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domenica 18 giugno 2023

Eliana Carrara. Vasari e l'architettura

 

Eliana Carrara
Vasari e l’architettura
Una riflessione storiografica tra teoria e pratica del cantiere


Con un saggio di Daniele Giorgi

Firenze, Edifir, 2022

Recensione di Giovanni Mazzaferro




‘Pittore e architetto’

‘Pittore e architetto’: sembrerebbe che sia solo dall’aprile 1563 che don Vincenzio Borghini, ‘spedalingo’ (dirigente) del fiorentino Ospedale degli Innocenti, letterato, filologo, ma soprattutto amico strettissimo di Giorgio Vasari, iniziò a chiamare l’aretino ‘pittore e architetto’, sostituendo l’espressione al semplice ‘pittore’ (p. 157 n. 99). La circostanza è curiosa. Stando all’autobiografia di Vasari, i primi studi di architettura risalivano agli anni Trenta, e avevano avuto a che fare soprattutto con il ramo della disciplina relativa alle fortificazioni; poi erano subentrati incarichi collegati all’ingresso di Carlo V in città, nel 1536.

Mettere a fuoco il rapporto fra Vasari e l’architettura non è facile, ed è strano perché stiamo parlando dell’uomo che – una per tutte – progettò gli Uffizi. Eliana Carrara propone una sua riflessione in proposito (ma il termine ‘riflessione’ è oggettivamente minimalista), a una trentina d’anni di distanza da due monografie fondamentali dedicate all’argomento, una di Leon Satkowski e l’altra di Claudia Conforti (a cui è dedicato il volume). L’opera si apre con un inquadramento storiografico della figura di Vasari architetto, un excursus che riguarda, a ben vedere, soprattutto il Novecento, a partire dal nono volume della Die Architektur der Renaissance in Toscana (1904) e da Vasari on Technique, opera dedicata alle Teoriche delle Vite a cura di Gerald Baldwin Brown (1907), per arrivare, appunto, alle due monografie appena citate. Si tratta di una sezione che ha il suo contrappunto nell’antologia critica (che, di fatto, è un’appendice e che si consiglia di leggere in simultanea con l’introduzione) posta alla fine del libro, in cui sono trascelti i brani più significativi delle opere man mano citate.

La storia della messa a punto della figura di Vasari architetto nel Novecento è tutt’altro che trionfale; accanto a pubblicazioni di carattere meramente locale, che sono forse quelle più benevole, si stagliano, ad esempio, i giudizi negativi dei Venturi padre e figlio. Adolfo gli imputava da un lato l’eccesso di ‘magnificenza’ in architettura e dall’altro il mancato rispetto delle opere dei primitivi negli interventi di ristrutturazione degli ambienti di Santa Croce e Santa Maria Novella: «gli non ritenne che l’antica [n.d.r. arte] potesse valere quanto la sua, uscita dalla sublimità michelangiolesca, e sparse il sale sul terreno ov’erano fiori di gentilezza umana, vessilli di civiltà nuova» (p. 23). Lionello, da par suo, rincarò la dose: «[n.d.r. Vasari] riconduce tutte le imperfezioni dei secoli XIV e XV alla perfezione di Michelangelo, e quindi egli intende compiere opera reale di storico soltanto quando parla di Michelangelo» (p. 24). Carrara, in sede di bilancio storico ha del resto buon gioco a sostenere che «solo alla data del 1993 (…) la figura di Vasari architetto otteneva una piena legittimazione e il riconoscimento completo della sua attività di progettista e costruttore di edifici.» (p. 34). Poche righe prima ricorda che la monografia di Claudia Conforti «si apre con un’ampia trattazione riservata «al capolavoro letterario» dello storiografo aretino, le Vite, da cui emerge l’attenzione per i materiali costruttivi impiegati, analizzati a fondo nell’Introduzione, le cosiddette Teoriche. La studiosa passa poi a considerare sia la fama di Vasari architetto presso i suoi contemporanei sia le ragioni stilistiche del suo linguaggio costruttivo, rimarcandone le osservanze ma pure i distacchi dalla tradizione classica e rinascimentale» (ibidem).

 

Le vite degli Architetti , pittori e scultori (1550) e quelle dei ‘Pittori, scultori e architettori’ (1568).

