David García López
Arte y pensamiento en el barroco:
Fray Juan Andrés Ricci de Guevara (1600-1681)
Madrid, Fundación Universitaria Española, 2010
La sfortuna de La Pintura Sabia di Juan Andrés
Ricci
Nel corso del Novecento sono state pubblicate due grandi
antologie dedicate alla letteratura artistica spagnola. Entrambe sono state
recensite in questo blog. Si tratta delle Fuentes
literarias para la historia del arte español di Francisco Xavier
Sánchez
Canton (1923-1941) e la Teoría
de la Pintura del Siglo de Oro di Francisco Calvo Serraller (1981). Si
tratta di opere fra loro molto diverse. L’approccio di Sánchez Canton è più
positivista: si va alla ricerca di notizie concrete sulle biografie e sulle
opere degli artisti, e si tralascia la parte teorica, giudicata di scarsa
originalità. Quello di Calvo Serraller è opposto: si contesta proprio l’idea di
tale scarsa originalità e si mette in discussione l’idea che, essendo la stanca
ripetizione di idee già esposte nella trattatistica italiana, gli scritti del
Seicento (ossia del Secolo d’Oro della pittura spagnola) siano ben lontani dal
reale modo di dipingere degli artisti iberici: bello ideale (teorico) contro realismo
pittorico (effettivo). Una cosa, però, mi ha molto incuriosito. Per motivi fra
loro differenti sia Sánchez Canton sia Calvo Serraller decisero di non prendere
in alcuna considerazione, nelle rispettive antologie, La Pintura Sabia
di Fray Juan Andrés Ricci de Guevara, probabilmente estesa fra il 1660 e il 1662 in quel di
Madrid. Eppure, già cronologicamente, il manoscritto (rimasto inedito fino al
1930) rientrava perfettamente in quel Secolo d’Oro a cui ho appena accennato. Secondo
Sánchez
Canton (vol. II, p. x), La Pintura Sabia, «riccamente illustrata con disegni
vigorosi e originali, non contiene la benché minima notizia storica concreta
all’interno di un coacervo di citazioni e spiegazioni». Si tratterebbe, dunque,
di un testo troppo teorico. L’autore non si ferma qui, e cita un altro
manoscritto di Ricci, ossia l’Imagen o espejo de las obras de Dios, dove
è possibile rintracciare «curiose credenze astrologiche assieme a idee
interessanti; non mancano aneddoti e persino qualche referenza artistica, il
tutto in un ammasso bizzarro e frastornante, che porta a rimpiangere il fatto che
le sue opere siano più erudite che ricche di notizie». Nel caso di Calvo
Serraller, invece, La Pintura Sabia è definita di carattere
eccessivamente tecnico (p. 43) – e quindi pratico.
Di fronte a questa curiosa ambivalenza mi è parso il caso di
leggere la ricchissima monografia che, nel 2010, David García López ha dedicato
al pittore e monaco benedettino. Non si tratta, sia chiaro, di un’edizione
critica del trattato; mi risulta che al momento non esista, anche se nel 2002
ne è uscita un’edizione anastatica con una serie di saggi a commento, edizione
che in più punti García López non manca di criticare (ad esempio a p. 14 n.
43). Siamo di fronte, invece, a un’opera che mira a ricostruire la biografia di
Ricci, la sua opera pittorica e a contestualizzare i suoi scritti. L’idea di
fondo è che Ricci non viva in un mondo e in un tempo ‘altri’ rispetto a quelli
in cui effettivamente operò: i suoi scritti, e La Pintura Sabia fra
questi, sono squisitamente barocchi e meritano di trovar spazio nella cultura
seicentesca spagnola ed europea dell’epoca.
