Pittura di paesaggio e scenografia teatrale
Teoria e pratica artistica (1580-1640)
Roma, De Luca Editori d’Arte, 2021
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Esordi
Il libro di Elisa Spataro fa
parte della collana ‘Esordi’, pubblicata dall’editore De Luca e promossa dal
Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte alla Sapienza. Mi si lasci solo dire
che ci sono ‘esordi’ ed ‘esordi’. Quello di Spataro è, a dir poco, eccellente.
Per scriverlo, innanzi tutto,
sono indispensabili tre cose: una profonda conoscenza delle fonti di storia
dell’arte; una familiarità del tutto analoga nell’ambito della
storia del teatro e (banale a dirsi) un’ottima cultura visiva, tale da
sostanziare la tesi del libro grazie al ricorso a disegni, stampe, bozzetti,
quadri e alla loro lettura stilistica. Il libro è, insomma, un ‘manifesto’
contro la specializzazione degli studi e mostra come un approccio
interdisciplinare ai problemi consenta di contestualizzarli in maniera
migliore. Mi pareva giusto operare questa premessa perché non capita spesso di
imbattersi in esempi di questo tipo.
Giulio Mancini fra pittura e
teatro
La tesi del volume è che gli
sviluppi della pittura di paesaggio, a cavallo fra Cinque e Seicento siano
diretta conseguenza delle pratiche teatrali che si erano andate affermando sui
palchi dei teatri a partire dalla nascita della ‘favola pastorale’ (o ‘boschereccia’)
a metà del Cinquecento. Fu nell’ambito del teatro che si pose il problema della
rappresentazione dello spazio ‘arcadico’ e della realizzazione di scenografie
che, tramite l’utilizzo di regole prospettiche, portassero a un’aumentata
spazialità illusionistica della scena. I legami fra architetti, scenografi e
pittori nel settore specifico risultano assai più stretti di quanto sembri. Spataro
giunge a stabilire «come, per influenza della scienza boscareccia le
forme del paesaggio in pittura si siano progressivamente aperte verso una disposizione
prospettica e simmetrica degli elementi, in un processo che ha origine dalle
pratiche teatrali, laddove la rappresentazione di paesi costruiti
secondo norme geometriche risponde alla necessità di coerenza rispetto allo
spazio e alle proporzioni definite dalle architetture del palco»
(p. 115). Il tutto dando per implicito un presupposto che, nella sua Presentazione,
è richiamato da Valter Curzi, citando a sua volta Anna Ottani Cavina, ossia che
«la
pittura di paesaggio per gli artisti non è tanto una questione di semplice
rapporto con la natura, quanto piuttosto la restituzione di una vera e propria
proiezione culturale sulla natura» (pp. 7-8).
L’analisi di Spataro parte da
quanto scritto da Giulio Mancini nelle sue Considerazioni
sulla pittura, come noto una delle fonti più saccheggiate nei secoli e
più studiate dalla critica contemporanea. Se i dati fattuali del trattato,
rimasto inedito fino al 1956, ma conosciutissimo sin da quando fu scritto, e
l’orientamento dell’autore verso la pratica del collezionismo sono gli aspetti su
cui più ci si è concentrati, meno studiata è la parte teorica. Qui, appunto, Mancini
tratta della pittura di paesaggio. Le versioni a noi note dello
scritto manciniano sono tre: la versione breve (o, convenzionalmente, Discorso
di pittura), quella intermedia, e la finale a cui corrispondono, rispettivamente,
le date del 1619, 1619-1621 e 1621-1630. Spataro non solo ha esaminato tutti e
ventidue i testimoni dell’opera, ma ha anche reperito un’ulteriore minuta del
trattato che molto probabilmente va riferita a una fase iniziale di redazione
del Discorso di pittura. L’obiettivo è stato quello di condurre uno
studio filologico (esemplare) per cercare di capire se e come la teoria del paesaggio
fosse evoluta nel corso degli anni nel pensiero di Mancini e di comprendere
quali fossero state le sue fonti. La risposta è che il medico e amatore senese
prese in considerazione il fenomeno sin dalla redazione breve e, sia pur con
modifiche che non starò a richiamare per motivi di brevità, lo individuò
chiaramente in tutte e tre le versioni del trattato.
