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sabato 2 settembre 2023

David García López. Arte y pensamiento en el barroco: Fray Juan Andrés Ricci de Guevara (1600-1681)



David García López
Arte y pensamiento en el barroco:
Fray Juan Andrés Ricci de Guevara (1600-1681)


Madrid, Fundación Universitaria Española, 2010

Recensione di Giovanni Mazzaferro


 


La sfortuna de La Pintura Sabia di Juan Andrés Ricci

Nel corso del Novecento sono state pubblicate due grandi antologie dedicate alla letteratura artistica spagnola. Entrambe sono state recensite in questo blog. Si tratta delle Fuentes literarias para la historia del arte español di Francisco Xavier Sánchez Canton (1923-1941) e la Teoría de la Pintura del Siglo de Oro di Francisco Calvo Serraller (1981). Si tratta di opere fra loro molto diverse. L’approccio di Sánchez Canton è più positivista: si va alla ricerca di notizie concrete sulle biografie e sulle opere degli artisti, e si tralascia la parte teorica, giudicata di scarsa originalità. Quello di Calvo Serraller è opposto: si contesta proprio l’idea di tale scarsa originalità e si mette in discussione l’idea che, essendo la stanca ripetizione di idee già esposte nella trattatistica italiana, gli scritti del Seicento (ossia del Secolo d’Oro della pittura spagnola) siano ben lontani dal reale modo di dipingere degli artisti iberici: bello ideale (teorico) contro realismo pittorico (effettivo). Una cosa, però, mi ha molto incuriosito. Per motivi fra loro differenti sia Sánchez Canton sia Calvo Serraller decisero di non prendere in alcuna considerazione, nelle rispettive antologie, La Pintura Sabia di Fray Juan Andrés Ricci de Guevara, probabilmente estesa fra il 1660 e il 1662 in quel di Madrid. Eppure, già cronologicamente, il manoscritto (rimasto inedito fino al 1930) rientrava perfettamente in quel Secolo d’Oro a cui ho appena accennato. Secondo Sánchez Canton (vol. II, p. x), La Pintura Sabia, «riccamente illustrata con disegni vigorosi e originali, non contiene la benché minima notizia storica concreta all’interno di un coacervo di citazioni e spiegazioni». Si tratterebbe, dunque, di un testo troppo teorico. L’autore non si ferma qui, e cita un altro manoscritto di Ricci, ossia l’Imagen o espejo de las obras de Dios, dove è possibile rintracciare «curiose credenze astrologiche assieme a idee interessanti; non mancano aneddoti e persino qualche referenza artistica, il tutto in un ammasso bizzarro e frastornante, che porta a rimpiangere il fatto che le sue opere siano più erudite che ricche di notizie». Nel caso di Calvo Serraller, invece, La Pintura Sabia è definita di carattere eccessivamente tecnico (p. 43) – e quindi pratico.

Di fronte a questa curiosa ambivalenza mi è parso il caso di leggere la ricchissima monografia che, nel 2010, David García López ha dedicato al pittore e monaco benedettino. Non si tratta, sia chiaro, di un’edizione critica del trattato; mi risulta che al momento non esista, anche se nel 2002 ne è uscita un’edizione anastatica con una serie di saggi a commento, edizione che in più punti García López non manca di criticare (ad esempio a p. 14 n. 43). Siamo di fronte, invece, a un’opera che mira a ricostruire la biografia di Ricci, la sua opera pittorica e a contestualizzare i suoi scritti. L’idea di fondo è che Ricci non viva in un mondo e in un tempo ‘altri’ rispetto a quelli in cui effettivamente operò: i suoi scritti, e La Pintura Sabia fra questi, sono squisitamente barocchi e meritano di trovar spazio nella cultura seicentesca spagnola ed europea dell’epoca.

