Eliana Carrara
Vasari e l’architettura
Una riflessione storiografica tra teoria e pratica del cantiere
Con un saggio di Daniele Giorgi
Firenze, Edifir, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
‘Pittore e architetto’
‘Pittore e architetto’: sembrerebbe
che sia solo dall’aprile 1563 che don Vincenzio Borghini, ‘spedalingo’
(dirigente) del fiorentino Ospedale degli Innocenti, letterato, filologo, ma
soprattutto amico strettissimo di Giorgio Vasari, iniziò a chiamare l’aretino
‘pittore e architetto’, sostituendo l’espressione al semplice ‘pittore’ (p. 157
n. 99). La circostanza è curiosa. Stando all’autobiografia di Vasari, i primi
studi di architettura risalivano agli anni Trenta, e avevano avuto a che fare
soprattutto con il ramo della disciplina relativa alle fortificazioni; poi
erano subentrati incarichi collegati all’ingresso di Carlo V in città, nel
1536.
Mettere a fuoco il rapporto fra
Vasari e l’architettura non è facile, ed è strano perché stiamo parlando
dell’uomo che – una per tutte – progettò gli Uffizi. Eliana Carrara propone una
sua riflessione in proposito (ma il termine ‘riflessione’ è oggettivamente
minimalista), a una trentina d’anni di distanza da due monografie fondamentali
dedicate all’argomento, una di Leon Satkowski e l’altra di Claudia Conforti (a
cui è dedicato il volume). L’opera si apre con un inquadramento storiografico della
figura di Vasari architetto, un excursus che riguarda, a ben vedere,
soprattutto il Novecento, a partire dal nono volume della Die Architektur
der Renaissance in Toscana (1904) e da Vasari on Technique, opera
dedicata alle Teoriche delle Vite
a cura di Gerald Baldwin Brown (1907), per arrivare, appunto, alle due
monografie appena citate. Si tratta di una sezione che ha il suo contrappunto nell’antologia
critica (che, di fatto, è un’appendice e che si consiglia di leggere in
simultanea con l’introduzione) posta alla fine del libro, in cui sono trascelti
i brani più significativi delle opere man mano citate.
La storia della messa a punto
della figura di Vasari architetto nel Novecento è tutt’altro che trionfale;
accanto a pubblicazioni di carattere meramente locale, che sono forse quelle
più benevole, si stagliano, ad esempio, i giudizi negativi dei Venturi padre e
figlio. Adolfo gli imputava da un lato l’eccesso di ‘magnificenza’ in
architettura e dall’altro il mancato rispetto delle opere dei primitivi negli
interventi di ristrutturazione degli ambienti di Santa Croce e Santa Maria
Novella: «gli
non ritenne che l’antica [n.d.r. arte] potesse valere quanto la sua, uscita
dalla sublimità michelangiolesca, e sparse il sale sul terreno ov’erano fiori
di gentilezza umana, vessilli di civiltà nuova» (p. 23). Lionello, da par
suo, rincarò la dose: «[n.d.r. Vasari] riconduce tutte le imperfezioni dei secoli
XIV e XV alla perfezione di Michelangelo, e quindi egli intende compiere opera
reale di storico soltanto quando parla di Michelangelo» (p. 24). Carrara, in sede di
bilancio storico ha del resto buon gioco a sostenere che «solo
alla data del 1993 (…) la figura di Vasari architetto otteneva una piena
legittimazione e il riconoscimento completo della sua attività di progettista e
costruttore di edifici.» (p. 34). Poche righe prima ricorda che la monografia di
Claudia Conforti «si apre con un’ampia trattazione riservata «al
capolavoro letterario» dello storiografo aretino, le Vite, da cui emerge
l’attenzione per i materiali costruttivi impiegati, analizzati a fondo
nell’Introduzione, le cosiddette Teoriche. La studiosa passa poi a
considerare sia la fama di Vasari architetto presso i suoi contemporanei sia le
ragioni stilistiche del suo linguaggio costruttivo, rimarcandone le osservanze
ma pure i distacchi dalla tradizione classica e rinascimentale» (ibidem).
Le vite degli Architetti , pittori
e scultori (1550) e quelle dei ‘Pittori, scultori e architettori’ (1568).
