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lunedì 17 aprile 2023

Cristiana Pasqualetti, Il 'Libellus ad faciendum colores' dell'Archivio di Stato dell'Aquila

 

Cristiana Pasqualetti
Il Libellus ad faciendum colores dell’Archivio di Stato dell’Aquila
Origine, contesto e restituzione del “De arte illuminandi”


Firenze, Sismel – Edizioni del Galluzzo, 2011

Recensione di Giovanni Mazzaferro


Dal De arte illuminandi al Libellus ad faciendum colores

Pubblicato per la prima volta nel 1877 da Demetrio Salazaro, ispettore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il De arte illuminandi è uno dei più celebri trattati di miniatura noti alla letteratura tecnico-artistica. Ne sono uscite più edizioni, fra le quali mi limiterò a citare quella di Daniel V. Thompson (autore di uno straordinario numero di pubblicazioni sui ricettari medievali nel corso degli anni Trenta dello scorso secolo) e la classica versione curata da Franco Brunello nel 1975 [1]. Il trattato era noto in un unico testimone, il manoscritto XII.E.27 della Biblioteca Nazionale di Napoli, fascicolato in un unico codice assieme ad altri scritti (com’è, di fatto, prassi in questi casi). Mentre tutti gli interpreti convergevano su una redazione in area napoletana, più discussa è stata la datazione dell’opera (si badi bene, non del solo testimone, che è un apografo (ossia una copia), ma dell’originale in sé). Così, dall’esame dei contenuti delle ricette si è spaziato dal primo al tardo Trecento, ma non sono mancate letture alternative, che spostavano la redazione dello scritto molto più avanti (addirittura al Cinquecento) o più indietro. Di particolare interesse, per l’autorevolezza della studiosa, l’ipotesi di Silvia Tosatti, in base alla quale il De arte illuminandi doveva essere stato scritto addirittura a fine Duecento.

Questo è stato, con molte semplificazioni, lo stato dell’arte fino al primo decennio degli anni Duemila, quando un nuovo testimone del trattato è stato rinvenuto presso l’Archivio di Stato dell’Aquila, con segnatura ms. S 57. A questa versione è dedicato appunto il presente volume, pubblicato nel 2011 da Cristiana Pasqualetti, che ha studiato il testo in maniera esemplare. Ne è risultato che, da più di dieci anni a questa parte, molte cose, sul De arte illuminandi, sono state riviste, a cominciare dal titolo. Né il fascicolo napoletano né quello aquilano, in realtà, ne presentano uno (De arte illuminandi è, insomma, un titolo di comodo che è stato attribuito in base ai contenuti del codice), ma nel caso abruzzese esiste una tabula delle materie (un indice, per essere più chiari) che elenca i contenuti del codice miscellaneo e che lo indica come «Libellus ad faciendum colores dandos in carta». Questo, dunque, il titolo più pertinente dell’opera, fermo restando, naturalmente, che, anche se lo si continua a chiamare De arte illuminandi, gli esperti del settore sanno benissimo di cosa stiamo parlando.

Niccolò da Bologna, Capolettera raffigurante la Pentecoste da un corale dal monastero di Santo Spirito a Lucca
Fonte: https://www.getty.edu/art/collection/object/1096YP

Un trattato di miniatura

Non a caso, sin dall’inizio, ho chiamato il Libellus un trattato (ed è quello che, naturalmente, fa anche Pasqualetti). Nella letteratura tecnico-artistica, infatti, si tende a distinguere fra trattati e ricettari. Mi permetto di trascrivere qui quanto ho già avuto modo di esporre recensendo gli Atti del seminario “Trattati e ricettari per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche”, pubblicati sul numero 16/2016 di Studi di Memofonte: «Con il termine ‘trattato’ si intendono gli scritti di contenuto autorale che si presumono conferire apporti personali alla materia; i ‘ricettari’, invece, sono “raccolte di carattere compilativo e redazionale, realizzati per compilazione e assemblaggio di ricette tratte principalmente da altre fonti” (p. 25). Ne deriva che i “trattati” sono in genere sottoinsieme dei “ricettari”, che raccolgono compilazioni di vario tipo.»