Mi si consenta un’ultima osservazione preliminare: il senso dell’operazione di García López mi pare anche quello che l’indagine del passato non debba essere proiettata soltanto alla ricerca del ‘nuovo’. L’autore non manca di mettere in evidenza apporti personali (ad esempio nell’ambito della definizione del cosiddetto ‘ordine salomonico intero’), ma si concentra soprattutto sulle fonti di Rizzi: ciò che importa veramente è studiare i meccanismi di trasmissione e recepimento delle idee. Gli storici non cercano geni, ma uomini che, a partire da chi prima di loro è venuto, fanno proprie e rielaborano le idee. Su questo approccio io non posso che essere assolutamente d’accordo.

 

Dati biografici

Della vita di Rizzi (e delle sue opere) sappiamo estremamente poco. Juan Ricci (da un certo punto in poi Juan Andrés, ma non sono chiare le circostanze dell’aggiunta del secondo nome) nacque nel 1600. Era figlio d’arte. Il padre, Antonio Ricci, era di Ancona e aveva seguito Federico Zuccari in Spagna quando quest’ultimo era stato incaricato della decorazione dell’Escorial. Sappiamo che l’esperienza di Zuccari fu poco felice, tanto da indurlo a rientrare in Italia poco dopo. Non tutti coloro che lo avevano accompagnato, però, fecero a loro volta ritorno. È il caso di Bartolomeo Carducci, padre di quel Vicente Carducho a cui si deve la pubblicazione dei Diálogos de la Pintura (1633) e, appunto, Antonio Ricci che, pur non brillando particolarmente come artista, trovò una sua collocazione all’interno della corte spagnola, proponendosi soprattutto come ritrattista. Soprattutto al gruppo di artisti di estrazione manierista italiana si deve la rivendicazione della nobiltà della pittura, con tentativi di creazioni di Accademie, sicuramente sulla base degli esempi cinquecenteschi fiorentini e romani. Si tratta di un fenomeno che ben conosciamo e che in Spagna si sviluppò innanzi tutto con una serie di cause giudiziarie volte a reclamare l’esenzione dal pagamento delle tasse richieste a chi svolgeva attività artigianali, come Calvo Serraller ha ben messo in evidenza nei suoi scritti. Antonio Ricci risulta già far parte di una Accademia «del Señor San Lucas» nel 1603, sulla cui effettiva operatività esistono molti dubbi; nel 1622, invece, a esser membro di analoga associazione risulta essere anche Juan Andrés Rizi (ossia il nostro Ricci), prima notizia documentale sull’autore de La Pintura Sabia. Tutto induce a credere, nell’assoluta mancanza di notizie, che Juan abbia cominciato a studiare pittura sotto il padre, come del resto accadde a Francisco Rizzi, fratello minore nato nel 1608, e che sia stato fortemente influenzato dalla ‘lobby’ tardomanierista di provenienza italiana sia nel suo modo di dipingere sia da un punto di vista teorico. Nel 1627, la svolta: Juan prende i voti e diventa monaco benedettino; da quel momento la sua attività artistica sarà svolta quasi esclusivamente nell’ambito dell’ordine per vari monasteri benedettini spagnoli, o più raramente, per privati conosciuti comunque attraverso l’ordine. Si tratta di un’attività che copre più di trent’anni e di cui pochissime sono le testimonianze giunte sino a noi, contrariamente alla fama dell’artista, che fu semmai accusato di eccessiva prolificità e scarsa attenzione alla rifinitura dei dipinti. Il problema è che le vicende belliche negli anni napoleonici, le ripetute soppressioni ecclesiastiche (in un paese in cui il numero dei monasteri e delle chiese era straordinariamente alto), i saccheggi, ma anche le esportazioni clandestine, hanno sconvolto il patrimonio artistico dei conventi. Ci sono rimaste testimonianze che giungono fino a metà Ottocento, ma la verità è che quanto arrivato sino a noi appare ampiamente insufficiente per avere un’idea completa della produzione artistica di Rizzi.