Ma facciamo un passo indietro per osservar un fenomeno curioso. Nel febbraio 1550, scrivendo al già citato Vincenzio Borghini, che sorvegliava la stampa dell’edizione del Torrentino, Vasari raccomandava la massima attenzione: nel frontespizio del secondo tomo il suo nome non era affiancato dall’indicazione della sua professione, quella di pittore; evidentemente il frontespizio del primo tomo era ancora da comporre e lì Giorgio si raccomandava di definirlo ‘pittore aretino’ (cosa che fu fatta). Ma l’aspetto interessante è un altro: entrambi i frontespizi annunciano le biografie dei più eccellenti ‘architetti’ (nel frontespizio del primo tomo, mentre in quello del secondo sono ‘architettori’), pittori e scultori; un ordine completamente diverso da quello tenuto nell’edizione Giuntina del 1568, dove, invece, la sequenza è quella dei pittori, scultori e architettori. Un caso? Assolutamente no.

Come ben noto, la Torrentiniana è frutto di un confronto continuo di Vasari con personalità come Benedetto Varchi e Cosimo Bartoli. Siamo in anni immediatamente successivi alla lezione sulla maggioranza delle arti pronunciata dal Varchi il 13 marzo 1547 presso l’Accademia fiorentina. Qui, a ben vedere, la disputa era fra pittura e scultura, mentre all’architettura era riconosciuto un ruolo superiore: «e chi mi dimandasse perché io la prepongo alla scultura et alla pittura, gli risponderei – non ci essendo altra regola, non che più vera -: Perché il fine è più nobile; oltra che è infinitamente, non solo più necessaria, ma più utile l’architettura, et ha bisogno di maggiore cognizione di molte più cose che non hanno l’altre» (p. 43). Nel 1550 usciva poi la traduzione in volgare del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti a cura del Bartoli, in cui il curatore non mancava di rimarcare la particolare attenzione rivolta dal duca Cosimo I proprio all’architettura. Non c’è quindi da stupirsi se nel Proemio alle Vite Vasari torni sull’argomento della disputa «nata e nutrita tra molti senza proposito, del principato e nobilità non della architettura [n.d.r. che ha un ruolo superiore], ché questa hanno lasciata da parte, ma della scultura e della pittura» (pp. 47-48).

Diciott’anni dopo le cose sono cambiate, come ha avuto modo di spiegare Matteo Burioni in anni recenti [1]. Senza dilungarmi, sono decisivi gli eventi successivi alla nascita dell’Accademia delle Arti del Disegno: nel gennaio 1563 vengono ancora primi gli architetti, a luglio passano in prima posizione gli scultori (aspetto da mettere in relazione all’operato dello scultore Montorsoli nell’ambito dell’Accademia), per poi giungere al luglio del 1564, con le esequie di Michelangelo, celebrate dall’Accademia dei pittori, scultori e architettori. Da un punto di vista teorico la ragione dello stravolgimento sta (come scrive Borghini nella sua Selva di notizie) nel maggior valore che è dato al superfluo rispetto al necessario. L’architettura è sì utile, ma la sua utilità la rende arte meccanica. È solo «quando, oltre a l’utile, ella si veste dal dì delle feste et vuol pensare al diletto et a l’ornamento, come sono le fabriche antiche di Roma, fatte con soverchia spesa e pompa […], alhora io non dubito ch’ella non muti natura et entri a compagnia colla pittura et scultura» (pp. 53-54). Fra 1550 e 1568, insomma, assistiamo al ribaltamento del ‘ranking’ dell’architetto, così come delineato dall’Alberti nel suo De re aedificatoria. È proprio perché l’architetto si limita al momento progettuale, del puro disegno, divenendo ‘muratore’ già nell’approntamento del modello, che passa al terzo posto nel paragone delle arti.


