Storia delle antologie di letteratura artistica
Francisco Javier Sánchez Cánton
Fuentes literarias para la historia del arte español
Junta para ampliación e investigaciones científicas. Centro de estudios históricos (poi Consejo Superior de Investigaciones Científicas)
5 volumi, Madrid, 1923-1941
Parte Prima
Un’opera fondativa e
il suo autore
Esattamente
cent’anni fa, nel 1923, Francisco Javier Sánchez Cantón (1891-1971) pubblicava il primo volume di
un'antologia dedicata alle fonti di storia dell’arte spagnola,
le Fuentes literarias para la historia del arte español. A scadenze irregolari (1923, 1933, 1934,
1936 e 1941) sarebbero comparsi complessivamente cinque volumi, per più di 2000
pagine, che, in ambito spagnolo, avrebbero cambiato per sempre la disciplina (o,
meglio, l’avrebbero definita e indirizzata per molti decenni). Complessivamente
Sánchez
Cantón
antologizzò 44 scritti di varia natura, dai trattati alle liti processuali,
pubblicandone estratti più o meno corposi o addirittura trascrivendoli
integralmente: un lavoro enorme, che personalmente (in epoche e contesti
completamente differenti) mi ricorda gli Scritti d’arte del Cinquecento
di Paola Barocchi, editi da Ricciardi fra 1971 e 1977. Va precisato inoltre che,
nell’ambito della serie ‘Fuentes’, fu pubblicato nel 1930 un ulteriore volume curato
da Xavier de Salas, che presentava il testo della Biografía pictórica valentina di Marcos Antonio de Orellana (1731-1813),
quasi si trattasse di uno spin-off. Non ne terrò conto in questa sede.
Quando pubblicò il
primo volume di ‘Fuentes’ Sánchez Cantón non aveva ancora trent’anni [1]. Si era
laureato nel 1913 e aveva frequentato successivamente il Centro de Estudios
Históricos, istituzione che
dipendeva dalla Junta para ampliación e investigaciones
científicas. Il Centro fu creato nel 1910 e
aveva lo scopo ambizioso di permettere alla Spagna di recuperare il ritardo
accumulato nella ricerca storica rispetto agli altri paesi d’Europa, promuovendo
lo spoglio sistematico di archivi e documenti. Uno dei fini statutari del
Centro - trascrivo letteralmente dalla corrispondente voce di Wikipedia - era «Investigar
las fuentes, preparando la publicación de ediciones críticas de documentos
inéditos o defectuosamente publicados (como crónicas, obras literarias,
cartularios, fueros, etc.), glosarios, monografías, obras filosóficas, históricas,
literarias, filológicas, artísticas o arqueológicas». A dirigere la sezione del
Centro dedicata all’ ‘Arte escultórico y pictórico de España en la Edad
Media y el Renacimiento’ fu chiamato Elías Tormo (1869-1957), cattedratico di storia dell’arte presso
l’Università di Madrid e, successivamente, ministro della cultura dal 1930 al 1931. Sánchez Cantón lo considerò sempre, e
pubblicamente, il suo maestro (vol. V p. 479). Da qui il suo coinvolgimento nel
Centro, da qui il progetto della pubblicazione delle ‘Fuentes’ e questo
il motivo per cui, sia pure con stampatori diversi, i primi quattro dei cinque
volumi furono pubblicati sotto l’egida della Junta para
ampliación e investigaciones científicas. Centro de Estudios Históricos. Nel 1939 il Centro fu sciolto dal franchismo e sostituito dal Consejo
Superior de Investigaciones Científicas, che risulta infatti patrocinatore
dell’ultimo tomo. Nel frattempo lo studioso si diede all’insegnamento
universitario, prima a Granada, poi a Madrid, assumendo incarichi sempre più
importanti nelle istituzioni artistiche spagnole: dal 1956 fino alla morte fu direttore
della Real Academia Española e dal 1960 al 1968 del museo del Prado. Non ne
conosco le idee politiche, ma il fatto stesso che abbia assunto tali responsabilità
in anni franchisti mi induce a pensare che, quanto meno, non fosse ostile al
regime.