Fray Juan Andrés Ricci, La cena di San Benedetto, Madrid, Museo del Prado
https://www.museodelprado.es/coleccion/obra-de-arte/la-cena-de-san-benito/3d0fa07f-c4a0-4387-abb6-d6fbc2517a6c


Il caso di Fray Juan non è certo l’unico, storicamente, di un religioso che è impegnato praticamente per tutta la vita nell’esecuzione di opere per il suo ordine. Uno dei casi più famosi è senza dubbio quello del Padre Andrea Pozzo, architetto e pittore gesuita;  caso analogo (ma meno noto) quello di Alfio Vinci, sempre gesuita. D’altra parte, con la Controriforma, viene auspicato sempre più frequentemente che il pittore si consulti con teologi e uomini di Chiesa in merito ai programmi iconografici da eseguire. Qui siamo di fronte a un caso limite. Nell’ambito della sua esperienza benedettina, infatti, Ricci seguì un percorso certo non comune rispetto ai suoi confratelli, riuscendo a entrare nel ristretto novero di coloro che ebbero accesso agli studi universitari di teologia (e molto altro) a Salamanca. L’autore scrive pagine molto informate e molto interessanti (pp. 103-118) sugli insegnamenti ricevuti presso la locale università, la più prestigiosa in Spagna in quel momento storico e segnala come essi finiscano per essere rispecchiati nei suoi dipinti e nei suoi manoscritti. Rizzi, rappresenta, insomma, un caso pressoché unico di pittore-teologo e non a caso, come vedremo, la sua idea di pittura è strettamente intrecciata con la teologia.

Gli anni della maturità trascorrono in un lungo peregrinare di monastero in monastero, dove Rizzi è evidentemente chiamato a dar saggio delle sue qualità artistiche (ma probabilmente anche delle sue conoscenze teologiche). Si distinguono due parentesi: una, nel 1641, a Madrid dove Rizzi potrebbe aver svolto brevemente (la circostanza non è certa) il ruolo di maestro di disegno di Baltasar Cárlos d’Asburgo (1629-1646), figlio di Filippo IV; la seconda, sempre a Madrid, fra 1659 e 1662. A questi anni risale, con ogni verosimiglianza, la redazione de La Pintura Sabia e la frequentazione di Donna Teresa Sarmiento de la Cerda, duchessa di Béjar (1631-post 1706). Appartenente per matrimonio a una delle famiglie più ricche e potenti di Spagna, la duchessa fu pittrice dilettante e, stando alle fonti, non dipinse solo a uso personale. Nulla sappiamo però delle sue opere. Ciò che è certo, invece, è che Rizzi le dedicò La Pintura Sabia, parlandone come di una sua alunna e probabilmente confidando nel suo aiuto diretto (o in quello della famiglia) per la pubblicazione dell’opera.

Se questi furono i suoi obiettivi, l’artista non ebbe successo. Forse ebbe un peso il fatto che Rizzi si trasferì a Roma, dove era certamente nel novembre del 1662, per perorare presso papa Alessandro VII una della cause che più gli erano a cuore, ossia l’istituzione del dogma dell’Immacolata Concezione. Quello che doveva essere solo un soggiorno temporaneo, non si rilevò tale. Rizzi non tornò più in Spagna, ma entrò nel convento di Montecassino nel 1666, dove dipinse numerose opere oggi andate tutte perdute. Tracce della produzione pittorica dell’artista, che morì a Montecassino nel 1681, sono oggi riscontrabili unicamente a Trevi nel Lazio.

