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lunedì 12 giugno 2023

Giuseppina Perusini. Il Manuale di Christian Koester e il restauro in Italia e in Germania dal 1780 al 1830



Giuseppina Perusini
Il Manuale di Christian Koester
e il restauro in Italia e in Germania
dal 1780 al 1830


Prefazione di Giorgio Bonsanti
Traduzione di Giuseppina Perusini e Patrizia Di Leonardo


Firenze, Edifir, 2° edizione, 2012

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 



Il primo trattato sul restauro

Il volume dedicato da Giuseppina Perusini (con l’aiuto di Patrizia Di Leonardo) al primo manuale di restauro in senso stretto della storia ha più di vent’anni. Fu pubblicato, infatti, per la prima volta, nel 2001 col titolo Christian Koester, Sul restauro degli antichi dipinti ad olio dalla udinese casa editrice Forum. Nel 2012 ha trovato ospitalità nella collana di ‘Storia e teoria del restauro’ di Edifir, con aggiustamenti e aggiornamenti (mi pare di capire) di importanza secondaria. Ho deciso di recuperarlo perché la versione Perusini dimostra ancora una sua freschezza e utilità che, nel mio caso specifico – non sono un restauratore – risiedono nella ricostruzione di un contesto operativo nel corso di anni in cui aumentò fortemente l’interesse per gli Antichi Maestri, legato a istanze di connoisseurship, museali, collezionistiche. In questo clima maturò anche l’esigenza di attingere alla ‘sapienza’ dei restauratori e di sistematizzare una professione che da ormai mezzo secolo (almeno dai tempi di Pietro Edwards) tendeva a divenire autonoma, ma sempre con grandi difficoltà. Lo stesso Koester (1784-1851), del resto, fu sì restauratore, ma anche pittore di paesaggio per tutta la vita. 

Christian Koester, Veduta della città di Heidelberg, 1818
https://de.wikipedia.org/wiki/Christian_Philipp_Koester#/media/Datei:
Heidelberger_Schloss_von_Christian_Philipp_Koester_ca_1818.jpg

Giuseppina Perusini ne indaga l’opera, in realtà composta da tre ‘quaderni’, dati alle stampe nel 1827, 1828 e nel 1830 e priva di una sua sistematicità, come lo stesso autore rivendica (Koester dice di aver trattato le questioni più importanti partendo da quelle che, in quel momento, stava affrontando concretamente nel lavoro). È un dato di fatto, ed espressione dell’interesse di un pubblico, che fra 1827 e 1830, il mondo di lingua tedesca veda la pubblicazione non di uno, ma di tre trattati sul restauro: a) Sul restauro degli antichi dipinti ad olio di Koester (all’interno del secondo quaderno sono accolte in realtà alcune pagine dedicate ai dipinti a tempera, a firma del collega e genero Jakob Schlesinger); b) Fondamenti e pratica dell’arte segreta di restaurare e conservare gli antichi dipinti (1828), di Christian Friedrich Prange (1756-1836), appendice alla traduzione tedesca del Manuel des jeunes artistes et amateurs en peinture di Pierre Bouvier (1826); c) Istruzioni per il restauro degli antichi dipinti ad olio e per pulire e sbiancare le incisioni e le xilografie del farmacista Friedrich Lucanus (1793-1836). Fu proprio quest’ultimo scritto, nel concreto, a divenire il più comune, grazie a quella sistematicità che mancava programmaticamente nel testo di Koester e a un linguaggio senz’altro più accessibile. Proprio la questione del linguaggio utilizzato dal pittore e restauratore tedesco ha creato non poche insidie a Perusini e Di Leonardo, che si sono occupate della traduzione, tanto da indurle a avvisare il lettore: «Inizialmente abbiamo cercato di rendere nella traduzione italiana anche lo stile di Koester ma, dopo aver constatato che la traduzione letterale appesantiva enormemente il testo, rendendone spesso difficile la comprensione, abbiamo optato per una versione più libera che privilegiasse la trasmissione dei contenuti piuttosto che la restituzione della forma scritta» (p. 186).