Mi si consenta un’ultima osservazione preliminare: il senso
dell’operazione di García López mi pare anche quello che l’indagine del passato
non debba essere proiettata soltanto alla ricerca del ‘nuovo’. L’autore non
manca di mettere in evidenza apporti personali (ad esempio nell’ambito della
definizione del cosiddetto ‘ordine salomonico intero’), ma si concentra
soprattutto sulle fonti di Rizzi: ciò che importa veramente è studiare i
meccanismi di trasmissione e recepimento delle idee. Gli storici non cercano
geni, ma uomini che, a partire da chi prima di loro è venuto, fanno proprie e
rielaborano le idee. Su questo approccio io non posso che essere assolutamente
d’accordo.
Dati biografici
Della vita di Rizzi (e delle sue opere) sappiamo estremamente
poco. Juan Ricci (da un certo punto in poi Juan Andrés, ma non sono chiare le
circostanze dell’aggiunta del secondo nome) nacque nel 1600. Era figlio d’arte.
Il padre, Antonio Ricci, era di Ancona e aveva seguito Federico Zuccari in
Spagna quando quest’ultimo era stato incaricato della decorazione dell’Escorial.
Sappiamo che l’esperienza di Zuccari fu poco felice, tanto da indurlo a
rientrare in Italia poco dopo. Non tutti coloro che lo avevano accompagnato,
però, fecero a loro volta ritorno. È il caso di Bartolomeo Carducci, padre di
quel Vicente Carducho a cui si deve la pubblicazione dei Diálogos
de la Pintura (1633) e, appunto, Antonio Ricci che, pur non
brillando particolarmente come artista, trovò una sua collocazione all’interno
della corte spagnola, proponendosi soprattutto come ritrattista. Soprattutto al
gruppo di artisti di estrazione manierista italiana si deve la rivendicazione
della nobiltà della pittura, con tentativi di creazioni di Accademie,
sicuramente sulla base degli esempi cinquecenteschi fiorentini e romani. Si
tratta di un fenomeno che ben conosciamo e che in Spagna si sviluppò innanzi
tutto con una serie di cause giudiziarie volte a reclamare l’esenzione dal
pagamento delle tasse richieste a chi svolgeva attività artigianali, come Calvo
Serraller ha ben messo in evidenza nei suoi scritti. Antonio
Ricci risulta già far parte di una Accademia «del Señor San Lucas» nel 1603,
sulla cui effettiva operatività esistono molti dubbi; nel 1622, invece, a esser membro di analoga associazione risulta essere anche Juan Andrés Rizi (ossia il
nostro Ricci), prima notizia documentale sull’autore de La Pintura Sabia.
Tutto induce a credere, nell’assoluta mancanza di notizie, che Juan abbia
cominciato a studiare pittura sotto il padre, come del resto accadde a
Francisco Rizzi, fratello minore nato nel 1608, e che sia stato fortemente
influenzato dalla ‘lobby’ tardomanierista di provenienza italiana sia nel suo
modo di dipingere sia da un punto di vista teorico. Nel 1627, la svolta: Juan
prende i voti e diventa monaco benedettino; da quel momento la sua attività
artistica sarà svolta quasi esclusivamente nell’ambito dell’ordine per vari
monasteri benedettini spagnoli, o più raramente, per privati conosciuti
comunque attraverso l’ordine. Si tratta di un’attività che copre più di
trent’anni e di cui pochissime sono le testimonianze giunte sino a noi,
contrariamente alla fama dell’artista, che fu semmai accusato di eccessiva
prolificità e scarsa attenzione alla rifinitura dei dipinti. Il problema è che
le vicende belliche negli anni napoleonici, le ripetute soppressioni
ecclesiastiche (in un paese in cui il numero dei monasteri e delle chiese era
straordinariamente alto), i saccheggi, ma anche le esportazioni clandestine,
hanno sconvolto il patrimonio artistico dei conventi. Ci sono rimaste
testimonianze che giungono fino a metà Ottocento, ma la verità è che quanto
arrivato sino a noi appare ampiamente insufficiente per avere un’idea completa
della produzione artistica di Rizzi.