 

La Pintura Sabia

Si è detto che García López non si occupa solo del manoscritto più noto di Fray Juan Andrés, ma anche di quelli più trascurati. Segnalo in particolare l’Imagen o espejo de las obras de Dios (precedente rispetto a La Pintura Sabia) e gli scritti conservati a Montecassino, in cui Rizzi si dedicò soprattutto a una sorta di esegesi visiva della Bibbia; tutte opere, con maggiore o minore grado di finitezza, che bene si integrano con il vissuto del benedettino. Per ovvi motivi di spazio non posso andare oltre, se non per ricordare un interessantissimo schizzo con un progetto di sistemazione urbanistica di Piazza del Pantheon (pp. 334-338). Il suo manoscritto su La Pintura Sabia, come detto inedito e – sia pur marginalmente – incompleto, era noto ad Antonio Palomino che nel suo Museo Pictórico ne parlò in termini più che lusinghieri (e gli elogi si estesero alle sue qualità artistiche). Quando Palomino ebbe modo di leggerlo, probabilmente apparteneva ancora agli eredi della duchessa di Béjar; poi, in sostanza, se ne perse traccia e fu riscoperto solo con l’edizione del 1930. Nel 1932 fu acquistato da José Lázaro Galdiano e si trova ancora oggi presso la Fondazione a lui dedicata (per i vari passaggi si vedano pp. 237-240). Ho detto di come, in sostanza, l’opera sia stata ‘scartata’, con motivazioni diverse, da Sánchez Canton e Calvo Serraller. Una delle interpretazioni più comuni che se ne è data è che si trattasse di una ‘cartilla de dibujo’ (di un album di disegni), per la presenza, nei suoi fogli, numerati da 1 a 108, di un numero molto consistente di illustrazioni. Questa preponderanza, unita al fatto che «fra Juan ridusse nella maggior parte delle situazioni il suo testo a brevi appunti, di aspetto disordinato e farraginoso, a cui era difficile far ricorso come nel caso di altri trattatisti, spiega il motivo per cui il suo testo non è stato solitamente incluso fra i trattati di pittura contemporanea» (p. 235). Mi pare un’osservazione importante: non un eccesso di ‘teoria’ o di ‘pratica’, invocati da una parte o dall’altra, ma la concreta difficoltà di estrapolare estratti coerenti e autoconsistenti in antologie come quelle di Sánchez Canton e Calvo Serraller che (non dimentichiamolo) erano sostanzialmente prive di apparato iconografico. La tesi di García López è, piuttosto, che in un mondo barocco in cui l’immagine ha un peso determinante in tutti i campi del sapere, La Pintura Sabia sia il trattato intimamente più legato allo ‘spirito del tempo’ in quanto opera sostanzialmente ‘visuale’ (per immagini). Essere ‘visuale’, avverte ancora l’autore, non vuol dire affatto essere un libro pratico: «sarebbe difficile inquadrare nell’ambito di un trattato semplicemente “pratico” la straordinaria complessità di molti dei disegni di Rizzi ne La Pintura Sabia, senza tener poi conto delle citazioni operate in diverse lingue antiche e moderne» (p. 234).

Fray Juan Andrés Ricci, Frontespizio de La Pintura Sabia, Madrid, Fundación Lázaro Galdiano
Fonte: http://www.flg.es/pintura-sabia


L’importanza dell’immagine nel trattato di Ricci risulta in maniera evidente sin dal suo frontespizio, che, di fatto, ha funzione di compendio programmatico dell’opera (pp. 263-273). Vi compare, centralmente, l’immagine della Pittura in veste di una fanciulla seduta e a seno scoperto, che indica con la mano sinistra un quadro raffigurante i volti di Cristo e della Madonna. Si tratta di «una esplicita rivendicazione della Pittura come veicolo privilegiato per accedere alle verità della Fede, una caratteristica sottolineata abitualmente dai trattatisti d’arte (…), che serviva, inoltre, per mettere in risalto la nobiltà della Pittura in virtù dell’importanza dell’obiettivo a cui era consacrata» (p. 268). La rivendicazione del partito tardomanierista italiano in Spagna (a cui apparteneva il padre di Juan Andrés) è quindi qui arricchita di una profonda connotazione teologica. Certo non casuale, a questo proposito, è il poter leggere sul dipinto raffigurante Cristo e la Madonna ‘Speculum sine macula’. Se la pittura è specchio senza macchia della creazione divina, Cristo e la Madonna sono, simbolicamente, assimilabili nell’ambito di tale realtà, essendo la Madonna stata concepita senza peccato originale (torna un tema a Rizzi molto chiaro). L’intepretazione allegorica è rafforzata dall’ ‘Imagen de Dios i de sus obras’ che si può leggere in alto, nel timpano dell’architettura in cui è ambientata la scena. Si tratta, in sostanza, di un’espressione che si colloca in perfetta continuità col titolo dell’Imagen o espejo de las obras de Dios, manoscritto precedente al presente. La pittura ‘sabia’, cioè ‘sapiente’ (o ‘saggia’) altro non è, insomma, che la rappresentazione del visibile (ossia del creato): «l’imitazione della natura che sta alla base del lavoro artistico si converte ora nella rappresentazione della grande opera divina della creazione universale» (p. 269).