Dalla Torrentiniana alla Giuntina

È noto che l’edizione Giuntina del 1568 risulta fortemente ampliata rispetto alla Torrentiniana. Il discorso vale, naturalmente, anche per l’architettura. Ma il discorso va tenuto su un piano separato: da un lato vi è l’inserimento o l’allargamento delle informazioni relative ad architetti a cui non erano stati dedicati in precedenza medaglioni biografici, da Arnolfo di Cambio a Michele Sanmicheli, da Galeazzo Alessi a Palladio; dall’altro emerge, chiara, una nuova consapevolezza nella lettura degli edifici, anche di quelli dei tempi antichi raggiunta grazie alla maturazione di Vasari come architetto. Già nelle Teoriche si assiste, ad esempio, a un’ampia digressione in cui l’aretino riflette «sui problemi affrontati nel corso dei lavori condotti al giardino di Castello, ereditando l’incarico che era stato appannaggio del Tribolo» (p. 158). Ma è molto significativo che, nel Proemio delle Vite giuntine siano tessuti gli elogi dell’architetto della cattedrale di Pisa; a essere lodato non è l’aspetto estetico. Piuttosto, «Vasari dimostra con chiarezza di essersi posto di fronte all’opera con occhi nuovi e con una mutata consapevolezza che gli veniva dalla sua diversa veste di architetto attivo sul campo e in grado, perciò, di riconoscere le difficoltà e le soluzioni apportate su un cantiere imponente quale quello di un grande complesso romanico» (pp. 76-77). Naturalmente, ciò che risalta, nei secoli antichi, è la condanna estetica, che però non gli preclude l’apprezzamento di architetti come il Bonanno della torre di Pisa, apprezzato per essere stato in grado di trovare soluzioni adatte a far fronte all’inclinazione della medesima. Analoghe sono le lodi nei confronti di Arnolfo di Cambio, costretto a edificare il Palazzo de’ Signori (l’attuale Palazzo Vecchio) in una situazione non ideale per una serie di circostanze che non starò a richiamare. Si tratta di un caso su cui Vasari doveva avere studiato molto, visto che nel 1561 Cosimo I lo incaricò di ristrutturarlo: «le difficoltà incontrate da Vasari nella ristrutturazione dell’edificio gli permisero di meglio conoscere le tecniche costruttive impiegate in età medievale e, al contempo, di mettere alla prova la propria abilità di architetto, impegnato a ricavare nuovi spazi adatti alla vita quotidiana del Duca di Firenze e della sua famiglia da ambienti spesso angusti e inospitali.» (p. 81)

Firenze, Gli Uffizi (su progetto di Giorgio Vasari)
Fonte: https://web.archive.org/web/20161101071109/http://www.panoramio.com/photo/113389208


Arnolfo, Brunelleschi, Michelangelo

Arnolfo, Brunelleschi e Michelangelo sono le stelle polari dell’architettura nelle tre età delle Vite vasariane. Naturalmente il tutto va valutato (esattamente come con Giotto) in relazione ai tempi. Vasari, cioè, ragiona in una prospettiva storica e evidenzia le eccellenze in rapporto alle cognizioni e agli stili delle singole epoche.

Il caso di Brunelleschi, tuttavia, merita una particolare attenzione, specie se messo a confronto con Leon Battista Alberti. L’ammirazione di Vasari per Filippo è evidente. Sin dalla Torrentiniana Brunelleschi è descritto «di ingegno tanto elevato che ben si può dire che e’ ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura, già per centinaia d’anni smarrita» (pp. 93-94). Lo legittimano come tale, innanzi tutto, la realizzazione della cupola del Duomo, ma anche (ad esempio) la cosiddetta Rotonda, dove trovò la sua prima sede l’Accademia nel 1563, e gli allestimenti teatrali per le feste pubbliche cittadine. L’abilità costruttiva si coniuga con la capacità assoluta di organizzare le attività di cantiere volte alla realizzazione delle opere. A questa figura (a cui Vasari sostanzialmente affianca Bramante) si oppone, invece, l’Alberti, «assai inclinaro, molto più allo scrivere che all’operare» (p. 105). Abbiamo visto sin dal titolo della Torrentiniana che nel 1550 Vasari senta ancora il retaggio della supremazia dell’architettura su pittura e scultura in quanto attività necessaria in una società civile; nel 1568, evidentemente anche sulla scorta dell’esperienza personale, l’aretino diventa «propositore di un’architettura che deve essere impegno fattivo in prima persona e non mera riflessione teorica, destinata a scontrarsi con le difficoltà poste dalla realtà quotidiana» (p. 107). Per dirla con Claudia Conforti, «dagli architetti della sua generazione, nati attornio al 1510, come Palladio, Vignola, Ligorio, Bertano, Philibert de l’Orme, l’aretino si distingue per la distratta trattazione riservata agli aspetti teorici e applicativi degli ordini architettonici. […] Giorgio si volge alla messa a punto di una prassi che si attiene alle circostanze reali e si fonda sull’indissolubilità di tecnica e arte. Le pietre – lo abbiamo visto – e non gli ordini sostanziano per Vasari l’architettura».

