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venerdì 30 giugno 2023

Luigi Basiletti 1780-1859. Carteggio artistico. A cura di Bernardo Falconi

 

Luigi Basiletti
1780-1859
Carteggio artistico
A cura di Bernardo Falconi


Prefazione di Fernando Mazzocca

Verona, Scripta Edizioni, 2019

Recensione di Giovanni Mazzaferro



Il ritorno in auge di Luigi Basiletti

Il nome di Luigi Basiletti (1780-1859), pittore ed erudito, probabilmente non è familiare a molti, il che testimonia da un lato l’attuale sfortuna della pittura italiana di primo Ottocento e dall’altro l’essere percepito come legato fondamentalmente alla vita civile e artistica bresciana, città di cui era originario e in cui visse. Il vincolo con Brescia è innegabile. Di recente è stato sottolineato da una mostra dedicata all’artista nel Museo Lechi a Montichiari (2017), e proprio mentre scrivo la Fondazione Brescia Musei, in collaborazione con l’Ateneo di Brescia, ne ha in corso un’altra (Luigi Basiletti e l’Antico) che durerà fino 3 dicembre 2023. Siamo, del resto, nell’anno di Brescia e Bergamo capitali italiane della cultura.

Il carteggio artistico di Basiletti è stato, invece, pubblicato nel 2019, a cura di Bernardo Falconi, con il contributo dello stesso Ateneo bresciano e raccoglie trecentotrentasette lettere di interesse artistico scambiate fra il bresciano e decine di altri corrispondenti. Si tratta, purtroppo, solo di un ‘segmento’ dell’intero epistolario, che si presume costituito da alcune migliaia di missive. Falconi, che ha condotto un lavoro ammirevole, è riuscito a ricostruirne una parte avvalendosi sì di un nucleo più consistente conservato presso l’archivio Fornasini di Castenedolo (Bs), ma allargando le ricerche a una trentina di altri archivi. A ciò si aggiunga che le note sono sempre funzionali alla contestualizzazione delle missive e che gli apparati finali sono ricchi e preziosi. Siamo, insomma, di fronte a un’opera davvero pregevole.

 

Basiletti e la sua città

È fuori di dubbio che il nome di Basiletti sia legato indissolubilmente a Brescia, dove, peraltro, trascorse buona parte della sua vita professionale, con parentesi giovanili a Bologna (1801-1803), Roma (1803-1809) e un nuovo soggiorno romano fra maggio 1819 e maggio 1820. Mai, ad esempio, lasciò l’Italia per visitare città straniere. Esulando da una valutazione della sua produzione pittorica (che, comunque, il carteggio restituisce almeno nelle sue opere fondamentali), lo si ricorda come promotore e responsabile della campagna di scavi archeologici nell’area del Capitolium bresciano, il cui risultato più eclatante fu il rinvenimento, nel 1826, della statua bronzea della Vittoria alata;  nonché come progettista del Museo Patrio, aperto nel 1830. «Un nobilissimo Museo capace di contenere i pezzi di antichità che sono di proprietà del comune e di particolari a tal fine ceduti in deposito»: così lo immaginava Basiletti in una sua lettera dell’agosto 1826 alla Congregazione Municipale cittadina, prevedendo una scansione in tre sale: la prima per le lapidi, la seconda per i materiali rinvenuti negli scavi archeologici in corso e una terza «destinata per quelli [n.d.r. per gli oggetti] della decadenza dell’arte e del suo risorgimento nel 1500» (p. 293). Si tratta, a dire il vero, di uno dei pochissimi accenni ai ‘primitivi’ da parte dell’artista, la cui fascinazione per le antichità romane fu, senza dubbio, ben superiore. 

La Vittoria Alata, Parco archeologico di Brescia
Fonte: Wolfgang Moroder Tramite Wikimedia Commons