Ma facciamo un passo indietro per
osservar un fenomeno curioso. Nel febbraio 1550, scrivendo al già citato
Vincenzio Borghini, che sorvegliava la stampa dell’edizione del Torrentino,
Vasari raccomandava la massima attenzione: nel frontespizio del secondo tomo il
suo nome non era affiancato dall’indicazione della sua professione, quella di
pittore; evidentemente il frontespizio del primo tomo era ancora da comporre e
lì Giorgio si raccomandava di definirlo ‘pittore aretino’ (cosa che fu fatta).
Ma l’aspetto interessante è un altro: entrambi i frontespizi annunciano le
biografie dei più eccellenti ‘architetti’ (nel frontespizio del primo tomo,
mentre in quello del secondo sono ‘architettori’), pittori e scultori; un
ordine completamente diverso da quello tenuto nell’edizione Giuntina del 1568,
dove, invece, la sequenza è quella dei pittori, scultori e architettori. Un
caso? Assolutamente no.
Come
ben noto, la Torrentiniana è frutto di un confronto continuo di Vasari con
personalità come Benedetto Varchi e Cosimo
Bartoli. Siamo in anni immediatamente successivi alla lezione sulla
maggioranza delle arti pronunciata dal Varchi il 13 marzo 1547 presso
l’Accademia fiorentina. Qui, a ben vedere, la disputa era fra pittura e
scultura, mentre all’architettura era riconosciuto un ruolo superiore: «e
chi mi dimandasse perché io la prepongo alla scultura et alla pittura, gli
risponderei – non ci essendo altra regola, non che più vera -: Perché il fine è
più nobile; oltra che è infinitamente, non solo più necessaria, ma più utile
l’architettura, et ha bisogno di maggiore cognizione di molte più cose che non
hanno l’altre» (p. 43). Nel 1550 usciva poi la traduzione in volgare del
De
re aedificatoria di Leon Battista Alberti
a cura del Bartoli, in cui il curatore non mancava di rimarcare la particolare
attenzione rivolta dal duca Cosimo I proprio all’architettura. Non c’è quindi
da stupirsi se nel Proemio alle Vite Vasari torni sull’argomento
della disputa «nata e nutrita tra molti senza proposito, del principato e
nobilità non della architettura [n.d.r. che ha un ruolo superiore], ché questa
hanno lasciata da parte, ma della scultura e della pittura»
(pp. 47-48).
Diciott’anni dopo le cose sono
cambiate, come ha avuto modo di spiegare Matteo Burioni in anni recenti [1].
Senza dilungarmi, sono decisivi gli eventi successivi alla nascita
dell’Accademia delle Arti del Disegno: nel gennaio 1563 vengono ancora primi gli
architetti, a luglio passano in prima posizione gli scultori (aspetto da
mettere in relazione all’operato dello scultore Montorsoli nell’ambito
dell’Accademia), per poi giungere al luglio del 1564, con le esequie di
Michelangelo, celebrate dall’Accademia dei pittori, scultori e architettori. Da
un punto di vista teorico la ragione dello stravolgimento sta (come scrive
Borghini nella sua Selva di notizie) nel maggior valore che è dato al
superfluo rispetto al necessario. L’architettura è sì utile, ma la sua utilità
la rende arte meccanica. È solo «quando, oltre a l’utile, ella si veste dal dì
delle feste et vuol pensare al diletto et a l’ornamento, come sono le fabriche
antiche di Roma, fatte con soverchia spesa e pompa […], alhora io non dubito
ch’ella non muti natura et entri a compagnia colla pittura et scultura» (pp.
53-54). Fra 1550 e 1568, insomma, assistiamo al ribaltamento del ‘ranking’
dell’architetto, così come delineato dall’Alberti nel suo De re
aedificatoria. È proprio perché l’architetto si limita al momento
progettuale, del puro disegno, divenendo ‘muratore’ già nell’approntamento del
modello, che passa al terzo posto nel paragone delle arti.
