Luigi Basiletti
1780-1859
Carteggio artistico
A cura di Bernardo Falconi
Prefazione di Fernando Mazzocca
Verona, Scripta
Edizioni, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Il ritorno in auge di Luigi
Basiletti
Il nome di Luigi Basiletti
(1780-1859), pittore ed erudito, probabilmente non è familiare a molti, il che
testimonia da un lato l’attuale sfortuna della pittura italiana di primo
Ottocento e dall’altro l’essere percepito come legato fondamentalmente alla vita
civile e artistica bresciana, città di cui era originario e in cui visse. Il
vincolo con Brescia è innegabile. Di recente è stato sottolineato da una mostra
dedicata all’artista nel Museo Lechi a Montichiari (2017), e proprio mentre
scrivo la Fondazione Brescia Musei, in collaborazione con l’Ateneo di Brescia,
ne ha in corso un’altra (Luigi
Basiletti e l’Antico) che durerà fino 3 dicembre 2023. Siamo, del
resto, nell’anno di Brescia e Bergamo capitali italiane della cultura.
Il carteggio artistico di Basiletti
è stato, invece, pubblicato nel 2019, a cura di Bernardo Falconi, con il
contributo dello stesso Ateneo bresciano e raccoglie trecentotrentasette
lettere di interesse artistico scambiate fra il bresciano e decine di altri
corrispondenti. Si tratta, purtroppo, solo di un ‘segmento’ dell’intero
epistolario, che si presume costituito da alcune migliaia di missive. Falconi,
che ha condotto un lavoro ammirevole, è riuscito a ricostruirne una parte
avvalendosi sì di un nucleo più consistente conservato presso l’archivio
Fornasini di Castenedolo (Bs), ma allargando le ricerche a una trentina di
altri archivi. A ciò si aggiunga che le note sono sempre funzionali alla
contestualizzazione delle missive e che gli apparati finali sono ricchi e preziosi.
Siamo, insomma, di fronte a un’opera davvero pregevole.
Basiletti e la sua città
È fuori di dubbio che il nome di Basiletti sia legato indissolubilmente a Brescia, dove, peraltro, trascorse buona parte della sua vita professionale, con parentesi giovanili a Bologna (1801-1803), Roma (1803-1809) e un nuovo soggiorno romano fra maggio 1819 e maggio 1820. Mai, ad esempio, lasciò l’Italia per visitare città straniere. Esulando da una valutazione della sua produzione pittorica (che, comunque, il carteggio restituisce almeno nelle sue opere fondamentali), lo si ricorda come promotore e responsabile della campagna di scavi archeologici nell’area del Capitolium bresciano, il cui risultato più eclatante fu il rinvenimento, nel 1826, della statua bronzea della Vittoria alata; nonché come progettista del Museo Patrio, aperto nel 1830. «Un nobilissimo Museo capace di contenere i pezzi di antichità che sono di proprietà del comune e di particolari a tal fine ceduti in deposito»: così lo immaginava Basiletti in una sua lettera dell’agosto 1826 alla Congregazione Municipale cittadina, prevedendo una scansione in tre sale: la prima per le lapidi, la seconda per i materiali rinvenuti negli scavi archeologici in corso e una terza «destinata per quelli [n.d.r. per gli oggetti] della decadenza dell’arte e del suo risorgimento nel 1500» (p. 293). Si tratta, a dire il vero, di uno dei pochissimi accenni ai ‘primitivi’ da parte dell’artista, la cui fascinazione per le antichità romane fu, senza dubbio, ben superiore.
