Un pittore conteso nella Napoli del Settecento
L’epistolario e gli affari di Francesco de Mura
Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
In copertina: Francesco de Mura, San Benedetto doma l'incendio nelle cucine del convento (particolare), Napoli, Quadreria del Pio Monte della Misericordia |
Liete sorprese
Se qualcuno vi chiedesse perché
valga la pena visitare il Salone del Libro a Torino, potreste rispondere per
trovare libri come questo: libri cioè di editori piccolissimi, di visibilità
pressoché nulla e distribuzione limitata, ma estremamente interessanti, come
appunto quello pubblicato da Francesco Lofano su epistolario e affari del
pittore Francesco de Mura (1696-1782), figura di spicco del mondo artistico
napoletano di metà Settecento.
Gli studi su de Mura non mancano.
Merito dell’autore essersi inserito nel loro ambito muovendosi in due
direzioni: esplorando la corrispondenza di de Mura conservata presso il Pio
Monte della Misericordia di Napoli e recuperando gli atti rogati per conto
dell’artista dal notaio Michele Valenzia presso l’Archivio di Stato della città
campana. Si tratta, è bene dirlo, di documentazione molto parziale. Nel caso
della corrispondenza si distinguono cronologicamente (se non sono stato cattivo
lettore) due nuclei di missive, il primo risalente alla fine degli anni Trenta
e all’inizio dei Quaranta del Settecento, mentre il secondo riguarda principalmente
il periodo 1763-1774. Per ciò che riguarda i rogiti, è evidente che Valenzia
dovette essere il notaio di fiducia di de Mura; a parte un primo atto del 1754,
altri trentadue (di cui è fornito solo un regesto commentato per ovvi motivi di
brevità) vanno dal 1760 fino alla morte dell’artista e i quattro conclusivi
riguardano disposizioni testamentarie successive alla sua scomparsa. Non è noto
chi occupasse il ruolo di Valenzia prima che costui subentrasse come notaio di
fiducia di de Mura e quindi la panoramica non è completa.
Con tutte queste premesse, va pur detto che il materiale presentato, nella maggior parte dei casi inedito, puntualizza molti aspetti dell’attività artistica del pittore, mette in evidenza la stima e il prestigio di cui egli godeva non solo presso la corte borbonica, ma anche in Piemonte, dove de Mura si trasferì dal 1741 al 1743 circa, aiuta nel definire meglio i caratteri di una committenza di prestigio, che, oltre alle due corti, napoletana e torinese, poteva contare su enti ecclesiastici di particolare rilevanza e su esponenti dell’aristocrazia napoletana e sabauda; consente, infine – e la circostanza non è banale – di conoscere i meccanismi che l’artista utilizzava per investire i propri denari. Su quest’aspetto, forse, mi sento di avanzare l’unica critica all’autore. Sin dal titolo (‘L’epistolario e gli affari di Francesco de Mura’) mi sembra di scorgere (e magari sbaglio) una sorta di condanna morale nei confronti dell’artista che presta denaro a interesse. È vero: questioni artistiche e finanziarie sono fra loro tecnicamente slegate, ma le seconde sono la diretta conseguenza della fortunata attività del pittore e soprattutto di un sistema complessivo in cui è evidente che la carenza di denaro contante e l’assenza di un sistema bancario efficiente delegavano di fatto a singole figure la gestione del prestito. Proverò a parlarne più avanti.