Mancini, che ama le classificazioni,
individua tre tipi di paesaggi diversi: il ‘paese semplice’, il paesaggio
‘arboreo’ e quello ‘perfetto’. Il ‘paese semplice’ è poco più di un’ipotesi di
scuola: fa riferimento a una rappresentazione in cui non compaiono né alberi né
animali, ma solo terra, acqua, aria.; il paese arboreo contiene ‘cose animate
d’anima nutriscente’ (approssimando molto: le piante); il terzo vede anche la
presenza degli animali e dell'uomo. Nell’ambito del ‘paese arboreo’ (e qui è il punto chiave), Mancini
fa rientrare «il paese al quale si reduce la prospettiva scenica, che
rappresenta il sito di cose artifitiose rivolte di boschi»
(citazione dalla versione breve) o, diversamente detto, «il paesaggio arboreo senza
figure come alle volte si dipingono boschi per le commedie»
(versione intermedia). Mancini chiarisce meglio e definisce il paesaggio
arboreo come «la boscareccia (…) per maestà della quale si danno regole
di matematica, fondate nella visione, e suo modo per regole di linee et angoli,
alle quali si deve riferire il giudizio, e di chi le fa, e di chi le vuole
giudicare»
(p. 136) aggiungendo considerazioni sulla prospettiva aerea: «solo
in esse oltre queste regole vi si considera il colore e suo modo di colorito,
quel più o meno acceso, e abbagliato secondo che sarà la parte scenica più o
meno vicina che così dovrà essere più o meno abagliata» (ibidem). La suggestione di precetti
provenienti, direttamente o indirettamente (probabilmente tramite Matteo
Zaccolini) da Leonardo è evidente. Non tutti coloro che trascrissero, in
tempi e per motivi e più vari, il trattato di Mancini trovarono il passaggio
sulla ‘prospettiva scenica’ chiaro, tant’è che in vari testimoni della versione
prima essa diventa ‘prospettiva Seneca’, secondo meccanismi di corruzione di un
testo che i filologi conoscono molto bene. Fatto sta che il senese sta parlando
chiaramente di un tipo di pittura che deriva dalle pratiche teatrali e, in
particolare, dalle scenografie delle boscarecce (o favole pastorali) e che si
basa su costruzioni prospettiche ben precise. Mentre il paesaggio semplice era,
come detto, poco più di un’ipotesi di scuola, qui siamo di fronte a una realtà
ben diversa. Il genere del paesaggio stava conoscendo in quegli anni e avrebbe
conosciuto in quelli successivi un successo travolgente, che lo avrebbe portato
in cima alle richieste dei collezionisti. Scrive in merito Spataro: «è
(…) importante sottolineare come Mancini, grazie alla frequentazione degli
artisti della sua epoca [n.d.r. un dato che qui do per scontato, ma che nel
libro è ampiamente documentato], sia in grado di definire un rapporto
altrimenti difficile da individuare, poiché legato alle pratiche e alla
formazione del pittore, specie nel contesto della bottega. Il medico senese fa
infatti riferimento all’uso della prospettiva impiegata nella costruzione delle
scene teatrali per la resa corretta delle «lontananze e diminuzioni in
rispetto della vista». Tale espediente avrebbe fatto di un quadro di paesaggio
un’opera degna di essere acquistata e di entrare nelle collezioni del miglior gentilhuomo
dell’epoca, lettore ideale del suo scritto» (p. 23).
La prospettiva scenica
Partita dalla testimonianza di Mancini, Spataro sposta l’attenzione sulla storia del teatro. La ‘favola pastorale’ è genere teatrale che nasce a metà del Cinquecento, per la precisione a Ferrara nel 1554 e che vede l’ambientazione dell’opera (in genere a soggetto amoroso) non in un paesaggio urbano, ma in uno spazio arcadico, in cui la natura domina incontrastata e si mostra tranquilla e splendente nella sua bellezza. Conosce enorme fortuna, soprattutto a partire dal 1580 e fino al 1640 (anni a cui si riferisce l’analisi dell’autrice). Purtroppo i materiali scenografici sono andati quasi tutti persi, per cui si deve ricorrere a testimonianze altre per riuscire ad avere un’idea di quale fosse l’allestimento delle boscarecce. Non sempre sono utili (anzi, spesso fuorvianti) le illustrazioni contenute nei libretti a stampa, che si mostrano più attente a stimolare la fantasia del lettore che a riprodurre l’esperienza vissuta dallo spettatore. Proprio dai rari resoconti degli spettatori si ottengono informazioni preziose. Restano poi disegni e bozzetti preparatori che vanno confrontati con gli scritti di teoria scenografica anche antichi (già Vitruvio si era occupato di teatro, ma è Serlio, nel 1545, a offrire una versione illustrata della scena satyrica vitruviana).