Non vi è dubbio alcuno, ad avviso dell’autrice (e molto più modestamente anche mio) che, pur anonimo, il Libellus sia un trattato autorale, ben organizzato, a giudicare da quanto si può vedere nei due testimoni (anche il secondo, naturalmente, è un apografo), con apporti personali alla materia, Basta leggere in proposito le prime tre righe del Proemio (Pasqualetti fornisce sia il testo originale in tardo latino e la traduzione in italiano; io mi limito a citare la traduzione): «Nel nome della santa e individua Trinità, amen. Intendo innanzitutto scrivere in maniera semplice e senza ricorso ad alcuna autorità, bensì per spirito di carità, di alcune cose relative all’arte di miniare i libri tanto con la penna quanto con il pennello» (p. 59). Si tratta di una vera e propria dichiarazione d’intenti.

 

Il testimone aquilano

Del codice miscellaneo che contiene il Libellus sappiamo molte cose: proviene (dopo vari passaggi intermedi) dal convento di Sant’Angelo d’Ocre (a 15 km dall’Aquila), dal 1480 gestito dai francescani osservanti della Provincia di San Bernardino.

Convento di Sant'Angelo d'Ocre
Fonte: Pietro tramite Wikimedia Commons


Sappiamo anche chi ne fu proprietario. Si tratta del beato Bernardino da Fossa (o Bernardino Aquilano), figura di spicco proprio dei francescani osservanti (1422 circa-1503). Morto nel convento di San Giuliano all’Aquila, fu sepolto dal 1515 in quello di Sant’Angelo d’Ocre. Ci è pure noto che la maggior parte dei suoi libri fu trasferita da San Giuliano a Sant’Angelo in occasione della traslazione della salma. Probabile, quindi, che anche il Libellus si trovasse a San Giuliano. La proprietà del codice è provata da una nota autografa del beato Bernardino. Non solo: la maggior parte dei manoscritti che lo compongono (ma non il Libellus) è indubitabilmente scritta con la calligrafia di Bernardino. Conosciamo addirittura la data in cui il manoscritto fu copiato: la circostanza avvenne nel 1432 (e si capisce come la calligrafia non possa essere quella di Bernardino da Fossa: aveva dieci anni). Non è possibile procedere a ritroso nella collocazione del manoscritto. Ė importante operare alcune precisazioni sul fenomeno della presenza dei francescani minoriti in Abruzzo. La nascita degli osservanti risale al 1350 e, verso la fine del Trecento, conosce una forte espansione, che diventa travolgente a inizio Quattrocento con figure di grandi predicatori come Bernardino da Siena. Proprio Bernardino da Siena morì a L’Aquila nel 1444 e la sua salma fu tumulata in una basilica in città eretta in suo onore. Tutto questo per dire che la presenza degli osservanti in Abruzzo e il numero dei loro conventi aumentano costantemente e in maniera sempre più rapida fra Tre e Quattrocento, determinando un parallelo incremento nella richiesta di strumenti liturgici come messali, salteri e quant’altro. Da qui l’accresciuta domanda per la decorazione dei medesimi e un ruolo sempre maggiore per i miniatori. Indicativo del momento particolare è il racconto agiografico con cui Bernardino da Fossa narra la vita del beato Filippo da Cascina, morto a Sulmona nel 1456, che sarebbe divenuto calligrafo (e probabilmente miniatore) per miracolo; ciò che importa è l’ammissione che non vi era nessuno, a Chieti, in grado di scrivere un salterio per l’ordine.

È molto probabile che l’autore del trattato originario fosse un religioso; alcune spie nel testo portano a propendere per quest’ipotesi. Nel proemio, ad esempio, più che l’invocazione iniziale alla Santissima Trinità (presente anche nel Libro dell’Arte di Cennino Cennino oltre alla dedica ad altri santi; ma Cennino era un laico) è spia importante quello ‘spirito di carità’ che viene evocato dall’autore. In questo senso si comprenderebbe meglio anche lo scopo per cui il trattato fu scritto: «chiarire i procedimenti migliori e più brevi, affinché gli esperti trovino conferma alle loro opinioni» e, soprattutto, «gli inesperti, desiderosi di acquisire quest’arte, possano apprenderla facilmente e anche metterla in pratica»: far fronte, insomma, alla carenza di miniatori introducendo al mestiere tramite uno scritto strutturato, in cui a essere suggeriti sono «i procedimenti migliori e più brevi», «in maniera semplice e senza ricorso ad alcuna autorità» (p. 59). Lo scopo, come si vede, è particolarmente ambizioso; sarebbe bello sapere se abbia avuto una ricaduta pratica; cert’è che lo scritto, complessivamente, mantiene una sua coerenza didattica, non puntando all’esaustività ma alla praticità: così, ad esempio, sono descritti solo i principali procedimenti per ottenere i colori (a volte uno solo) e, addirittura, nel caso del bianco e del rosso artificiale si rinuncia a esporre i vari passaggi di estrazione, semplicemente perché si trovano ovunque in abbondanza e sono, quindi, facilmente acquistabili.