El Greco, Veduta di Toledo, 1596-1600 circa, New York, Metropolitan Museum of Art Fonte: Wikimedia Commons |
Le
caratteristiche dell’antologia
Il progetto antologico che sta alla base
di ‘Fuentes’ risulta sufficientemente chiaro dalla prefazione al primo volume,
anche se vi saranno tentennamenti e modifiche in corso d’opera. Da evidenze
interne risulta che cominciò attorno al 1920. L’antologia era concepita come
opera di consultazione, non come un libro da leggere tutto di seguito. Il piano
dell’opera prevedeva quattro tomi, in cui presentare le fonti del Cinquecento
(tomo I), quelle del Seicento (tomi II e III) e, in un ultimo volume, le
biografie relative ad artisti spagnoli pubblicate da Palomino come terza parte
del suo Parnaso español pintoresco laureado con las Vidas de los Pintores y
Estatuarios eminentes españoles. Nell’introduzione al secondo tomo sembrò
che Sánchez Cantón tornasse sui suoi
passi, progettando di riuscire a comprimere il tutto in tre volumi, poi desistette
e non solo rispolverò la formula a quattro volumi, ma ne aggiunse un quinto, in
cui presentò fonti del Settecento, inizialmente non previste nel progetto. La
motivazione addotta era semplice: «i libri posteriori a Palomino mantengono i
caratteri che presentano i trattati dei secoli XVI e XVII. Per incontrare un
nuovo e fondamentale genere nella Bibliografia artistica spagnola, bisogna
aspettare l’Ottocento» (vol. IV p, V). Per ‘tipo nuovo’ si intendevano
opere basate, fondamentalmente, sulla visione diretta delle opere e dei
documenti; il capostipite fu individuato in Juan Agustin Ceán Bermúdez, anche se chiari sintomi del cambiamento comparivano già negli scritti
del suo maestro Jovellanos (e come tali, furono esclusi dall’antologia). In
sostanza, le fonti presentate da Sánchez Cantón andavano dal rinascimento alla fine del
barocco (in quella particolare declinazione rococò che in Spagna prende il nome
di Churriguerismo, dal nome del pittore e architetto José Benito de
Churriguera (1665-1725)).
Da notare che
l’autore, nonostante il titolo di Fuentes literarias, usa sempre
l’espressione ‘bibliografia artistica’ e non ‘letteratura artistica’, come impostasi
con il manuale dello Schlosser. Quel manuale, ossia la Kunstliteratur, non era ancora uscito nel momento in cui Sánchez Cantón pubblicò il primo tomo
della sua opera; sarebbe stato stampato solo l’anno dopo. L’impressione,
peraltro, è che lo spagnolo lo legga solo grazie all’edizione italiana del
1935, probabilmente non essendo in grado di comprendere il tedesco. Banale dire
che la principale differenza fra ‘Fuentes’ e ‘Kunstliteratur’ è che, nel primo
caso, ci troviamo di fronte a un’antologia e nel secondo a un manuale di
destinazione universitaria. Più interessante semmai notare che lo spagnolo si
attenne alla regola di non far rientrare in ‘Fuentes’ «le storie e descrizioni
particolari di città e monumenti» (vol. V, p. 57), a parte l’Escorial, per cui addirittura gli
estratti pubblicati fanno riferimento a quattro testi scalati fra fine
Cinquecento e Settecento. La cosiddetta ‘letteratura dei Ciceroni’, che nello
Schlosser trova a pieno titolo diritto di cittadinanza, qui non è presa in
alcuna considerazione.