Sebastiano Serlio, Scena satyrica dal Libro II dell'Architettura Fonte: https://digital.library.cornell.edu/catalog/ss:11177803 |
Serlio, ad esempio, «descrive l’uso della scenografia tridimensionale che, oltre alla tela di fondo, comprendeva dei teleri dipinti disposti ad angolo ottuso lungo i lati del palco: già dalla metà del Cinquecento, quindi, la semplice prospettiva pittorica dipinta su un’unica superficie, era stata superata a favore delle creazione di un «ambiente» in grado di accogliere gli attori e le vicende narrate» (p. 68). Esistono documenti eccezionali che permettono di capire meglio come lo spazio scenico fosse concepito diversamente da come lo si intenda oggi: uno è l’incisione di Jacques Callot in cui è rappresentato il balletto che occupò uno degli intervalli della rappresentazione de La liberazione di Tirreno agli Uffizi: è evidente come gli attori siano ‘inglobati’ nella sala e sono visibili le quinte laterali con scene di bosco che accentuano fortemente l’effetto prospettico verso il fondo, creando un effetto illusionistico che si risolve in una percezione dell’ambiente più vasta del reale.
Jacques Callot, Primo Intermedio della Veglia della Liberazione di Tirreno e Arnea, Londra, The British Museum Fonte: https://www.britishmuseum.org/collection/image/114911001 |
Peraltro è da notare che non sempre, ai lati del palco, si trovavano dei teleri; era tutt’altro che raro l’uso di quinte girevoli, fra loro opportunamente distanziate, per consentire l’ingresso e l’uscita degli attori, naturalmente disposte anch’esse in maniera prospettica e facilmente girabili, in maniera tale da poter praticare rapidamente un cambio di scena. Un disegno oggi conservato a Macerata descrive anche l’esistenza di strutture meccaniche che avevano lo specifico compito di far percepire gli alberi dipinti sui teleri come tridimensionali.
Il teatro fra Firenze e Roma
È comunque evidente che la
nascita della favola boscareccia porta alla rapida diffusione di uno schema che
rappresenta sulla scena il paesaggio simmetricamente, con due file laterali di
alberi e ben precise regole di prospettiva. Il genere ebbe particolare fortuna
a Firenze, grazie alle committenze medicee (specie in occasioni di spettacoli
tenutesi per celebrare nozze e altri eventi rimarchevoli). Qui sappiamo che
lavorarono architetti, scenografi, pittori; o, meglio, artisti che furono contemporaneamente
architetti, scenografi e pittori. In fondo (aggiungo io) si tratta della
continuazione di una tradizione che affondava le sue radici negli apparati
effimeri realizzati per l’ingresso di sovrani o le nozze di rampolli medicei
già descritti nelle
Vite da Vasari. Sappiamo che a questo gruppo di artefici va ascritto
Ludovico Cigoli (1559-1613), di cui ci sono noti l’antica
amicizia con Galileo e gli interessi matematici, culminati nella redazione del
trattato sulla Prospettiva pratica; simili interessi furono coltivati da
Giulio Parigi (1571-1635), che fu scenografo della corte dei Medici. Spataro è dell’idea
che tramite i viaggi di Cigoli e Parigi a Roma (come pure delle visite in senso
inverso, come quella di Agostino Tassi a Firenze) giunse a Roma la pratica della
scenografia teatrale a boscareccia resa in termini matematico-prospettici.
L’autrice passa quindi a prendere in considerazione lo sviluppo del genere
nell’Urbe nei primi decenni del Seicento e mostra come molti artisti, di
maggiore o minor fama, fossero coinvolti nella realizzazione di spettacoli
teatrali in città (ad esempio per conto del Cavalier d’Arpino, che allestì nel
proprio palazzo un teatro (p. 115)). Su Giulio Parigi, tuttavia, Spataro va
oltre e prende in considerazione un taccuino fino a oggi quasi ignoto e di
attribuzione incerta, conservato presso il Getty Research Institute [1] che
riconduce in maniera convincente all’artista fiorentino. Il taccuino documenta
un viaggio nelle campagne fiorentine e laziali fino a Roma eseguito nel 1616,
probabilmente in occasione della nomina a cardinale di Carlo de’ Medici, o, per
meglio dire, del concistoro con cui quest’ultimo ricevette il cappello
cardinalizio e del sontuoso ricevimento con ‘apparati’ tenutosi a Villa Medici
per l’occasione. Spataro trova quindi riscontri archivistici che confermano la
sua lettura stilistica. Nel leggere i disegni ritiene anche che almeno alcuni
di essi siano stati realizzati con l’uso di strumenti prospettici mutuati
dall’architettura militare (di cui Parigi aveva esperienza).