Perusini, tuttavia, non si è fermata qui. Con l’intento di favorire lo scambio di conoscenze fra l’odierno mondo degli storici italiani e tedeschi, oltre ad affrontare i contenuti del trattato di Koester, ha scritto anche alcuni capitoli dedicati alla situazione del restauro in Italia fra 1780 e 1830 (Venezia, Firenze e Roma). Queste pagine vanno viste, a mio giudizio, come ideale completamento della celebre Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte di Alessandro Conti (1946-1994); anche se i singoli casi di studio hanno conosciuto ulteriori approfondimenti di recente, è comunque piacevole avere accesso a pagine scritte in maniera chiara e piacevole, in cui il caso italiano è posto a confronto con le indicazioni di Koester. A questo proposito va, ancora, ricordato che l’autrice prende anche in considerazione (sempre a fini comparativi) il trattato De la restauration des Tableaux (1837), scritto, anche se in francese, dal piemontese Giovanni Bedotti (1789-?), probabilmente più coinvolto di Koester negli aspetti commerciali che spesso spingevano non solo a restaurare i dipinti, ma anche a scegliere di farlo in maniera tale da aumentare il loro valore di mercato. [1]

 

Restauratore di collezioni di primitivi

Christian Koester nacque da famiglia ricca e non ebbe mai problemi economici. La pittura (a cui ben presto si dovette affiancare il restauro) fu una passione giovanile, coltivata con ogni probabilità in maniera particolarmente intensa fra 1807 e 1809, anno in cui si trasferì a Roma, assieme ad altri artisti, il più noto dei quali era, senza dubbio, Berthel Thorvaldsen. Tornato in Germania, nel 1813 si trasferì a Heidelberg dove divenne restauratore di fiducia della collezione dei fratelli Boisserée [2], una delle raccolte private più famose dell’epoca, poi venduta nel 1827 a Ludovico I di Baviera ed esposta presso l’Alte Pinakothek di Monaco a partire dalla sua apertura (1830). 

Peter von Cornelius, Ritratto di Sulpiz Boisserée
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:SulpizBoisseree.jpg

A partire dal 1823 Koester fu invece a Berlino, chiamato da Jakob Schlesinger, come già detto suo cognato; era stato avviato il progetto di erigere una nuova pinacoteca e fu appositamente creato un laboratorio di restauro, di cui Schlesinger era il sovrintendente e Koester l’altra figura apicale. In tal veste, il nostro ebbe a che fare, ad esempio, coi quadri della collezione Solly, celeberrima raccolta di dipinti di primitivi italiani e fiamminghi, acquistata dal governo prussiano nel 1821. Negli anni in cui scriveva il suo manuale, dunque, Koester conduceva da anni un’importante esperienza di restauro con opere che erano destinate a divenire costitutive di due dei più importanti musei tedeschi di belle arti. Ne resta traccia nei suoi quaderni, ad esempio quando, con riferimento alla famosa Santa Veronica col sudario in collezione Boisseréè scrisse, con sensibilità romantica: «In questo quadro la spiritualità del volto di Cristo, la sproporzione esistente fra le figure dei santi, quella del Cristo e degli angeli ed il fondo oro ci spingono fuori della realtà sensibile e anche la Santa presenta un’espressione di soave malinconia quasi fosse assorta nel pensiero di un altro mondo» (p. 206).

Maestro della Santa Veronica, Santa Veronica col Sudario, Monaco, Alte Pinakothek
Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/m/master/veronica/veronica.html


Eviterò, in questa sede, di indugiare su aspetti tecnici legati all’utilizzo dei pigmenti (uno dei temi su cui Koester è meno lineare); sarò molto breve nel segnalare che una delle questioni fondamentali (e non potrebbe essere stato altrimenti) è individuata nel problema della ‘patina’ (che per il tedesco può essere sia naturale sia artificiale); se ne parlava da decenni e si continuò a farlo anche dopo. [3] Mi soffermerò invece su aspetti più generali, che secondo me meritano di essere sottolineati.