Come può la pittura riuscire a divenire più che nobile, ossia addirittura ‘sapiente’? Tramite lo studio. Le scienze che la sostanziano sono rappresentate allegoricamente da angeli che si trovano ai due lati della scena principale: quelli a sinistra recano libri di teologia, filosofia e metafisica; quelli a destra la sfera che rappresenta le matematiche e il compasso, strumento di lavoro tipico dell’architetto.

Non si può comprendere a pieno lo svolgimento del trattato di Rizzi se non tenendo sempre a mente il frontespizio, la funzione divina attribuita alla pittura e l’inestricabile connubio fra teologia e scienze. Nel concreto, l’opera di Rizzi si snoda in tre sezioni (non mi stancherò mai di ricordare che sono tutte riccamente illustrate): la prima relativa alla geometria, la seconda alla prospettiva (nel cui ambito è inserita l’architettura), l’ultima all’anatomia. Si tratta, in sostanza degli strumenti indispensabili per il pittore al fine di rappresentare la realtà: in tutte e tre le sezioni l’interpretazione teologica è il comun denominatore che consente, in ultima analisi, di arrivare alla ‘sapienza’.

Se affrontassi nello specifico tutti i temi che, in questo contesto, l’autore porta, con grande chiarezza e completezza, alla nostra attenzione sarei eccessivamente lungo. Mi limiterò ad affrontarne tre che più mi hanno colpito.

 

Il nudo

La questione del nudo (soprattutto di quello femminile) in un regno profondamente cattolico come quello spagnolo era, evidentemente, particolarmente delicata [1]. Non si può sorvolare, in merito, sul fatto che nel trattato di un pittore-teologo come Rizzi il frontespizio contenga un’immagine allegorica di una donna a seno scoperto (la Pittura) e che le pagine dedicate all’anatomia contengano illustrazioni dedicate al corpo femminile nudo. La distinzione da operare, ovviamente, è fra immagini lascive o meno. Dubito, in sostanza, che Rizzi apprezzasse le Veneri tizianesche di proprietà reale. Nel caso della figura in frontespizio, invece, il nudo è sicuramente concepito come casto, anzi, per meglio dire, come ‘simbolico’: «secondo la tradizione simbolica, la nudità, per lo meno quella parziale, della figura della pittura era messa in relazione con la sua assimilazione a determinate virtù. In tal maniera, secondo Ripa, una giovane nuda o seminuda rappresentava la Verità, la Chiarezza, la Gloria e la Perfezione, attributi tradizionalmente molto accostati alla Pittura. E poteva rappresentare anche la Sapienza. […] E in merito ai vari tipi di Sapienza, l’emblemista italiano [n.d.r. ossia Cesare Ripa] segnalava espressamente «quella Sapienza che, rispondendo alla fede, consiste nella contemplazione del divino». Da segnalare che Ricci non fa ricorso solo ai principali trattati di iconologia del tempo, come appunto quello di Ripa, ma guarda direttamente alla tradizione della Grecia e della Roma antica. La sua passione per la mitologia classica è fortissima (tanto che in una possibile ‘querelle’ fra antichi e moderni Juan Andrés si schiera chiaramente a favore degli antichi); in altre pagine García López spiega come uno degli obiettivi principali dell’artista e trattatista spagnolo sia quello di estrapolare e rielaborare in chiave simbolica, alla luce della teologia cristiana, i modelli iconografici provenienti dall’antichità; è così, ad esempio, che Ricci identificava Minerva come dea della Sapienza e la presentava come una donna allo stato verginale.