Fray Juan Andrés Ricci, La cena di San Benedetto, Madrid, Museo del Prado https://www.museodelprado.es/coleccion/obra-de-arte/la-cena-de-san-benito/3d0fa07f-c4a0-4387-abb6-d6fbc2517a6c |
Il caso di Fray Juan non è certo l’unico, storicamente, di un religioso
che è impegnato praticamente per tutta la vita nell’esecuzione di opere per il
suo ordine. Uno dei casi più famosi è senza dubbio quello del Padre
Andrea Pozzo, architetto e pittore gesuita; caso analogo (ma meno noto) quello di
Alfio Vinci, sempre gesuita. D’altra parte, con la Controriforma, viene
auspicato sempre più frequentemente che il pittore si consulti con teologi e
uomini di Chiesa in merito ai programmi iconografici da eseguire. Qui siamo di
fronte a un caso limite. Nell’ambito della sua esperienza benedettina, infatti,
Ricci seguì un percorso certo non comune rispetto ai suoi confratelli,
riuscendo a entrare nel ristretto novero di coloro che ebbero accesso agli
studi universitari di teologia (e molto altro) a Salamanca. L’autore scrive
pagine molto informate e molto interessanti (pp. 103-118) sugli insegnamenti ricevuti
presso la locale università, la più prestigiosa in Spagna in quel momento
storico e segnala come essi finiscano per essere rispecchiati nei suoi dipinti
e nei suoi manoscritti. Rizzi, rappresenta, insomma, un caso pressoché unico di
pittore-teologo e non a caso, come vedremo, la sua idea di pittura è
strettamente intrecciata con la teologia.
Gli anni della maturità trascorrono in un lungo peregrinare di
monastero in monastero, dove Rizzi è evidentemente chiamato a dar saggio delle
sue qualità artistiche (ma probabilmente anche delle sue conoscenze
teologiche). Si distinguono due parentesi: una, nel 1641, a Madrid dove Rizzi
potrebbe aver svolto brevemente (la circostanza non è certa) il ruolo di
maestro di disegno di Baltasar Cárlos d’Asburgo (1629-1646), figlio di Filippo
IV; la seconda, sempre a Madrid, fra 1659 e 1662. A questi anni risale, con
ogni verosimiglianza, la redazione de La Pintura Sabia e la
frequentazione di Donna Teresa Sarmiento de la Cerda, duchessa di Béjar (1631-post
1706). Appartenente per matrimonio a una delle famiglie più ricche e potenti di
Spagna, la duchessa fu pittrice dilettante e, stando alle fonti, non dipinse
solo a uso personale. Nulla sappiamo però delle sue opere. Ciò che è certo,
invece, è che Rizzi le dedicò La Pintura Sabia, parlandone come di una
sua alunna e probabilmente confidando nel suo aiuto diretto (o in quello della
famiglia) per la pubblicazione dell’opera.
Se questi furono i suoi obiettivi, l’artista non ebbe successo.
Forse ebbe un peso il fatto che Rizzi si trasferì a Roma, dove era certamente
nel novembre del 1662, per perorare presso papa Alessandro VII una della cause
che più gli erano a cuore, ossia l’istituzione del dogma dell’Immacolata
Concezione. Quello che doveva essere solo un soggiorno temporaneo, non si
rilevò tale. Rizzi non tornò più in Spagna, ma entrò nel convento di
Montecassino nel 1666, dove dipinse numerose opere oggi andate tutte perdute.
Tracce della produzione pittorica dell’artista, che morì a Montecassino nel
1681, sono oggi riscontrabili unicamente a Trevi nel Lazio.
