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venerdì 1 settembre 2023

Elisa Spataro. Pittura di paesaggio e scenografia teatrale. Teoria e pratica artistica (1580-1640)

 

Elisa Spataro
Pittura di paesaggio e scenografia teatrale
Teoria e pratica artistica (1580-1640)

Roma, De Luca Editori d’Arte, 2021

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 



Esordi

Il libro di Elisa Spataro fa parte della collana ‘Esordi’, pubblicata dall’editore De Luca e promossa dal Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte alla Sapienza. Mi si lasci solo dire che ci sono ‘esordi’ ed ‘esordi’. Quello di Spataro è, a dir poco, eccellente.

Per scriverlo, innanzi tutto, sono indispensabili tre cose: una profonda conoscenza delle fonti di storia dell’arte; una familiarità del tutto analoga nell’ambito della storia del teatro e (banale a dirsi) un’ottima cultura visiva, tale da sostanziare la tesi del libro grazie al ricorso a disegni, stampe, bozzetti, quadri e alla loro lettura stilistica. Il libro è, insomma, un ‘manifesto’ contro la specializzazione degli studi e mostra come un approccio interdisciplinare ai problemi consenta di contestualizzarli in maniera migliore. Mi pareva giusto operare questa premessa perché non capita spesso di imbattersi in esempi di questo tipo.

 

Giulio Mancini fra pittura e teatro

La tesi del volume è che gli sviluppi della pittura di paesaggio, a cavallo fra Cinque e Seicento siano diretta conseguenza delle pratiche teatrali che si erano andate affermando sui palchi dei teatri a partire dalla nascita della ‘favola pastorale’ (o ‘boschereccia’) a metà del Cinquecento. Fu nell’ambito del teatro che si pose il problema della rappresentazione dello spazio ‘arcadico’ e della realizzazione di scenografie che, tramite l’utilizzo di regole prospettiche, portassero a un’aumentata spazialità illusionistica della scena. I legami fra architetti, scenografi e pittori nel settore specifico risultano assai più stretti di quanto sembri. Spataro giunge a stabilire «come, per influenza della scienza boscareccia le forme del paesaggio in pittura si siano progressivamente aperte verso una disposizione prospettica e simmetrica degli elementi, in un processo che ha origine dalle pratiche teatrali, laddove la rappresentazione di paesi costruiti secondo norme geometriche risponde alla necessità di coerenza rispetto allo spazio e alle proporzioni definite dalle architetture del palco» (p. 115). Il tutto dando per implicito un presupposto che, nella sua Presentazione, è richiamato da Valter Curzi, citando a sua volta Anna Ottani Cavina, ossia che «la pittura di paesaggio per gli artisti non è tanto una questione di semplice rapporto con la natura, quanto piuttosto la restituzione di una vera e propria proiezione culturale sulla natura» (pp. 7-8).

L’analisi di Spataro parte da quanto scritto da Giulio Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura, come noto una delle fonti più saccheggiate nei secoli e più studiate dalla critica contemporanea. Se i dati fattuali del trattato, rimasto inedito fino al 1956, ma conosciutissimo sin da quando fu scritto, e l’orientamento dell’autore verso la pratica del collezionismo sono gli aspetti su cui più ci si è concentrati, meno studiata è la parte teorica. Qui, appunto, Mancini tratta della pittura di paesaggio. Le versioni a noi note dello scritto manciniano sono tre: la versione breve (o, convenzionalmente, Discorso di pittura), quella intermedia, e la finale a cui corrispondono, rispettivamente, le date del 1619, 1619-1621 e 1621-1630. Spataro non solo ha esaminato tutti e ventidue i testimoni dell’opera, ma ha anche reperito un’ulteriore minuta del trattato che molto probabilmente va riferita a una fase iniziale di redazione del Discorso di pittura. L’obiettivo è stato quello di condurre uno studio filologico (esemplare) per cercare di capire se e come la teoria del paesaggio fosse evoluta nel corso degli anni nel pensiero di Mancini e di comprendere quali fossero state le sue fonti. La risposta è che il medico e amatore senese prese in considerazione il fenomeno sin dalla redazione breve e, sia pur con modifiche che non starò a richiamare per motivi di brevità, lo individuò chiaramente in tutte e tre le versioni del trattato.

