Francesco Maria Tassi
Vite de’ pittori scultori e architetti bergamaschi
A cura di Franco Mazzini
2 voll., Milano, Edizioni
Labor, 1969-1970
Recensione di Giovanni Mazzaferro
A metà degli anni
Sessanta del secolo scorso le mai troppo compiante Edizioni Labor diedero vita
a un ambiziosissimo progetto di recupero e pubblicazione delle principali fonti
della letteratura artistica italiana, creando una collana ad hoc diretta da
Angela Ottino Della Chiesa e Bruno Della Chiesa. Di quel progetto la traccia
più tangibile, da un punto di vista progettuale, è un catalogo-specimen di
presentazione di cui ho avuto già modo di parlare. Non si trattava solo di riprodurre le fonti
in anastatica (ammesso che le ‘pure’ anastatiche abbiamo mai avuto un senso,
oggi la disponibilità degli originali su Internet le ha rese del tutto inutili),
ma di corredare le singole edizioni con saggi biobibliografici, indici, appendici,
indicazioni sulle fonti. Il progetto, mastodontico, naufragò di lì a qualche
anno per il fallimento delle Edizioni Labor. Dei venticinque titoli promessi
nello specimen di presentazione, solo cinque videro la luce, ma va detto che,
in molti casi, i materiali radunati e non sfruttati in quell’occasione
trovarono un loro sbocco editoriale successivo, soprattutto grazie al sostegno
dell’editoria bancaria.
L’opera di una vita
Fra i cinque titoli che
si fece in tempo a pubblicare spiccano le Vite de’ pittori scultori e
architetti bergamaschi del conte Francesco Maria Tassi (1710-1782), in
un’edizione in due volumi curata all’epoca da Franco Mazzini.
Particolarmente intricate sono le vicende che portarono alla pubblicazione dell’opera, in due tomi, nel 1793, ossia undici anni dopo la morte del conte. Mazzini le ricostruì nel suo saggio bio-bibliografico. Tassi, di famiglia nobile, naturalmente bergamasco, fu da sempre appassionato di pittura, che, da giovane coltivò sotto la direzione di Giuseppe Ghislandi, ossia Fra Galgario.
Fra Galgario, Autoritratto, 1732, Bergamo, Accademia Carrara Fonte: https://www.wga.hu/art/g/ghisland/selfport.jpg |
La sua biografia si
snodò fra la città natale e Venezia (Bergamo da secoli faceva parte della
Repubblica veneta) con pochissimi momenti ‘eccentrici’, come un (lungo) periodo
giovanile a Roma, probabilmente contro la volontà del padre, periodo che non
sappiamo quanto abbia inciso effettivamente sulla sua formazione artistica, anche
in termini teorici. Cert’è che già in famiglia vi erano figure che si
interessavano al ‘fare storia dell’arte’, a partire dallo zio paterno Giuseppe
Maria. Pare assai probabile che a lui si debba la decisione di Francesco Maria
di scrivere le vite degli artefici bergamaschi. Giuseppe Maria aveva già
raccolto notizie in merito, tant’è che le lasciò al nipote quando si trasferì a
Monaco di Baviera. Sempre lo zio gli fece conoscere Giacomo Carrara (1714-1796),
autentico gigante del collezionismo e
della connoisseurship orobica, amico e indefesso sostenitore dei progetti
tasseschi. Il conte, insomma, fu un predestinato e ben presto da lui si attese
la pubblicazione dell’opera che avrebbe dovuto colmare le lacune della
letteratura artistica italiana (naturalmente a partire da Vasari) sul mondo degli
artefici bergamaschi. Non mancava, naturalmente, una componente campanilistica
che si trascinava da secoli e che, del resto, induceva proprio in quegli anni
Bernardo De Dominici a pubblicare le sue Vite de’ pittori, scultori ed architetti
napoletani.
Poche cose sono
chiare, se non che gli anni Quaranta dovettero essere quelli in cui Francesco
Maria concentrò i suoi sforzi sul progetto, cercando negli archivi ed esaminando
di persona le opere. Sono manifestazione di questa fase la redazione di una
serie di ‘elenchi’ che, rimasti inediti, furono pubblicati proprio da Mazzini
in questa edizione. Poi, l’entusiasmo andò calando; i motivi per cui ciò
successe, ancora una volta, non sono ben chiari. Certamente non si trattò di
una scelta drastica; l’aggiornamento del materiale redatto andò avanti nei
decenni, e d’altro canto gli interessi artistici di Tassi non vennero mai
completamente meno, tanto che nel 1772 fu acclamato membro dell’Accademia di
Belle Arti di Venezia. Ciò che appare più probabile è che, nonostante i
tentativi di aiuto da parte di amici e conoscenti, sia subentrato un senso di
inadeguatezza che ce lo rende fragile, umanissimo e, come tale, particolarmente
vicino. Nel 1766 comunicava che si era manifestata la prospettiva che Giacomo
Carrara scrivesse una prefazione all’opera, ma contemporaneamente aggiungeva: «circa poi le vite de
pittori le dirò, che giacciono sepolte nel mio burò […]; io non voglio
azzardarmi di metterle alle stampe in un secolo tanto illuminato, e critico» (pp. X-XI). Si tratta –
scrive Mazzini – di una «consapevolezza che fa indubbiamente onore
all’impegno scientifico dello storiografo, ma sembra confermare d’altro verso
come egli avesse da tempo disarmato, quasi di fronte a qualche cosa più grande
di lui» (p. XII).