Non posso tacere che, a mio parere, da tutto ciò derivi un paradosso. Nel momento in cui Vasari esalta la figura di Brunelleschi, e poi Michelangelo (e ancora, egli stesso come discepolo di Michelangelo) come architetto ‘pratico’ relega tutta l’architettura a un ruolo ancillare rispetto a pittura e scultura; l’abbandono della «regola» (e quindi del ‘canone’ degli ordini architettonici), che vede il suo apice in Michelangelo, secondo il quale bisogna avere ‘le seste negli occhi’ più che sulla carta, crea una gerarchia in cui, in fondo, anche Vasari si rispecchia. Pur essendo architetto, pur avendo progettato gli Uffizi, pur essendo stato parte diligente dei rifacimenti architettonici ordinati da Cosimo I (uno dei quali è costituito dalla fabbrica del Palazzo dei Capitani di Parte Guelfa, a cui è dedicato un saggio di Daniele Giorgi), Vasari si sente prima pittore e poi architetto, perché, nella scala dei valori dell’aretino, la pittura viene prima dell’architettura. Ciò che molta parte della critica gli ha imputato, ossia l’essere stato incapace di autovalutarsi (posto che le realizzazioni architettoniche per molti sarebbero assai più importanti dei cicli pittorici) è in realtà il portato di un approccio teorico che è maturato proprio in quegli anni, come si è detto in precedenza.

Tratto del Corridoio vasariano dagli Uffizi al Ponte Vecchio, Firenze
Fonte: jordiferrer tramite wikimedia commons


Santa Croce e Santa Maria Novella

Non si può tacere, infine, uno degli argomenti più controversi, ossia gli interventi di Vasari, su indicazione del Duca, negli interni delle chiese di Santa Maria Novella e Santa Croce, che comportarono la distruzione di buona parte dei cicli pittorici dei primitivi fiorentini del Trecento lì conservati. Da un punto di vista tecnico, Carrara individua come precedenti di tali interventi quelli eseguiti da Giorgio nella Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo nei primi anni Sessanta. Vasari vi prese parte per interesse personale; lì, infatti, si trovavano le sepolture dei suoi genitori e lì intendeva ampliare una cappella laterale a maggior onore dei suoi antenati. In realtà, quello che inizialmente doveva essere un intervento non troppo invasivo, lo divenne con la variazione del progetto e l’acquisizione della cappella maggiore per le sepolture di famiglia, ma soprattutto l’eliminazione del tramezzo che impediva la visione della funzione al pubblico. Operazione molto simile a quella effettutata a S.Croce e S. Maria Novella, con «l’erezione lungo le pareti delle navate di nuovi altari, uguali e simmetrici, che andarono a coprire e a cancellare testimonianze importanti della storia artistica e della tradizione devozionale cittadine, e sui quali vennero poste nuove pale appositamente dipinte da Vasari e dalla sua bottega» (p. 157). Dobbiamo rimpiangere quelle perdite? Assolutamente sì. Vasari fu un vandalo? Assolutamente no, a meno che non si consideri vandalismo, in maniera totalmente antistorica, la tendenza ad adeguarsi ai dettami controriformati in tutte le chiese d’Italia (la summa teorica di questa tendenza è naturalmente contenuta nel trattato di san Carlo Borromeo del 1577). Semmai – aggiunge Carrara - «agli occhi del Duca Cosimo, intenzionato a seguire le indicazioni sui luoghi di culto emerse dal Concilio di Trento, il pittore e architetto aretino poteva vantare una solida frequentazione di quell’ordine benedettino che in alcune delle sue chiese (…) non presentava l’elemento divisorio caratteristico di altre congregazioni religiose» (p. 157). Era esperto, insomma, di soluzioni architettoniche compatibili col nuovo dettato tridentino e come tale fu coinvolto nell’operazione.

 

NOTE

[1] Matteo Burioni, Die Renaissance der Architekten. Profession und Souveränität des Baukünstlers in Giorgio Vasaris Viten, Berlin, Gebr. Mann Verlag, 2008. Non ho avuto modo di leggere il volume, non conoscendo il tedesco.

 

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