Cristiana Pasqualetti
Il Libellus ad faciendum colores dell’Archivio di Stato dell’Aquila
Origine, contesto e restituzione del “De arte illuminandi”
Firenze, Sismel – Edizioni del Galluzzo, 2011
Dal De arte
illuminandi al Libellus ad faciendum colores
Pubblicato per la prima volta nel 1877
da Demetrio Salazaro, ispettore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il De
arte illuminandi è uno dei più celebri trattati di miniatura noti alla
letteratura tecnico-artistica. Ne sono uscite più edizioni, fra le quali mi
limiterò a citare quella di Daniel V. Thompson (autore di uno
straordinario numero di pubblicazioni sui ricettari medievali nel corso degli
anni Trenta dello scorso secolo) e la classica versione curata da Franco
Brunello nel 1975 [1]. Il trattato era noto in un unico testimone, il
manoscritto XII.E.27 della Biblioteca Nazionale di Napoli, fascicolato in un
unico codice assieme ad altri scritti (com’è, di fatto, prassi in questi casi).
Mentre tutti gli interpreti convergevano su una redazione in area napoletana,
più discussa è stata la datazione dell’opera (si badi bene, non del solo
testimone, che è un apografo (ossia una copia), ma dell’originale in sé). Così,
dall’esame dei contenuti delle ricette si è spaziato dal primo al tardo
Trecento, ma non sono mancate letture alternative, che spostavano la redazione
dello scritto molto più avanti (addirittura al Cinquecento) o più indietro. Di
particolare interesse, per l’autorevolezza della studiosa, l’ipotesi di Silvia
Tosatti, in base alla quale il De arte illuminandi doveva essere stato
scritto addirittura a fine Duecento.
Questo è stato, con molte
semplificazioni, lo stato dell’arte fino al primo decennio degli anni Duemila,
quando un nuovo testimone del trattato è stato rinvenuto presso l’Archivio di
Stato dell’Aquila, con segnatura ms. S 57. A questa versione è dedicato appunto
il presente volume, pubblicato nel 2011 da Cristiana Pasqualetti, che ha
studiato il testo in maniera esemplare. Ne è risultato che, da più di dieci
anni a questa parte, molte cose, sul De arte illuminandi, sono state
riviste, a cominciare dal titolo. Né il fascicolo napoletano né quello
aquilano, in realtà, ne presentano uno (De arte illuminandi è, insomma,
un titolo di comodo che è stato attribuito in base ai contenuti del codice), ma
nel caso abruzzese esiste una tabula delle materie (un indice, per
essere più chiari) che elenca i contenuti del codice miscellaneo e che lo
indica come «Libellus ad faciendum colores dandos in carta». Questo, dunque, il
titolo più pertinente dell’opera, fermo restando, naturalmente, che, anche se
lo si continua a chiamare De arte illuminandi, gli esperti del settore sanno
benissimo di cosa stiamo parlando.
Niccolò da Bologna, Capolettera raffigurante la Pentecoste da un corale dal monastero di Santo Spirito a Lucca Fonte: https://www.getty.edu/art/collection/object/1096YP |
Un trattato di miniatura
Non a caso, sin dall’inizio, ho chiamato
il Libellus un trattato (ed è quello che, naturalmente, fa anche
Pasqualetti). Nella letteratura tecnico-artistica, infatti, si tende a
distinguere fra trattati e ricettari. Mi permetto di trascrivere qui quanto ho già
avuto modo di esporre recensendo gli Atti del seminario “Trattati e ricettari
per colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche”, pubblicati sul numero 16/2016 di Studi di Memofonte: «Con il termine ‘trattato’ si
intendono gli scritti di contenuto autorale che si presumono conferire apporti
personali alla materia; i ‘ricettari’, invece, sono “raccolte di carattere
compilativo e redazionale, realizzati per compilazione e assemblaggio di
ricette tratte principalmente da altre fonti” (p. 25). Ne deriva che i
“trattati” sono in genere sottoinsieme dei “ricettari”, che raccolgono
compilazioni di vario tipo.»