Capolettera con martirio di San Sebastiano da un antifonario di Berardo da Teramo oggi presso la Fondazione Cini a Venezia
Fonte: https://www.famedisud.it/codici-miniati-fra-medioevo-e-rinascimento-in-mostra-al-palazzo-de-mayo-di-chieti/


L’esemplare napoletano: ipotesi sulla provenienza

Anche l’esemplare conservato a Napoli, l’unico noto fino a inizio millennio, probabilmente proviene dall’aquilano. Lo confermano vari indicatori; l’analisi linguistica, ad esempio, suggerisce che entrambi i testimoni siano di area linguistica mediana (sto usando un termine tecnico), perfettamente compatibile con un’origine abruzzese. Pasqualetti avanza l’ipotesi, molto convincente, che potesse far parte di un nucleo molto consistente di manoscritti (circa duecento) che nel 1789, per iniziativa di Francesco Saverio Gualtieri, prefetto della Real Biblioteca Borbonica di Napoli, furono requisiti dalla biblioteca del convento francescano di San Bernardino a L’Aquila. Nel catalogo redatto per l’occasione da Gualtieri spicca, al n. 2 un «manoscritto di cose mediche, senza capo e senza coda, perg. in 16» che ben si attaglia al caso del ms. XII.E.47, che comincia, acefalo, da estratti del De urinis e del De pulsibus e termina, anch’esso, improvvisamente (p. XXXIX). Il confronto fra i due testimoni mostra che, al netto degli errori materiali degli amanuensi, molto probabilmente furono copiati da uno stesso originale. L’esemplare aquilano, tuttavia, è più completo di quello campano. Comprende, ad esempio, una ricetta finale (al paragrafo XXXIV) sulla crisografia (ossia sul modo di scrivere in oro) che, pur in una posizione strana, ossia dopo il salto di una mezza pagina vuota, «s’accorda con quanto precede sia sul piano espressivo che sul piano dei contenuti». Daniel Thompson, non a caso, aveva notato, nel 1933, la mancanza di una sezione dedicata alla crisografia, che era annunciata nella parte proemiale del trattato. Secondo Pasqualetti, «è (…) probabile che il paragrafo non sia frutto dell’iniziativa dell’amanuense e che egli abbia avuto a disposizione una redazione più avanzata del Libellus» (p. 175). Ho letto con attenzione le pagine dedicate a quest’aspetto (pp. 11-13) e, in tutta onestà, mentre provo un’ammirazione sconfinata per il lavoro dell’autrice, nel caso specifico non sono del tutto convinto. Per spiegarmi devo però un passo indietro.

 

La datazione dell’originale e delle copie

Secondo Pasqualetti, in base a una serie di considerazioni testuali, paleografiche e tecniche, la redazione del Libellus dovrebbe risalire alla fine del Trecento, sostanzialmente in coincidenza cronologica col Libro dell’arte di Cennino Cennino con cui condivide anche forti similitudini nell’approccio espositivo della materia (ognuno naturalmente per sé: il Libellus si limita alla miniatura). L’autrice non esclude, addirittura, che l’anonimo autore del nostro codice potesse conoscere il lavoro di Cennino (e quindi aver scritto l’opera a inizio Quattrocento). Mette in evidenza, in proposito, le relazioni fra l’Abruzzo e la Padova dei Carraresi dove il nativo di Colle val d’Elsa redasse il suo scritto. È chiaro, tuttavia, che preferisce pensare a una datazione lievemente precedente, alla fine del Trecento. Per quanto riguarda gli apografi, ritiene che quello campano sia stato redatto entro il 1425, mentre nel caso aquilano sappiamo con certezza che la data di trascrizione fu il 1432. Pasqualetti suggerisce, come già detto, che i due testimoni rispecchino due fasi diverse della redazione di un medesimo originale; l’autore di quest’ultimo sarebbe intervenuto (quando? Giorni, mesi, anni, anni dopo?) per aggiungere la sezione dedicata alla crisografia. Quello che poco mi convince è proprio il punto di forza del trattato, ossia la sua compattezza e strutturazione: è evidente sin dal proemio – lo scrive Thompson – che nel Libellus ci sarebbe stata una parte dedicata alla crisografia. Perché scriverla in un secondo momento? Perché lasciare che fosse copiata una versione incompleta rispetto al progetto originale? Sono domande che mi pongo da assoluto profano, ma che secondo me hanno una logica; non, purtroppo, una risposta che ovviamente non sono in grado di dare.