 

Una vocazione

Come detto, Koester non ebbe mai problemi economici. La prima cosa che si nota, nei suoi quaderni, è che le rivendicazioni di ordine economico sono portate avanti solo come manifestazione dell’importanza del ruolo del restauratore. La sua è una vocazione. E subito viene naturale porsi una domanda: cosa vuol dire essere restauratori? Non vi è dubbio che quella del restauratore sia una professione artistica, ma sui generis: «ad un buon restauratore non dovrebbe quindi mancare la possibilità di un guadagno adeguato, sebbene gli manchi la molla fondamentale dell’attività artistica, cioè la ricerca della fama. Egli infatti non può lasciare ai posteri alcun esempio della sua creatività ma al contrario egli deve annullare la propria personalità a favore delle opere su cui interviene. Il suo lavoro deve infatti procedere diligentemente e modestamente senza lasciar traccia sull’opera. […] La maggior ricompensa per il restauratore è la vicinanza con gli spiriti del passato di cui talvolta sente il silenzioso ringraziamento» (p. 200). E ancora, con toni più accorati, quasi stesse sfogandosi: «Un restauratore meticoloso e corretto è (…) una persona tormentata poiché deve rinunciare alla propria creatività per dedicarsi alla sopravvivenza delle opere altrui» (p. 227). Perusini mette in evidenza come molti degli accenti di Koester (come in questo caso) derivino dagli Sfoghi del cuore di un monaco amante dell’arte di W. Heinrich Wackenroder (1797), anche se non mancano accenti di classicismo. Qui, comunque, è difficile pensare che Koester non stia riflettendo sulla propria esperienza di vita. Piuttosto è interessante notare che al ‘restauratore’ di Koester si chiedono le stesse cose che Mariette domandava agli incisori di stampe di traduzione: l’assoluta ‘trasparenza’ del proprio lavoro, senza lasciar traccia del proprio gusto e del proprio apporto. Mi si consenta un paragone sacrilego: il restauratore è l’arbitro di una partita di calcio; meno si nota e meglio ha arbitrato; naturalmente nessuno è mai d’accordo nel valutarne l’operato.

 

Il restauro

«Lo scopo del restauro è quello di riportare le opere d’arte danneggiate al loro stato di conservazione originario o per lo meno di avvicinarsi ad esso; dico avvicinarsi ad esso perché anche il restauro ha dei limiti naturali che non possono né debbono essere superati» (p. 188). In questo quadro, le fasi del restauro sono almeno due (non necessariamente eseguite da un unico soggetto): innanzi tutto gli interventi ‘meccanici’ volti alla conservazione: consolidamento del supporto, chiusura dei fori, eventuale rifoderatura, stuccatura e così via. Una volta esaurita questa fase, subentra il restauro in senso stretto, ossia «il restauro pittorico a cui è affidato il recupero estetico del dipinto» (ibidem). Ne consegue che il restauro di Koester ha finalità essenzialmente mimetiche. «La seconda e più importante parte del restauro, e cioè quella pittorica, richiede quindi tutta la sensibilità artistica, l’esperienza e l’abilità del restauratore. […] Se si pensa a quanti siano gli stili e le tecniche dei pittori che un restauratore deve conoscere per riprodurre le qualità originali di un dipinto, risultano evidenti le insormontabili difficoltà del suo compito. È difficile dire cosa uno deve fare, è il quadro stesso infatti che deve dare delle indicazioni. In un dipinto ci si deve sentire a proprio agio come in un posto conosciuto» (p. 194). Cautela, pazienza, ma soprattutto talento. Ciò che si si impara sui libri è nulla rispetto all’esperienza acquisita sul campo. Non si può non notare che le argomentazioni di Koester sono, in fondo, le stesse che portarono l’Impero austroungarico a bocciare la richiesta di Pietro Edwards di creare una scuola di restauro a Venezia: troppe le maniere praticate dagli artisti per essere insegnate con efficacia in una scuola.