Ma torniamo a
Palomino. Anche se, giustamente, Sánchez Cantón reputa scorretto considerarlo il ‘Vasari
spagnolo’, in quanto confronti fra opere distanti fra loro cronologicamente e
geograficamente non hanno senso, è evidente che si tratta dell’opera di
riferimento della bibliografia artistica spagnola: «è noto che le biografie
dei pittori spagnoli scritte da Palomino – ad esempio – si basano su notizie
fornite da trattatisti precedenti per trasmissione diretta o mediata; ma, poiché
l’esattezza nel tradurre non è solitamente qualità comune, conviene, in ogni
caso, confrontare i testi, dal momento che spesso capitano cambi originati da
cattiva lettura o da difficoltà d’interpretazione» (vol. 1 p. X). L’approccio dell’autore sembra
essere, dunque, di tipo filologico: «Da qui si capisce la necessità di pubblicare
i manoscritti noti e rieditare le vecchie edizioni a stampa; ma sarebbe lavoro
di gran spesa, gran lavoro, molto tempo e… scarsa utilità» (vol. I pp. X-XI). Da un
piano filologico si passa a uno contenutistico e il giudizio sui trattati di
‘bibliografia artistica’ è quanto meno riduttivo: l’autore assicura che solo una
quinta parte di un qualsiasi trattato interessa effettivamente al lettore. E
qui emerge il nocciolo della questione: a interessare il lettore (e il
curatore) devono essere solo quelle parti degli scritti che forniscono elementi
fattuali, positivi, sulle biografie degli artisti, sulle loro opere, sul loro
pensiero. Tutto il resto, tutta la parte teorica, altro non sarebbe che
espressione di un’inutile e spesso paludata erudizione che rimescola in forme
diverse luoghi comuni derivanti, in ultima analisi, da Vitruvio e Plinio. Da
qui la necessità della scelta antologica: permettere al lettore di consultare
informazioni ‘concrete’, spesso disperse in decine o centinaia di pagine senza
alcuna originalità. Il caso di Palomino è utile per fare un esempio completo:
l’artista spagnolo pubblicò il suo Parnaso in tre parti, le prime due di
ordine teorico e la terza relativa alle biografie degli artisti spagnoli. Sánchez Cantón si comportò in questo
modo: nella seconda parte del terzo tomo di ‘Fuentes’ pubblicò una selezione
dalle prime due parti. Rivendicò il fatto che si trattava di una «selezione accurata delle
notizie storiche che vi si trovano, sparpagliate e poco note» (vol. III p. 145): le
cinquecentocinquanta pagine dello scritto originario erano divennero meno di
centocinquanta; l’intero tomo IV (con le biografie e, quindi, con dati
‘storici’) fu invece dedicato alla trascrizione completa della parte terza
dello scritto dell’artista.
Francisco de Zurbaran, Agnus Dei, 1635-1640 circa, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
Sánchez Cantón
e Marcelino Menéndez Pelayo
Non si potrebbe
capire pienamente la posizione di Sánchez Cantón se non facessi riferimento al pensiero di
Marcelino Menéndez Pelayo (1856-1912), filosofo e storico delle idee, autore di
una Historia de las ideas estéticas en España, pubblicata fra 1883 e 1889 e ripresentata,
in seconda edizione, dal 1901 in poi. A quest’ultima edizione, e in particolare
al tomo IV, fa spesso riferimento Sánchez Cantón nelle sue ‘Fuentes’. In sostanza, per
Menéndez Pelayo, era evidente, nella bibliografia artistica spagnola, una
dicotomia fra aspetti teorici della riflessione sull’arte, legati al classicismo
italiano, e naturalismo dell’arte spagnola e dei suoi principali interpreti (in
primo luogo Vélazquez). In sostanza, la teoria non rifletteva la pratica, ma
era solo stanca ripetizione di modelli provenienti dall’estero. Di queste
convinzioni Sánchez Cantón fu interprete così fedele che spesso, nella presentazione dei trattati,
si limitò a rimandare agli scritti di Menéndez Pelayo per gli aspetti estetici
e si dilungò su questioni meramente bibliografiche. Ancora una volta il caso di
Palomino è illuminante. Nel volume III, alle pagine 147-148, possiamo leggere: «Le idee che presidiano
l’opera di Palomino sono state segnalate in maniera magistrale da Menéndez
Pelayo, che scrive: «la sua estetica, come quella di quasi tutti i
nostri trattatisti d’arte è … l’estetica idealista [n.d.r. del bello ideale] professata
e diffusa dai pintori eclettici italiani e accettata teoricamente
dai nostri, anche da parte di coloro che meno peccavano di idealismo. […]
Nessuno legge oggi – prosegue il medesimo Maestro – i primi due tomi dell’opera
di Palomino»; ma chi riesce a mandar giù una così stanca marea di erudizione e luoghi
comuni, è ricompensato da notizie e osservazioni meritevoli di essere raccolte
e ricordate.»
