Giuseppina Perusini
Il Manuale di Christian Koester
e il restauro in Italia e in Germania
dal 1780 al 1830
Prefazione di Giorgio Bonsanti
Traduzione di Giuseppina Perusini e Patrizia Di Leonardo
Firenze, Edifir, 2° edizione, 2012
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Il primo trattato sul restauro
Il volume dedicato da Giuseppina Perusini (con l’aiuto di Patrizia Di Leonardo) al primo manuale di restauro in senso stretto della storia ha più di vent’anni. Fu pubblicato, infatti, per la prima volta, nel 2001 col titolo Christian Koester, Sul restauro degli antichi dipinti ad olio dalla udinese casa editrice Forum. Nel 2012 ha trovato ospitalità nella collana di ‘Storia e teoria del restauro’ di Edifir, con aggiustamenti e aggiornamenti (mi pare di capire) di importanza secondaria. Ho deciso di recuperarlo perché la versione Perusini dimostra ancora una sua freschezza e utilità che, nel mio caso specifico – non sono un restauratore – risiedono nella ricostruzione di un contesto operativo nel corso di anni in cui aumentò fortemente l’interesse per gli Antichi Maestri, legato a istanze di connoisseurship, museali, collezionistiche. In questo clima maturò anche l’esigenza di attingere alla ‘sapienza’ dei restauratori e di sistematizzare una professione che da ormai mezzo secolo (almeno dai tempi di Pietro Edwards) tendeva a divenire autonoma, ma sempre con grandi difficoltà. Lo stesso Koester (1784-1851), del resto, fu sì restauratore, ma anche pittore di paesaggio per tutta la vita.
Christian Koester, Veduta della città di Heidelberg, 1818 https://de.wikipedia.org/wiki/Christian_Philipp_Koester#/media/Datei: Heidelberger_Schloss_von_Christian_Philipp_Koester_ca_1818.jpg |
Giuseppina Perusini ne indaga l’opera, in realtà composta da tre ‘quaderni’, dati alle stampe nel 1827, 1828 e nel 1830 e priva di una sua sistematicità, come lo stesso autore rivendica (Koester dice di aver trattato le questioni più importanti partendo da quelle che, in quel momento, stava affrontando concretamente nel lavoro). È un dato di fatto, ed espressione dell’interesse di un pubblico, che fra 1827 e 1830, il mondo di lingua tedesca veda la pubblicazione non di uno, ma di tre trattati sul restauro: a) Sul restauro degli antichi dipinti ad olio di Koester (all’interno del secondo quaderno sono accolte in realtà alcune pagine dedicate ai dipinti a tempera, a firma del collega e genero Jakob Schlesinger); b) Fondamenti e pratica dell’arte segreta di restaurare e conservare gli antichi dipinti (1828), di Christian Friedrich Prange (1756-1836), appendice alla traduzione tedesca del Manuel des jeunes artistes et amateurs en peinture di Pierre Bouvier (1826); c) Istruzioni per il restauro degli antichi dipinti ad olio e per pulire e sbiancare le incisioni e le xilografie del farmacista Friedrich Lucanus (1793-1836). Fu proprio quest’ultimo scritto, nel concreto, a divenire il più comune, grazie a quella sistematicità che mancava programmaticamente nel testo di Koester e a un linguaggio senz’altro più accessibile. Proprio la questione del linguaggio utilizzato dal pittore e restauratore tedesco ha creato non poche insidie a Perusini e Di Leonardo, che si sono occupate della traduzione, tanto da indurle a avvisare il lettore: «Inizialmente abbiamo cercato di rendere nella traduzione italiana anche lo stile di Koester ma, dopo aver constatato che la traduzione letterale appesantiva enormemente il testo, rendendone spesso difficile la comprensione, abbiamo optato per una versione più libera che privilegiasse la trasmissione dei contenuti piuttosto che la restituzione della forma scritta» (p. 186).