Il restauro, con tutte le cautele del caso, è e deve essere mimetico. È molto interessante, in proposito, quanto Koester scrive nel suo terzo quaderno (siamo nel 1830), dove emerge chiaramente che non tutti la pensano così: «ad H.v.R. che sostiene che le autorità preposte alla tutela  delle opere d’arte dovrebbero occuparsi della conservazione e non del restauro delle opere d’arte, si può replicare che queste due attività sono inscindibili […] Anche quando i dipinti non presentano gravi danni strutturali ma solamente delle alterazioni estetiche, quando cioè appaiano sporchi o alterati da vernici ossidate e ridipinture, necessitano ugualmente di un parziale o totale restauro; e lo stesso vale anche per i dipinti che presentano dei danni che vanno oltre la pellicola pittorica». (p. 226). È la linea del restauro mimetico contro quello del restauro meramente conservativo, o senza uso del pennello (o ‘monofase’, se vogliamo richiarmarci alle due fasi a cui ho accennato sopra). Il signor H.v.R. è ‘Herr von Rumohr’, ossia Karl Friedrich von Rumohr (1785-1843). Perusini ricorda che nel 1828 scrisse sulla rivista Kunstblatt un articolo «in cui sosteneva che il compito dei conservatori delle pubbliche collezioni d’arte era quello di conservare (…) i dipinti, impedendone la rovina imminente e quella futura, e non certo quello di ingannare e raggirare (…) la gente proponendo loro dipinti resi più belli e godibili» (p. 231 n. 19). Conosciamo bene l’importanza di Rumohr per lo sviluppo della nuova storia dell’arte tedesca e sappiamo anche che Kunstblatt era letta anche in Italia, tramite l'Antologia Viesseux pubblicata a Firenze (ma non so se questo specifico scritto sia stato tradotto in italiano) In tutta onestà mi chiedo (e non so fino a che punto la cosa sia stata indagata) se sia da queste posizioni che direttamente o indirettamente (ad esempio tramite Ernst Förster) che Giovanni Battista Cavalcaselle giunse a posizioni ‘oltranziste’ sul restauro conservativo e contro quello mimetico. Cert’è che, pur ispirandosi a criteri di estrema cautela, il restauro di Koester non è quello di cui sarà portabandiera il legnaghese una ventina d’anni dopo. A essere onesti, non è nemmeno quello di un Charles Eastlake (1793-1865) che, come sappiamo, oltre a far ritoccare i quadri per aggiustamenti di toni e di patine volti a ricreare un’armonia cromatica, non disdegnava la correzione di eventuali ‘errori’ degli artisti, intendendo come tali momenti pittorici non a livello della fama dei medesimi. Qui Koester è chiarissimo, sia pure richiamandosi a temi tecnici (e non iconografici): «Può succedere inoltre che dei dipinti antichi rimasti sufficientemente integri e puliti con maestria presentino alcuni difetti dovuti a degli errori di esecuzione. Tra questi difetti possiamo ricordare l’emergere del disegno sottostante, i pentimenti dell’artista, la perdita dei mezzi toni, o evidenti durezze e disarmonie nella stesura pittorica, dovute all’esecuzione impropria o ai difetti dei pigmenti. Poiché questi difetti sono imputabili al maestro, in quanto derivano dalla sua tecnica pittorica, non possono essere modificati, poiché il rispetto dell’originale deve prevalere su ogni altra considerazione» (p. 192)

 

Conoscenza e/è progresso

Ho detto che, oltre a quello di Koester, furono stampati altri due trattati di restauro, uno dei quali (quello di Prange) si intitolava Fondamenti e pratica dell’arte segreta di restaurare e conservare gli antichi dipinti. Poco importa, nel caso specifico, che fosse intenzione dell’autore rivelare tali misteri. Mi sembra importante, piuttosto, ragionare sull’utilizzo del termine ‘segreto’. L’idea che gli antichi maestri avessero dei ‘segreti’ nella realizzazione delle loro opere e che i restauratori, a loro volta, ne usassero di loro per riportare le opere agli antichi splendori era vecchia di secoli e abusatissima. Proporrò qui un paio di esempi: sin dalla fine del Settecento si era aperta in Inghilterra la ricerca del ‘segreto veneziano’ , grazie al quale Tiziano sarebbe stato in grado di dipingere con una gamma cromatica strabiliante. Così nel 1795, il presidente della Royal Academy, Benjamin West, fu raggirato da una squilibrata, Mary Ann Provis, che gli vendette per seicento ghinee un manoscritto contenente il presunto ‘segreto’.  Lo scandalo sulla stampa, una volta compreso che si era trattato di una truffa, fu enorme. 