Francesco de Mura, Autoritratto, Minneapolis Institute of Art
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Francesco_de_Mura_-_Self-Portrait_-_62.48_-_Minneapolis_Institute_of_Arts.jpg
Fra Napoli e Torino
La corrispondenza dell’artista ha
natura eterogenea. Si va da comunicazioni ufficiali, come la nomina da parte del
re a condirettore della Real Accademia del Disegno e Pittore di camera del
sovrano (p. 96), ad altre di natura meramente privata in cui ci si ringrazia
reciprocamente per l’invio di barilotti di alici salate e di olio (ma
l’economia del baratto aveva all’epoca peso non marginale; cfr. p. 125). Nell’ambito
del primo gruppo si segnalano missive che aiutano a far luce su affreschi realizzati
per alcuni ambienti di Palazzo Reale in occasione delle nozze tra Carlo di
Borbone e Maria Amalia di Sassonia (1738) e di quelle fra Ferdinando di Borbone
e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena (1763). Nel 1768, come detto, Francesco fu
nominato condirettore della Real Accademia di Disegno, istituita nel 1752 da re
Carlo; poco sappiamo del funzionamento
dell’istituto, la cui nascita, in maniera convincente, Lofano spiega con «dinamiche
di rivendicazione della centralità statale in conformità con le stesse riforme
politiche attuate nel Regno» (p. 21). L’esperienza di de Mura in
qualità di condirettore, in realtà, fu assai breve; l’artista, ormai anziano,
si dimise nella prima metà del 1770; personalmente non sarei del tutto certo
che la questione dell’età sia stata la vera causa della decisione, tenuto conto
che de Mura continuò comunque ad esercitare fin quasi alla morte; non
escluderei problemi di convivenza con Giuseppe Bonito, l’altro condirettore
dell’Accademia.
Le vicende che portarono al temporaneo
trasferimento di de Mura nel 1741 a Torino, al servizio della corte sabauda,
non sono purtroppo del tutto chiarite dall’epistolario. In particolare, non è
chiaro perché la partenza, prevista nel 1738, fu dilazionata fino al 1741. Fra
le varie ipotesi che sono state avanzate in proposito vi è anche quella che il
ritardo sia stato dovuto a dissapori diplomatici fra le due corti in
coincidenza della guerra di successione austriaca. In questo senso de Mura
sarebbe stato un ‘pittore conteso’, come richiamato nel titolo del volume,
anche se va detto che Lofano tende a scartare l’ipotesi, ritenendo che le
relazioni fra le due corti rimasero, tutte sommato, pacifiche. L’autore,
piuttosto, segnala che «il soggiorno di Francesco de Mura presso la corte
piemontese si inseriva all’interno di una tradizione di presenza di cultura
figurativa napoletana presso gli ambienti sabaudi avviata dalle opere di
Francesco Solimena, al principio del terzo decennio del secolo, e proseguita
soprattutto con i soggiorni di Sebastiano Conca e Corrado Giaquinto fino al
1737 (…). La richiesta indirizzata all’artista deve, dunque, intendersi
all’interno di una precisa strategia volta ad assicurare alle collezioni
torinesi le opere di un pittore appartenente ad una scuola pittorica che, con
quella veneziana, romana e bolognese, era stata rappresentata con deliberata
continuità presso l’aggiornato milieu sabaudo» (p. 35). L’esperienza
torinese fu comunque positiva, tant’è che vent’anni dopo de Mura fu nuovamente
contattato per eseguire (questa volta a distanza) alcuni dipinti destinati alla
residenza dell’erede al trono sabaudo e ricevette commissioni anche da
aristocratici piemontesi.