Perusini, tuttavia, non si è
fermata qui. Con l’intento di favorire lo scambio di conoscenze fra l’odierno
mondo degli storici italiani e tedeschi, oltre ad affrontare i contenuti del
trattato di Koester, ha scritto anche alcuni capitoli dedicati alla situazione del
restauro in Italia fra 1780 e 1830 (Venezia, Firenze e Roma). Queste pagine
vanno viste, a mio giudizio, come ideale completamento della celebre Storia
del restauro e della conservazione delle opere d’arte di Alessandro Conti (1946-1994);
anche se i singoli casi di studio hanno conosciuto ulteriori approfondimenti di
recente, è comunque piacevole avere accesso a pagine scritte in maniera chiara
e piacevole, in cui il caso italiano è posto a confronto con le indicazioni di
Koester. A questo proposito va, ancora, ricordato che l’autrice prende anche in
considerazione (sempre a fini comparativi) il trattato De la restauration
des Tableaux (1837), scritto, anche se in francese, dal piemontese Giovanni
Bedotti (1789-?), probabilmente più coinvolto di Koester negli aspetti
commerciali che spesso spingevano non solo a restaurare i dipinti, ma anche a
scegliere di farlo in maniera tale da aumentare il loro valore di mercato. [1]
Restauratore di collezioni di
primitivi
Christian Koester nacque da famiglia ricca e non ebbe mai problemi economici. La pittura (a cui ben presto si dovette affiancare il restauro) fu una passione giovanile, coltivata con ogni probabilità in maniera particolarmente intensa fra 1807 e 1809, anno in cui si trasferì a Roma, assieme ad altri artisti, il più noto dei quali era, senza dubbio, Berthel Thorvaldsen. Tornato in Germania, nel 1813 si trasferì a Heidelberg dove divenne restauratore di fiducia della collezione dei fratelli Boisserée [2], una delle raccolte private più famose dell’epoca, poi venduta nel 1827 a Ludovico I di Baviera ed esposta presso l’Alte Pinakothek di Monaco a partire dalla sua apertura (1830).
Peter von Cornelius, Ritratto di Sulpiz Boisserée Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:SulpizBoisseree.jpg |
A partire dal 1823 Koester fu invece a Berlino, chiamato da Jakob Schlesinger, come già detto suo cognato; era stato avviato il progetto di erigere una nuova pinacoteca e fu appositamente creato un laboratorio di restauro, di cui Schlesinger era il sovrintendente e Koester l’altra figura apicale. In tal veste, il nostro ebbe a che fare, ad esempio, coi quadri della collezione Solly, celeberrima raccolta di dipinti di primitivi italiani e fiamminghi, acquistata dal governo prussiano nel 1821. Negli anni in cui scriveva il suo manuale, dunque, Koester conduceva da anni un’importante esperienza di restauro con opere che erano destinate a divenire costitutive di due dei più importanti musei tedeschi di belle arti. Ne resta traccia nei suoi quaderni, ad esempio quando, con riferimento alla famosa Santa Veronica col sudario in collezione Boisseréè scrisse, con sensibilità romantica: «In questo quadro la spiritualità del volto di Cristo, la sproporzione esistente fra le figure dei santi, quella del Cristo e degli angeli ed il fondo oro ci spingono fuori della realtà sensibile e anche la Santa presenta un’espressione di soave malinconia quasi fosse assorta nel pensiero di un altro mondo» (p. 206).
Maestro della Santa Veronica, Santa Veronica col Sudario, Monaco, Alte Pinakothek Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/m/master/veronica/veronica.html |
Eviterò, in questa sede, di indugiare su aspetti tecnici legati all’utilizzo dei pigmenti (uno dei temi su cui Koester è meno lineare); sarò molto breve nel segnalare che una delle questioni fondamentali (e non potrebbe essere stato altrimenti) è individuata nel problema della ‘patina’ (che per il tedesco può essere sia naturale sia artificiale); se ne parlava da decenni e si continuò a farlo anche dopo. [3] Mi soffermerò invece su aspetti più generali, che secondo me meritano di essere sottolineati.
Una vocazione
Come detto, Koester non ebbe mai problemi
economici. La prima cosa che si nota, nei suoi quaderni, è che le
rivendicazioni di ordine economico sono portate avanti solo come manifestazione
dell’importanza del ruolo del restauratore. La sua è una vocazione. E subito
viene naturale porsi una domanda: cosa vuol dire essere restauratori? Non vi è
dubbio che quella del restauratore sia una professione artistica, ma sui
generis: «ad un buon restauratore non dovrebbe quindi mancare la
possibilità di un guadagno adeguato, sebbene gli manchi la molla fondamentale
dell’attività artistica, cioè la ricerca della fama. Egli infatti non può
lasciare ai posteri alcun esempio della sua creatività ma al contrario egli
deve annullare la propria personalità a favore delle opere su cui interviene.