L’edizione postuma del 1793
Nulla sappiamo di
quanto, effettivamente, scrisse Tassi nel corso della sua vita. Il manoscritto
originale è andato perso. Nella Prefazione che fu aggiunta nel 1793, quando
l’opera fu pubblicata, si parla di aggiunte non sostanziali. Ma nemmeno
quest’edizione fu semplice. Alla morte di Francesco Maria, il materiale
raccolto passò nelle mani del figlio, che tuttavia¸ rispettoso delle remore e
titubanze paterne, si dimostrò restio a cedere l’opera a una compagine di cui
pure facevano parte amici di vecchia data del genitore (fra cui lo stesso
Carrara). Anche quando si ottenne il permesso del figlio, le cose filarono
tutt’altro che lisce. Si sopperì ad alcune lacune, in particolare a quella di
Palma il Giovane, compilando una sorta di riassunto di quanto ne aveva scritto
il Ridolfi. «Quindi, circa a metà del secondo tomo, fu aggiunto un «Supplemento» con alcune «vite» di artisti «fioriti dopo» oppure tralasciati dal
Tassi «per mancanza di necessarie cognizioni» e, ancora, una sommaria panoramica
storico-artistica bergamasca dei primi secoli dell’era volgare, riguardante per
lo più monumenti tardoromani e altomedievali. Infine, si credette bene di
aggiungere le Vite degli architetti militari di Ferdinando Caccia,
anch’esse in edizione postuma, precedute dal Trattato scientifico di fortificazione
sopra la storia particolare di Bergamo dello stesso; aggiunta la cui
complementarietà era stata implicitamente riconosciuta dal Tassi medesimo» (pp. VIII-IX).
Ma il vero problema
si verificò col conte Carrara. Quest’ultimo si fece fare una copia del
manoscritto originale di Tassi e lavorò a una serie di Giunte che, nelle
sue intenzioni, l’editore (il padre Gian Paolo Carcano) avrebbe dovuto
pubblicare in appendice, in fondo alla fatica tassesca. Se non che, quando uscì
il primo tomo, Carrara si avvide che le sue Giunte erano divenute note a
piè di pagina, composte in corsivo, e che solo nella Prefazione era chiarito il
fatto che gli spettavano. La cosa non gli piacque; non gli piacque un po’
perché i suoi testi erano stati rimaneggiati e cassati in maniera arbitraria,
un po’ come forma di mancanza di rispetto sia nei suoi confronti che in quelli
del Tassi. Così decise di farsi restituire le Giunte destinate al
secondo tomo (p. 3). A questo punto al gruppo di amici che si erano fatti
carico della pubblicazione si schiudevano solo due prospettive: stampare il
testo tassesco così com’era, relativamente al secondo tomo, oppure attingere a
più di settecento pagine manoscritte appartenute a Francesco Maria per estrarne
materiali inediti da aggiungere (il cosiddetto Zibaldone). L’operazione
fu considerata troppo faticosa e si optò per la prima soluzione.
Sul ruolo di Giacomo Carrara nella redazione delle Vite tassesche si veda però oggi Ilaria Serati, Il contributo di Giacomo Carrara alle Vite de’ pittori, scultori ed architetti bergamaschi in Κριτική [Kritiké] Anno I. Serati ragiona, in particolare, sull'(in)capacità critica di Tassi ad adottare un discorso stilistico sull'opera d'arte, probabile motivo di quel sentimento di inadeguatezza di cui si è prima parlato.
Bartolomeo Nazari, Ritratto del conte Giacomo Carrara, Bergamo, Accademia Carrara Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:GCarrara_di_BNazari.jpg |
L’edizione Mazzini
L’edizione Mazzini,
a più di centocinquanta anni di distanza, giunse a completare il panorama delle
biografie offerte dal Tassi (una novantina) proprio con materiali inediti
attinti dallo Zibaldone e da ‘elenchi’ di particolare significato, come,
ad esempio, l’Indice delle chiese della città e borghi, la cui fonte fu
il Delle Chiese delle Diocesi di Bergamo di Donato Calvi, solo nel 2008 pubblicato a stampa per la
prima volta. Quest’ultimo manoscritto, nelle mani di Tassi, divenne una guida
artistica alla città e Mazzini ne segnala l’importanza, anche in relazione al
fatto che fu compilato molto probabilmente negli anni Quaranta, ossia molto
prima che Giovanni Pasta desse alle stampe, nel 1775, Le pitture notabili di
Bergamo, che sono esposte alla vista del pubblico: con alcuni avvertimenti
intorno alla conservazione e all’amorosa cura de’ quadri (prima guida a
stampa della città).