Dalla Torrentiniana alla Giuntina
È noto che l’edizione Giuntina
del 1568 risulta fortemente ampliata rispetto alla Torrentiniana. Il discorso
vale, naturalmente, anche per l’architettura. Ma il discorso va tenuto su un
piano separato: da un lato vi è l’inserimento o l’allargamento delle
informazioni relative ad architetti a cui non erano stati dedicati in
precedenza medaglioni biografici, da Arnolfo di Cambio a Michele Sanmicheli, da
Galeazzo Alessi a Palladio; dall’altro emerge, chiara, una nuova consapevolezza
nella lettura degli edifici, anche di quelli dei tempi antichi raggiunta grazie
alla maturazione di Vasari come architetto. Già nelle Teoriche si
assiste, ad esempio, a un’ampia digressione in cui l’aretino riflette «sui
problemi affrontati nel corso dei lavori condotti al giardino di Castello,
ereditando l’incarico che era stato appannaggio del Tribolo»
(p. 158). Ma è molto significativo che, nel Proemio delle Vite
giuntine siano tessuti gli elogi dell’architetto della cattedrale di Pisa; a
essere lodato non è l’aspetto estetico. Piuttosto, «Vasari dimostra con chiarezza
di essersi posto di fronte all’opera con occhi nuovi e con una mutata
consapevolezza che gli veniva dalla sua diversa veste di architetto attivo sul
campo e in grado, perciò, di riconoscere le difficoltà e le soluzioni apportate
su un cantiere imponente quale quello di un grande complesso romanico»
(pp. 76-77). Naturalmente, ciò che risalta, nei secoli antichi, è la condanna
estetica, che però non gli preclude l’apprezzamento di architetti come il
Bonanno della torre di Pisa, apprezzato per essere stato in grado di trovare
soluzioni adatte a far fronte all’inclinazione della medesima. Analoghe sono le
lodi nei confronti di Arnolfo di Cambio, costretto a edificare il Palazzo de’
Signori (l’attuale Palazzo Vecchio) in una situazione non ideale per una serie
di circostanze che non starò a richiamare. Si tratta di un caso su cui Vasari
doveva avere studiato molto, visto che nel 1561 Cosimo I lo incaricò di
ristrutturarlo: «le difficoltà incontrate da Vasari nella ristrutturazione
dell’edificio gli permisero di meglio conoscere le tecniche costruttive
impiegate in età medievale e, al contempo, di mettere alla prova la propria
abilità di architetto, impegnato a ricavare nuovi spazi adatti alla vita
quotidiana del Duca di Firenze e della sua famiglia da ambienti spesso angusti
e inospitali.» (p. 81)
Firenze, Gli Uffizi (su progetto di Giorgio Vasari) Fonte: https://web.archive.org/web/20161101071109/http://www.panoramio.com/photo/113389208 |
Arnolfo, Brunelleschi,
Michelangelo
Arnolfo, Brunelleschi e
Michelangelo sono le stelle polari dell’architettura nelle tre età delle Vite
vasariane. Naturalmente il tutto va valutato (esattamente come con Giotto) in
relazione ai tempi. Vasari, cioè, ragiona in una prospettiva storica e
evidenzia le eccellenze in rapporto alle cognizioni e agli stili delle singole
epoche.
Il caso di Brunelleschi,
tuttavia, merita una particolare attenzione, specie se messo a confronto con
Leon Battista Alberti. L’ammirazione di Vasari per Filippo è evidente. Sin
dalla Torrentiniana Brunelleschi è descritto «di ingegno tanto elevato che
ben si può dire che e’ ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla
architettura, già per centinaia d’anni smarrita» (pp. 93-94). Lo legittimano
come tale, innanzi tutto, la realizzazione della cupola del Duomo, ma anche (ad
esempio) la cosiddetta Rotonda, dove trovò la sua prima sede l’Accademia nel
1563, e gli allestimenti teatrali per le feste pubbliche cittadine. L’abilità
costruttiva si coniuga con la capacità assoluta di organizzare le attività di
cantiere volte alla realizzazione delle opere. A questa figura (a cui Vasari sostanzialmente
affianca Bramante) si oppone, invece, l’Alberti, «assai inclinaro, molto più
allo scrivere che all’operare» (p. 105). Abbiamo visto sin dal
titolo della Torrentiniana che nel 1550 Vasari senta ancora il retaggio della
supremazia dell’architettura su pittura e scultura in quanto attività
necessaria in una società civile; nel 1568, evidentemente anche sulla scorta
dell’esperienza personale, l’aretino diventa «propositore di un’architettura
che deve essere impegno fattivo in prima persona e non mera riflessione
teorica, destinata a scontrarsi con le difficoltà poste dalla realtà quotidiana»
(p. 107). Per dirla con Claudia Conforti, «dagli architetti della sua
generazione, nati attornio al 1510, come Palladio, Vignola, Ligorio, Bertano,
Philibert de l’Orme, l’aretino si distingue per la distratta trattazione
riservata agli aspetti teorici e applicativi degli ordini architettonici. […]
Giorgio si volge alla messa a punto di una prassi che si attiene alle
circostanze reali e si fonda sull’indissolubilità di tecnica e arte. Le pietre
– lo abbiamo visto – e non gli ordini sostanziano per Vasari l’architettura».