Il suo lavoro deve infatti procedere diligentemente e modestamente senza
lasciar traccia sull’opera. […] La maggior ricompensa per il restauratore è la
vicinanza con gli spiriti del passato di cui talvolta sente il silenzioso
ringraziamento» (p. 200). E ancora, con toni più accorati, quasi stesse
sfogandosi: «Un
restauratore meticoloso e corretto è (…) una persona tormentata poiché deve
rinunciare alla propria creatività per dedicarsi alla sopravvivenza delle opere
altrui»
(p. 227). Perusini mette in evidenza come molti degli accenti di Koester (come
in questo caso) derivino dagli Sfoghi del cuore di un monaco amante
dell’arte di W. Heinrich Wackenroder (1797), anche se non mancano accenti di
classicismo. Qui, comunque, è difficile pensare che Koester non stia
riflettendo sulla propria esperienza di vita. Piuttosto è interessante notare
che al ‘restauratore’ di Koester si chiedono le stesse cose che Mariette
domandava agli incisori di stampe di traduzione: l’assoluta ‘trasparenza’ del
proprio lavoro, senza lasciar traccia del proprio gusto e del proprio apporto. Mi
si consenta un paragone sacrilego: il restauratore è l’arbitro di una partita
di calcio; meno si nota e meglio ha arbitrato; naturalmente nessuno è mai
d’accordo nel valutarne l’operato.
Il restauro
«Lo scopo del restauro è quello
di riportare le opere d’arte danneggiate al loro stato di conservazione
originario o per lo meno di avvicinarsi ad esso; dico avvicinarsi ad esso
perché anche il restauro ha dei limiti naturali che non possono né debbono
essere superati» (p. 188). In questo quadro, le fasi del restauro sono
almeno due (non necessariamente eseguite da un unico soggetto): innanzi tutto
gli interventi ‘meccanici’ volti alla conservazione: consolidamento del
supporto, chiusura dei fori, eventuale rifoderatura, stuccatura e così via. Una
volta esaurita questa fase, subentra il restauro in senso stretto, ossia «il
restauro pittorico a cui è affidato il recupero estetico del dipinto» (ibidem).
Ne consegue che il restauro di Koester ha finalità essenzialmente mimetiche. «La
seconda e più importante parte del restauro, e cioè quella pittorica, richiede
quindi tutta la sensibilità artistica, l’esperienza e l’abilità del
restauratore. […] Se si pensa a quanti siano gli stili e le tecniche dei
pittori che un restauratore deve conoscere per riprodurre le qualità originali
di un dipinto, risultano evidenti le insormontabili difficoltà del suo compito.
È
difficile dire cosa uno deve fare, è il quadro stesso infatti che deve dare
delle indicazioni. In un dipinto ci si deve sentire a proprio agio come in un
posto conosciuto» (p. 194). Cautela, pazienza, ma soprattutto talento. Ciò
che si si impara sui libri è nulla rispetto all’esperienza acquisita sul campo.
Non si può non notare che le argomentazioni di Koester sono, in fondo, le
stesse che portarono l’Impero austroungarico a bocciare la richiesta di Pietro
Edwards di creare una scuola di restauro a Venezia: troppe le maniere praticate
dagli artisti per essere insegnate con efficacia in una scuola.