 

Il Libellus e la letteratura artistica precedente

Qualsiasi sia stata la sequenza delle trascrizioni, è comunque evidente un fatto. Il Libellus non ebbe una grande circolazione, rimanendo localizzato in area abruzzese (salvo le requisizioni di cui si è detto per via delle quali una copia è finita a Napoli). Naturalmente bisogna essere cauti su questi aspetti, perché è evidente che codici di questo tipo sono particolarmente fragili e facilmente vengono distrutti. Certo però che non c’è il minimo paragone rispetto al De Coloribus et Mixtionibus, testimoniato da una sessantina di manoscritti in forma integrale o parziale (sappiamo però che spesso fu fagocitato da altre opere e che solo negli anni Trenta del Novecento fu riconosciuto come testo autonomo). In proposito Paqualetti fa presente che consonanze molto mediate si avvertono rispetto al DCM, come pure al De diversis artibus di Teofilo (di cui continua a mancare un’affidabile edizione italiana). «Tolti questi e pochi altri casi, però, la maggior parte delle ricette selezionate dall’autore del Libellus mostrano, anche sul piano espositivo, affinità importanti da un lato con il Liber colorum di Maestro Bernardo, ricettario databile alla seconda metà del Duecento, e con il Liber de coloribus di Torino [n.d.r. entrambi esaminati nel numero monografico di Studi di Memofonte già citato] un trattatello forse già trecentesco, dall’altro con compilazioni cronologicamente vicine al nostro come Segreti per colori e la silloge del notaio Jean Lebègue, le quali potrebbero anche aver attinto dalle stesse fonti» (p. LXXXI). Il discorso sul Libro dell’arte di Cennino Cennini è ancora diverso; si è già detto che emergono, dall’esame delle due opere, importanti parallelismi che sembrano confermare quanto già risultante da altre analisi di diversa natura, ovvero una sostanziale coincidenza cronologica.

 

La struttura dell’opera e l’edizione Pasqualetti

Il ritrovamento del secondo testimone del Libellus ha permesso, naturalmente, di chiarire molti aspetti legati alla struttura dell’opera originale. È ora chiaro, da evidenze interne, che il trattatello si componeva di un proemio e di due libri; il primo dedicato alla preparazione e dei coloranti, delle colle, dei leganti e degli additivi; il secondo alla messa in opera di pigmenti e coloranti. Il tutto per un numero complessivo di paragrafi pari a XXIV (contro i XXXII che erano stati individuati dagli interpreti del testimone napoletano). Paqualetti presenta un lungo ed eccellente studio introduttivo in cui illustra le questioni principali legate al manoscritto e al contesto di produzione; seguono la nota al testo e la riproduzione facsimilare del testimone. È poi la volta della trascrizione del testo latino con traduzione italiana a fronte e un ricco apparato di note di commento a piè di pagina. È ovviamente seguito il testo aquilano, ma sono sempre segnalate le discrepanze con quello conservato a Napoli. Subito dopo è fruibile un saggio di Paolo Bensi (Le materie coloranti del Libellus) che si sofferma sugli aspetti più propriamente legati alla chimica, a cui segue un ottimo glossario con citazioni della bibliografia precedente per ogni termine preso in esame. Insomma, un’opera davvero impeccabile che, purtroppo, è andata esaurita quasi subito e perciò, di fatto, non è reperibile sul mercato, aspetto a cui bisognerebbe davvero rimediare almeno con una ristampa,


NOTE

[1] An Anonymous Fourteenth-Century Treatise. De Arte illuminandi – the Technique of Manuscript Illumination Translated from the Latin of Naples MS XII.E.27 by D. Varney Thompson Jr. and G.H. Hamilton, 1933;  Franco Brunello, De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale, Vicenza, Neri Pozza, 1975.


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