Più in generale, è
evidente che Menéndez Pelayo fu per Sánchez Cantón quello che Benedetto Croce fu per Schlosser,
ossia un punto di riferimento imprescindibile in ambito filosofico. Da notare,
peraltro, che Menéndez Pelayo e Croce si conobbero e si scrissero spesso,
considerato anche il grande interesse che l’italiano nutrì per il mondo
spagnolo. Non sono in grado, per mia ignoranza, di puntualizzare consonanze e
differenze nel pensiero estetico dei due; mi pare però molto probabile che le
strade percorse da Sánchez Cantón e da Schlosser (simili per certi aspetti,
ma divergenti in altri) siano effetto proprio delle divergenze estetiche fra i
loro due ‘maestri’.
Diego Velazquez, Venere allo specchio, 1650, Londra, National Gallery Fonte: Wikimedia Commons |
Sánchez Cantón
e Francisco Calvo Serraller
Nella seconda parte
di questa recensione segnalerò, scusandomi sin d’ora per la prolissità, le
opere antologizzate da Sánchez Cantón, aggiungendo qualche nota di illustrazione.
Per ora, tuttavia, mi sembra giusto mantenere una prospettiva storica. Nel 1981
(il franchismo era caduto da pochi anni) fu pubblicata un’altra celeberrima
antologia di fonti di storia dell’arte spagnola, questa volta a cura di
Francisco Calvo Serraller (1948-2018), anch’egli, in anni successivi, direttore
del Prado. Il titolo è già un programma: Teoría de la Pintura del Siglo de Oro. Concentrandosi su un lasso di tempo più
contenuto, ovvero il Seicento, Calvo Serraller sosteneva due tesi: da un lato
(e si tratta di acquisizioni di Julían Gallego) che, nel concreto delle opere, il
‘realismo’ spagnolo si trovò a convivere con le istanze classiciste dominanti
in Europa; dall’altro che una teoria dell’arte specificamente spagnola
esistette veramente. La sistematica sottovalutazione della medesima aveva
portato a un risultato paradossale, ossia che non esistevano edizioni critiche
integrali dei principali trattati artistici spagnoli; sino ad allora, infatti,
si erano accettate acriticamente le scelte antologiche di Sánchez Cantón. Nel momento in cui
scriveva, in effetti, era a disposizione del pubblico un’unica edizione critica,
quella dei Diálogos de la Pintura di Vicente Carducho, fatta uscire dallo
stesso Calvo Serraller nel 1979, ossia due anni prima. Si trattò di una vera e
propria rivoluzione. Le scelte antologiche di Calvo Serraller erano eseguite
su criteri esattamente opposti rispetto a quelli di Sánchez Cantón. Nel caso di Palomino,
ad esempio, furono presentati solo estratti dalla prima e dalla seconda parte,
tralasciando completamente la terza (quella delle biografie). Ne risulta –
secondo il curatore – che l’opera di Palomino “si caratterizza, in generale,
per il suo spirito straordinariamente liberale, per non dire semplicemente
eclettico. Certamente mantiene (come la maggioranza dei trattati scritti nel
secolo XVII) una concezione dottrinale classicista, anche se aperta a ogni tipo
di concessione alla libertà teatrale di una sensibilità barocca che ha
trionfato in pieno” (p. 621). Ho già avuto modo di recensire l’antologia; nella lista delle opere citate da Sánchez Cantón indicherò anche se
furono antologizzate anche da Calvo Serraller e vi rimanderò. Ma, soprattutto,
il risultato più concreto della svolta fu la straordinaria serie di edizioni
critiche integrali di trattati spagnoli che fiorirono negli ultimi decenni
del Novecento e col nuovo millennio, molte delle quali recensite in questo blog
(anche se non escludo che qualcosa possa essermi sfuggito). A oggi, per quanto
ne sappia, l’unica opera priva di un commento integrale è proprio il Parnaso di Palomino che, anche per questo,
continua a essere percepito dagli osservatori stranieri molto più simile alle Vite
di Vasari di quanto, in realtà non sia.