Non posso tacere che, a mio
parere, da tutto ciò derivi un paradosso. Nel momento in cui Vasari esalta la
figura di Brunelleschi, e poi Michelangelo (e ancora, egli stesso come discepolo
di Michelangelo) come architetto ‘pratico’ relega tutta l’architettura a un
ruolo ancillare rispetto a pittura e scultura; l’abbandono della «regola» (e
quindi del ‘canone’ degli ordini architettonici), che vede il suo apice
in Michelangelo, secondo il quale bisogna avere ‘le seste negli occhi’ più che
sulla carta, crea una gerarchia in cui, in fondo, anche Vasari si rispecchia.
Pur essendo architetto, pur avendo progettato gli Uffizi, pur essendo stato
parte diligente dei rifacimenti architettonici ordinati da Cosimo I (uno dei
quali è costituito dalla fabbrica del Palazzo dei Capitani di Parte Guelfa, a
cui è dedicato un saggio di Daniele Giorgi), Vasari si sente prima pittore e
poi architetto, perché, nella scala dei valori dell’aretino, la pittura viene
prima dell’architettura. Ciò che molta parte della critica gli ha imputato,
ossia l’essere stato incapace di autovalutarsi (posto che le realizzazioni
architettoniche per molti sarebbero assai più importanti dei cicli pittorici) è
in realtà il portato di un approccio teorico che è maturato proprio in quegli
anni, come si è detto in precedenza.
Tratto del Corridoio vasariano dagli Uffizi al Ponte Vecchio, Firenze Fonte: jordiferrer tramite wikimedia commons |
Santa Croce e Santa Maria
Novella
Non si può tacere, infine, uno
degli argomenti più controversi, ossia gli interventi di Vasari, su indicazione
del Duca, negli interni delle chiese di Santa Maria Novella e Santa Croce, che
comportarono la distruzione di buona parte dei cicli pittorici dei primitivi
fiorentini del Trecento lì conservati. Da un punto di vista tecnico, Carrara
individua come precedenti di tali interventi quelli eseguiti da Giorgio nella
Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo nei primi anni Sessanta. Vasari vi prese
parte per interesse personale; lì, infatti, si trovavano le sepolture dei suoi
genitori e lì intendeva ampliare una cappella laterale a maggior onore dei suoi
antenati. In realtà, quello che inizialmente doveva essere un intervento non
troppo invasivo, lo divenne con la variazione del progetto e l’acquisizione
della cappella maggiore per le sepolture di famiglia, ma soprattutto
l’eliminazione del tramezzo che impediva la visione della funzione al pubblico.
Operazione molto simile a quella effettutata a S.Croce e S. Maria Novella, con «l’erezione
lungo le pareti delle navate di nuovi altari, uguali e simmetrici, che andarono
a coprire e a cancellare testimonianze importanti della storia artistica e
della tradizione devozionale cittadine, e sui quali vennero poste nuove pale
appositamente dipinte da Vasari e dalla sua bottega» (p. 157). Dobbiamo
rimpiangere quelle perdite? Assolutamente sì. Vasari fu un vandalo?
Assolutamente no, a meno che non si consideri vandalismo, in maniera totalmente
antistorica, la tendenza ad adeguarsi ai dettami controriformati in tutte le
chiese d’Italia (la summa teorica di questa tendenza è naturalmente contenuta nel
trattato di san Carlo Borromeo del 1577). Semmai – aggiunge Carrara - «agli
occhi del Duca Cosimo, intenzionato a seguire le indicazioni sui luoghi di
culto emerse dal Concilio di Trento, il pittore e architetto aretino poteva
vantare una solida frequentazione di quell’ordine benedettino che in alcune
delle sue chiese (…) non presentava l’elemento divisorio caratteristico di
altre congregazioni religiose» (p. 157). Era esperto, insomma, di
soluzioni architettoniche compatibili col nuovo dettato tridentino e come tale fu
coinvolto nell’operazione.
NOTE
[1] Matteo Burioni, Die
Renaissance der Architekten. Profession und Souveränität
des Baukünstlers in Giorgio Vasaris Viten, Berlin, Gebr. Mann
Verlag, 2008. Non ho avuto modo di leggere il volume, non conoscendo il
tedesco.
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