In ambito privato, spicca poi il rapporto senza dubbio particolare, nutrito di una profonda amicizia, con il conte Paolo Tosio – o Tosi - (1776-1842), per cui Basiletti fece un po’ di tutto: si occupò della ristrutturazione e della decorazione del palazzo cittadino, ma anche di consulenze artistiche relative a possibili acquisizioni e di porsi come intermediario per commissioni presso gli artisti più celebri dell’epoca (da Thorvaldsen a Canova). Alla sua morte, il conte Tosi donò le sue collezioni alla città, dando vita alla prima pinacoteca della città: una dimostrazione di un senso civico che sicuramente Tosi condivideva intimamente con Basiletti (entrambi, peraltro, senza eredi). È in virtù di questo senso civico, non saprei dire fino a che misura nutrito di patriottismo unitario (Basiletti, in una sua lettera del luglio 1850 dichiara di essere stato «alieno sempre agli affari politici»; cfr. p. 433), che, nel corso del carteggio, troviamo il pittore bresciano coinvolto in una serie di iniziative aventi a oggetto l’interesse ultimo della città. E, me lo si lasci dire, mentre spesso capita di leggere affermazioni che reclamano un impegno civile e che chiaramente sono solo dichiarazioni di facciata, qui l’artista sembra essere sempre sincero e amare visceralmente una città che, evidentemente, non sempre lo seppe ricambiare con gratitudine, almeno a giudicare dalle dimissioni rassegnate nel 1835 dalla Commissione agli scavi e al Museo patrio di Antichità dovute, a quanto sembra, a dissapori con l’architetto Rodolfo Vantini e con Luigi Lechi (cfr. lettera del 24 luglio 1838, p. 376). Proprio i rapporti con Luigi Lechi – a voler cercare il pelo nell’uovo -, ossia con l’altro grande collezionista cittadino dell’epoca (1786-1867) sono quelli che il carteggio non riesce a liberare da un cono d’ombra; non è certo colpa del curatore: semplicemente non ci sono giunte le carte e, quindi, poco ne sappiamo.

Non è naturalmente il caso, qui, di entrare in ulteriori particolari sull’impegno civico di Basiletti. Vale la pena sottolineare, tuttavia, che, direttamente o indirettamente, tramite Tosi, le sue iniziative portarono a ridisegnare le tappe del tour che i visitatori non bresciani (italiani o stranieri che fossero) eseguivano una volta arrivati alla città. L’epistolario stesso mostra vari episodi in proposito (e il caso più prestigioso è senza dubbio quello dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo Lorena), Qui mi si lasci citare due righe dalle lettere di Mary Philadelphia Merrifield, storica delle tecniche artistiche inglese, in visita a Brescia, che alla fine del 1845 scriveva al marito: «L’albergo in cui abbiamo soggiornato a Brescia era detestabilmente sporco (n.d.r. Bruno Barbieri, pensaci tu!), la cucina pessima e dappertutto si sentiva un gran odore di aglio. Il giorno dopo siamo andati a vedere il Museo delle Antichità Romane per via delle pitture antiche che erano menzionate sulla guida del Murray. Ne ho portato via un piccolo frammento, sufficiente per studiare colori e superficie. Poi siamo andati a visitare le due cattedrali e la chiesa di Santa Afra, nonché la galleria del conte Tosi, che alla sua morte egli ha donato alla città» [1].

 

Basiletti e Roma

Bresciano fino al midollo, Basiletti, in realtà, adorava Roma. Non si tratta, probabilmente, solo dell’amore per le testimonianze dell’nantichità classica, che pure ci fu, e fortissima. Molto probabilmente la cosa ebbe anche una dimensione personale. Come abbiamo visto il pittore fu nell’Urbe dal 1803 al 1809, dopo una prima esperienza presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna; sono gli anni della maturazione artistica e delle grandi amicizie. Forse è un caso, ma i bresciani Basiletti e Tosi si conobbero a Roma, non nella loro patria. E gran parte dei corrispondenti del pittore (fatta eccezione per le lettere ufficiali) sono sue conoscenze romane giovanili, da Pelagio Palagi al pittore senese Giuseppe Collignon, dall’architetto Basilio Mazzoli al triestino Pietro Nobile, poi trasferitosi a Vienna presso la corte imperiale. Si ha insomma, chiara, la percezione di un gruppo di artisti sostanzialmente coetanei la cui amicizia si cementa (verrebbe quasi da dire ‘attorno a Basiletti’) in anni particolarmente difficili da un punto di vista politico a Roma. Appare anche evidente l’ammirazione per la generazione precedente, quella che ha fatto trionfare il neoclassico: Canova e Thorvaldsen sono i riferimenti d’obbligo, ma non mancano notizie sul piacentino Gaspare Landi e su Vincenzo Camuccini. Esattamente come nell’epistolario di Landi, si colgono, sullo sfondo, le incertezze legate alle vicende belliche e la difficoltà di riuscire a sbarcare il lunario in una città che vive una crisi profonda: nel dicembre 1807, ad esempio, Basiletti scrive a Tosi (nel frattempo tornato a Brescia) dando per fatta «la vendita del gran museo della villa Borghesi. Esso verrà trasportato a Parigi, e perfino le tavole, e colonne di granito e porfido. Si dice venduto per tre millioni di franchi. Questo era l’unico museo rimasto intatto. Il Gladiatore, il Sileno, l’Ermafrodito, la testa di Lucio Vero sono le statue di prima bellezza che rimanevano al Italia, ora verranno ad essere rapite» (p. 82). Nel maggio 1810 Collignon avvisa Basiletti che «qua [n.d.r a Roma] gli artisti sono avviliti, e nessuno ha da fare» (p. 98); tre mesi dopo si considera fortunato per avere commissioni: «e questi [n.d.r. i pittori di Roma] guardano la loro tavolozza, e gli scultori li scalpelli» (p. 102). Gli anni successivi, dal 1814 in poi, vedono un peggioramento della situazione, con moti popolari e l’esplodere del fenomeno del brigantaggio nelle campagne, che impedisce agli artisti di effettuare gite artistiche nei dintorni della città (ad es. p. 258). E, ancora, a giudicare dalle testimonianze, diminuisce il numero degli artisti stranieri. Basiletti mantiene sempre, insomma, uno stretto contatto con una città che ha amato profondamente: «Io non so che desiderare che il momento di rivedere Roma perché per gli artisti non vi è che Roma» (p. 130). Appare evidente che il suo impegno negli scavi archeologici bresciani è una diretta conseguenza di una passione maturata in giovinezza fra le rovine dell’Urbe; quando si tratta di proporre la creazione del museo patrio, non a caso, l’uomo si relaziona alle ‘restaurazioni’ eseguite da Valadier sull’arco di Tito e sul Colosseo (p. 292).