La Pintura Sabia
Si è detto che García López non si occupa solo del manoscritto più
noto di Fray Juan Andrés, ma anche di quelli più trascurati. Segnalo in
particolare l’Imagen o espejo de las obras de Dios (precedente rispetto
a La Pintura Sabia) e gli scritti conservati a Montecassino, in cui
Rizzi si dedicò soprattutto a una sorta di esegesi visiva della Bibbia; tutte
opere, con maggiore o minore grado di finitezza, che bene si integrano con il
vissuto del benedettino. Per ovvi motivi di spazio non posso andare oltre, se
non per ricordare un interessantissimo schizzo con un progetto di sistemazione
urbanistica di Piazza del Pantheon (pp. 334-338). Il suo manoscritto su La
Pintura Sabia, come detto inedito e – sia pur marginalmente – incompleto, era
noto ad Antonio Palomino che nel suo Museo Pictórico ne parlò in termini
più che lusinghieri (e gli elogi si estesero alle sue qualità artistiche). Quando
Palomino ebbe modo di leggerlo, probabilmente apparteneva ancora agli eredi
della duchessa di Béjar; poi, in sostanza, se ne perse traccia e fu riscoperto
solo con l’edizione del 1930. Nel 1932 fu acquistato da José Lázaro Galdiano e
si trova ancora oggi presso la Fondazione a lui dedicata (per i vari passaggi
si vedano pp. 237-240). Ho detto di come, in sostanza, l’opera sia stata
‘scartata’, con motivazioni diverse, da Sánchez Canton e Calvo
Serraller. Una delle interpretazioni più comuni che se ne è data è che si
trattasse di una ‘cartilla de dibujo’ (di un album di disegni), per la
presenza, nei suoi fogli, numerati da 1 a 108, di un numero molto consistente
di illustrazioni. Questa preponderanza, unita al fatto che «fra Juan
ridusse nella maggior parte delle situazioni il suo testo a brevi appunti, di aspetto
disordinato e farraginoso, a cui era difficile far ricorso come nel caso di altri
trattatisti, spiega il motivo per cui il suo testo non è stato solitamente
incluso fra i trattati di pittura contemporanea» (p. 235). Mi pare
un’osservazione importante: non un eccesso di ‘teoria’ o di ‘pratica’, invocati
da una parte o dall’altra, ma la concreta difficoltà di estrapolare estratti
coerenti e autoconsistenti in antologie come quelle di Sánchez
Canton e Calvo Serraller che (non dimentichiamolo) erano sostanzialmente prive
di apparato iconografico. La tesi di García López è, piuttosto, che in un mondo
barocco in cui l’immagine ha un peso determinante in tutti i campi del sapere, La
Pintura Sabia sia il trattato intimamente più legato allo ‘spirito del
tempo’ in quanto opera sostanzialmente ‘visuale’ (per immagini). Essere ‘visuale’,
avverte ancora l’autore, non vuol dire affatto essere un libro pratico:
«sarebbe difficile inquadrare nell’ambito di un trattato semplicemente
“pratico” la straordinaria complessità di molti dei disegni di Rizzi ne La
Pintura Sabia, senza tener poi conto delle citazioni operate in diverse
lingue antiche e moderne» (p. 234).
Fray Juan Andrés Ricci, Frontespizio de La Pintura Sabia, Madrid, Fundación Lázaro Galdiano Fonte: http://www.flg.es/pintura-sabia |
L’importanza dell’immagine nel trattato di Ricci risulta in
maniera evidente sin dal suo frontespizio, che, di fatto, ha funzione di
compendio programmatico dell’opera (pp. 263-273). Vi compare, centralmente,
l’immagine della Pittura in veste di una fanciulla seduta e a seno scoperto,
che indica con la mano sinistra un quadro raffigurante i volti di Cristo e
della Madonna. Si tratta di «una esplicita rivendicazione della Pittura come
veicolo privilegiato per accedere alle verità della Fede, una caratteristica
sottolineata abitualmente dai trattatisti d’arte (…), che serviva, inoltre, per
mettere in risalto la nobiltà della Pittura in virtù dell’importanza
dell’obiettivo a cui era consacrata» (p. 268). La rivendicazione del partito
tardomanierista italiano in Spagna (a cui apparteneva il padre di Juan Andrés) è
quindi qui arricchita di una profonda connotazione teologica. Certo non
casuale, a questo proposito, è il poter leggere sul dipinto raffigurante Cristo
e la Madonna ‘Speculum sine macula’. Se la pittura è specchio senza macchia
della creazione divina, Cristo e la Madonna sono, simbolicamente, assimilabili
nell’ambito di tale realtà, essendo la Madonna stata concepita senza peccato
originale (torna un tema a Rizzi molto chiaro). L’intepretazione allegorica è
rafforzata dall’ ‘Imagen de Dios i de sus obras’ che si può leggere in alto,
nel timpano dell’architettura in cui è ambientata la scena. Si tratta, in
sostanza, di un’espressione che si colloca in perfetta continuità col titolo
dell’Imagen o espejo de las obras de Dios, manoscritto precedente al
presente. La pittura ‘sabia’, cioè ‘sapiente’ (o ‘saggia’) altro non è, insomma,
che la rappresentazione del visibile (ossia del creato): «l’imitazione della
natura che sta alla base del lavoro artistico si converte ora nella
rappresentazione della grande opera divina della creazione universale» (p.