James Gillray, Titianus redivivus ovvero i sette saggi consultano il nuovo oracolo veneziano,
Londra, British Museum (stampa satirica pubblicata nel settembre 1795 per sbeffeggiare la Royal Academy in seguito allo scandalo Provis)
Fonte: http://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details.aspx?objectId=1480359&partId=1&people=109826&peoA=109826-1-9&page=1



D’altro canto, ancora per decenni, personaggi senza scrupoli cercarono di accreditarsi (soprattutto presso gli ambienti artistici inglesi) come depositari dei veri segreti degli Old Masters. Così scrisse da Milano Mary P. Merrifield al marito, il 3 dicembre 1845, nel corso del suo viaggio volto alla ricerca di documenti d’archivio sulle tecniche dei maestri del Nord Italia: “Venerdì [n.d.r. Vallardi] è venuto con noi per incontrare un restauratore chiamato Fidanza. […] È esattamente l’uomo che volevo vedere; ha grande cultura sulle conoscenze tramandate dalla tradizione e molta esperienza pratica, che gli viene dal numero di vecchi quadri che ha distrutto – volevo dire, riparato, ma mi spiace dire che i due termini sono quasi sinonimi […] È assolutamente disposto a vendere i suoi segreti, ma il prezzo da lui richiesto è troppo alto. Vorrebbe venderli all’Inghilterra in cambio di un vitalizio di 200 sterline (5000 franchi austriaci) […] Chiede anche, per sua moglie, una pensione di 100 sterline annue dopo la sua morte, nel caso in cui lei gli dovesse sopravvivere; pretende inoltre che gli siano pagate le spese di viaggio per andare in Inghilterra e per tornare indietro, una volta che si sia deciso di farci raccontare ciò che sa» (pp. 69-70). Il Fidanza in questione non era un millantatore qualsiasi; era Antonio Fidanza (1783-1863), all’epoca restauratore di Brera, più volte coinvolto (come il padre) in episodi di falsificazione. Che dire? Fidanza era, più o meno, l’omologo milanese di Koester.

A questo mondo basato sui ‘segreti’ e sullo sfruttamento economico dei medesimi. Koester si oppose programmaticamente, sin dall’inizio del primo quaderno: «Il mio scopo infatti è fare qualcosa di utile e se poi anche altri volessero comunicare le loro scoperte in questo settore, ciò tornerebbe indubbiamente a vantaggio di tutti, col risultato che si diffonderebbe un modo di operare più efficace e si eviterebbero molti errori poiché i restauratori impreparati hanno causato più danni alle opere d’arte di quanti non ne abbiano causato i quattro elementi» (p. 187). Koester, insomma, non si proclama depositario della ‘verità’, ma crede nella costruzione collettiva della medesima tramite conoscenza e progresso: «L’idea che nella pulitura ci sia qualche segreto e che i quadri possano essere puliti con qualche “magia” è una buffonata. Nella pulitura come nel resto dell’arte non c’è alcun segreto» (p. 191). Condividere è indispensabile: «Non si conosce ancora alcun sistema per eliminare i tarli e sarebbe auspicabile che se un collezionista (a cui stesse a cuore la sorte di tutti i dipinti) riuscisse a scoprire un metodo per liberarci da questo malanno, lo comunicasse a tutti. Anche la rivista «Kunstblatt» è disponibile a pubblicare le notizie tecniche riguardanti i dipinti e le eventuali novità utili agli amanti dell’arte» (p. 207). E subito dopo un passaggio fondamentale, che spiega come Koester sia avulso da qualsiasi proposito di sfruttamento economico di eventuali segreti: «In ogni caso non ha alcun senso fare mistero riguardo ai mezzi tecnici, poiché il talento artistico non si trasmette e le informazioni fornite non diminuiscono la gloria di un artista».

 