La Vittoria Alata, Parco archeologico di Brescia Fonte: Wolfgang Moroder Tramite Wikimedia Commons |
In ambito privato, spicca poi il rapporto senza dubbio
particolare, nutrito di una profonda amicizia, con il conte Paolo Tosio – o
Tosi - (1776-1842), per cui Basiletti fece un po’ di tutto: si occupò della ristrutturazione
e della decorazione del palazzo cittadino, ma anche di consulenze artistiche
relative a possibili acquisizioni e di porsi come intermediario per commissioni
presso gli artisti più celebri dell’epoca (da Thorvaldsen a Canova). Alla sua
morte, il conte Tosi donò le sue collezioni alla città, dando vita alla prima
pinacoteca della città: una dimostrazione di un senso civico che sicuramente
Tosi condivideva intimamente con Basiletti (entrambi, peraltro, senza eredi). È
in virtù di questo senso civico, non saprei dire fino a che misura nutrito di
patriottismo unitario (Basiletti, in una sua lettera del luglio 1850 dichiara
di essere stato «alieno sempre agli affari politici»; cfr. p. 433), che, nel
corso del carteggio, troviamo il pittore bresciano coinvolto in una serie di
iniziative aventi a oggetto l’interesse ultimo della città. E, me lo si lasci
dire, mentre spesso capita di leggere affermazioni che reclamano un impegno
civile e che chiaramente sono solo dichiarazioni di facciata, qui l’artista
sembra essere sempre sincero e amare visceralmente una città che,
evidentemente, non sempre lo seppe ricambiare con gratitudine, almeno a
giudicare dalle dimissioni rassegnate nel 1835 dalla Commissione agli scavi e
al Museo patrio di Antichità dovute, a quanto sembra, a dissapori con
l’architetto Rodolfo Vantini e con Luigi Lechi (cfr. lettera del 24 luglio
1838, p. 376). Proprio i rapporti con Luigi Lechi – a voler cercare il pelo
nell’uovo -, ossia con l’altro grande collezionista cittadino dell’epoca
(1786-1867) sono quelli che il carteggio non riesce a liberare da un cono
d’ombra; non è certo colpa del curatore: semplicemente non ci sono giunte le
carte e, quindi, poco ne sappiamo.
Non è naturalmente il caso, qui, di
entrare in ulteriori particolari sull’impegno civico di Basiletti. Vale la pena
sottolineare, tuttavia, che, direttamente o indirettamente, tramite Tosi, le
sue iniziative portarono a ridisegnare le tappe del tour che i visitatori non
bresciani (italiani o stranieri che fossero) eseguivano una volta arrivati alla
città. L’epistolario stesso mostra vari episodi in proposito (e il caso più
prestigioso è senza dubbio quello dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo Lorena),
Qui mi si lasci citare due righe dalle lettere di Mary Philadelphia Merrifield,
storica delle tecniche artistiche inglese, in visita a Brescia, che alla fine
del 1845 scriveva al marito: «L’albergo in cui abbiamo soggiornato a Brescia
era detestabilmente sporco (n.d.r. Bruno Barbieri, pensaci tu!), la cucina
pessima e dappertutto si sentiva un gran odore di aglio. Il giorno dopo siamo
andati a vedere il Museo delle Antichità Romane per via delle pitture antiche
che erano menzionate sulla guida del Murray. Ne ho portato via un piccolo
frammento, sufficiente per studiare colori e superficie. Poi siamo andati a
visitare le due cattedrali e la chiesa di Santa Afra, nonché la galleria del
conte Tosi, che alla sua morte egli ha donato alla città» [1].
Basiletti e Roma
Bresciano fino al midollo, Basiletti,
in realtà, adorava Roma. Non si tratta, probabilmente, solo dell’amore per le
testimonianze dell’nantichità classica, che pure ci fu, e fortissima. Molto
probabilmente la cosa ebbe anche una dimensione personale. Come abbiamo visto il
pittore fu nell’Urbe dal 1803 al 1809, dopo una prima esperienza presso
l’Accademia di Belle Arti di Bologna; sono gli anni della maturazione artistica
e delle grandi amicizie. Forse è un caso, ma i bresciani Basiletti e Tosi si
conobbero a Roma, non nella loro patria. E gran parte dei corrispondenti del
pittore (fatta eccezione per le lettere ufficiali) sono sue conoscenze romane
giovanili, da Pelagio Palagi al pittore senese Giuseppe Collignon,
dall’architetto Basilio Mazzoli al triestino Pietro Nobile, poi trasferitosi a
Vienna presso la corte imperiale. Si ha insomma, chiara, la percezione di un
gruppo di artisti sostanzialmente coetanei la cui amicizia si cementa (verrebbe
quasi da dire ‘attorno a Basiletti’) in anni particolarmente difficili da un