269).
Come può la pittura riuscire a divenire più che nobile, ossia
addirittura ‘sapiente’? Tramite lo studio. Le scienze che la sostanziano sono
rappresentate allegoricamente da angeli che si trovano ai due lati della scena
principale: quelli a sinistra recano libri di teologia, filosofia e metafisica;
quelli a destra la sfera che rappresenta le matematiche e il compasso,
strumento di lavoro tipico dell’architetto.
Non si può comprendere a pieno lo svolgimento del trattato di
Rizzi se non tenendo sempre a mente il frontespizio, la funzione divina
attribuita alla pittura e l’inestricabile connubio fra teologia e scienze. Nel
concreto, l’opera di Rizzi si snoda in tre sezioni (non mi stancherò mai di
ricordare che sono tutte riccamente illustrate): la prima relativa alla
geometria, la seconda alla prospettiva (nel cui ambito è inserita
l’architettura), l’ultima all’anatomia. Si tratta, in sostanza degli strumenti
indispensabili per il pittore al fine di rappresentare la realtà: in tutte e
tre le sezioni l’interpretazione teologica è il comun denominatore che
consente, in ultima analisi, di arrivare alla ‘sapienza’.
Se affrontassi nello specifico tutti i temi che, in questo
contesto, l’autore porta, con grande chiarezza e completezza, alla nostra
attenzione sarei eccessivamente lungo. Mi limiterò ad affrontarne tre che più
mi hanno colpito.
Il nudo
La questione del nudo (soprattutto di quello femminile) in un
regno profondamente cattolico come quello spagnolo era, evidentemente,
particolarmente delicata [1]. Non si può sorvolare, in merito, sul fatto che
nel trattato di un pittore-teologo come Rizzi il frontespizio contenga
un’immagine allegorica di una donna a seno scoperto (la Pittura) e che le
pagine dedicate all’anatomia contengano illustrazioni dedicate al corpo
femminile nudo. La distinzione da operare, ovviamente, è fra immagini lascive o
meno. Dubito, in sostanza, che Rizzi apprezzasse le Veneri tizianesche di
proprietà reale. Nel caso della figura in frontespizio, invece, il nudo è
sicuramente concepito come casto, anzi, per meglio dire, come ‘simbolico’: «secondo
la tradizione simbolica, la nudità, per lo meno quella parziale, della figura
della pittura era messa in relazione con la sua assimilazione a determinate
virtù. In tal maniera, secondo Ripa, una giovane nuda o seminuda rappresentava
la Verità, la Chiarezza, la Gloria e la Perfezione, attributi tradizionalmente
molto accostati alla Pittura. E poteva rappresentare anche la Sapienza. […] E
in merito ai vari tipi di Sapienza, l’emblemista italiano [n.d.r. ossia Cesare
Ripa] segnalava espressamente «quella Sapienza che, rispondendo alla fede,
consiste nella contemplazione del divino». Da segnalare che Ricci non fa
ricorso solo ai principali trattati di iconologia del tempo, come appunto
quello di Ripa, ma guarda direttamente alla tradizione della Grecia e della
Roma antica. La sua passione per la mitologia classica è fortissima (tanto che
in una possibile ‘querelle’ fra antichi e moderni Juan Andrés si schiera
chiaramente a favore degli antichi); in altre pagine García López spiega come
uno degli obiettivi principali dell’artista e trattatista spagnolo sia quello
di estrapolare e rielaborare in chiave simbolica, alla luce della teologia
cristiana, i modelli iconografici provenienti dall’antichità; è così, ad
esempio, che Ricci identificava Minerva come dea della Sapienza e la presentava
come una donna allo stato verginale.