La questione della nudità femminile nell’ambito degli studi di anatomia è leggermente diversa. Innanzi tutto non va dimenticato che, nelle proposte di istituzioni di accademie, mentre si parlava esplicitamente di studi dal vero per i nudi maschili, nel caso delle donne si preferiva parlare di imitazione dal vero per quanto riguardava teste e mani, ma di ricorso a stampe e sculture per tutto il resto. In un certo senso possiamo dire che l’inclusione della nudità femminile, nel caso specifico, può essere letta da una duplice visuale: da un lato può stare a significare che per l’artista la conoscenza della realtà viene prima di tutto, in quanto rappresentazione del creato; dall’altro non si può negare che, potenzialmente, Ricci fornisce al lettore proprio quei modelli a stampa a cui sarebbe meglio far riferimento, astenendosi dallo studio del vero, perché pericoloso e peccaminoso.

 

Le grottesche

Quello delle grottesche era un tema ampiamente dibattuto nel mondo artistico controriformato. In merito, Ricci si schiera ampiamente a favore della loro rappresentazione. Ancora una volta si tratta di un fatto non così scontato, tenuto conto, ad esempio, della condanna inequivoca espressa in proposito, ad esempio, dal cardinal Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane nel 1582. La questione era così delicata, del resto, che in molti casi i trattatisti italiani e spagnoli di fine Cinque e inizio Seicento preferirono non schierarsi. Per Ricci, invece, il ‘grottesco’ non è semplicemente decorazione, ma addirittura ‘ordine architettonico’ (sul tema tornerò più avanti); quello più vicino allo stato di natura, quando, appunto, l’umanità viveva nelle grotte. La motivazione addotta da Juan Andrés non è legata al gusto e nemmeno alla licenza che, tradizionalmente, viene rivendicata per il pittore, ma, ancora una volta, risponde a esigenze di natura teologica. Particolarmente attento a un’interpretazione visiva e simbolica del mondo, come abbiamo visto, Ricci vede nelle grottesche (purché mantengano un legame col disegno) la possibilità di esprimere l’invisibile e il trascendente. Il legame con gli Egizi e i geroglifici che, in forma di animali, esprimevano simbolicamente la divinità, è fortissimo. Da notare che, in sostanza, Ricci si schiera su posizioni molto simili a quelle che Pirro Ligorio espose proprio al cardinal Paleotti nelle lettere che gli inviò in difesa delle grottesche (diverso semmai, in quest’ultimo, è l’interesse antiquario per quelle antiche).

 

Gli ordini architettonici e l’ordine salomonico intero

Fra Juan inserisce lo studio degli ordini architettonici all’interno della seconda sezione del trattato, dedicata alla prospettiva. Il fatto che un trattato sulla pittura contenga anche nozioni sull’architettura non è certo una novità. Dopo tutto stiamo parlando di arti ‘gemelle’, tutte figlie del disegno. Nel caso spagnolo, poi, non possiamo dimenticare la grande tradizione dei ‘retablos’, autentiche ‘macchine’ di carpenteria in cui i dipinti erano inseriti in cornici architettoniche molto più elaborate rispetto alle pale rinascimentali italiane del Cinque e Seicento. Semmai è interessante lo spazio che viene dedicato all’architettura e la visione storica che viene proposta (che, in ultima analisi, risponde a un’esigenza di ‘cristianizzazione’ dello studio degli ordini architettonici).