Il restauro, con tutte le cautele
del caso, è e deve essere mimetico. È molto interessante, in proposito,
quanto Koester scrive nel suo terzo quaderno (siamo nel 1830), dove emerge
chiaramente che non tutti la pensano così: «ad H.v.R. che sostiene che le
autorità preposte alla tutela delle
opere d’arte dovrebbero occuparsi della conservazione e non del restauro delle
opere d’arte, si può replicare che queste due attività sono inscindibili […] Anche
quando i dipinti non presentano gravi danni strutturali ma solamente delle
alterazioni estetiche, quando cioè appaiano sporchi o alterati da vernici
ossidate e ridipinture, necessitano ugualmente di un parziale o totale restauro;
e lo stesso vale anche per i dipinti che presentano dei danni che vanno oltre
la pellicola pittorica». (p. 226). È la linea del restauro mimetico contro
quello del restauro meramente conservativo, o senza uso del pennello (o
‘monofase’, se vogliamo richiarmarci alle due fasi a cui ho accennato sopra). Il signor H.v.R. è
‘Herr von Rumohr’, ossia Karl Friedrich von Rumohr (1785-1843). Perusini
ricorda che nel 1828 scrisse sulla rivista Kunstblatt un articolo «in
cui sosteneva che il compito dei conservatori delle pubbliche collezioni d’arte
era quello di conservare (…) i dipinti, impedendone la rovina imminente e
quella futura, e non certo quello di ingannare e raggirare (…) la gente
proponendo loro dipinti resi più belli e godibili» (p. 231 n. 19). Conosciamo
bene l’importanza di Rumohr per lo sviluppo della nuova storia dell’arte
tedesca e sappiamo anche che Kunstblatt era letta anche in Italia, tramite l'Antologia Viesseux pubblicata a Firenze (ma non so se questo specifico scritto sia stato tradotto in italiano) In
tutta onestà mi chiedo (e non so fino a che punto la cosa sia stata indagata)
se sia da queste posizioni che direttamente o indirettamente (ad esempio
tramite Ernst Förster) che Giovanni
Battista Cavalcaselle giunse a posizioni ‘oltranziste’ sul restauro
conservativo e contro quello mimetico. Cert’è che, pur ispirandosi a criteri di
estrema cautela, il restauro di Koester non è quello di cui sarà portabandiera
il legnaghese una ventina d’anni dopo. A essere onesti, non è nemmeno quello di
un Charles
Eastlake (1793-1865) che, come sappiamo, oltre a far ritoccare i quadri per
aggiustamenti di toni e di patine volti a ricreare un’armonia cromatica, non
disdegnava la correzione di eventuali ‘errori’ degli artisti, intendendo come
tali momenti pittorici non a livello della fama dei medesimi. Qui Koester è chiarissimo, sia pure richiamandosi a temi tecnici (e
non iconografici): «Può succedere inoltre che dei dipinti antichi rimasti
sufficientemente integri e puliti con maestria presentino alcuni difetti dovuti
a degli errori di esecuzione. Tra questi difetti possiamo ricordare l’emergere
del disegno sottostante, i pentimenti dell’artista, la perdita dei mezzi toni,
o evidenti durezze e disarmonie nella stesura pittorica, dovute all’esecuzione
impropria o ai difetti dei pigmenti. Poiché questi difetti sono imputabili al
maestro, in quanto derivano dalla sua tecnica pittorica, non possono essere
modificati, poiché il rispetto dell’originale deve prevalere su ogni altra
considerazione» (p. 192)
Conoscenza e/è progresso
Ho detto che, oltre a quello di Koester, furono stampati altri due trattati di restauro, uno dei quali (quello di Prange) si intitolava Fondamenti e pratica dell’arte segreta di restaurare e conservare gli antichi dipinti. Poco importa, nel caso specifico, che fosse intenzione dell’autore rivelare tali misteri. Mi sembra importante, piuttosto, ragionare sull’utilizzo del termine ‘segreto’. L’idea che gli antichi maestri avessero dei ‘segreti’ nella realizzazione delle loro opere e che i restauratori, a loro volta, ne usassero di loro per riportare le opere agli antichi splendori era vecchia di secoli e abusatissima. Proporrò qui un paio di esempi: sin dalla fine del Settecento si era aperta in Inghilterra la ricerca del ‘segreto veneziano’ , grazie al quale Tiziano sarebbe stato in grado di dipingere con una gamma cromatica strabiliante. Così nel 1795, il presidente della Royal Academy, Benjamin West, fu raggirato da una squilibrata, Mary Ann Provis, che gli vendette per seicento ghinee un manoscritto contenente il presunto ‘segreto’. Lo scandalo sulla stampa, una volta compreso che si era trattato di una truffa, fu enorme.