Mancini, che ama le classificazioni, individua tre tipi di paesaggi diversi: il ‘paese semplice’, il paesaggio ‘arboreo’ e quello ‘perfetto’. Il ‘paese semplice’ è poco più di un’ipotesi di scuola: fa riferimento a una rappresentazione in cui non compaiono né alberi né animali, ma solo terra, acqua, aria.; il paese arboreo contiene ‘cose animate d’anima nutriscente’ (approssimando molto: le piante); il terzo vede anche la presenza degli animali e dell'uomo. Nell’ambito del ‘paese arboreo’ (e qui è il punto chiave), Mancini fa rientrare «il paese al quale si reduce la prospettiva scenica, che rappresenta il sito di cose artifitiose rivolte di boschi» (citazione dalla versione breve) o, diversamente detto, «il paesaggio arboreo senza figure come alle volte si dipingono boschi per le commedie» (versione intermedia). Mancini chiarisce meglio e definisce il paesaggio arboreo come «la boscareccia (…) per maestà della quale si danno regole di matematica, fondate nella visione, e suo modo per regole di linee et angoli, alle quali si deve riferire il giudizio, e di chi le fa, e di chi le vuole giudicare» (p. 136) aggiungendo considerazioni sulla prospettiva aerea: «solo in esse oltre queste regole vi si considera il colore e suo modo di colorito, quel più o meno acceso, e abbagliato secondo che sarà la parte scenica più o meno vicina che così dovrà essere più o meno abagliata» (ibidem). La suggestione di precetti provenienti, direttamente o indirettamente (probabilmente tramite Matteo Zaccolini) da Leonardo è evidente. Non tutti coloro che trascrissero, in tempi e per motivi e più vari, il trattato di Mancini trovarono il passaggio sulla ‘prospettiva scenica’ chiaro, tant’è che in vari testimoni della versione prima essa diventa ‘prospettiva Seneca’, secondo meccanismi di corruzione di un testo che i filologi conoscono molto bene. Fatto sta che il senese sta parlando chiaramente di un tipo di pittura che deriva dalle pratiche teatrali e, in particolare, dalle scenografie delle boscarecce (o favole pastorali) e che si basa su costruzioni prospettiche ben precise. Mentre il paesaggio semplice era, come detto, poco più di un’ipotesi di scuola, qui siamo di fronte a una realtà ben diversa. Il genere del paesaggio stava conoscendo in quegli anni e avrebbe conosciuto in quelli successivi un successo travolgente, che lo avrebbe portato in cima alle richieste dei collezionisti. Scrive in merito Spataro: «è (…) importante sottolineare come Mancini, grazie alla frequentazione degli artisti della sua epoca [n.d.r. un dato che qui do per scontato, ma che nel libro è ampiamente documentato], sia in grado di definire un rapporto altrimenti difficile da individuare, poiché legato alle pratiche e alla formazione del pittore, specie nel contesto della bottega. Il medico senese fa infatti riferimento all’uso della prospettiva impiegata nella costruzione delle scene teatrali per la resa corretta delle «lontananze e diminuzioni in rispetto della vista». Tale espediente avrebbe fatto di un quadro di paesaggio un’opera degna di essere acquistata e di entrare nelle collezioni del miglior gentilhuomo dell’epoca, lettore ideale del suo scritto» (p. 23).

 

La prospettiva scenica

Partita dalla testimonianza di Mancini, Spataro sposta l’attenzione sulla storia del teatro. La ‘favola pastorale’ è genere teatrale che nasce a metà del Cinquecento, per la precisione a Ferrara nel 1554 e che vede l’ambientazione dell’opera (in genere a soggetto amoroso) non in un paesaggio urbano, ma in uno spazio arcadico, in cui la natura domina incontrastata e si mostra tranquilla e splendente nella sua bellezza. Conosce enorme fortuna, soprattutto a partire dal 1580 e fino al 1640 (anni a cui si riferisce l’analisi dell’autrice). Purtroppo i materiali scenografici sono andati quasi tutti persi, per cui si deve ricorrere a testimonianze altre per riuscire ad avere un’idea di quale fosse l’allestimento delle boscarecce. Non sempre sono utili (anzi, spesso fuorvianti) le illustrazioni contenute nei libretti a stampa, che si mostrano più attente a stimolare la fantasia del lettore che a riprodurre l’esperienza vissuta dallo spettatore. Proprio dai rari resoconti degli spettatori si ottengono informazioni preziose. Restano poi disegni e bozzetti preparatori che vanno confrontati con gli scritti di teoria scenografica anche antichi (già Vitruvio si era occupato di teatro, ma è Serlio, nel 1545, a offrire una versione illustrata della scena satyrica vitruviana).  