La questione della nudità femminile nell’ambito degli studi di
anatomia è leggermente diversa. Innanzi tutto non va dimenticato che, nelle
proposte di istituzioni di accademie, mentre si parlava esplicitamente di studi
dal vero per i nudi maschili, nel caso delle donne si preferiva parlare di
imitazione dal vero per quanto riguardava teste e mani, ma di ricorso a stampe
e sculture per tutto il resto. In un certo senso possiamo dire che l’inclusione
della nudità femminile, nel caso specifico, può essere letta da una duplice
visuale: da un lato può stare a significare che per l’artista la conoscenza
della realtà viene prima di tutto, in quanto rappresentazione del creato;
dall’altro non si può negare che, potenzialmente, Ricci fornisce al lettore
proprio quei modelli a stampa a cui sarebbe meglio far riferimento, astenendosi
dallo studio del vero, perché pericoloso e peccaminoso.
Le grottesche
Quello delle grottesche era un tema ampiamente dibattuto nel mondo
artistico controriformato. In merito, Ricci si schiera ampiamente a favore
della loro rappresentazione. Ancora una volta si tratta di un fatto non così
scontato, tenuto conto, ad esempio, della condanna inequivoca espressa in
proposito, ad esempio, dal cardinal Paleotti nel suo Discorso
intorno alle immagini sacre e profane nel 1582. La questione era così
delicata, del resto, che in molti casi i trattatisti italiani e spagnoli di fine
Cinque e inizio Seicento preferirono non schierarsi. Per Ricci, invece, il
‘grottesco’ non è semplicemente decorazione, ma addirittura ‘ordine
architettonico’ (sul tema tornerò più avanti); quello più vicino allo stato di
natura, quando, appunto, l’umanità viveva nelle grotte. La motivazione addotta
da Juan Andrés non è legata al gusto e nemmeno alla licenza che,
tradizionalmente, viene rivendicata per il pittore, ma, ancora una volta,
risponde a esigenze di natura teologica. Particolarmente attento a
un’interpretazione visiva e simbolica del mondo, come abbiamo visto, Ricci vede
nelle grottesche (purché mantengano un legame col disegno) la possibilità di
esprimere l’invisibile e il trascendente. Il legame con gli Egizi e i
geroglifici che, in forma di animali, esprimevano simbolicamente la divinità, è
fortissimo. Da notare che, in sostanza, Ricci si schiera su posizioni molto
simili a quelle che Pirro Ligorio espose proprio al cardinal Paleotti nelle
lettere che gli inviò in difesa delle grottesche (diverso
semmai, in quest’ultimo, è l’interesse antiquario per quelle antiche).
Gli ordini architettonici e l’ordine salomonico intero
Fra Juan inserisce lo studio degli ordini architettonici
all’interno della seconda sezione del trattato, dedicata alla prospettiva. Il
fatto che un trattato sulla pittura contenga anche nozioni sull’architettura
non è certo una novità. Dopo tutto stiamo parlando di arti ‘gemelle’, tutte
figlie del disegno. Nel caso spagnolo, poi, non possiamo dimenticare la grande
tradizione dei ‘retablos’, autentiche ‘macchine’ di carpenteria in cui i
dipinti erano inseriti in cornici architettoniche molto più elaborate rispetto
alle pale rinascimentali italiane del Cinque e Seicento. Semmai è interessante
lo spazio che viene dedicato all’architettura e la visione storica che viene
proposta (che, in ultima analisi, risponde a un’esigenza di ‘cristianizzazione’
dello studio degli ordini architettonici).