D’altro
canto, ancora per decenni, personaggi senza scrupoli cercarono di accreditarsi
(soprattutto presso gli ambienti artistici inglesi) come depositari dei veri
segreti degli Old Masters. Così scrisse da Milano Mary P. Merrifield al marito,
il 3 dicembre 1845, nel
corso del suo viaggio volto alla ricerca di documenti d’archivio sulle tecniche
dei maestri del Nord Italia: “Venerdì [n.d.r. Vallardi] è venuto con noi
per incontrare un restauratore chiamato Fidanza. […] È esattamente l’uomo che volevo
vedere; ha grande cultura sulle conoscenze tramandate dalla tradizione e molta
esperienza pratica, che gli viene dal numero di vecchi quadri che ha distrutto
– volevo dire, riparato, ma mi spiace dire che i due termini sono quasi
sinonimi […] È assolutamente disposto a vendere i suoi segreti, ma il prezzo da
lui richiesto è troppo alto. Vorrebbe venderli all’Inghilterra in cambio di un
vitalizio di 200 sterline (5000 franchi austriaci) […] Chiede anche, per sua
moglie, una pensione di 100 sterline annue dopo la sua morte, nel caso in cui
lei gli dovesse sopravvivere; pretende inoltre che gli siano pagate le spese di
viaggio per andare in Inghilterra e per tornare indietro, una volta che si sia
deciso di farci raccontare ciò che sa» (pp. 69-70). Il Fidanza in questione non
era un millantatore qualsiasi; era Antonio Fidanza (1783-1863), all’epoca
restauratore di Brera, più volte coinvolto (come il padre) in episodi di
falsificazione. Che dire? Fidanza era, più o meno, l’omologo milanese di
Koester.
A questo mondo basato sui ‘segreti’ e
sullo sfruttamento economico dei medesimi. Koester si oppose programmaticamente,
sin dall’inizio del primo quaderno: «Il mio scopo infatti è fare qualcosa di
utile e se poi anche altri volessero comunicare le loro scoperte in questo
settore, ciò tornerebbe indubbiamente a vantaggio di tutti, col risultato che
si diffonderebbe un modo di operare più efficace e si eviterebbero molti errori
poiché i restauratori impreparati hanno causato più danni alle opere d’arte di
quanti non ne abbiano causato i quattro elementi» (p. 187). Koester, insomma,
non si proclama depositario della ‘verità’, ma crede nella costruzione
collettiva della medesima tramite conoscenza e progresso: «L’idea che nella
pulitura ci sia qualche segreto e che i quadri possano essere puliti con
qualche “magia” è una buffonata. Nella pulitura come nel resto dell’arte non
c’è alcun segreto» (p. 191). Condividere è indispensabile: «Non si conosce
ancora alcun sistema per eliminare i tarli e sarebbe auspicabile che se un
collezionista (a cui stesse a cuore la sorte di tutti i dipinti) riuscisse a
scoprire un metodo per liberarci da questo malanno, lo comunicasse a tutti.
Anche la rivista «Kunstblatt» è disponibile a pubblicare le notizie tecniche
riguardanti i dipinti e le eventuali novità utili agli amanti dell’arte» (p.
207). E subito dopo un passaggio fondamentale, che spiega come Koester sia avulso
da qualsiasi proposito di sfruttamento economico di eventuali segreti: «In ogni
caso non ha alcun senso fare mistero riguardo ai mezzi tecnici, poiché il
talento artistico non si trasmette e le informazioni fornite non diminuiscono
la gloria di un artista».
I restauratori italiani
Se Koester crede fermamente nella condivisione delle conoscenze e nel progresso, non per questo è esente da pregiudizi. I suoi sembrano indirizzati soprattutto nei confronti dei restauratori italiani (ed è per questo motivo, sostanzialmente, che Perusini indaga la situazione del restauro in Italia fra 1780 e 1830, mettendola a confronto con quella tedesca): «Sebbene dei cattivi restauratori si trovino ovunque, è difficile imbattersi in una presunzione così dannosa come quella dei restauratori italiani. Anche in Germania i restauratori vanno col ritocco [n.d.r. a colmare le lacune] oltre i margini delle lacune, tuttavia lo fanno con un maggior talento pittorico cercando di risparmiare le zone circostanti. Il ritocco puntinato degli italiani li costringe invece a intervenire sull’intero quadro per evitare che nel dipinto si distinguano immediatamente due tecniche diverse facendo sì che le parti ritoccate appaiano come isole sulla superficie pittorica originale. […] Definisco italiano questo metodo di ritocco, perché quasi tutti i dipinti restaurati in Italia, sia di scuola italiana sia di scuola straniera, presentano questo tipo di reintegrazione. Nonostante ciò è difficile credere che tale metodo, che pure è il più praticato in Italia, sia l’unico usato in questa terra così ricca d’arte: sappiamo infatti che ci sono anche dei bravi restauratori e speriamo quindi che in futuro i restauratori italiani riescano a meritarsi una fama migliore» (p. 209). Pur posta in termini generali e con l’indicazione che il discorso vale per molti, ma non per tutti, pare chiaro che Koester abbia un bersaglio specifico in mente, e si tratta di Pietro Palmaroli, che nel 1826 aveva restaurato la Madonna Sistina di Raffaello a Dresda.