Sebastiano Serlio, Scena satyrica dal Libro II dell'Architettura
Fonte: https://digital.library.cornell.edu/catalog/ss:11177803


Serlio, ad esempio, «descrive l’uso della scenografia tridimensionale che, oltre alla tela di fondo, comprendeva dei teleri dipinti disposti ad angolo ottuso lungo i lati del palco: già dalla metà del Cinquecento, quindi, la semplice prospettiva pittorica dipinta su un’unica superficie, era stata superata a favore delle creazione di un «ambiente» in grado di accogliere gli attori e le vicende narrate» (p. 68). Esistono documenti eccezionali che permettono di capire meglio come lo spazio scenico fosse concepito diversamente da come lo si intenda oggi: uno è l’incisione di Jacques Callot in cui è rappresentato il balletto che occupò uno degli intervalli della rappresentazione de La liberazione di Tirreno agli Uffizi: è evidente come gli attori siano ‘inglobati’ nella sala e sono visibili le quinte laterali con scene di bosco che accentuano fortemente l’effetto prospettico verso il fondo, creando un effetto illusionistico che si risolve in una percezione dell’ambiente più vasta del reale. 

Jacques Callot, Primo Intermedio della Veglia della Liberazione di Tirreno e Arnea, Londra, The British Museum
Fonte: https://www.britishmuseum.org/collection/image/114911001

Peraltro è da notare che non sempre, ai lati del palco, si trovavano dei teleri; era tutt’altro che raro l’uso di quinte girevoli, fra loro opportunamente distanziate, per consentire l’ingresso e l’uscita degli attori, naturalmente disposte anch’esse in maniera prospettica e facilmente girabili, in maniera tale da poter praticare rapidamente un cambio di scena. Un disegno oggi conservato a Macerata descrive anche l’esistenza di strutture meccaniche che avevano lo specifico compito di far percepire gli alberi dipinti sui teleri come tridimensionali.

 

Il teatro fra Firenze e Roma

È comunque evidente che la nascita della favola boscareccia porta alla rapida diffusione di uno schema che rappresenta sulla scena il paesaggio simmetricamente, con due file laterali di alberi e ben precise regole di prospettiva. Il genere ebbe particolare fortuna a Firenze, grazie alle committenze medicee (specie in occasioni di spettacoli tenutesi per celebrare nozze e altri eventi rimarchevoli). Qui sappiamo che lavorarono architetti, scenografi, pittori; o, meglio, artisti che furono contemporaneamente architetti, scenografi e pittori. In fondo (aggiungo io) si tratta della continuazione di una tradizione che affondava le sue radici negli apparati effimeri realizzati per l’ingresso di sovrani o le nozze di rampolli medicei già descritti nelle Vite da Vasari. Sappiamo che a questo gruppo di artefici va ascritto Ludovico Cigoli (1559-1613), di cui ci sono noti l’antica amicizia con Galileo e gli interessi matematici, culminati nella redazione del trattato sulla Prospettiva pratica; simili interessi furono coltivati da Giulio Parigi (1571-1635), che fu scenografo della corte dei Medici. Spataro è dell’idea che tramite i viaggi di Cigoli e Parigi a Roma (come pure delle visite in senso inverso, come quella di Agostino Tassi a Firenze) giunse a Roma la pratica della scenografia teatrale a boscareccia resa in termini matematico-prospettici. L’autrice passa quindi a prendere in considerazione lo sviluppo del genere nell’Urbe nei primi decenni del Seicento e mostra come molti artisti, di maggiore o minor fama, fossero coinvolti nella realizzazione di spettacoli teatrali in città (ad esempio per conto del Cavalier d’Arpino, che allestì nel proprio palazzo un teatro (p. 115)). Su Giulio Parigi, tuttavia, Spataro va oltre e prende in considerazione un taccuino fino a oggi quasi ignoto e di attribuzione incerta, conservato presso il Getty Research Institute [1] che riconduce in maniera convincente all’artista fiorentino. Il taccuino documenta un viaggio nelle campagne fiorentine e laziali fino a Roma eseguito nel 1616, probabilmente in occasione della nomina a cardinale di Carlo de’ Medici, o, per meglio dire, del concistoro con cui quest’ultimo ricevette il cappello cardinalizio e del sontuoso ricevimento con ‘apparati’ tenutosi a Villa Medici per l’occasione. Spataro trova quindi riscontri archivistici che confermano la sua lettura stilistica. Nel leggere i disegni ritiene anche che almeno alcuni di essi siano stati realizzati con l’uso di strumenti prospettici mutuati dall’architettura militare (di cui Parigi aveva esperienza).