Ma non è finita qui.
Oltre agli ‘elenchi’ e allo Zibaldone, Mazzini attinse anche alle carte
Carrara, andando alla ricerca delle Giunte. Qui ebbe modo di trovarne di
inedite (quelle ritirate dal conte), ma di capire anche che, in effetti, le
pubblicate erano state evidentemente manipolate secondo criteri poco fedeli
agli originali. Ha quindi riproposto non solo le Giunte del tutto
inedite, ma anche quelle omissioni che avevano troncato la completezza delle
pubblicate.
E ancora, il
curatore guardò oltre e pubblicò nella presente edizione le aggiunte di
Giuseppe Beltramelli alle Vite tassesche. Si tratta di note
cronologicamente di poco posteriori alla pubblicazione del 1793: «L’autore, che dichiara di
aver conosciuto il Tassi, e che da tempo – a suo dire – era andato raccogliendo
molte notizie sui pittori bergamaschi, le aveva riordinate in forma di memorie
biografiche, col preciso intendimento di colmare alcune lacune di poco conto
sfuggite e al Tassi e agli editori. Ma i contributi, specie quelle
rappresentati dai documenti, sono tutt’altro che secondari» (p. 4).
Infine, sono state inserite
anche le postille del collezionista ed erudito bergamasco Antonio Piccinelli (1816-1891)
alle Vite del Tassi. Nel 1959 erano già state edite da Roberto Bassi
Rathgeb e Mazzini non le trascurò certamente: «sono particolarmente preziose per qualche importante
rettifica attributiva; per notizie sulla sorte e le vicende più recenti di
molte opere d’autore, perciò utili ai fini della loro individuazione e
definizione storica». (p. 4)
Un giudizio critico
Resta da chiedersi quale sia il reale spessore critico delle Vite del Tassi, che lo Schlosser ebbe modo di definire, nella sua Letteratura artistica, come «grandi e pregevoli raccolte» (p. 533), accomunando la fatica del Tassi per Bergamo a quella dello Zaist per Cremona. Il giudizio di Mazzini è, ovviamente, più articolato e mira a mettere in evidenza l’intima tensione che si nota all’interno dell’opera (comunque caratterizzata da toni comprensibilmente laudativi nei confronti degli artefici) fra l’apprezzamento del conte per la pittura ‘di colore’ tipica del mondo veneto e una ‘griglia’ interpretativa classicista che evidentemente appariva indispensabile, ma poco coerente con tutto il resto (forse retaggio della giovanile presenza a Roma, forse influenza accademica). L’impianto dell’opera è, comunque, chiaramente vasariano (anche se la voce più seguita è quella del Baldinucci perché più recente) con la trattazione che comincia dalla rinascita delle arti dopo la crisi medievale e ha il suo apice rinascimentale in Enea Salmeggia, detto il Talpino, il “Raffaello bergamasco”, la cui vicenda artistica, all’epoca, era considerata direttamente discendente dall’urbinate.
Enea Salmeggia detto il Talpino, Madonna in gloria col Bambino e i santi Ambrogio e Carlo Borromeo, 1604, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Così Mazzini nota
nell’opera momenti più o meno felici; questi ultimi sono identificati, in
sostanza, cogli apprezzamenti per il colorismo veneto, dai toni a volte boschiniani; i primi, ad
esempio, nel «severo tono accademico» adottato, appunto, scrivendo del
Salmeggia, quasi si trattasse di «esercizi obbligatori, eseguiti a freddo» (p.
XXIII). In questo senso Mazzini segnala come le
qualità del Moroni ritrattista siano sacrificate nel tentativo di presentarlo
soprattutto come pittore sacro (o di storie che dir si voglia).
Naturalmente il dibattito non si è certo chiuso con la pubblicazione di Mazzini. In proposito desidero almeno ricordare quanto scritto di recente da Ilaria Serati in Il contributo di Giacomo Carrara alle Vite de’ pittori, scultori ed architetti bergamaschi in Κριτική [Kritiké] Anno I. Serati ragiona, in particolare, sull'(in)capacità critica di Tassi ad adottare un discorso stilistico sull'opera d'arte, probabile motivo di quel sentimento di inadeguatezza di cui si è prima parlato, e che lo accomunava ad esempio all'Albuzzi.
Resta il fatto,
indiscutibile, che dal momento della loro pubblicazione, le Vite del
Tassi furono considerate le biografie di riferimento per il mondo artistico
bergamasco; a ciò si aggiunga quanto valido per tutti i testi editi subito
prima degli anni francesi, ossia che assunsero il valore di testimonianza
storica di un patrimonio proprio a ridosso degli sconvolgimenti che lo
avrebbero colpito di lì a poco.
Nessun commento:
Posta un commento