 

Il restauro

Nel carteggio non mancano aspetti marginali che però possiamo mettere a confronto con quelle che erano le tendenze dell’epoca per capire meglio come si collocasse l’artista; uno di questi è quello del restauro. Non pare, in tutta onestà, che Basiletti ne abbia fatta una delle sue fonti di reddito principali. Tuttavia, in quanto eminente artista, viene interrogato nel 1837 dalla Fabbriceria della chiesa bresciana di San Clemente sull’opportunità, ed eventualmente, le modalità di restaurare due dipinti del Moretto (cfr. p. 368). 

Morello, Le Sante martiri, Brescia, Chiesa di San Clemente
Fonte: https://www.scopribrescia.com/chiesa-clemente-brescia-il-tempio-moretto/moretto-le-sante-martiri-chiesa-san-clemente-brescia/


Il pittore conferma l’opportunità di procedere al restauro, indica il nome di Giovanni Battista Speri come figura più adatta, si preoccupa di stendere una relazione sugli interventi da fare e si impegna a controllare che tutto sia stato eseguito a regola d’arte prima di autorizzare il pagamento. Sono individuati interventi meccanici che vanno dall’ ‘appianamento di ogni ineguaglianza’ a una nuova foderatura; è inoltre segnalata la necessità di interventi di pennello: «i ritocchi fatti al medesimo quadro già venti e più anni essendo […] di colore saranno leggermente raschiati, e fatti di nuovo colla massima diligenza, non sovrapponendo colore nuovo al colore originale, ma stando nel limite circoscritto come sopra» (pp. 371). Complessivamente mi pare si possa dire che siamo nell’ambito delle consuete raccomandazioni del restauro mimetico all’altezza di questi anni. Non si parla di patine, anche se si raccomanda la massima cura nella pulitura «affinché le tinte originali non venghino ad essere pregiudicate» (p. 371 e che «l’ultima di mano di vernice dovrà essere data alli sudetti quadri quando verranno collocati al loro luogo» (p. 376), probabilmente per giudicare dell’armonia cromatica in relazione alle condizioni di luce.

 