Raffaello, Madonna Sistina, Dresda, Gemäldelgalerie Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/r/raphael/5roma/2/03sisti.html |
Perusini
ricostruisce attentamente la vicenda, a partire dalle polemiche che avevano
accompagnato negli anni Dieci e Venti del secolo i restauri praticati da
precedenti ispettori della berlinese Gemäldegalerie (pp. 114-116).
Quando si pose il problema di restaurare la Madonna Sistina, fra i vari
nomi fu valutato quello di Jakob Schlesinger, già citato più volte come
genero e collega di Koester. Alla fine ebbe il sopravvento il partito
filo-italiano e fu chiamato il Palmaroli. Presumibile che Koester non l’abbia
presa benissimo. Le polemiche successive al restauro, e anche le parole di
Koester, si basarono sì su aspetti tecnici, ma in realtà furono alimentate da uno sdegno ‘campanilista’ nei confronti del restauratore italiano; nel caso
specifico anche da solidarietà fra colleghi e parenti. Fatto sta che il cattivo
restauro della pala divenne cogli anni quasi un ‘caso di scuola’, essendo
sostenuto, ad esempio, anche da Cavalcaselle in Italia e da Eastlake in
Inghilterra. Solo nel Novecento l’operato di Palmaroli (che, peraltro non siamo
in grado di valutare, essendo stati eseguiti altri interventi sul dipinto) fu ampiamente
rivalutato. Ciò che in questa occasione merita di essere segnalato è come
Koester ricorra a una serie di ‘luoghi comuni’, in verità molto diffusi
all’epoca, per dimostrare la superiorità dei restauratori tedeschi su quelli
italiani: «Il
carattere e la mentalità dei tedeschi sono particolarmente adatti alla
professione del restauro. Il tedesco infatti familiarizza facilmente con le
caratteristiche di ciascun pittore e sa valutarne adeguatamente il merito, per
quanto singolare esso sia» (p. 199). Ma fu proprio l’approccio del restauro mimetico
di cui ho già parlato (col il numero di infinite scuole e maniere da imitare)
che portò le autorità a scegliere Palmaroli invece di un tedesco. Del resto,
richiesto di un parere, l’allora direttore degli Uffizi ebbe buon gioco a
scrivere: «sento
che a Parigi e in Olanda esistono abilissimi restauratori e ne esistono anche a
Roma, i quali reputerei preferibili, perché più pratici delle tele, delle
imprimiture e dei metodi adoprati dai pittori italiani, e segnatamente da
Raffaello»
(p. 117). Le glorie degli Antichi Maestri continuavano, a secoli di distanza, a
esercitare un’influenza decisiva nella scelta di chi avrebbe dovuto ricondurle
allo splendore originale.
NOTE
[1] Il trattato di Bedotti è
stato pubblicato nella medesima collana di Edifir nel 2008: Giovanni Bedotti, Il
restauro dei dipinti, a cura di Valentina Parodi.
[2] Per il coinvolgimento dei
fratelli Boisserée nella vita artistica tedesca, in relazione in particolare al
completamento del duomo di Colonia, si veda in questo blog, l’antologia Künstlerbriefe
aus dem neunzehnten Jahrhundert di Else Cassirer (1913).
[3] Si veda in proposito il libro
recentemente pubblicato da Matthew
Hayes sulla storia del restauro nell’Ottocento europeo.
Nessun commento:
Posta un commento