punto di vista politico a Roma. Appare anche evidente l’ammirazione per la
generazione precedente, quella che ha fatto trionfare il neoclassico: Canova e
Thorvaldsen sono i riferimenti d’obbligo, ma non mancano notizie sul piacentino
Gaspare Landi e su Vincenzo Camuccini. Esattamente come
nell’epistolario di Landi, si colgono, sullo sfondo, le incertezze
legate alle vicende belliche e la difficoltà di riuscire a sbarcare il lunario
in una città che vive una crisi profonda: nel dicembre 1807, ad esempio,
Basiletti scrive a Tosi (nel frattempo tornato a Brescia) dando per fatta «la vendita
del gran museo della villa Borghesi. Esso verrà trasportato a Parigi, e perfino
le tavole, e colonne di granito e porfido. Si dice venduto per tre millioni di
franchi. Questo era l’unico museo rimasto intatto. Il Gladiatore, il Sileno,
l’Ermafrodito, la testa di Lucio Vero sono le statue di prima bellezza che rimanevano
al Italia, ora verranno ad essere rapite» (p. 82). Nel maggio 1810 Collignon
avvisa Basiletti che «qua [n.d.r a Roma] gli artisti sono avviliti, e nessuno
ha da fare» (p. 98); tre mesi dopo si considera fortunato per avere commissioni:
«e questi [n.d.r. i pittori di Roma] guardano la loro tavolozza, e gli scultori
li scalpelli» (p. 102). Gli anni successivi, dal 1814 in poi, vedono un
peggioramento della situazione, con moti popolari e l’esplodere del fenomeno del
brigantaggio nelle campagne, che impedisce agli artisti di effettuare gite
artistiche nei dintorni della città (ad es. p. 258). E, ancora, a giudicare
dalle testimonianze, diminuisce il numero degli artisti stranieri. Basiletti
mantiene sempre, insomma, uno stretto contatto con una città che ha amato profondamente:
«Io non so che desiderare che il momento di rivedere Roma perché per gli
artisti non vi è che Roma» (p. 130). Appare evidente che il suo impegno negli
scavi archeologici bresciani è una diretta conseguenza di una passione maturata
in giovinezza fra le rovine dell’Urbe; quando si tratta di proporre la
creazione del museo patrio, non a caso, l’uomo si relaziona alle
‘restaurazioni’ eseguite da Valadier sull’arco di Tito e sul Colosseo (p. 292).
Il restauro
Nel carteggio non mancano aspetti marginali che però possiamo mettere a confronto con quelle che erano le tendenze dell’epoca per capire meglio come si collocasse l’artista; uno di questi è quello del restauro. Non pare, in tutta onestà, che Basiletti ne abbia fatta una delle sue fonti di reddito principali. Tuttavia, in quanto eminente artista, viene interrogato nel 1837 dalla Fabbriceria della chiesa bresciana di San Clemente sull’opportunità, ed eventualmente, le modalità di restaurare due dipinti del Moretto (cfr. p. 368).
Morello, Le Sante martiri, Brescia, Chiesa di San Clemente Fonte: https://www.scopribrescia.com/chiesa-clemente-brescia-il-tempio-moretto/moretto-le-sante-martiri-chiesa-san-clemente-brescia/ |
Il pittore conferma l’opportunità di
procedere al restauro, indica il nome di Giovanni Battista Speri come figura
più adatta, si preoccupa di stendere una relazione sugli interventi da fare e
si impegna a controllare che tutto sia stato eseguito a regola d’arte prima di autorizzare
il pagamento. Sono individuati interventi meccanici che vanno dall’ ‘appianamento
di ogni ineguaglianza’ a una nuova foderatura; è inoltre segnalata la necessità
di interventi di pennello: «i ritocchi fatti al medesimo quadro già venti e più
anni essendo […] di colore saranno leggermente raschiati, e fatti di nuovo
colla massima diligenza, non sovrapponendo colore nuovo al colore originale, ma
stando nel limite circoscritto come sopra» (pp. 371). Complessivamente mi pare
si possa dire che siamo nell’ambito delle consuete raccomandazioni del restauro
mimetico all’altezza di questi anni. Non si parla di patine, anche se si raccomanda
la massima cura nella pulitura «affinché le tinte originali non venghino ad
essere pregiudicate» (p. 371 e che «l’ultima di mano di vernice dovrà essere
data alli sudetti quadri quando verranno collocati al loro luogo» (p. 376), probabilmente
per giudicare dell’armonia cromatica in relazione alle condizioni di luce.
Le stime dei quadri
Occasionalmente (oltre a occuparsi di
commissionare nuove opere soprattutto per Paolo Tosi) Basiletti è chiamato a
dare il suo parere in merito a opere per le quali è richiesto il permesso all’esportazione.