I restauratori italiani

Se Koester crede fermamente nella condivisione delle conoscenze e nel progresso, non per questo è esente da pregiudizi. I suoi sembrano indirizzati soprattutto nei confronti dei restauratori italiani (ed è per questo motivo, sostanzialmente, che Perusini indaga la situazione del restauro in Italia fra 1780 e 1830, mettendola a confronto con quella tedesca): «Sebbene dei cattivi restauratori si trovino ovunque, è difficile imbattersi in una presunzione così dannosa come quella dei restauratori italiani. Anche in Germania i restauratori vanno col ritocco [n.d.r. a colmare le lacune] oltre i margini delle lacune, tuttavia lo fanno con un maggior talento pittorico cercando di risparmiare le zone circostanti. Il ritocco puntinato degli italiani li costringe invece a intervenire sull’intero quadro per evitare che nel dipinto si distinguano immediatamente due tecniche diverse facendo sì che le parti ritoccate appaiano come isole sulla superficie pittorica originale. […] Definisco italiano questo metodo di ritocco, perché quasi tutti i dipinti restaurati in Italia, sia di scuola italiana sia di scuola straniera, presentano questo tipo di reintegrazione. Nonostante ciò è difficile credere che tale metodo, che pure è il più praticato in Italia, sia l’unico usato in questa terra così ricca d’arte: sappiamo infatti che ci sono anche dei bravi restauratori e speriamo quindi che in futuro i restauratori italiani riescano a meritarsi una fama migliore» (p. 209). Pur posta in termini generali e con l’indicazione che il discorso vale per molti, ma non per tutti, pare chiaro che Koester abbia un bersaglio specifico in mente, e si tratta di Pietro Palmaroli, che nel 1826 aveva restaurato la Madonna Sistina di Raffaello a Dresda. 

Raffaello, Madonna Sistina, Dresda, Gemäldelgalerie
Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/r/raphael/5roma/2/03sisti.html


Perusini ricostruisce attentamente la vicenda, a partire dalle polemiche che avevano accompagnato negli anni Dieci e Venti del secolo i restauri praticati da precedenti ispettori della berlinese Gemäldegalerie (pp. 114-116). Quando si pose il problema di restaurare la Madonna Sistina, fra i vari nomi fu valutato quello di Jakob Schlesinger, già citato più volte come genero e collega di Koester. Alla fine ebbe il sopravvento il partito filo-italiano e fu chiamato il Palmaroli. Presumibile che Koester non l’abbia presa benissimo. Le polemiche successive al restauro, e anche le parole di Koester, si basarono sì su aspetti tecnici, ma in realtà furono alimentate da uno sdegno ‘campanilista’ nei confronti del restauratore italiano; nel caso specifico anche da solidarietà fra colleghi e parenti. Fatto sta che il cattivo restauro della pala divenne cogli anni quasi un ‘caso di scuola’, essendo sostenuto, ad esempio, anche da Cavalcaselle in Italia e da Eastlake in Inghilterra. Solo nel Novecento l’operato di Palmaroli (che, peraltro non siamo in grado di valutare, essendo stati eseguiti altri interventi sul dipinto) fu ampiamente rivalutato. Ciò che in questa occasione merita di essere segnalato è come Koester ricorra a una serie di ‘luoghi comuni’, in verità molto diffusi all’epoca, per dimostrare la superiorità dei restauratori tedeschi su quelli italiani: «Il carattere e la mentalità dei tedeschi sono particolarmente adatti alla professione del restauro. Il tedesco infatti familiarizza facilmente con le caratteristiche di ciascun pittore e sa valutarne adeguatamente il merito, per quanto singolare esso sia» (p. 199). Ma fu proprio l’approccio del restauro mimetico di cui ho già parlato (col il numero di infinite scuole e maniere da imitare) che portò le autorità a scegliere Palmaroli invece di un tedesco. Del resto, richiesto di un parere, l’allora direttore degli Uffizi ebbe buon gioco a scrivere: «sento che a Parigi e in Olanda esistono abilissimi restauratori e ne esistono anche a Roma, i quali reputerei preferibili, perché più pratici delle tele, delle imprimiture e dei metodi adoprati dai pittori italiani, e segnatamente da Raffaello» (p. 117). Le glorie degli Antichi Maestri continuavano, a secoli di distanza, a esercitare un’influenza decisiva nella scelta di chi avrebbe dovuto ricondurle allo splendore originale.  

  

NOTE

[1] Il trattato di Bedotti è stato pubblicato nella medesima collana di Edifir nel 2008: Giovanni Bedotti, Il restauro dei dipinti, a cura di Valentina Parodi.

[2] Per il coinvolgimento dei fratelli Boisserée nella vita artistica tedesca, in relazione in particolare al completamento del duomo di Colonia, si veda in questo blog, l’antologia Künstlerbriefe aus dem neunzehnten Jahrhundert di Else Cassirer (1913).

[3] Si veda in proposito il libro recentemente pubblicato da Matthew Hayes sulla storia del restauro nell’Ottocento europeo.

 


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