Le stime dei quadri

Occasionalmente (oltre a occuparsi di commissionare nuove opere soprattutto per Paolo Tosi) Basiletti è chiamato a dare il suo parere in merito a opere per le quali è richiesto il permesso all’esportazione. La situazione appare abbastanza chiara: con risoluzione del 18 marzo 1827 era stato deliberato il diritto di prelazione all’acquisto da parte dello Stato nel caso in cui le opere fossero state giudicate di particolare interesse [2]. Così, il 21 novembre 1841 (e il 9 gennaio 1842) Basiletti si esprime su alcuni quadri venduti dal nobile Antonio Brognoli a Gustav Waagen, direttore della Gemaldegälerie di Berlino. Fra questi il Compianto sul Cristo morto del Romanino per il quale invoca, appunto, il diritto di prelazione: «In questo quadro si elevò di tanto che posto vicino a qualunque altro autore non teme confronto, ed è tanta la forza, il brio del colorito, la verità e l’espressione delle figure che di buona voglia gli si condona l’inesattezza del disegno, e la mancanza di dignità nel concetto, e venustà delle forme. Il Ridolfi che vidde questo quadro ne parla con molta lode, e del pari la replicò il Lanzi» (p. 389). A ben vedere si tratta di un giudizio che evidenzia una lettura dell’opera basata su canoni attardati; sicuramente Basiletti non sembra essere entrato in contatto con gli esponenti tedeschi della Kunstwissenschaft (Waagen per primo), che propongono analisi stilistiche assai più pregnanti e più attente al valore storico delle opere che a quello estetico. ‘L’inesattezza del disegno’ e la mancanza di decoro con cui è reso il soggetto sono, a questo proposito, eloquenti. Da notare, peraltro, che le citazioni della bibliografia precedente (Ridolfi e Lanzi) sono argomenti forti per sostenere l’importanza del dipinto. Il parere di Basiletti evidentemente non venne ascoltato, perché l’opera finì a Berlino, dove venne distrutta nel 1945 in seguito agli eventi bellici della Seconda guerra mondiale.


Riproduzione fotografica della Deposizione del Romanino (opera distrutta nella Seconda guerra mondiale) 
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Compianto_sul_Cristo_morto_(Romanino)

Una condotta molto simile è rintracciabile in una lettera appena successiva, questa volta relativa a un Ritratto di bella giovine venduto da Teodoro Lechi a Waagen e dato, evidentemente, a Veronese: «Eccone la mia opinione. Rappresentante il quadro un ritratto di giovine donna vestita in costume veneziano del 1500 […] Non ravvisando in quest’opera armonia di esecuzione, slancio di composizione e brio di colorire proprio di Paolo Veronese, mi nasce dubbio che sia sua opera, ma di qualche altro sommo artista contemporaneo, ne di tal belezza da spiccare come capo lavoro d’arte» (p. 390). Si tratta, come è evidente, di affermazioni che nulla hanno a che spartire con le metodologie di giudizio che saranno proprie di un Cavalcaselle o di un Morelli già da una decina d’anni dopo.

Ancora più deludente la missiva del 6 marzo 1842, in cui Basiletti stila una lista di opere acquisite da Teodoro Lechi successivamente al 1828 (anno in cui, evidentemente aveva ottenuto un precedente permesso di esportazione) ed è chiamato a esprimersi sulla richiesta di poter mandare all’estero anche queste. Compaiono nomi altisonanti, da Annibale Carracci ad Albani e Guercino, da Bernardino Luini a Raffaello (il Ritratto del vescovo Altobello Averoldo è in realtà di Francesco Francia e si trova oggi in collezione Kress), Tiziano e Veronese. Qui il giudizio è di una brevità sconcertante e fa capire come, in realtà, le prescrizioni di legge fossero poco più che formalità: «Riconosciuti tutti i quadri di sopra citati di ragione del conte Teodoro Lechi giudico che alcuni sono originali ed altri di autori a me sconosciuti, e tutti assieme, o in parte, non di tale somma bellezza, come mi sembra si vole dal Imperial Regia Accademia di Milano, per essere dichiarati capi lavori d’arte, e per essere compresi nella categoria dei riservati dalla sovrana patente, o risoluzione, 18 marzo 1827 per la relativa prelazione per parte dello Stato» (p. 397).

Nel chiedere che la Deposizione del Romanino di cui abbiamo sopra parlato fosse invece oggetto di prelazione, il pittore si scusò: «questa è la mia opinione che forse riguardo al quadro del Romanino sarà sentita con troppo sentimento di amor patrio» (p. 389). Probabilmente le cose stavano esattamente così: Basiletti non era un conoscitore; appartenne a una generazione precedente a quella che avrebbe riscritto i criteri di lettura del patrimonio artistico, e cercò di industriarsi secondo categorie di giudizio che, in linea di massima, erano ancora secentesche. In questo senso non gli mancò la percezione del senso di appartenenza di una tradizione pittorica locale che andava tutelata perché testimonianza di una tradizione. Era, probabilmente, il massimo che gli si poteva chiedere. E lui lo fece.

 

NOTE

[1] La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield. Lettere dall’Italia, a cura di Giovanni Mazzaferro, Milano, Officina Libraria, 2018

[2] Si veda Andrea Emiliani, Leggi, bandi, provvedimenti dei beni artistici e culturali negli antichi Stati italiani 1571-1860.

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