Non vi è dubbio alcuno, ad avviso
dell’autrice (e molto più modestamente anche mio) che, pur anonimo, il Libellus
sia un trattato autorale, ben organizzato, a giudicare da quanto si può vedere nei
due testimoni (anche il secondo, naturalmente, è un apografo), con apporti
personali alla materia, Basta leggere in proposito le prime tre righe del
Proemio (Pasqualetti fornisce sia il testo originale in tardo
latino e la traduzione in italiano; io mi limito a citare la traduzione): «Nel
nome della santa e individua Trinità, amen. Intendo innanzitutto scrivere in
maniera semplice e senza ricorso ad alcuna autorità, bensì per spirito di
carità, di alcune cose relative all’arte di miniare i libri tanto con la penna
quanto con il pennello» (p. 59). Si tratta di una vera e propria dichiarazione
d’intenti.
Il
testimone aquilano
Del codice miscellaneo che contiene il Libellus sappiamo molte cose: proviene (dopo vari passaggi intermedi) dal convento di Sant’Angelo d’Ocre (a 15 km dall’Aquila), dal 1480 gestito dai francescani osservanti della Provincia di San Bernardino.
Convento di Sant'Angelo d'Ocre Fonte: Pietro tramite Wikimedia Commons |
Sappiamo anche chi ne fu
proprietario. Si tratta del beato Bernardino da Fossa (o Bernardino Aquilano),
figura di spicco proprio dei francescani osservanti (1422 circa-1503). Morto nel
convento di San Giuliano all’Aquila, fu sepolto dal 1515 in quello di
Sant’Angelo d’Ocre. Ci è pure noto che la maggior parte dei suoi libri fu
trasferita da San Giuliano a Sant’Angelo in occasione della traslazione della
salma. Probabile, quindi, che anche il Libellus si trovasse a San
Giuliano. La proprietà del codice è provata da una nota autografa del beato
Bernardino. Non solo: la maggior parte dei manoscritti che lo compongono (ma
non il Libellus) è indubitabilmente scritta con la calligrafia di
Bernardino. Conosciamo addirittura la data in cui il manoscritto fu copiato: la
circostanza avvenne nel 1432 (e si capisce come la calligrafia non possa essere
quella di Bernardino da Fossa: aveva dieci anni). Non è possibile procedere a
ritroso nella collocazione del manoscritto. Ė importante operare alcune
precisazioni sul fenomeno della presenza dei francescani minoriti in Abruzzo. La
nascita degli osservanti risale al 1350 e, verso la fine del Trecento, conosce
una forte espansione, che diventa travolgente a inizio Quattrocento con figure
di grandi predicatori come Bernardino da Siena. Proprio Bernardino da Siena
morì a L’Aquila nel 1444 e la sua salma fu tumulata in una basilica in città
eretta in suo onore. Tutto questo per dire che la presenza degli osservanti in
Abruzzo e il numero dei loro conventi aumentano costantemente e in maniera
sempre più rapida fra Tre e Quattrocento, determinando un parallelo incremento
nella richiesta di strumenti liturgici come messali, salteri e quant’altro. Da
qui l’accresciuta domanda per la decorazione dei medesimi e un ruolo sempre
maggiore per i miniatori. Indicativo del momento particolare è il racconto
agiografico con cui Bernardino da Fossa narra la vita del beato Filippo da
Cascina, morto a Sulmona nel 1456, che sarebbe divenuto calligrafo (e
probabilmente miniatore) per miracolo; ciò che importa è l’ammissione che non
vi era nessuno, a Chieti, in grado di scrivere un salterio per l’ordine.
È molto probabile che l’autore del
trattato originario fosse un religioso; alcune spie nel testo portano a
propendere per quest’ipotesi. Nel proemio, ad esempio, più che l’invocazione
iniziale alla Santissima Trinità (presente anche nel Libro dell’Arte di Cennino Cennino
oltre alla dedica ad altri santi; ma Cennino era un laico) è spia importante
quello ‘spirito di carità’ che viene evocato dall’autore. In questo senso si
comprenderebbe meglio anche lo scopo per cui il trattato fu scritto: «chiarire
i procedimenti migliori e più brevi, affinché gli esperti trovino conferma alle
loro opinioni» e, soprattutto, «gli inesperti, desiderosi di acquisire
quest’arte, possano apprenderla facilmente e anche metterla in pratica»: far
fronte, insomma, alla carenza di miniatori introducendo al mestiere tramite uno
scritto strutturato, in cui a essere suggeriti sono «i procedimenti migliori e
più brevi», «in maniera semplice e senza ricorso ad alcuna autorità» (p. 59). Lo
scopo, come si vede, è particolarmente ambizioso; sarebbe bello sapere se abbia
avuto una ricaduta pratica; cert’è che lo scritto, complessivamente, mantiene
una sua coerenza didattica, non puntando all’esaustività ma alla praticità:
così, ad esempio, sono descritti solo i principali procedimenti per ottenere i
colori (a volte uno solo) e, addirittura, nel caso del bianco e
del rosso artificiale si rinuncia a esporre i vari passaggi di estrazione,
semplicemente perché si trovano ovunque in abbondanza e sono, quindi,
facilmente acquistabili.