Non vi è dubbio che qualsiasi trattato architettonico, a partire da Vitruvio, abbia fornito un inquadramento dello studio degli ordini all’interno di uno svolgimento storico, che vedeva l’architettura assolvere sin dai primordi alle esigenze abitative e di riparo degli esseri umani; dagli sviluppi di tali esigenze primordiali nascevano poi dorico, ionico e corinzio. Il meccanismo era sostanzialmente simile anche nei trattati rinascimentali, dove, al più, si potevano aggiungere altri ‘ordini’. Ricci si inserisce in questa tradizione e presenta gli ordini ‘grottesco’ e ‘toscano’ o ‘rustico’ prima del dorico e il ‘composito’ e il ‘salomonico intero’ dopo il corinzio. In realtà, più che a fissare delle ‘regole’, almeno nei primi due casi, il benedettino intende far riferimento a uno stato in cui l’uomo viveva più vicino alla natura (nelle grotte, appunto) e elaborò elementi ornamentali (fra cui, ovviamente, le grottesche di cui si è detto) che si rivelano particolarmente utili per il progettista perché forme inventive relativamente immuni dalle regole e dalle misure degli ordini classici: «parlando di grottesco e di rustico, Ricci non era interessato a determinare le proporzioni delle loro parti. Di fatto, pur chiamati ordini, entrambi erano utilizzati come elementi ornamentali dell’architettura, venendo usati come tali sia negli edifici sia nella tradizione teorica» (p. 290).

Agli esatti antipodi degli ordini grottesco e rustico si pone il ‘salomonico intero’, che Ricci costruisce a partire dalla colonna dalla caratteristica forma tortile. È ben nota la fortuna del dibattito iberico sul tempio di Salomone (e sull’ordine con cui era stato edificato). Basti ricordare in proposito gli scritti di Juan Bautista de Villalpando (a cavallo fra Cinque e Seicento) con le ricostruzioni ideali del tempio di Salomone e, ottant’anni dopo, l’Arquitectura civil recta y obliqua, edita da Juan Caramuel y Lobkowitz a Vigevano nel 1678. Nel fornire indicazioni sul salomonico intero, Rizzi rinsalda le basi teoriche di un elemento architettonico di larghissimo successo nella pratica spagnola come la colonna salomonica e, contemporaneamente, sostiene di aver recuperato la forma primigenia dell’architettura divina che aveva la sua massima espressione appunto nel tempio di Salomone. Non a caso, ancora una volta, il benedettino ricorre all’immagine proponendo quella di un arco trionfale in stile salomonico intero: «l’arco, dedicato a Cristo, si basa su un tutto unitario fra architettura, figure e testo, di chiara ispirazione allegorica. Il Cristo resuscitato occupa il centro dell’arco, mentre ai lati si trovano San Pietro e San Paolo, come principali divulgatori della sua dottrina. Però la cosa più importante consiste nello sviluppo formale dell’ordine salomonico intero che Fra Juan aveva teorizzato nei fogli precedenti. Nella sua spiegazione [n.d.r. Rizzi] chiarisce l’identificazione di Cristo con Salomone, rendendo esplicita la relazione simbolica con l’ordine architettonico.

Anche l’architettura, insomma, risponde a istanze di natura teologica. Davvero siamo di fronte non alla confusa esposizione di materiale raffazzonato o ad album di disegni a uso e consumo degli studenti, ma all’enunciazione sistematica del pensiero teorico di un uomo che è contemporaneamente pittore e teologo, e che vive saldamente ancorato a principi propri dell’età barocca.  

 

NOTE

[1] Si veda in proposito Enrique Cordero de Ciria, «Con la ocasión de ponerlos desnudos, y castos». Lascivia y castidad en la pintura del Siglo de Oro in José Riello (a cura di), La teoría de la pintura en el Siglo de Oro (1560-1724), Madrid, Museo Nacional del Prado, 2012, pp. 105-133.

 

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