La situazione appare abbastanza chiara: con risoluzione del 18 marzo 1827 era
stato deliberato il diritto di prelazione all’acquisto da parte dello Stato nel
caso in cui le opere fossero state giudicate di particolare interesse [2]. Così,
il 21 novembre 1841 (e il 9 gennaio 1842) Basiletti si esprime su alcuni quadri
venduti dal nobile Antonio Brognoli a Gustav Waagen, direttore della Gemaldegälerie
di Berlino. Fra questi il Compianto sul Cristo morto del Romanino per il
quale invoca, appunto, il diritto di prelazione: «In questo quadro si elevò di
tanto che posto vicino a qualunque altro autore non teme confronto, ed è tanta
la forza, il brio del colorito, la verità e l’espressione delle figure che di
buona voglia gli si condona l’inesattezza del disegno, e la mancanza di dignità
nel concetto, e venustà delle forme. Il Ridolfi
che vidde questo quadro ne parla con molta lode, e del pari la replicò il Lanzi»
(p. 389). A ben vedere si tratta di un giudizio che evidenzia una lettura dell’opera
basata su canoni attardati; sicuramente Basiletti non sembra essere entrato in
contatto con gli esponenti tedeschi della Kunstwissenschaft (Waagen per
primo), che propongono analisi stilistiche assai più pregnanti e più attente al
valore storico delle opere che a quello estetico. ‘L’inesattezza del disegno’ e
la mancanza di decoro con cui è reso il soggetto sono, a questo proposito,
eloquenti. Da notare, peraltro, che le citazioni della bibliografia precedente
(Ridolfi e Lanzi) sono argomenti forti per sostenere l’importanza del dipinto. Il
parere di Basiletti evidentemente non venne ascoltato, perché l’opera finì a
Berlino, dove venne distrutta nel 1945 in seguito agli eventi bellici della
Seconda guerra mondiale.
Riproduzione fotografica della Deposizione del Romanino (opera distrutta nella Seconda guerra mondiale) Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Compianto_sul_Cristo_morto_(Romanino) |
Una condotta molto simile è
rintracciabile in una lettera appena successiva, questa volta relativa a un Ritratto
di bella giovine venduto da Teodoro Lechi a Waagen e dato, evidentemente, a
Veronese: «Eccone la mia opinione. Rappresentante il quadro un ritratto di
giovine donna vestita in costume veneziano del 1500 […] Non ravvisando in quest’opera
armonia di esecuzione, slancio di composizione e brio di colorire proprio di
Paolo Veronese, mi nasce dubbio che sia sua opera, ma di qualche altro sommo
artista contemporaneo, ne di tal belezza da spiccare come capo lavoro d’arte»
(p. 390). Si tratta, come è evidente, di affermazioni che nulla hanno a che
spartire con le metodologie di giudizio che saranno proprie di un Cavalcaselle
o di un Morelli
già da una decina d’anni dopo.
Ancora più deludente la missiva del 6
marzo 1842, in cui Basiletti stila una lista di opere acquisite da Teodoro
Lechi successivamente al 1828 (anno in cui, evidentemente aveva ottenuto un
precedente permesso di esportazione) ed è chiamato a esprimersi sulla richiesta
di poter mandare all’estero anche queste. Compaiono nomi altisonanti, da Annibale
Carracci ad Albani e Guercino, da Bernardino Luini a Raffaello (il Ritratto
del vescovo Altobello Averoldo è in realtà di Francesco Francia e si trova oggi
in collezione Kress), Tiziano e Veronese. Qui il giudizio è di una brevità
sconcertante e fa capire come, in realtà, le prescrizioni di legge fossero poco
più che formalità: «Riconosciuti tutti i quadri di sopra citati di ragione del
conte Teodoro Lechi giudico che alcuni sono originali ed altri di autori a me
sconosciuti, e tutti assieme, o in parte, non di tale somma bellezza, come mi
sembra si vole dal Imperial Regia Accademia di Milano, per essere dichiarati
capi lavori d’arte, e per essere compresi nella categoria dei riservati dalla
sovrana patente, o risoluzione, 18 marzo 1827 per la relativa prelazione per
parte dello Stato» (p. 397).
Nel chiedere che la Deposizione
del Romanino di cui abbiamo sopra parlato fosse invece oggetto di prelazione,
il pittore si scusò: «questa è la mia opinione che forse riguardo al quadro del
Romanino sarà sentita con troppo sentimento di amor patrio» (p. 389).
Probabilmente le cose stavano esattamente così: Basiletti non era un
conoscitore; appartenne a una generazione precedente a quella che avrebbe
riscritto i criteri di lettura del patrimonio artistico, e cercò di industriarsi
secondo categorie di giudizio che, in linea di massima, erano ancora
secentesche. In questo senso non gli mancò la percezione del senso di appartenenza
di una tradizione pittorica locale che andava tutelata perché testimonianza di
una tradizione. Era, probabilmente, il massimo che gli si poteva chiedere. E
lui lo fece.
NOTE
[1] La donna che amava i colori.
Mary
P. Merrifield. Lettere dall’Italia, a cura di Giovanni Mazzaferro,
Milano, Officina Libraria, 2018
[2] Si veda Andrea
Emiliani, Leggi, bandi, provvedimenti dei beni artistici e culturali negli
antichi Stati italiani 1571-1860.
forse riguardo al quadro del Romanino
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