L’esemplare
napoletano: ipotesi sulla provenienza
Anche l’esemplare conservato a Napoli,
l’unico noto fino a inizio millennio, probabilmente proviene dall’aquilano. Lo
confermano vari indicatori; l’analisi linguistica, ad esempio, suggerisce che
entrambi i testimoni siano di area linguistica mediana (sto usando un termine
tecnico), perfettamente compatibile con un’origine abruzzese. Pasqualetti
avanza l’ipotesi, molto convincente, che potesse far parte di un nucleo molto
consistente di manoscritti (circa duecento) che nel 1789, per iniziativa di
Francesco Saverio Gualtieri, prefetto della Real Biblioteca Borbonica di
Napoli, furono requisiti dalla biblioteca del convento francescano di San
Bernardino a L’Aquila. Nel catalogo redatto per l’occasione da Gualtieri spicca,
al n. 2 un «manoscritto di cose mediche, senza capo e senza coda, perg. in 16»
che ben si attaglia al caso del ms. XII.E.47, che comincia, acefalo, da
estratti del De urinis e del De pulsibus e termina, anch’esso,
improvvisamente (p. XXXIX). Il confronto fra i due testimoni mostra che, al
netto degli errori materiali degli amanuensi, molto probabilmente furono
copiati da uno stesso originale. L’esemplare aquilano, tuttavia, è più completo
di quello campano. Comprende, ad esempio, una ricetta finale (al paragrafo
XXXIV) sulla crisografia (ossia sul modo di scrivere in oro) che, pur in una
posizione strana, ossia dopo il salto di una mezza pagina vuota, «s’accorda con
quanto precede sia sul piano espressivo che sul piano dei contenuti». Daniel Thompson,
non a caso, aveva notato, nel 1933, la mancanza di una sezione dedicata alla
crisografia, che era annunciata nella parte proemiale del trattato. Secondo
Pasqualetti, «è (…) probabile che il paragrafo non sia frutto dell’iniziativa
dell’amanuense e che egli abbia avuto a disposizione una redazione più avanzata
del Libellus» (p. 175). Ho letto con attenzione le pagine dedicate a
quest’aspetto (pp. 11-13) e, in tutta onestà, mentre provo un’ammirazione
sconfinata per il lavoro dell’autrice, nel caso specifico non sono del tutto
convinto. Per spiegarmi devo però un passo indietro.
La
datazione dell’originale e delle copie
Secondo Pasqualetti, in base a una serie
di considerazioni testuali, paleografiche e tecniche, la redazione del Libellus
dovrebbe risalire alla fine del Trecento, sostanzialmente in coincidenza
cronologica col Libro dell’arte di Cennino Cennino con cui condivide anche
forti similitudini nell’approccio espositivo della materia (ognuno naturalmente
per sé: il Libellus si limita alla miniatura). L’autrice non esclude,
addirittura, che l’anonimo autore del nostro codice potesse conoscere il lavoro
di Cennino (e quindi aver scritto l’opera a inizio Quattrocento). Mette in
evidenza, in proposito, le relazioni fra l’Abruzzo e la Padova dei Carraresi
dove il nativo di Colle val d’Elsa redasse il suo scritto. È chiaro, tuttavia,
che preferisce pensare a una datazione lievemente precedente, alla fine del
Trecento. Per quanto riguarda gli apografi, ritiene che quello campano sia
stato redatto entro il 1425, mentre nel caso aquilano sappiamo con certezza che
la data di trascrizione fu il 1432. Pasqualetti suggerisce, come già detto, che
i due testimoni rispecchino due fasi diverse della redazione di un medesimo
originale; l’autore di quest’ultimo sarebbe intervenuto (quando? Giorni, mesi,
anni, anni dopo?) per aggiungere la sezione dedicata alla crisografia. Quello
che poco mi convince è proprio il punto di forza del trattato, ossia la sua
compattezza e strutturazione: è evidente sin dal proemio – lo scrive Thompson –
che nel Libellus ci sarebbe stata una parte dedicata alla crisografia. Perché
scriverla in un secondo momento? Perché lasciare che fosse copiata una versione
incompleta rispetto al progetto originale? Sono domande che mi pongo da
assoluto profano, ma che secondo me hanno una logica; non, purtroppo, una
risposta che ovviamente non sono in grado di dare.