Francesco de Mura, Gloria di San Benedetto, Napoli, Chiesa dei SS. Severino e Sossio
Fonte: Giuseppe Guida tramite Wikimedia Commons
Anna e il privato
Normalmente, nei carteggi, le
lettere ‘informali’ forniscono simpatiche spigolature che possono essere
occasione per un sorriso. Nel caso specifico devo dire che sono rimasto molto colpito
dalle frequenti citazioni della moglie di Francesco, Anna d’Ebreù, almeno fino
a quando rimase in vita (morì nel 1768). Si tratta di una sensazione
epidermica; eppure ho visto pochi epistolari in cui la presenza della consorte
di un artista sia così pervasiva, a cominciare dal fatto che Anna seguiva il
marito nelle sue trasferte lavorative (ad esempio a Montecassino e a Torino). Anna
doveva essere una donna speciale; sono comunque deliziose alcune righe di una
lettera di Girolamo de Lauro (una conoscenza fatta probabilmente nel periodo
dei lavori cassinesi) scritta il 27 febbraio 1740: «Mille riverenze alla Signora
D. Anna non solo da mia parte, ma ancora da parte del figlio di Cola Taddeo; il
quale la và sempre cercando in qua e in là, gridando lungo il fiume uh Cori meu
uh Cori meu»
(p. 120). Marginalmente va segnalata la vicenda confusa di Menna (forse
Filomena), figlia della coppia, ricordata immediatamente dopo nella stessa
identica lettera con discutibili suggerimenti per una didattica efficace: «A
Menna mille saluti se si porta bene nel leggere e nello scrivere [n.d.r. un
dato non scontato per una ragazza] quando però non voglia studiare bisognerà
visitarla di quando in quando con un bel frustino.». Un anno dopo, nel maggio
1741, nel momento di prendere gli accordi finali per il trasferimento a Torino,
il pittore scrisse a un intermediario piemontese: «riguardo al decente
mantenimento della figliuola che trovasi in monastero lasciavo l’incombenza ad
uno dei primi marcatanti di [***] che durante la mia assenza le somministri scudi
diece al mese» (p. 104). Quella ‘figliuola’ è sicuramente Menna, come
risulta da un’altra lettera, questa volta di natura privata, proveniente da
tale Giuseppe Giusti e datata anch’essa maggio 1741: «Considero quanto sia stata
laflicione della Signora D. Ana avendosi hauto da llontanare dala Sua nina
avendola auta da meterla dentro nel monasterio; considero lafficione che voi
altri signori haverano patito ma adeso il fatto è fatto e non vi è più remedio»
(p. 121). L’ingresso di Menna in convento, insomma, sembra essere stato l’esito
ultimo di un evento traumatico che non conosciamo. Non escludo che parte del
ritardo nel trasferimento a Torino possa spiegarsi anche con la necessità, da
parte del pittore, di sistemare la questione.
Gli atti notarili
Come detto, gli atti rogati dal
notaio Michele Valenzia testimoniano una serie di situazioni in cui l’artista,
con formule difficili da comprendere ai giorni nostri, prestò denaro a terzi:
de Mura intervenne soprattutto nei confronti di aristocratici del Regno e di
enti religiosi indebitati. Mi sembra certo che l’abbia fatto anche prima;
semplicemente la sua attività non è testimoniata perché non sappiamo chi fosse
il notaio con cui operava precedentemente. Qui alcuni punti vanno sottolineati:
è evidente che le controparti erano in stato di necessità. La vera domanda è:
cosa poteva fare e dove poteva trovare denaro chi ne avesse bisogno, in quei
tempi? Mancava un sistema creditizio e la cosa più probabile è che una delle soluzioni
fosse quella di rivolgersi agli usurai. Vista da questa ottica, sembra che De
Mura (ma più in generale, la “borghesia di condizione”) rappresentasse una
valida alternativa per il reperimento di denaro a basso costo. Se consideriamo
veritieri i tassi di interesse indicati nei rogiti, la prima cosa che appare
chiara è che sono molto bassi, arrivando, più o meno, al 4% (la BCE oggi
pratica il 4,5%). Non è raro poi il caso in cui l’artista, subentrando ad altri
creditori, decise di abbassare il censo annuo che il debitore gli doveva
pagare. Mi sembra evidente, insomma, che, in una società protocapitalista come
quella napoletana del Settecento, l’artista, che sicuramente disponeva di
contante in virtù del buon andamento della sua professione, assolvesse
‘informalmente’ una funzione sociale; da un lato fungeva, in sostanza, da
banca; dall’altro aveva trovato un modo per far fruttare il suo denaro in maniera
che oserei definire equa. Mi rendo perfettamente conto che le mie sono
considerazioni svolte sulla base di una lettura sommaria del regesto di atti
notarili e che non erano affatto rari i casi in cui tali atti erano redatti per
nascondere e ‘normalizzare’ comportamenti più rapaci. Allo stato dell’arte,
tuttavia, non mi sembra si possa parlare di nulla più che dell’oculata gestione
dei propri flussi finanziari, occasione anche per rinsaldare rapporti personali
con esponenti ceti di prestigio.
Nessun commento:
Posta un commento