Bartolomé Esteban Murrillo, Due donne alla finestra, 1670, Washington, National Gallery Fonte: Wikimedia Commons |
La (s)fortuna internazionale delle ‘Fuentes’
Ho appena detto che le ‘Fuentes’ furono
per decenni punto di partenza imprescindibile per la ricerca in ambito
spagnolo. Altrettanto non si può dire per la loro fortuna nel resto di Europa. Va
detto che furono edite in anni molto difficili per il paese, fra la Seconda
repubblica spagnola (dal 1931) al colpo di Stato del 1936, alla guerra civile e
alla vittoria del franchismo sostenuto da nazisti e fascisti. Di tutti questi
fatti, nell’opera, restano solo poche righe nell’introduzione del tomo quinto,
laddove l’autore riferisce dello smarrimento di un manoscritto in biblioteca: «dopo
la vittoria, [n.d.r il servizio bibliotecario] fu ripristinato…» (vol. V p. XII).
Il fatto che le ‘Fuentes’ fossero esclusivamente spagnole certamente non
conferì all’opera un appeal internazionale; sicuramente l’isolazionismo
franchista complicò ulteriormente le cose.
Tutto sommato, Sánchez Cantón dimostra interesse per gli studi prodotti
dalla critica d’arte italiana (comunque riguardanti aspetti aventi a che fare
col mondo spagnolo) e cita Achille Pellizzari, Adolfo Venturi e Roberto Longhi.
Non mi pare che quest’interesse sia stato ricambiato con pari attenzione del
mondo italiano nei confronti della sua antologia. Nel nostro catalogo collettivo
delle biblioteche del Servizio Nazionale risultano essere presenti, in Italia, nove
copie di ‘Fuentes’. Stranamente tre sono in Sardegna (due a Cagliari e una a
Sassari), una a Napoli, una a Roma, una a Firenze (presso la Fondazione
Memofonte), una a Torino e due a Venezia. I numeri sono eloquenti. Naturalmente
ci sono poi gli esemplari in mano a privati (come quello del sottoscritto), ma
mi stupirei se si giungesse ad altri dieci.
Uno dei motivi
dell’insuccesso dell’antologia è probabilmente legato allo scarso spazio che ebbe nella Letteratura artistica di Schlosser. Lo spagnolo ebbe a
lamentarsene proprio nel quinto volume, al termine della sua prefazione.
Ricordò che tutte le recensioni spagnole ai suoi tomi erano state più che
lusinghiere, ma, molto elegantemente, aggiunse che, per difetto di
comunicazione, la loro uscita non era stata registrata nel capolavoro dello
Schlosser edito in versione italiana nel 1935. In realtà, non fu del tutto
esatto. Nel 1924 non vi fu alcuna citazione; nel 1935, invece, lo studioso
austriaco fece aggiungere personalmente (seguì lui la redazione dell’edizione
italiana) alcune righe di elogio, in cui si citava il tomo del 1923 e si
parlava dell’opera come «pubblicazione importantissima che contiene ristampe
o estratti dei seguenti trattati» (p. 285). Schlosser continuò elencando i
trattati presentati nell’antologia. Con ogni
evidenza non gli era noto che erano stati stampati anche i volumi II (1933) e
III (1934). E tuttavia - come detto -
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NOTE
[1] I dati biografici
di Sánchez
Cantón
sono tratti dalla corrispondente voce a cura di José Manuel Pita Andrade della Enciclopedia
del Museo del Prado consultabile online sul sito del museo.
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