Non vi è dubbio che qualsiasi trattato architettonico, a partire
da Vitruvio, abbia fornito un inquadramento dello studio degli ordini
all’interno di uno svolgimento storico, che vedeva l’architettura assolvere sin
dai primordi alle esigenze abitative e di riparo degli esseri umani; dagli
sviluppi di tali esigenze primordiali nascevano poi dorico, ionico e corinzio. Il
meccanismo era sostanzialmente simile anche nei trattati rinascimentali, dove,
al più, si potevano aggiungere altri ‘ordini’. Ricci si inserisce in questa
tradizione e presenta gli ordini ‘grottesco’ e ‘toscano’ o ‘rustico’ prima del
dorico e il ‘composito’ e il ‘salomonico intero’ dopo il corinzio. In realtà,
più che a fissare delle ‘regole’, almeno nei primi due casi, il benedettino
intende far riferimento a uno stato in cui l’uomo viveva più vicino alla natura
(nelle grotte, appunto) e elaborò elementi ornamentali (fra cui, ovviamente, le
grottesche di cui si è detto) che si rivelano particolarmente utili per il
progettista perché forme inventive relativamente immuni dalle regole e dalle
misure degli ordini classici: «parlando di grottesco e di rustico, Ricci non
era interessato a determinare le proporzioni delle loro parti. Di fatto, pur
chiamati ordini, entrambi erano utilizzati come elementi ornamentali
dell’architettura, venendo usati come tali sia negli edifici sia nella
tradizione teorica» (p. 290).
Agli esatti antipodi degli ordini grottesco e rustico si pone il
‘salomonico intero’, che Ricci costruisce a partire dalla colonna dalla
caratteristica forma tortile. È ben nota la fortuna del dibattito iberico sul
tempio di Salomone (e sull’ordine con cui era stato edificato). Basti ricordare
in proposito gli scritti di Juan Bautista de Villalpando (a cavallo fra Cinque
e Seicento) con le ricostruzioni ideali del tempio di Salomone e, ottant’anni
dopo, l’Arquitectura civil recta y obliqua, edita da Juan Caramuel y
Lobkowitz a Vigevano nel 1678. Nel fornire indicazioni sul salomonico intero,
Rizzi rinsalda le basi teoriche di un elemento architettonico di larghissimo
successo nella pratica spagnola come la colonna salomonica e,
contemporaneamente, sostiene di aver recuperato la forma primigenia
dell’architettura divina che aveva la sua massima espressione appunto nel
tempio di Salomone. Non a caso, ancora una volta, il benedettino ricorre
all’immagine proponendo quella di un arco trionfale in stile salomonico intero:
«l’arco, dedicato a Cristo, si basa su un tutto unitario fra architettura,
figure e testo, di chiara ispirazione allegorica. Il Cristo resuscitato occupa
il centro dell’arco, mentre ai lati si trovano San Pietro e San Paolo, come
principali divulgatori della sua dottrina. Però la cosa più importante consiste
nello sviluppo formale dell’ordine salomonico intero che Fra Juan aveva
teorizzato nei fogli precedenti. Nella sua spiegazione [n.d.r. Rizzi] chiarisce
l’identificazione di Cristo con Salomone, rendendo esplicita la relazione
simbolica con l’ordine architettonico.
Anche l’architettura, insomma, risponde a istanze di natura
teologica. Davvero siamo di fronte non alla confusa esposizione di materiale
raffazzonato o ad album di disegni a uso e consumo degli studenti, ma
all’enunciazione sistematica del pensiero teorico di un uomo che è
contemporaneamente pittore e teologo, e che vive saldamente ancorato a principi
propri dell’età barocca.
NOTE
[1] Si veda in proposito Enrique Cordero de Ciria, «Con la ocasión
de ponerlos desnudos, y castos». Lascivia y castidad en la pintura del Siglo de
Oro in José Riello (a cura di), La teoría de la pintura en el Siglo de Oro
(1560-1724), Madrid, Museo Nacional del Prado, 2012, pp. 105-133.
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