Dal teatro alla pittura
Ora si tratta di esaminare il
meccanismo con cui dal teatro la rappresentazione del paesaggio secondo ‘regole
di prospettiva’ scenica giunge alla pittura. Secondo Spataro (e io sono
perfettamente d’accordo) è del tutto plausibile che gli spettatori (e in
particolare quanti fra loro erano anche mecenati d’arte) chiedessero ai pittori
(probabilmente a quegli stessi pittori che avevano dipinto le quinte) di
‘tradurre’ lo spazio scenico su quadro. Per questo le pagine di Mancini
dedicate alla pittura di paesaggio sono particolarmente importanti: «Mancini
ha saputo restituire il momento in cui la diffusione di tale immagine del
paesaggio guidò il processo di formazione della composizione dei paesi, un
processo reso sicuramente possibile dalle conoscenze acquisite dagli artisti
che collaboravano alla messinscena degli stessi spettacoli» (p. 85).
Intendiamoci: di storia della pittura di paesaggio si è scritto tantissimo;
eppure la fortuna delle scene prospettiche non è stata indagata in maniera del
tutto convincente. È ben nota, ad esempio, l’influenza e la fortuna della
pittura fiamminga in proposito. Eppure – scrive Spataro - «tra la fine del
Cinquecento e l’inizio del secolo successivo, la resa del paesaggio boschivo
presso i maggiori esponenti transalpini trovava ancora espressione in una
composizione dalle forme chiuse, affollata di vegetazione, in cui le chiome non
lasciano intravedere la linea dell’orizzonte e solo le differenti tonalità del
fogliame creano ritmo e profondità illuminando le zone d’ombra tra gli alberi»
(p. 93). Se, quindi, influenze formali sono innegabili (ad esempio nella resa delle
chiome degli alberi da parte di Giulio Parigi) l’impianto prospettico non
appare di derivazione fiamminga. D’altra parte anche la presunta ‘razionalizzazione’
del paesaggio per influsso della pittura bolognese, dai Carracci in poi, non convince.
Certamente la scuola bolognese «ha inciso nei termini della definizione delle
proporzioni tra paesaggio e figure, del ritmo compositivo e della maggiore
aderenza al reale» (p. 115), ma i paesaggi del periodo bolognese di Annibale funzionano
per sovrapposizione di piani, senza adeguata resa prospettica (p. 97).
Da Bril a Poussin
È partendo proprio dall’influenza scenografica che Spataro trova più facile e logico leggere l’arte dei grandi paesaggisti della prima metà del Seicento. «I dipinti di Paul Bril, già a partire dal primo decennio del Seicento, sono testimoni della nuova tipologia nella rappresentazione del paesaggio boschivo. La composizione è organizzata intorno ad uno spazio centrale libero, che lascia scorrere lo sguardo verso il fondo attraverso l’introduzione di due masse vegetali ai lati, le cui dimensioni digradano a mano a mano che i piani del terreno avanzano in profondità» (p. 95). Analogo (decenni dopo) il caso di Claude Lorrain, ad esempio nel Paesaggio con figure danzanti della Galleria Doria Pamphilj; particolarmente importante è quello di Poussin e delle cosiddette ‘tele Roscioli’, ovvero il San Matteo e l’angelo e il San Giovanni a Patmos, la cui esecuzione è collocata fra 1637 e 1639.
Nicolas Poussin, San Matteo e l'Angelo, Berlino, Gemäldegalerie Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Sino a oggi, l’impiego della
prospettiva centrale per il paesaggio da parte di Poussin, in un momento in cui
si credeva che fosse caduta in disuso a Roma, è stato spiegato con la lettura degli
scritti di prospettiva di Desargues (1591-1661), cominciati a partire dal 1636.
Eppure Poussin non era ancora tornato in Francia e L’example de l’une de
manieres unverselles touchant la pratique de la Perspective di Desargues (il suo primo scritto in materia) conteneva
una sola tavola, poco utile a qualsiasi pittore. Possibili contatti fra Poussin
e Desargues sono testimoniati dal 1640. Spataro ritiene piuttosto che le tele
Roscioli siano il risultato di quanto avvenne sui palchi dei teatri prima, e
poi in ambito di pittura di paesaggio fra fine Cinque e inizio Seicento.
Ritiene peraltro più probabile che, se di influenza prospettica si debba
parlare, essa faccia riferimento agli insegnamenti di Matteo Zaccolini, avanzando quindi un’ipotesi suggestiva, che merita di essere ulteriormente indagata.
Infine…
Una recensione con soli elogi non è
credibile: ammetto che avrei gradito molto la presenza, in fondo al libro,
dell’indice dei nomi.
NOTE
[1] Segnatura Special Collections Department, m. 880394.
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