 

Dal teatro alla pittura

Ora si tratta di esaminare il meccanismo con cui dal teatro la rappresentazione del paesaggio secondo ‘regole di prospettiva’ scenica giunge alla pittura. Secondo Spataro (e io sono perfettamente d’accordo) è del tutto plausibile che gli spettatori (e in particolare quanti fra loro erano anche mecenati d’arte) chiedessero ai pittori (probabilmente a quegli stessi pittori che avevano dipinto le quinte) di ‘tradurre’ lo spazio scenico su quadro. Per questo le pagine di Mancini dedicate alla pittura di paesaggio sono particolarmente importanti: «Mancini ha saputo restituire il momento in cui la diffusione di tale immagine del paesaggio guidò il processo di formazione della composizione dei paesi, un processo reso sicuramente possibile dalle conoscenze acquisite dagli artisti che collaboravano alla messinscena degli stessi spettacoli» (p. 85). Intendiamoci: di storia della pittura di paesaggio si è scritto tantissimo; eppure la fortuna delle scene prospettiche non è stata indagata in maniera del tutto convincente. È ben nota, ad esempio, l’influenza e la fortuna della pittura fiamminga in proposito. Eppure – scrive Spataro - «tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo, la resa del paesaggio boschivo presso i maggiori esponenti transalpini trovava ancora espressione in una composizione dalle forme chiuse, affollata di vegetazione, in cui le chiome non lasciano intravedere la linea dell’orizzonte e solo le differenti tonalità del fogliame creano ritmo e profondità illuminando le zone d’ombra tra gli alberi» (p. 93). Se, quindi, influenze formali sono innegabili (ad esempio nella resa delle chiome degli alberi da parte di Giulio Parigi) l’impianto prospettico non appare di derivazione fiamminga. D’altra parte anche la presunta ‘razionalizzazione’ del paesaggio per influsso della pittura bolognese, dai Carracci in poi, non convince. Certamente la scuola bolognese «ha inciso nei termini della definizione delle proporzioni tra paesaggio e figure, del ritmo compositivo e della maggiore aderenza al reale» (p. 115), ma i paesaggi del periodo bolognese di Annibale funzionano per sovrapposizione di piani, senza adeguata resa prospettica (p. 97).

 

Da Bril a Poussin

È partendo proprio dall’influenza scenografica che Spataro trova più facile e logico leggere l’arte dei grandi paesaggisti della prima metà del Seicento. «I dipinti di Paul Bril, già a partire dal primo decennio del Seicento, sono testimoni della nuova tipologia nella rappresentazione del paesaggio boschivo. La composizione è organizzata intorno ad uno spazio centrale libero, che lascia scorrere lo sguardo verso il fondo attraverso l’introduzione di due masse vegetali ai lati, le cui dimensioni digradano a mano a mano che i piani del terreno avanzano in profondità» (p. 95). Analogo (decenni dopo) il caso di Claude Lorrain, ad esempio nel Paesaggio con figure danzanti della Galleria Doria Pamphilj; particolarmente importante è quello di Poussin e delle cosiddette ‘tele Roscioli’, ovvero il San Matteo e l’angelo e il San Giovanni a Patmos, la cui esecuzione è collocata fra 1637 e 1639. 

Nicolas Poussin, San Matteo e l'Angelo, Berlino, Gemäldegalerie
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons


Sino a oggi, l’impiego della prospettiva centrale per il paesaggio da parte di Poussin, in un momento in cui si credeva che fosse caduta in disuso a Roma, è stato spiegato con la lettura degli scritti di prospettiva di Desargues (1591-1661), cominciati a partire dal 1636. Eppure Poussin non era ancora tornato in Francia e L’example de l’une de manieres unverselles touchant la pratique de la Perspective di Desargues (il suo primo scritto in materia) conteneva una sola tavola, poco utile a qualsiasi pittore. Possibili contatti fra Poussin e Desargues sono testimoniati dal 1640. Spataro ritiene piuttosto che le tele Roscioli siano il risultato di quanto avvenne sui palchi dei teatri prima, e poi in ambito di pittura di paesaggio fra fine Cinque e inizio Seicento. Ritiene peraltro più probabile che, se di influenza prospettica si debba parlare, essa faccia riferimento agli insegnamenti di Matteo Zaccolini, avanzando quindi un’ipotesi suggestiva, che merita di essere ulteriormente indagata.

 

Infine…

Una recensione con soli elogi non è credibile: ammetto che avrei gradito molto la presenza, in fondo al libro, dell’indice dei nomi.

 

NOTE


[1] Segnatura Special Collections Department, m. 880394.

 

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