Pittaluga scriveva
convintamente: «Di tutti i programmi per la storia dell’arte succedutisi dal
’23, questo – che tuttora vige – è certamente il migliore: vive in esso quel
concetto unitario della cultura, dell’educazione dello spirito, che, implicito
nella riforma Gentile, aveva trovato nel clima del Fascismo ampia possibilità
di sviluppo» (p. 130). Tuttavia, sin dal 1939 suggeriva l’insegnamento della
storia dell’arte anche negli istituti magistrali, da cui uscivano maestri e
maestre delle scuole elementari. In realtà, come risulta da lettera a Venturi
del 1938, la speranza era che le docenti, che si apprestavano a non essere
prese in considerazione come insegnanti di ruolo in una riforma che si
ventilava all’epoca e che poi non concretizzò, potessero ricollocarsi almeno
nell’ambito delle magistrali femminili (p. 138).
Ogni velleità
di riforma (in questo caso fortunatamente, posto che si ragionò a lungo di un
ritorno all’antico, con l’insegnamento della storia dell’arte accorpato in
un’unica cattedra di Lettere italiane, storia e storia dell’arte) fu abbandonato
con il procedere degli eventi bellici.
Il
dopoguerra
Come detto,
il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1968 è preso in
considerazione solo da Roberto Sani. Accanto all’urgenza della ricostruzione
delle scuole e alla ricostituzione dei fondi didattici, a cui furono dedicati –
come logico – i primi sforzi, si assiste al risorgere di un genuino spirito
riformatore, di ispirazione degasperiana, resa possibile anche dalla lunga durata
del dicastero di Guido Gonella al Ministero della Pubblica Istruzione. Alcuni
nodi vennero finalmente risolti, come l’istituzione di cattedre di ruolo per la
disciplina, stabilita nel 1948, ma tecnicamente partita solo nel 1957, e
limitatamente a sole 25 posizioni. Fu creata una commissione ministeriale che
promosse una vasta inchiesta sulla scuola italiana, tenutasi nell’autunno del
1948, con lo spirito di coinvolgere il maggior numero possibile di attori
potenzialmente interessati. Si segnalò che l’insegnamento riferito soltanto
all’arte italiana, senza alcun riferimento a artisti stranieri, era ormai
ampiamente superato dai tempi, si riscontrò l’insufficienza dei libri di testo
(o di molti di essi) dedicati alla disciplina. La storia dell’arte, nei progetti
iniziali, veniva inserita non solo nel classico, ma anche al liceo scientifico
(con la denominazione Disegno e storia dell’arte), alle magistrali
(stesso nome) e al Liceo artistico, in cui la materia era proposta in tutti e
cinque gli anni di corso (p. 109). La redazione dei programmi (in cui ebbe un
ruolo centrale Giulio Carlo Argan) tornò a ribadire l’importanza di fornire
agli alunni la capacità di leggere e interpretare opere esemplari, che doveva
prevalere sulla mera informazione nozionistica. In realtà, la fine della
stagione degasperiana e mutate condizioni politiche portarono al risultato che
l’iter parlamentare della riforma non fu nemmeno cominciato e tutto si concluse
con un nulla di fatto.
Non che,
successivamente, siano mancati altri tentativi, destinati comunque al
fallimento. Sani ha tuttavia ben chiaro che la fine di quell’esperienza aprì un
periodo in cui, politicamente, più che di riforme si parlò di corretta gestione
amministrativa della scuola, con l’assunzione di misure isolate ed episodiche
(a volte fra loro in contraddizione) e poca visione di lungo periodo. Sicché
l’aspetto forse più importante da ricordare, prima dello ‘scossone’ del 1968 è
la creazione di associazioni di docenti medi, aperte anche a esterni, che, in
sostanza, servirono all’autorappresentazione di una categoria, le cui istanze,
peraltro, rimasero poco ascoltate: è il caso dell’A.N.I.M.S.A (Associazione
Nazionale Insegnanti Medi di Storia dell’Arte), riferita in via prioritaria ai
docenti di storia dell’arte del liceo classico. È soprattutto in questo ambito
che ebbe modo di proseguire il dibattito interno non solo sul ruolo
dell’insegnante, ma anche sulla tipologia dell’insegnamento, in un lungo
processo che, qui, per brevità non ho modo di ricordare, ma che Sani riporta
nel dettaglio.
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