Il Libellus
e la letteratura artistica precedente
Qualsiasi sia stata la sequenza delle
trascrizioni, è comunque evidente un fatto. Il Libellus non ebbe una
grande circolazione, rimanendo localizzato in area abruzzese (salvo le
requisizioni di cui si è detto per via delle quali una copia è finita a
Napoli). Naturalmente bisogna essere cauti su questi aspetti, perché è evidente
che codici di questo tipo sono particolarmente fragili e facilmente vengono
distrutti. Certo però che non c’è il minimo paragone rispetto al De Coloribus et Mixtionibus,
testimoniato da una sessantina di manoscritti in forma integrale o parziale (sappiamo
però che spesso fu fagocitato da altre opere e che solo negli anni Trenta del
Novecento fu riconosciuto come testo autonomo). In proposito Paqualetti fa
presente che consonanze molto mediate si avvertono rispetto al DCM, come pure
al De diversis artibus di Teofilo (di cui continua a mancare un’affidabile edizione italiana). «Tolti
questi e pochi altri casi, però, la maggior parte delle ricette selezionate
dall’autore del Libellus mostrano, anche sul piano espositivo, affinità
importanti da un lato con il Liber colorum di Maestro Bernardo, ricettario databile alla seconda metà del Duecento, e con il Liber de coloribus di Torino [n.d.r. entrambi esaminati nel numero monografico di Studi di
Memofonte già citato] un trattatello forse già trecentesco, dall’altro con
compilazioni cronologicamente vicine al nostro come Segreti per colori e la silloge del notaio Jean Lebègue, le quali
potrebbero anche aver attinto dalle stesse fonti» (p. LXXXI). Il discorso sul Libro
dell’arte di Cennino Cennini è ancora diverso; si è già detto che emergono,
dall’esame delle due opere, importanti parallelismi che sembrano confermare
quanto già risultante da altre analisi di diversa natura, ovvero una
sostanziale coincidenza cronologica.
La
struttura dell’opera e l’edizione Pasqualetti
Il ritrovamento del secondo testimone
del Libellus ha permesso, naturalmente, di chiarire molti aspetti legati
alla struttura dell’opera originale. È ora chiaro, da evidenze interne, che il
trattatello si componeva di un proemio e di due libri; il primo dedicato alla
preparazione e dei coloranti, delle colle, dei leganti e degli additivi; il
secondo alla messa in opera di pigmenti e coloranti. Il tutto per un numero
complessivo di paragrafi pari a XXIV (contro i XXXII che erano stati
individuati dagli interpreti del testimone napoletano). Paqualetti presenta un
lungo ed eccellente studio introduttivo in cui illustra le questioni principali
legate al manoscritto e al contesto di produzione; seguono la nota al testo e
la riproduzione facsimilare del testimone. È poi la volta della trascrizione
del testo latino con traduzione italiana a fronte e un ricco apparato di note
di commento a piè di pagina. È ovviamente seguito il testo aquilano, ma sono
sempre segnalate le discrepanze con quello conservato a Napoli. Subito dopo è
fruibile un saggio di Paolo Bensi (Le materie coloranti del Libellus) che
si sofferma sugli aspetti più propriamente legati alla chimica, a cui segue un
ottimo glossario con citazioni della bibliografia precedente per ogni termine
preso in esame. Insomma, un’opera davvero impeccabile che, purtroppo, è andata
esaurita quasi subito e perciò, di fatto, non è reperibile sul mercato, aspetto
a cui bisognerebbe davvero rimediare almeno con una ristampa,
NOTE
[1] An Anonymous Fourteenth-Century
Treatise. De Arte illuminandi – the Technique of Manuscript Illumination
Translated from the Latin of Naples MS XII.E.27 by D. Varney Thompson Jr.
and G.H. Hamilton, 1933; Franco
Brunello, De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica della miniatura
medievale, Vicenza, Neri Pozza, 1975.
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